Dizionario di economia e finanza cosa vuol dire e definizione del termine

 


 

Dizionario di economia e finanza cosa vuol dire e definizione del termine

 

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Dizionario di economia e finanza cosa vuol dire e definizione del termine

Adr/Ads (Finanza)
La quotazione di un titolo in Borsa non è mai un avvenimento semplice, ma comporta una serie di adempimenti talora molto onerosi. In particolare, le normative in materia impongono alle società che vogliono quotare i propri titoli su un mercato regolamentato il rispetto di elevati standard informativi. Il fine è quello di tutelare quanto meglio possibile gli acquirenti dei titoli, in specie il grande pubblico dei risparmiatori, che per definizione non è "tecnico" e necessita quindi della massima trasparenza per poter valutare correttamente le diverse opportunità di investimento.
I mercati finanziari tuttavia non sono regolamentati da un'unica disciplina, ma sono soggetti a regole diverse, la cui effi- cacia di norma non si estende al di là dei confini nazionali. Per un'impresa quindi diventa altamente costoso e talora proibitivo quotare i propri titoli in più mercati regolamentati.
Per aggirare questo problema, sempre più spesso le società ricorrono alle American depositary receipts, (Adr) traducibi- li letteralmente in italiano con la locuzione <ricevute di deposito americane>. In luogo del nome per esteso, tuttavia, si preferisce più frequentemente individuarle con l'acronimo Adr. Esse vengono qualificate american perché questa tecni- ca di raccolta di fondi all'estero ha trovato particolare diffusione negli Stati Uniti. Questa particolare modalità di finan- ziamento può però essere ugualmente adottata in un Paese qualsiasi; in tal caso, sarebbe più corretto fare riferimento a esse come a International depositary receipts, ovvero Idr.
Le ricevute sono certificati che rappresentano la proprietà di un singolo titolo oppure di un numero determinato di titoli emessi da una società straniera. Esse vengono collocate dalle banche residenti nel Paese straniero nel quale la società vorrebbe raccogliere fondi.
Le Adr sono trasferibili senza che sia necessario il rispetto delle norme che presiedono al collocamento dei titoli nei mercati regolamentati, e mediante il loro trasferimento si realizza il passaggio della proprietà dei titoli sottostanti, che di solito sono in deposito fiduciario presso le banche che hanno emesso le relative Adr.
I titolari di Adr godono pressocché delle stesse prerogative dei proprietari dei titoli originari: possono quindi trarre van- taggio dalle variazioni di prezzo dei titoli sottostanti, incassando quindi i relativi capital gains (guadagni in conto capita- le), hanno diritto a ricevere nella propria moneta nazionale i dividendi deliberati dalla società straniera, hanno poi diritto a ricevere le relative informazioni societarie, in modo da poter meglio valutare la bontà e le prospettive del loro inve- stimento; infine, possono beneficiare del diritto di voto e dei diritti amministrativi spettanti ai titoli che esse rappresen- tano.
Le Adr vengono emesse dalle banche sia su propria iniziativa che su iniziativa delle società: le prime sono dette un- sponsored, le altre sponsored. Le sponsored receipts sono anche dette American depositary share (Ads) e vengono e- messe da una sola banca; le unsponsored possono invece anche essere emesse da più banche: è sufficiente a tal fine che esse provvedano a raccogliere preventivamente sul mercato in cui sono trattati un blocco di titoli corrispondente a quelli che verranno collocati tramite Adr. Inoltre, mentre le Ads vengono di norma quotate nei mercati regolamentati del Pae- se in cui vengono emesse, le Adr vengono scambiate senza particolari formalità.

 

Analisi tecnica (Finanza)

<Historia magistra vitae>, recita un celeberrimo motto latino: <la storia è maestra di vita>. Conoscendo il passato si può leggere con minore incertezza il futuro, evitando per esempio gli errori compiuti.
L'analisi tecnica è una metodologia di indagine finanziaria che ha fatto proprio questo antico insegnamento. I fattori, le leggi e le altre variabili che hanno prodotto nel passato un determinato andamento dei prezzi dei titoli e del volume del- le transazioni sono gli stessi fattori, le stesse leggi e le stesse variabili che agiscono anche nel presente e agiranno nel futuro, costringendo i prezzi dei titoli e i volumi delle transazioni a ripercorrere in continuo, instancabilmente, gli stessi sentieri, gli stessi rettilinei, le stesse curve, verso l'alto e verso il basso.
E poiché la storia dei titoli è fatta di punti segnati a ogni tramonto su carta millimetrata in corrispondenza del prezzo a cui il titolo è stato trattato durante il giorno - segni visibili del modo in cui il presente del titolo entra nella sua storia, la edifica e la riproduce - ecco che l'analisi tecnica scruta e disamina linee e curve formate dall'unione di quei punti. Ed ogni linea, ogni curva rappresenta un'ignota composizione di fattori, risultato del gioco costante di arcane leggi, che pe- riodicamente ricostruiscono l'immagine sul grafico.
Così l'analista tecnico prevede l'andamento futuro dei prezzi dei titoli e delle attività finanziarie in genere: prefigurando sulla base dei movimenti passati il loro movimento futuro. E il tempo si trasforma in circuito, su cui corrono corsi e ri- corsi storici: dopo la caduta, il rialzo; dopo la stasi, la dinamica; dopo l'arresto, la partenza. E sempre con le stesse figu- re, che assumono nomi immaginifici: l'orso, la testa e le spalle ...


Il punto caratterizzante dell'analisi tecnica è però anche il suo punto debole. L'ipotesi che le regole non cambino mai, che la storia avanzi seguendo sempre immutabili sentieri logici, leggi universali e necessarie, inderogabili come quelle che governano (pare) il perfetto mondo della fisica, è un'ipotesi difficilmente supportata dalla realtà, nonostante che la storia mostri talora stupefacenti somiglianze e analogie. Particolarmente critici verso questo metodo di indagare il futu- ro andamento delle quotazioni dei titoli sono i difensori dell'analisi fondamentale, i quali invece studiano in che modo l'evoluzione di alcune importanti variabili economiche influenzi le quotazioni. Di fatto, anch'essi incontrano notevoli ostacoli in questa indagine, cosicché l'analisi tecnica, nonostante l'ipotesi forte su cui si basa, rappresenta validamente un ulteriore appiglio per orientarsi nei meandri del futuro dei titoli.

Antitrust (Economia)

Vengono definite antitrust le leggi e le autorità incaricate della loro applicazione, che hanno come fine ultimo la promo- zione e la tutela della concorrenza sui mercati. A tale scopo, vengono dichiarati vietati determinati comportamenti delle imprese che ostacolano palesemente la concorrenza.
Queste, per esempio, non possono assumere condotte che limitano in misura rilevante la libertà dei consumatori di ri- fornirsi di prodotti simili presso altri rivenditori, né possono agire per eliminare la possibilità che altri imprenditori ope- rino nel loro stesso settore.
A seconda che tali condotte siano poste in essere da più imprese in base a un accordo oppure da una grande impresa singolarmente, diverso è il nome che le norme europee e la legge italiana attribuiscono alle fattispecie interdette: nel primo caso vengono definite intese o, se vi è fusione fra imprese, concentrazioni vietate; abuso di posizione dominante, nell'altro caso.
La prima legge antitrust, nota come Sherman Act, risale al 1890. Il Congresso degli Stati Uniti la emanò per contrastare le tattiche commerciali abusive dei trust. Con un accordo detto trust, le società ferroviarie e petrolifere conferivano la proprietà delle rispettive quote azionarie a un gruppo di dirigenti, detti trustee, cosicché le singole imprese fossero gesti- te unitariamente come un'unica grande società. In cambio, gli ex-proprietari ottenevano il diritto di spartirsi i più elevati profitti che il trust avrebbe guadagnato come monopolista. Di qui, l'emanazione di una legge contro tali condotte: una legge appunto anti-trust.
Successivamente vennero emanate legislazioni analoghe in moltissimi altri Stati, cosicché antitrust è divenuto termine generico che serve a denotare qualunque legge o autorità che abbia come fine l'interdizione dell'esercizio abusivo da parte delle imprese di un notevole potere economico, indipendentemente dal fatto che esso assuma la forma del trust. A partire dal '90, anche l'Italia ha una propria legge antitrust, la legge n. 287 del 10 ottobre. Con essa è stato istituito an- che l'organismo indipendente che deve sorvegliarne la corretta applicazione: l'Autorità garante della concorrenza e del mercato.
In precedenza, nel nostro Paese potevano essere applicate soltanto le norme comunitarie, ossia principalmente gli artico- li 85 e 86 del Trattato di Roma del 1957. Sfuggivano così al divieto le intese e le concentrazioni restrittive della concor- renza, nonché gli abusi di posizioni dominante, posti in essere dalle imprese italiane nell'ambito del territorio nazionale senza effetti distorsivi sul commercio intracomunitario.

Arbitraggio (Finanza)

Nonostante la contraria opinione comune, l'arbitraggista è un benemerito dei mercati. Aumenta infatti la loro efficienza riducendo le discrepanze di prezzo, laddove la scarsa informazione oppure la neghittosità degli investitori consente che un identico prodotto - merce o attività finanziaria - possa essere venduto a prezzi diversi in luoghi differenti. La sua at- tività, ossia l'arbitraggio, consiste nell'acquisto di un determinato bene e nella contestuale vendita dello stesso su un al- tro mercato, nel quale il bene è scambiato a prezzo superiore. L'arbitraggista può operare anche in altro modo, indebi- tandosi da una parte e prestando all'altra, a tassi di interesse chiaramente superiori.
Tali forme di arbitraggio sono dette da piazza a piazza e sono le più diffuse. Non sono tuttavia le uniche. Per esempio, sono possibili arbitraggi fra mercato a pronti e mercato a termine, realizzati acquistando a pronti e vendendo a termine o viceversa: per esempio, si comprano oggi dei titoli, pagandoli al corrispondente prezzo di mercato, il cosiddetto prezzo spot, e li si rivendono con consegna a tre mesi al relativo prezzo futuro.
Qualunque sia la forma specifica assunta dall'arbitraggio, identica è la remunerazione dell'arbitraggista: egli lucra sulle differenze di prezzo che si determinano nei diversi mercati in cui uno stesso bene è scambiato.
Identica è anche la funzione dell'arbitraggio, che tende a equiparare i prezzi di uno stesso bene su tutti i mercati in cui viene scambiato. Gli acquisti infatti, incrementando la domanda, tendono a far salire i prezzi sui mercati meno cari, mentre le vendite, accrescendo l'offerta, tendono ad abbassare i prezzi sui mercati più costosi.


L'arbitraggio, in quanto sfrutta differenze di prezzo esistenti su mercati differenti, è attività sostanzialmente priva di ri- schi. Per questo motivo non è corretto considerarla come una forma particolare di speculazione, la quale invece porta sempre con sé una non irrilevante componente di rischio.
Arbitraggio viene anche definita l'attività di chi rastrella sul mercato azioni di società che possono essere oggetto di of- ferta pubblica d'acquisto (Opa) in un prossimo futuro. In tal caso, il guadagno dell'arbitraggista consiste nel rivendere le azioni alla società vittima o allo scalatore a prezzo molto più elevato. Poiché il profitto si realizza a condizione che l'O- pa venga effettivamente lanciata, questa forma di arbitraggio non è del tutto priva di rischi. Per questo motivo e per di- stinguerla dalla precedente, in inglese viene anche definita risk arbitrage.

Asset-backed securities (Finanza)

Le asset-backed securities (Abs) sono <valori mobiliari> (in inglese securities) emessi <sulla base> (in inglese backed) di un insieme di crediti (i quali in tal caso costituiscono l'attività sottostante, asset) che presentano caratteristiche simili. Questi titoli offrono ai possessori rendimenti patrimoniali differenti, in funzione sia del tipo di credito sottostante sia della modalità con cui vengono realizzati dalle banche che li offrono. Caratteristica peculiare delle asset-backed securi- ties è che la remunerazione che esse offrono deriva direttamente dal flusso monetario generato dai crediti sottostanti: il rimborso di questi paga la remunerazione delle prime.
In questo modo, le asset-backed securities presentano il non piccolo vantaggio di costituire valori mobiliari la cui remu- nerazione non è garantita soltanto dall'emittente, ma dall'insieme dei crediti che costituiscono attività sottostante. Il ri- schio affrontato dagli investitori che acquistano questo tipo di strumenti finanziari risulta pertanto notevolmente ridotto: debitore non è un unico soggetto, ma sono tutti i singoli debitori dei prestiti sulla base dei quali viene realizzata un'e- missione di asset-backed securities.
Un esempio di creazione di titoli di questo tipo potrebbe essere rappresentato dal caso di una banca che offre mutui per l'acquisto di un'auto. Essa può decidere di "titolarizzare" i suoi crediti, riunendo quelli che presentano caratteristiche si- mili in termini di durata e di grado di solvibilità della clientela. Può decidere quindi di offrire alla propria clientela titoli che  pagano   interessi   e   rimborsano   il   capitale   secondo   modalità   analoghe   a   quelle   dei   crediti sottostanti. In questo modo, la banca realizza un duplice obiettivo: per un verso, "libera" delle somme che sarebbero rimaste illiqui- de per un periodo più o meno lungo (i crediti avrebbero riassunto forma monetaria soltanto alla scadenza); per altro ver- so, riesce a ottenere fondi a costi più bassi (l'insieme di crediti sulla base dei quali vengono emesse le securities possono avere un grado di rischio inferiore a quello della stessa banca emittente e quindi consentire l'emissione di titoli a prezzo più elevato o, il che è lo stesso, a rendimento inferiore).
In realtà, i soggetti impegnati nel processo di "titolarizzazione" sono più di uno, poiché la banca che concede i crediti originari, generalmente, si assicurerà contro il rischio di credito presso una società di assicurazione; attribuirà a speciali- sti esterni la definizione delle caratteristiche tecniche delle asset-backed securities da emettere a fronte dei crediti; affi- derà a un soggetto esterno la gestione dei crediti; e infine si appoggerà ad altri enti finanziari per la distribuzione dei ti- toli così emessi. Tali complessità, tuttavia, non incidono sul principio fondamentale, per cui possono essere creati titoli a partire dai flussi di cassa generati da un gruppo di crediti.
A quest'ultimo riguardo, va precisato che i crediti principalmente impiegati per la realizzazione di titoli di questo tipo sono rappresentati dai mutui sulla casa e dai prestiti originati dall'impiego delle carte di credito.

 

Attivo circolante (Finanza)

L'attivo circolante, detto anche capitale circolante o attivo corrente o ancora capitale d'esercizio, rappresenta una delle quattro classi di voci in cui è suddivisa la sezione dell'attivo dello stato patrimoniale.
L'aggettivo qualificativo - circolante - vuole denotare la natura delle attività che vengono ricomprese sotto questo titolo: si tratta per lo più di attività liquide e attività che hanno breve durata. Convenzionalmente queste ultime vengono defini- te come attività la cui utilità non si estende oltre il termine dell'esercizio successivo ovvero attività che entro tale termi- ne assumono forma liquida. Esempio delle prime sono le rimanenze di magazzino, che si immaginano ruotare di eserci- zio in esercizio; esempio delle seconde sono i crediti esigibili entro l'anno.
Nello stato patrimoniale, tuttavia, sotto il titolo attivo circolante non vengono ricomprese soltanto e tutte le attività che presentano tali caratteristiche. Per un verso, vi sono iscritte attività con durata più lunga dell'anno (si tratta in particolare di crediti); per altro verso, non vi sono ricomprese attività che hanno tali caratteristiche. Tale situazione si determina perché le voci dello stato patrimoniale non vengono classificate unicamente in funzione del criterio di durata finanzia- ria, ma anche in base a quello economico, relativo alla natura dei beni.
Per riunire sotto il titolo attivo circolante soltanto e tutte le voci che abbiano durata non più lunga dei dodici mesi, è ne- cessario allora eseguire alcune somme e sottrazioni: al totale indicato nello stato patrimoniale sotto questa voce bisogna aggiungere i <crediti verso soci per versamenti ancora dovuti> esigibili entro l'anno, i quali sono invece iscritti in un


omonimo titolo separato, i crediti esigibili entro lo stesso termine, che risultano tuttavia iscritti fra le immobilizzazioni finanziarie, i ratei e i risconti di breve durata; bisogna per converso detrarre i crediti iscritti nell'attivo circolante, ma e- sigibili oltre i dodici mesi.
Eseguite queste operazioni si ottiene finalmente quello che è il vero attivo dell'impresa con durata finanziaria non supe- riore all'anno. Ponendolo a confronto con le passività correnti, ossia i debiti che devono essere pagati entro l'anno, si ricavano utili informazioni circa la gestione dell'impresa e la sua stabilità finanziaria.
Se le passività correnti sono superiori alle correlative attività, l'impresa è mal gestita: l'attività di un anno non riesce nemmeno a ripagare i debiti a breve scadenza e l'impresa rischia di entrare in stato di insolvenza. Viceversa, un rapporto più equilibrato fra attività e passività correnti, con le prime pari a circa il doppio delle seconde, rivela una gestione fi- nanziaria più efficiente e una maggiore solidità patrimoniale dell'azienda.

Back-to-back (Finanza)

Back-to-back è locuzione che può qualificare due diverse operazioni economiche:  il  prestito  e  la vendita di  merci. Nel primo caso, si ha il back-to-back loan, ossia il mutuo che due società residenti in Paesi diversi si fanno reciproca- mente, ciascuna versando all'altra un determinato ammontare espresso nella propria valuta nazionale. Gli scopi per cui una simile operazione viene posta in essere possono essere molteplici. Di norma, è per minimizzare i rischi di fluttua- zione del rapporto di cambio; questo infatti viene stabilito dalle parti fin dall'inizio. Può avere tuttavia anche fini di elu- sione fiscale. Ciò accade in specie quando le società appartengono allo stesso gruppo e il trattamento fiscale nei Paesi in cui hanno sede presenta differenze rilevanti. Il back-to-back loan può essere, infine, utilizzato per fini illegali, in parti- colare per costituire riserve di fondi "neri" all'estero.
Il back-to-back credit è invece una tecnica utilizzata nel commercio internazionale per mantenere ignota l'identità dell'e- sportatore. Il venditore consegna i documenti richiesti per la transazione a un'istituzione finanziaria specializzata in que- sto tipo di operazioni, diventando così creditore nei confronti di questa; l'istituzione finanziaria, che funge da interme- diario, emette quindi a favore dell'acquirente nuovi documenti, di modo che rimangano ignoti gli estremi anagrafici del vero esportatore. A quest'ultimo verrà girato il pagamento effettuato dall'importatore, una volta detratta la parte che l'i- stituzione finanziaria si sarà riservata.

Base monetaria (Economia)

La moneta come mezzo di pagamento è importante perché viene universalmente riconosciuta come tale. Ma che cos'è moneta? In senso lato, anche una cambiale o un Buono del Tesoro lo sono: non vengono utilizzati per pagare il pane, però nei rapporti commerciali oppure con le banche vengono comunemente utilizzati come mezzo di pagamento. Perché? Per il semplice fatto che sono facilmente liquidabili, ovvero trasformabili in circolante, ossia in moneta sonante (monete metalliche) o biglietti di banca (emessi dalla Banca Centrale), che tutti sono disposti ad accettare come contro- partita a un servizio reso o a un bene ceduto.
Tale "minimo comune" da cui traggono origine tutte le altre forme di pagamento, definibili in senso lato moneta, è detto base monetaria. Essa rappresenta il "nocciolo duro" della moneta, quello su cui si fonda, cioè si crea tutta "l'altra" mone- ta. Per questo motivo la base monetaria è detta anche moneta ad alto potenziale ovvero, con dizione inglese, high- powered money.
La base monetaria non è formata soltanto da biglietti di banca e monete metalliche, ma anche da qualunque impegno della Banca Centrale a pagare con circolante. Non è quindi necessaria la reale creazione di moneta da parte della Zecca di Stato. L'impegno viene assunto quando la banca acquista un credito, qualunque sia l'origine: può trattarsi pertanto di crediti verso l'estero, cioè valuta; verso lo Stato, cioè titoli del debito pubblico; verso le banche, ricevendo in cambio titoli o cambiali mediante le operazioni di anticipazione o di risconto. Così, si dice, viene creata base monetaria. La qua- le viene poi utilizzata nei seguenti modi: come circolante dal pubblico e come riserve dalle banche: riserve libere (dete- nute nelle casseforti) o obbligatorie (la liquidità che le banche sono tenute a tenere depositata presso la Banca Centrale).

 

Benchmark (Finanza)

Senso comune vuole che l'osservazione della realtà vari in funzione del punto di osservazione: cambiando questo, si modifica anche l'angolo di visuale, il metro di giudizio e le conseguenti valutazioni. Stabilire chiaramente da che punto di vista ci si pone è quindi necessario per potere eseguire dei raffronti corretti.
Anche gli economisti, se intendono confrontare con lo stesso metro realtà differenti, devono stabilire dei punti fissi, in relazione ai quali osservare e valutare l'oggetto di studio. Tali "picchetti" vengono definiti con terminologia inglese benchmark, ossia letteralmente, <segni o punti di riferimento>.


In particolare, benchmark sono detti determinati tassi di interesse, le cui specifiche caratteristiche sono tali da renderli idonei a un'analisi volta a individuare i fattori che influenzano il rendimento dei titoli e in specie delle obbligazioni. Tali tassi, in virtù delle loro caratteristiche strutturali, che ne fanno quasi dei tassi "primigeni", vengono anche detti base in- terest rate. In italiano, sono indifferentemente individuati come tassi di riferimento o tassi base.
Tre sono le caratteristiche dei titoli il cui rendimento può essere qualificato tasso benchmark: devono essere emessi da soggetti che non presentano rischi di credito; devono essere i più liquidi fra quelli aventi uguale maturità, ossia relati- vamente a un determinato termine di scadenza devono rappresentare i titoli più scambiati sul mercato; e, in terzo luogo, devono appartenere all'ultima emissione di una data maturità, ossia essere un titolo on-the-run.
Titoli siffatti sono generalmente titoli di Stato, essendo quest'ultimo il più grande debitore di una nazione e quindi i tito- li sul debito pubblico sono quelli emessi in maggior numero e, conseguentemente, i più trattati.
Il tasso benchmark è pari quindi al rendimento offerto dai titoli di Stato on-the-run per una data maturità e rappresenta il rendimento minimo che un investitore può ottenere su un titolo di pari durata.
Se il benchmark è questo tasso, risulta allora che tutti gli altri tassi possono essere considerati come la somma di questo tasso - ecco perché viene anche detto base - e di uno spread, o differenziale, che varia in funzione di una serie di fattori. I principali sono: il tipo di emittente, Stato o altro ente pubblico, oppure impresa privata; il suo grado di rischio valutato dalle principali agenzie di rating, ossia il rischio che l'emittente non adempia al pagamento degli interessi e al rimborso del capitale nei termini stabiliti; la maturità del titolo; la sua liquidità; e, infine, il regime fiscale a cui sono soggetti i redditi che esso genera.
L'entità dello spread può fornire utili indicazioni agli economisti in relazione a una particolare variabile, quando tutte le altre sono identiche, oppure a riguardo di taluni cambiamenti intervenuti in un determinato lasso di tempo. A parità di maturità, liquidità, regime fiscale e tipo di emittente, per esempio, è facile dedurre dal più alto rendimento offerto dai titoli emessi quale sia lo standing creditizio ossia il grado di merito di un determinato soggetto. Poiché a una determina- ta differenza nel grado di rischio dovrebbe corrispondere, a parità di altre condizioni, uno stesso spread, l'emittente di titoli con più alto rendimento è quello  che  offre  al  mercato  minori  garanzie  in  termini  di  solvibilità. Analogamente, dalle variazioni dello spread in un determinato periodo gli economisti capiscono, o meglio, tentano di capire, in quale direzione sono mutati gli umori di mercato.
In Italia, il termine benchmark ha assunto ampia diffusione nel linguaggio finanziario dei piccoli risparmiatori a partire dalla seconda metà del '98, in seguito all'introduzione dell'obbligo per Sgr e Sicav di indicare nel prospetto informativo che illustra le caratteristiche dell'investimento proposto, spesso in titoli azionari, il parametro oggettivo di riferimento (cosiddetto benchmark). Esso deve essere costruito facendo riferimento a indici elaborati da soggetti terzi e di comune utilizzo, in maniera da rispecchiare quanto più fedelmente possibile il profilo di rischio/rendimento dell'investimento, così da consentire al risparmiatore una facile verifica circa la bontà della gestione finanziaria. In questo senso, i ben- chmark più noti sono rappresentati dai principali indici borsistici, come per esempio il Mib30, il Dow Jones Industrials, il Ftse100.

Break-even point (Economia)

Nelle più diverse circostanze dell'esistenza vengono a determinarsi situazioni-limite in cui la soluzione sfocia inevita- bilmente in un esito netto: bianco o nero, vittoria dell'uno o dell'altro, acqua piovana a sud o a nord. Non vi è possibilità di compromesso, né spazio per una vittoria, o sconfitta, comune. In tutti questi casi gli inglesi ricorrono al verbo  break,
<rompere>.
Nel tennis è noto il tie break, che in pochi scambi chiude set che non paiono voler avere termine; in economia, è noto il break-even point, vale a dire il punto che pareggia ricavi e costi totali. Alla sua sinistra e a destra, l'equilibrio fra i due termini è rotto: l'azienda beneficia di un utile oppure cade in perdita.
L'analisi economica che si fonda sullo studio del break-even point può essere svolta sia a livello di singola impresa che per la valutazione della redditività di un intero settore.
Inizialmente vengono fatte alcune ipotesi fondamentali, fra le quali le principali sono: che l'intera quantità prodotta sia anche venduta, che il prezzo di vendita sia unico, indipendentemente dai quantitativi di merce offerta sul mercato; e che i costi dei fattori della produzione siano costanti, indipendentemente, fra l'altro, dal loro grado di utilizzo. Conseguenza di tali assunti è che le curve di ricavo e di costo assumono forma di semirette intersecantesi in un unico punto, il break- even point.
La determinazione di questo punto consente di sapere immediatamente la quantità di merce che l'impresa deve produrre e vendere per raggiungere il pareggio del conto economico. Vendere una quantità superiore significherebbe per l'azien- da realizzare degli utili, vendere di meno vorrebbe invece dire incorrere in perdite, tanto più pesanti quanto minore è la quantità prodotta.


Calcolare il break-even point è molto importante soprattutto nella fase precedente il lancio di un'azienda. Infatti, se que- sto si colloca a un livello di produzione vicino al pieno impiego dei fattori produttivi, ossia vicino al limite di massima produzione  per  l'impresa,   il   rischio   che   essa   sia   destinata   a   generare   soltanto   perdite   è   molto   alto. Vanno poi tenute presenti le ipotesi iniziali che, se da un lato hanno il pregio di semplificare la realtà, e quindi di rende- re possibile un seppur impreciso sguardo sul futuro, dall'altra tendono a sottovalutare proprio quei fattori i cui effetti sui bilanci delle imprese sono negativi.
L'analisi del break-even point può essere svolta anche a livello di settore. In tal caso l'ipotesi centrale è che lo stato della tecnica consenta, in ogni momento e per tutte le imprese, un solo modo di produrre. Determinata la quantità totale di merce che deve essere prodotta e venduta sul mercato perché i conti delle imprese siano in pareggio, si ottiene il numero massimo di aziende che vi possono operare economicamente.

Call (Finanza)

Call (for) in inglese significa domandare, richiedere; call nel vocabolario finanziario è un particolare contratto di Borsa, chiamato option, che dà diritto a chi lo acquista di comprare (<richiedere> appunto) nel futuro (alla scadenza o entro una certa data) una determinata quantità di merci o di attività finanziarie (titoli e valute) a un prezzo prefissato, detto strike price o prezzo d'esercizio.
Per acquistare il diritto di comprare, l'acquirente paga al venditore dell'option un prezzo, detto premio. Il venditore, in cambio del premio ricevuto, si impegna a consegnare l'attività sottostante su richiesta dell'acquirente. Pertanto, se costui non  ne  fa  richiesta,  il   venditore   incassa   il   premio,  senza  dover  consegnare   l'attività   indicata   nel   contratto. Il contratto è standardizzato, nel senso che le parti non possono definire autonomamente le sue caratteristiche, ma devo- no scegliere fra i contratti negoziati in Borsa. In particolare, per ciascuna attività scambiata, viene trattato un numero limitato di option call. A seconda del tipo di attività, ciascun contratto definisce la quantità da trattare, il prezzo d'eser- cizio, detto talora anche base, e la data di scadenza entro la quale l'acquirente deve decidere se comprare o meno.
Nei contratti relativi a una stessa attività la quantità scambiata è fissa.
Supponendo per esempio che l'attività sottostante sia rappresentata da un determinato titolo, per esempio della società Rossi & Co., le option negoziabili in un determinato momento sul mercato potranno essere individuabili in questo mo- do: 500 azioni, base 31,500 euro, scadenza giugno 2004; 500 azioni, base 31,750 euro, scadenza giugno 2004; 500 a- zioni, base 31,500 euro, scadenza settembre 2004 e 500 azioni, base 31,750 euro, scadenza settembre 2004. Cinquecen- to azioni della società Rossi & Co. rappresentano la quantità dell'attività scambiata; 31,500 e 31,750 euro rappresentano i relativi prezzi d'esercizio, giugno e settembre rappresentano le scadenze trattate in Borsa in un determinato momento.
Ciò che varia sono quindi i premi. Le singole option potranno dunque essere acquistate a prezzi diversi, i quali saranno tendenzialmente maggiori quanto più lontana è la data di scadenza e quanto più elevato è il prezzo di mercato dell'attivi- tà sottostante rispetto al prezzo strike.
L'opzione call viene acquistata da chi prevede un aumento di prezzo dell'attività sottostante; viceversa, viene venduta da chi ha una percezione opposta dell'andamento del mercato. L'opzione call infatti viene esercitata soltanto nel caso in cui il prezzo di mercato dell'attività sottostante sia superiore al prezzo strike; viceversa, l'acquirente della call troverà con- veniente comprare l'attività sottostante direttamente sul mercato a pronti.
Se un prezzo di mercato superiore a quello strike rende conveniente l'esercizio dell'option, non necessariamente consen- te all'acquirente di realizzare un utile. Questo verrà conseguito soltanto se la differenza positiva fra prezzo di mercato e prezzo d'esercizio è superiore al valore del premio. Viceversa, l'esercizio dell'option risulterà sì conveniente, ma soltan- to per minimizzare le perdite: il non esercizio infatti comporterebbe una perdita pari al premio, mentre l'esercizio con- sentirebbe di subire una perdita inferiore.
L'option call può essere utilizzata sia per scopi speculativi, sia per ridurre il rischio connesso a una posizione in essere. Nel primo caso, si può dire che il premio rappresenti la "puntata" dello speculatore, nel secondo il costo dell'assicura- zione.

 

Callable (Finanza)

Un'obbligazione è un titolo di credito che dà al possessore il diritto di ricevere a scadenze prestabilite determinate quan- tità di denaro, maggiori o minori in funzione dell'entità della cedola, e la restituzione integrale del capitale alla scaden- za. Dal punto di vista dell'emittente, il prestito obbligazionario rappresenta uno strumento alternativo di finanziamento a debito.
Specifica caratteristica dei titoli obbligazionari è di consentire una precisa conoscenza della scansione temporale dei flussi monetari cui danno luogo. Il possessore di obbligazioni ha pertanto la possibilità di definire un proprio program- ma di investimenti finanziari che tenga conto non solo dell'entità dei flussi, ma anche dei costi connessi alle commissio-


ni di intermediazione. Il peso delle commissioni infatti aumenta proporzionalmente al moltiplicarsi delle operazioni di investimento e disinvestimento.

Di un titolo pertanto non è caratteristica di poco conto quella di offrire al possessore una conoscenza precisa della ripar- tizione cronologica dei flussi monetari originati.
Tale caratteristica manca all'obbligazione qualificata callable, ossia rimborsabile da parte dell'emittente prima della sca- denza del prestito. Questo tipo di obbligazione, in inglese bond (ecco la ragione per cui anche in italiano è uso denotarla in gergo finanziario preponendo l'articolo maschile al sostantivo <il callable>), può essere interpretata come il risultato della fusione di una vera e propria obbligazione con un'opzione call a favore dell'emittente, dalla quale, tra l'altro, deriva il nome.
Con l'emissione di callable, il debitore assume, per un verso, gli stessi impegni dell'emittente di obbligazioni, per altro verso, si riserva la facoltà di rimborsare in anticipo l'intero prestito, risparmiando in questo modo il pagamento della quota di interessi non ancora maturata.
In particolare, una simile strategia verrà adottata in caso di discesa dei tassi di interesse. Il debitore, in tali circostanze, potrà trovare conveniente ritirare tutto il prestito in circolazione, remunerato con tassi di interesse divenuti ormai eleva- ti, e riemetterne uno nuovo a rendimento inferiore, in linea con i più bassi tassi di mercato.
Se tale facoltà rappresenta un vantaggio per l'emittente, costituisce però uno svantaggio per gli investitori; i quali, per- tanto, saranno disposti a sottoscrivere obbligazioni callable, soltanto a condizione che il loro rendimento, in ipotesi di non esercizio del diritto di rimborso anticipato, sia superiore a quello di prestiti obbligazionari confrontabili. Il rischio di un rimborso anticipato li induce infatti a richiedere una remunerazione extra.
Va poi tenuto conto che il rendimento del callable aumenta, di norma, in funzione dell'anticipo con il quale viene rim- borsato il prestito. Ciò avviene, in particolare, nei casi in cui le obbligazioni siano collocate sotto la pari; dovendo il de- bitore comunque rimborsarle alla pari, l'anticipo ha infatti l'effetto di concedere al possessore la disponibilità dell'intera somma prima della scadenza, elevando così il rendimento del suo investimento iniziale.

 

Cambiale finanziaria (Finanza)

La cambiale finanziaria è stata introdotta nell'ordinamento giuridico nazionale con la legge n. 43 del 13 gennaio 1994. Il suo nome deriva dalla contemporanea considerazione di due fattori: cambiale, perché di vera e propria cambiale si trat- ta, e più precisamente di un comunissimo vaglia cambiario; finanziaria, perché viene emessa dalle imprese per finan- ziarsi e non, come accade per le normali cambiali, per pagare in via differita uno scambio commerciale.
Le cambiali finanziarie, al pari delle obbligazioni, consentono alle imprese che le emettono di raccogliere risorse mone- tarie presso il pubblico dei risparmiatori. La differenza è che quelle sono titoli a medio termine, mentre le cambiali fi- nanziarie sono valori mobiliari di breve scadenza: la loro durata è compresa fra i tre e i 12 mesi.
Un altro aspetto che le diversifica rispetto alle obbligazioni è il taglio: il valore minimo delle cambiali finanziarie è in- fatti di 51.645,69 euro, pari a cento milioni delle vecchie lire.
Non tutte le società possono ricorrere a questo strumento di finanziamento, ma soltanto quelle i cui titoli sono quotati in un mercato regolamentato e quelle, non quotate, i cui ultimi tre bilanci siano in utile.
La circolazione delle cambiali finanziarie è particolarmente facile e sicura. In quanto titoli di credito, esse incorporano il diritto al rimborso di chi si dimostra essere il possessore in base a una serie continua di girate. In quanto trasferibili me- diante girata con la clausola <senza garanzia>, liberano chi le cede dalla responsabilità dell'eventuale mancato paga- mento da parte dell'emittente, che rimane così unico obbligato cambiario.

 

Cash and carry (Finanza)

I mercati conoscono diverse forme di arbitraggio, la più nota delle quali è quella detta da piazza a piazza: si acquista in un mercato e si rivende la stessa attività in un altro mercato, a prezzo più alto.
Oltre a questo tipo di arbitraggio "a dimensione geografica", ne esiste uno a dimensione "temporale": esso si concretizza nella   contemporanea   compravendita   sul   mercato   a   pronti   e   sul   mercato   a   termine   della   stessa   attività. In particolare, questo tipo di arbitraggio prende nome di cash and carry, se l'arbitraggista compra l'attività sottostante a pronti (cash) e contemporaneamente vende il future connesso (carry, cioè "porta" l'attività con sé fino alla vendita futu- ra); è detto reverse cash and carry, se invece acquista il future e vende a pronti. Egli opererà secondo la prima modalità se il prezzo del future è superiore al suo valore di equilibrio; mette in atto la seconda, se invece è quest'ultimo a supera- re il primo.


Il valore di equilibrio di un future si ottiene componendo secondo complesse formule matematiche il prezzo a pronti dell'attività sottostante con il tasso di interesse praticato sul mercato finanziario per ottenere un prestito di durata pari al periodo del carry.

A differenza dell'arbitraggio da piazza a piazza che, salvo errori nell'esecuzione, è sempre privo di rischi, il cash and carry e analogamente il reverse cash and carry possono comportare delle perdite. Senza entrare nel dettaglio, questi ri- schi derivano sostanzialmente dal fatto che il valore d'equilibrio viene calcolato sulla base di precise ipotesi riguardo all'andamento dei tassi di interesse. Se essi però si discostano dalle attese, l'operazione invece di chiudersi in attivo si chiude con un segno meno.

 

Cash flow (Finanza)

L'espressione anglosassone cash flow può essere tradotta letteralmente in italiano con <flusso di cassa>. Poiché si tratta di flusso e non di fondo, ciò che viene misurato è il passaggio di una determinata grandezza da un valore a un altro. E poiché si tratta di misurare la differenza di valore in due momenti diversi, il flusso può essere calcolato soltanto in rife- rimento a un periodo (il fondo, al contrario, misura il valore assoluto assunto da una determinata grandezza in un preci- so istante).
Il flusso di cassa, come suggerisce la locuzione stessa, misura l'aumento o la diminuzione dell'ammontare delle risorse liquide dell'impresa, costituite essenzialmente dai valori in cassa, dai conti bancari e da quelli postali.
Per comprendere appieno il significato di cash flow, bisogna por mente al fatto che nel conto economico di un'impresa sono registrati costi e ricavi di competenza (non di cassa) e che entrate e uscite di competenza di un esercizio possono dar luogo ai relativi pagamenti o incassi monetari in esercizi diversi. Costi e ricavi di competenza, pertanto, vanno a in- cidere sul risultato d'esercizio, utile o perdite che sia, ma non hanno precise conseguenze sulla cassa.
Può quindi capitare che un'impresa registri un elevato utile d'esercizio, ottenuto appunto come differenza fra ricavi e costi di competenza, ma al contempo non abbia liquidità sufficiente per pagare i propri fornitori. Una simile impresa mostra di avere senz'altro una gestione di tesoreria poco efficiente: per esempio, dilaziona eccessivamente i crediti ai propri clienti.
A differenza dell'utile d'esercizio, il cash flow misura il "risultato di cassa": in altre parole, indica se in un esercizio le entrate monetarie sono state superiori alle uscite o viceversa. La via diretta per calcolarlo consiste nel sottrarre il valore delle attività liquide a inizio esercizio al valore delle stesse a fine esercizio.
Se la differenza è positiva, l'impresa ha un cash flow positivo e quindi dispone di risorse liquide non solo per far fronte ai debiti di breve  termine,  ma  anche per  finanziarie  nuovi progetti o  sostituire beni  strumentali  diventati  obsoleti. Se invece è negativa, ossia sono usciti più soldi di quanti ne siano stati incassati, l'impresa potrebbe trovarsi in una si- tuazione di momentanea "il liquidità". In caso di persistenza di cash flow negativi di ammontare elevato, l'impresa ri- schia il fallimento anche in presenza di utili d'esercizio. Una tale situazione si realizza perlopiù quando i clienti ai quali si è venduto siano insolventi.
L'entità del cash flow può essere influenzata da qualsiasi operazione l'impresa ponga in essere, non importa quale sia la sua natura economica: il flusso di cassa pertanto aumenta per effetto della vendita di un'immobilizzazione, oppure in conseguenza di un aumento di capitale o dell'accensione di un mutuo; diminuisce per contro in occasione del rimborso di un prestito, per l'acquisto di un impianto ovvero per l'aumento delle scorte di materie prime. É chiaro, tuttavia, che tali operazioni, qui elencate a titolo esemplificativo, influenzano il cash flow solo nella misura in cui nell'esercizio di competenza si verifichino anche i correlativi movimenti monetari.
Bisogna infine tenere presente che spesso la locuzione cash flow è utilizzata con accezione meno rigorosa per indicare le variazioni subite dal capitale circolante netto. In questo senso, cash flow assume connotazione più ampia, compren- dendo anche voci dell'attivo e del passivo corrente non immediatamente liquide o liquidabili (come, per esempio, le scorte di magazzino).

 

Cheapest to deliver (Finanza)

Cheap in inglese significa <conveniente>; cheapest, che ne è superlativo, denota <il più conveniente>: cheapest to deli- ver (Ctd) è dunque <il più conveniente da consegnare>.
Ma in cosa consiste l'oggetto della consegna? In finanza è un titolo di Stato, per esempio un Bund. Il contratto future sui titoli di Stato (v. <euro Bund future>) infatti non riguarda uno specifico titolo trattato sul mercato secondario, ma un titolo astratto, detto nozionale. Le caratteristiche del nozionale, al fine di consentire la massima possibilità di negozia- zione del contratto, sono definite in termini generali, di modo che la struttura del future non vari con il trascorrere del tempo. All'Eurex, per esempio, il nozionale sul future decennale è rappresentato da un Bund del valore nominale di


100mila euro, con cedola del 6%, vita residua tra gli 8,5 e i 10,5 anni e un controvalore minimo di emissione di due mi- liardi di euro. Quest'ultima condizione è richiesta per consentire ai venditori del future di poter acquistare senza difficol- tà sul mercato a pronti i titoli di Stato da consegnare alla scadenza agli acquirenti del contratto.
Poiché un titolo siffatto potrebbe non essere trattato sul mercato, è concessa al venditore la facoltà di scegliere per la consegna il titolo più conveniente per lui, ossia il cheapest to deliver. Il titolo scelto deve in ogni caso garantire all'ac- quirente performance analoghe a quelle dell'astratto titolo nozionale: egli alla scadenza del contratto sarà in ogni caso titolare di una quantità di Bund del controvalore nominale di 100mila euro, con un tasso di interesse nominale annuo lordo del 6% e con durata residua compresa fra gli 8,5 e i 10,5 anni.
Come viene individuato il cheapest to deliver? In primo luogo, si deve trattare di titolo che soddisfi le due condizioni relative alla durata residua e al controvalore minimo di emissione. Quindi viene identificato come quel titolo che il giorno di scadenza del contratto riduce al minimo le perdite ovvero realizza al massimo i profitti nei quali il venditore incorre per effetto della duplice operazione che l'esecuzione del future comporta: l'acquisto dei Btp sul mercato a pronti e la relativa consegna all'acquirente.
Supponiamo che siano due soltanto i titoli che rispettano le condizioni fondamentali per la consegna, il Bund luglio 2013 e il Bund gennaio 2014. Supponiamo inoltre che i titoli con la prima scadenza costino al venditore 153mila euro, gli altri 148mila e che egli li possa rivendere, in ossequio al contratto, rispettivamente a 152mila e 146mila euro. Il ven- ditore sceglierà allora di consegnare Bund luglio 2013, poiché questi titoli gli consentono di minimizzare le proprie per- dite (mille euro al posto di duemila euro). Se invece dalla loro vendita il venditore avesse ricavato rispettivamente 158mila e 155mila euro, chepeast to deliver sarebbe stato il titolo con scadenza gennaio 2014. Consegnando questi, il venditore avrebbe infatti massimizzato i propri profitti (7mila euro invece di 5mila).

Ciclo economico (Economia)

In origine ciclo significava <cerchio>; denotava cioè quella particolare figura di geometria piana che più di tutte sa su- scitare l'immagine del regolare ritorno all'identico. Tale immagine il termine ciclo incorpora ancora nel suo significato comune: indica infatti qualunque movimento regolare la cui fine termina in una posizione che, sotto qualche particolare rispetto, è simile a quella iniziale. In questo secondo senso il termine trova accoglienza nella locuzione ciclo economi- co.
Ciò che cambia durante il ciclo economico è il ritmo di crescita dell'attività di un intero Paese. Questa viene di norma rappresentata dal valore del  Pil  reale,  cioè  del  prodotto  interno  lordo  calcolato  sulla  base  di  prezzi  costanti. Punto di partenza del ciclo può essere considerato il Pil di un anno qualunque. Ciò che rileva è la posizione che esso oc- cupa rispetto alla curva di sviluppo tendenziale (in inglese, trend path). Tale curva mostra quale potrebbe essere l'evolu- zione della produzione interna di una nazione, se in ogni momento l'economia riuscisse a garantire il pieno impiego dei fattori produttivi, ossia l'utilizzo di tutte le risorse disponibili di capitale e di lavoro. Poiché queste crescono nel tempo gradualmente, la curva di trend disegna sostanzialmente una linea inclinata positivamente.
Nella realtà accade però che solo di rado siano impiegati tutti i fattori produttivi disponibili: di norma, periodi di sovrau- tilizzazione si succedono a periodi in cui parte degli impianti rimane chiusa e fette rilevanti della forza lavoro restano a casa. Di queste circostanze alterne risente l'andamento del Pil reale. La sua dinamica è irregolare: alla rapida crescita segue il rallentamento e quindi la caduta; a questa, dopo che è stato toccato il fondo, succede di nuovo la crescita, e così via in un continuo saliscendi intorno alla curva di sviluppo tendenziale. Il massimo può talora superare tale curva, ma più spesso si colloca alla pari o di poco al di sotto.
Gli economisti distinguono quattro fasi del ciclo: la ripresa, che è la crescita del Pil dal punto di minimo fino al rag- giungimento del punto di contatto con la curva di trend; l'espansione, detta anche con espressione linguistica ibrida bo- om economico, ossia la crescita che si prolunga oltre la curva di trend fino al punto di massimo; la recessione, che per- corre il sentiero inverso; e infine la depressione, che denota lo sprofondamento del Pil sotto la linea di tendenza fino al minimo.
Quanto dura un ciclo economico, ossia il raggiungimento di due punti di minimo o di massimo consecutivi? Dipende da quali punti si prende in considerazione: possono essere individuati cicli brevi, di durata inferiore ai cinque anni, mag- giori, che durano quasi dieci anni, o lunghi, della durata anche di cinquant'anni. La durata del ciclo non è identica sem- pre e ovunque. Varia in funzione di numerosi fattori: il Paese, le tecniche di produzione, l'intensità dell'innovazione, il grado di integrazione dell'economia mondiale.

Clup (Economia)

Clup è la sigla che denota il <costo del lavoro per unità di prodotto> . Esso è pari al rapporto fra il valore totale delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, più tutti gli oneri a carico dei datori di lavoro, e la quantità prodotta di beni e ser- vizi. Misura il controvalore monetario del lavoro dipendente incorporato in un'unità di prodotto. Poiché la remunerazio-


ne del lavoro dipendente costituisce di gran lunga la quota più importante del prezzo di un prodotto, l'andamento del Clup è cruciale per l'inflazione.
Se numeratore e denominatore del Clup sono a loro volta divisi per il numero totale dei dipendenti, si ottiene un rappor- to che mette a confronto la retribuzione per dipendente con le unità prodotte per dipendente (tale quoziente è la famosa produttività), riunendo così tutte le determinanti del costo del lavoro.
Quando il Clup italiano aumenta più dei Clup concorrenti, diminuisce la competitività dei prodotti nazionali a confronto di quelli stranieri, nel senso che questi ultimi diventano relativamente più convenienti.
E' per questa ragione che i responsabili delle sorti economiche di un Paese sono tanto "sensibili" ai movimenti del Clup.
Per recuperare competitività sul piano internazionale, essi non hanno a disposizione che tre soluzioni: svalutare la mo- neta, in modo tale da gonfiare artificialmente il Clup dei prodotti stranieri; rallentare la dinamica salariale, mediante ac- cordi fra le parti sociali, mantenendola al di sotto di quella prevalente all'estero, in modo tale da far crescere più lenta- mente il Clup nazionale rispetto a quello straniero; aumentare la produttività, così da ridurre il Clup nazionale.

Commercial paper (Finanza)

Commercial paper significa in inglese letteralmente <carta commerciale>. In Italia, la locuzione viene però anche non infrequentemente tradotta con la meno agevole dizione di <polizza di credito commerciale>. Si tratta in sostanza di una lettera con cui viene riconosciuto da parte dell'emittente il debito nei confronti del creditore, il quale può indifferente- mente assumere le fattezze d'impresa ovvero di semplice privato. In tale lettera, viene indicata la somma ricevuta, il tas- so di interesse applicato, la data di pagamento del debito, con scadenza inferiore ai 270 giorni rispetto alla data di emis- sione, e la banca incaricata di effettuare il pagamento.
La commercial paper è dunque per l'impresa una forma di finanziamento alternativa rispetto al mutuo bancario. Si diffe- renzia però anche dal prestito obbligazionario, perché la commercial paper ha breve durata. Negli Stati Uniti, di solito ha scadenza mensile.
A questo strumento ricorrono soprattutto aziende dall'elevato standing creditizio, visto che spesso tale forma di finan- ziamento è comunque garantita da fideiussione bancaria.
E' opportuno distinguere le due fattispecie, anche perché nella relazione introduttiva al disegno di legge le cambiali fi- nanziarie furono presentate come commercial paper "all'italiana".
Innanzitutto, la carta commerciale, a differenza della cambiale finanziaria, non è un titolo di credito. Ciò significa che per il suo trasferimento non valgono le regole in vigore per i titoli. In particolare, non può essere effettuata la girata, ma è necessaria una lettera di cessione. Può richiedere il pagamento del debito pertanto il possessore del titolo che dimostri di essere cessionario del credito in virtù di una serie continua di lettere di cessione.
In secondo luogo, proprio perché non è un titolo di credito, ancorché possa essere configurato come titolo improprio, il trasferimento delle commercial paper è inefficace se la cessione non viene notificata al debitore. Il che significa che in assenza di notifica il debitore non è tenuto a pagare il proprio debito, anche se il possessore della carta si dimostri legit- timo titolare. Questa circostanza riduce quindi la facilità di circolazione della carta commerciale.
Allora, qual è il suo valore giuridico? É essenzialmente probatorio, nel senso che il suo valido possessore non è tenuto a provare l'effettiva esistenza del credito in base al rapporto che l'ha originato, il cosiddetto rapporto fondamentale. Que- sto viene presunto, fino a prova contraria.

Congiuntura (Economia)

In economia si intende con il termine congiuntura l'andamento nel breve periodo dei principali fenomeni economici. Di norma, l'arco temporale entro il quale si può parlare correttamente di congiuntura non supera il trimestre. I dati di con- giuntura si riferiscono tuttavia soprattutto agli andamenti mensili, perché è con questa frequenza che vengono di norma diffusi.
Con riguardo ai dati sulla occupazione per esempio, la congiuntura assume tradizionalmente cadenza trimestrale visto che le indagini condotte dall'Istat hanno questa frequenza. Analogo discorso vale per i dati di contabilità nazionale come il Pil o i suoi costituenti. Per la maggioranza degli altri indicatori invece la frequenza è mensile. Pertanto, l'esame della congiuntura consiste soprattutto nell'analisi delle variazioni mensili, dette appunto anche congiunturali.
Tra queste ultime, rivestono particolare importanza quelle relative agli indici dei prezzi, sia al consumo che alla produ- zione, all'indice della produzione e i dati relativi agli scambi con l'estero.
L'analisi della congiuntura non si limita ad evidenziare eventuali tendenze mostrate dalle variazioni mensili o trimestra- li, ma comprende anche una fase di correzione di tali dati e di proiezione degli stessi su un arco temporale che di solito non supera l'anno.


L'utilità di un'analisi della congiuntura consiste soprattutto nell'indicare gli opportuni aggiustamenti di politica econo- mica, sia a livello "micro" che "macro".
Per l'importanza che riveste anche in ambito politico, l'analisi della congiuntura è commissionata ad organismi specia- lizzati. In Italia, in particolare, è impegnato nell'analisi congiunturale l'Isae, l'istituto di studi e analisi economica, che effettua analisi e ricerche che abbiano <il fine precipuo dell'utilità per le decisioni di politica economica e sociale del Governo, del Parlamento e delle Pubbliche Amministrazioni>.

 

Corporate governance (Finanza)

<Corporate governance> è diventata relativamente di recente locuzione molto in uso per fare riferimento a quelle tema- tiche che in misura più o meno stretta sono legate al "governo dell'impresa". Poiché di corporate governance si è parlato diffusamente alla fine degli anni 80 negli Stati Uniti per verificare se il maggiore grado di crescita economica realizzato in Germania e Giappone non fosse da attribuire a una migliore struttura organizzativa e proprietaria dell'impresa, si è preferito mantenere la dizione inglese anche in Italia, forse anche per rimandare direttamente alle tematiche già appro- fondite nell'ampia letteratura internazionale sull'argomento.
A differenza che negli Stati Uniti, nel nostro Paese il dibattito sul governo dell'impresa si è sviluppato in coincidenza dell'avvio del processo di privatizzazione delle imprese pubbliche e del verificarsi di profonde crisi finanziarie di alcune società di grandi dimensioni. Queste due circostanze hanno posto all'attenzione degli studiosi il problema dell'organiz- zazione interna dell'impresa e delle relazioni fra i diversi soggetti che a diverso titolo intervengono nello svolgimento dell'attività. In particolare, la corporate governance si propone di fornire soluzioni idonee alla questione della ripartizio- ne di compiti e responsabilità fra i diversi organi che intervengono nell'attività di impresa. L'obiettivo è di affidare la gestione dell'impresa agli imprenditori più adatti, tutelando nel contempo gli interessi legittimi di piccoli azionisti, cre- ditori sociali e dipendenti.
Un passo significativo verso una migliore corporate governance delle grandi imprese italiane (quelle quotate) è stato compiuto con l'entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998, noto come Testo Unico della Fi- nanza. Tale atto normativo costituisce la summa delle regole valide nel nostro Paese in materia di emittenti, intermediari e mercati finanziari. Le innovazioni principali apportate dal Decreto, relativamente alla corporate governance delle so- cietà quotate, riguardano la tutela dei piccoli azionisti, la funzione del collegio sindacale, nonché l'attività delle società di revisione.
Con il varo del Decreto legislativo n. 6 del 17/1/2003, entrato definitivamente in vigore il 1^ gennaio 2004, è stata pro- fondamente innovata la corporate governance delle società di capitali non quotate, con l'obiettivo in questo caso di am- pliare soprattutto gli ambiti di autonomia statutaria, in modo tale da rendere più agile lo strumento societario come mez- zo di realizzazione dell'attività d'impresa. A tal fine, sono stati drasticamente rivisti i rapporti e le forme di tutela dei di- versi interessi coinvolti.

 

Costo opportunità (Economia)

L'immagine più comune cui si è soliti ricorrere per illustrare il concetto di costo è quella di perdita. Se compro un gelato per un euro, ho un euro in meno: dico allora che ho sostenuto oppure sopportato un costo. I due verbi che evocano l'a- zione prodotta dal costo quando si realizza, aiutano a rafforzare ulteriormente quell'immagine: il costo come fonte di erosione della solidità finanziaria e quest'ultima che resiste, nonostante le perdite subite. Se il costo viene sopportato o anche sostenuto infatti, implicitamente significa che si è riusciti a fargli fronte senza soccombere. Questa nozione di co- sto, tuttavia, è applicabile soltanto una volta che è stata presa la decisione di acquistare il gelato.
Completamente opposta è invece la nozione di costo che dovrebbe guidare le nostre scelte: in tal caso, diventa rilevante il concetto di costo opportunità. Diversamente dal costo comunemente inteso, il costo opportunità è un valore e preci- samente il valore dei beni a cui si rinuncia a causa della scelta.
Un essere razionale dovrebbe scegliere di acquistare il gelato soltanto dopo aver vagliato il costo delle opportunità man- cate: in particolare, lo dovrebbe comprare soltanto se al termine di questo processo di raffronto, attribuisse al gelato un valore superiore a quello conseguibile altrimenti, con l'impiego della stessa quantità di risorse scarse, che in quest'esem- pio hanno natura monetaria e sono pari a un euro.
Di norma però, per l'acquisto di un gelato non ci si impegna in questa noiosa analisi costi-benefici: spesso si decide d'acquistarlo spinti soltanto dal piacere, sull'onda cioè di un moto irrazionale. Ci si comporta così, perché il costo oppor- tunità del gelato è così basso, che i più considerano le proprie risorse disponibili illimitate relativamente a tale acquisto; esso, pertanto, non si pone come una scelta che comporta la rinuncia a qualcos'altro.
Viceversa, quando si deve decidere se sostituire la vecchia auto con una nuova, i più hanno la chiara percezione della scarsità delle risorse a loro disposizione. In tal caso, valuteranno il costo opportunità connesso all'acquisto di una nuova


vettura e decideranno magari di girare il mondo, dando, a parità di risorse spese, maggiore valore al piacere di viaggiare e conoscere nuove terre rispetto al valore attribuito al piacere di una guida più comoda. Il costo opportunità di una nuo- va macchina per costoro è troppo elevato, e la loro scelta lo rivela senza dubbio.
Gli individui nelle loro scelte economiche non calcolano il costo opportunità connesso a ogni decisione di acquisto, an- che perché la valutazione per il singolo ha più che altro carattere soggettivo e qualitativo; per le imprese, invece, la de- terminazione del costo opportunità rappresenta un momento importante delle proprie scelte strategiche: in tal caso, tut- tavia, la valutazione non è soltanto qualitativa, ma ha anche dei riscontri quantitativi. Un'impresa, per esempio, potrebbe decidere di non intraprendere la produzione di mattoni a causa del costo opportunità troppo alto, se dedicando le risorse che servirebbero per produrre mattoni potesse produrre piastrelle ottenendone ricavi superiori.

Ctr (Finanza)

Ctr è una sigla al pari di Cct o Bot: denota un particolare titolo del debito pubblico. Per la precisione è il "nomignolo" dei Certificati di credito del Tesoro a indicizzazione reale, detti anche, più brevemente, Certificati del tesoro reali. In Italia non se ne è sentito parlare molto, poiché la prima e ultima emissione risale al 1983, con titoli di durata decen- nale (pertanto già scaduta) e pagamento annuale delle cedole. Alla fine degli anni 90, però sono tornati di moda, soprat- tutto in seguito alla decisione del Tesoro Usa e del Tesoro francese di iniziarne l'emissione. In altri Stati tuttavia sono relativamente diffusi, soprattutto in Inghilterra e Canada, ma anche nell'emisfero australe, per esempio in Nuova Zelan- da e Australia.
Nel nostro Paese, la legge che autorizza lo Stato a emettere titoli di questo tipo è la legge n. 576 del 7 agosto 1982, al- l'articolo 43. Caratteristica di questi Certificati del Tesoro è che sia il capitale, sia gli interessi vengono indicizzati a una variabile che esprime la perdita di valore della moneta. Storicamente, essi sono stati indicizzati all'indice dei prezzi im- pliciti del Pil (deflatore del Pil), che rappresenta la misura più ampia del tasso di inflazione in un Paese.
Dal punto di vista strettamente finanziario, questi titoli procurano numerosi vantaggi agli investitori, in particolare per ciò che riguarda la difesa del valore del risparmio contro l'erosione del potere d'acquisto della moneta provocata dall'in- flazione. A questo proposito il vantaggio per il risparmiatore è duplice: non viene tutelato soltanto il valore reale degli interessi, ma anche il valore reale del capitale. Alla scadenza infatti non verrà restituito semplicemente il capitale nomi- nale indicato nel titolo, ma quello rivalutato per la variabile selezionata per l'indicizzazione dei tassi di interesse.
Questi ultimi sono espressi in termini della variabile che rappresenta il tasso di inflazione più uno spread più o meno ampio. Così, a meno di fiammate inflative di molto superiori a quelle registrate dall'indice di aumento dei prezzi incor- porato nella cedola, i Ctr garantiscono un tasso d'interesse reale sempre positivo. E questo è un vantaggio di non poco conto, soprattutto se si confrontano questi titoli con quelli a breve termine a tasso fisso, che spesso, durante gli anni 70 e 80, hanno pagato tassi reali di interesse negativi.
Dal punto di vista del Governo, il vantaggio connesso all'emissione dei Ctr è soprattutto uno: con il loro collocamento dichiara implicitamente ai mercati finanziari il suo fermo impegno a combattere l'inflazione (farla salire sarebbe contro il suo interesse con titoli reali in circolazione), e con ciò riduce il premio di rischio che grava sugli interessi corrisposti dai titoli di Stato.

Curva dei rendimenti (Finanza)

La curva dei rendimenti rappresenta nella maniera più immediata possibile, ossia graficamente, come si allineano i ren- dimenti dei titoli di Stato in funzione della durata. In un piano cartesiano, sull'asse delle ascisse (orizzontale) vengono scandite le durate; su quello delle ordinate (verticale), giace la scala dei rendimenti. La curva si costruisce individuando nel     piano     i     punti     in     cui     a     ciascuna     durata     corrisponde     il      relativo      rendimento. Normalmente la curva dei rendimenti si presenta come una linea inclinata verso l'alto: il che coincide con la situazione tipica, in cui i rendimenti dei titoli a più lunga durata superano quelli dei titoli a breve.
In circostanze particolari, tuttavia, la curva può avere inclinazione opposta: in tal caso, si ha la cosiddetta curva inversa. Ciò accade per esempio quando il mercato ha aspettative future di una rapida e consistente riduzione del tasso d'infla- zione. A fronte di una crescita dei prezzi rallentata, inferiore è il rendimento nominale richiesto, visto che agli investito- ri  interessa,  principalmente,  quello  reale,  al   netto   cioè   della   perdita   di   potere   d'acquisto   della   moneta. Terza forma "classica" della curva dei rendimenti è quella piatta, che si ha quando i titoli offrono lo stesso rendimento, indipendentemente dalla loro durata.
Se queste sono le tre inclinazioni che può assumere la curva, infinite sono le linee che essa può tracciare: gobbe o avval- lamenti possono intervenire in corrispondenza di qualsiasi maturità, a seconda delle valutazioni che il mercato svolge sulla singola durata.
Sebbene la curva dei rendimenti fornisca un'immagine visiva globale della distribuzione dei rendimenti, la sua funzione principale consiste nel fornire un termine di riferimento per determinare prezzi e rendimenti dei titoli obbligazionari


emessi da soggetti diversi dallo Stato. Essa infatti viene disegnata sui titoli di Stato perché sono i soli che possiedono questa duplice caratteristica: presentano tutti lo stesso standing creditizio, che nella fattispecie possiede un profilo di rischio minimo visto che garante dei pagamenti è lo Stato; e sono molto liquidi, ossia molto negoziati sul mercato e per- ciò facilmente vendibili, per cui il loro prezzo, e quindi il loro rendimento, ha una significatività molto elevata.

 

Dealer (Finanza)

Deal significa in inglese "affare". É dunque dealer chiunque fa affari, cioè guadagna, acquistando a un prezzo e riven- dendo a un prezzo superiore. É dealer insomma il commerciante.
Il termine dealer tuttavia viene usato in Inghilterra e negli Stati Uniti per indicare anche alcune figure che negoziano professionalmente attività finanziarie: l'operatore di Borsa che effettua gli ordini di acquisto e vendita, e in Usa anche il cambiavalute. In Italia viene utilizzato per indicare un particolare operatore finanziario: colui che acquista direttamente in Borsa azioni, obbligazioni, valute, titoli e ogni altra sorta di attività finanziarie per poi rivenderle, nella speranza di ricavarne un profitto. In questo senso, il dealer è un soggetto autorizzato a operare in Borsa.
Non tutti gli operatori di Borsa però sono dealer, lo sono solamente coloro che negoziano attività finanziarie in nome proprio o della società per la quale lavorano, nell'interesse proprio o di quella, e con risorse proprie o della società fi- nanziaria. Caratteristica specifica del dealer, qualunque sia l'accezione nella quale viene utilizzato il termine, è infatti quella di assumersi in proprio i rischi dell'operazione.
Non è dealer pertanto l'operatore che compra e vende per conto di propri clienti e con loro fondi: costui viene invece detto broker. Non è dealer, inoltre, il generico investitore: costui infatti non è abilitato a operare direttamente in Borsa, ma deve agire per il tramite di un intermediario, in genere un broker (non un dealer perché, come detto, costui opera e- sclusivamente per conto proprio o della società finanziaria per la quale lavora).
Fra i dealer spiccano i primary dealer. Come suggerisce l'aggettivo, di chiara origine latina, i primary dealer sono quelli più importanti. Ogni mercato finanziario ha i propri. A Londra sono primary dealer quelle istituzioni che per autorizza- zione della Banca d'Inghilterra hanno il compito di acquistare titoli di Stato, quando l'offerta eccede la domanda; a New York, vengono così definiti gli istituti di credito che possono acquistare titoli di Stato direttamente dalla Federal Reser- ve Bank (la Banca Centrale statunitense); in Italia, sono primary dealer le banche e le imprese di investimento che si impegnano a fornire di continuo il loro prezzo di acquisto (bid) e di vendita (ask) su un insieme di titoli di Stato trattati sul mercato telematico dei titoli di Stato (Mts). Per essere primary, questi soggetti devono presentare requisiti patrimo- niali, operativi e professionali particolarmente elevati.
Nel mercato telematico italiano dei titoli di Stato è stata individuata un'ulteriore categoria di operatori, che per la loro importanza vengono classificati superprimary dealer, detti anche specialisti. In pratica, si tratta di primary dealer che presentano  requisiti  patrimoniali  e  di  operatività  ancora  più  elevati  rispetto  a  quelli  fissati  per  i  primary.

 

Debt ratio (Finanza)

Debt ratio è un indice di bilancio che serve a valutare la solidità patrimoniale e finanziaria di un'impresa. In italiano può essere tradotto con la locuzione <indice di indebitamento>. Esso è pari al rapporto fra mezzi propri e capitale investito di una società.
Il calcolo di tale indice non è complesso, basta poter disporre dello stato patrimoniale di una società. I mezzi propri coincidono infatti con il patrimonio netto indicato nel passivo, mentre il capitale investito corrisponde al totale delle at- tività.
Il debt ratio misura quindi la parte dell'attivo finanziata dai proprietari dell'impresa. Se il suo valore è alto, diciamo su- periore al 60%, la struttura patrimoniale della società è buona; se è compreso fra il 30% e il 60%, la situazione è norma- le, almeno secondo i criteri utilizzati dagli analisti; se è inferiore al 30%, la struttura finanziaria è compromessa. L'im- presa è sottocapitalizzata: i reali imprenditori sono i creditori, su di essi ricade la più parte del rischio connesso all'ini- ziativa economica. Sono essi infatti a fornire oltre il 70% delle risorse a disposizione dell'impresa.
Il debt ratio è dunque in primo luogo un indice patrimoniale, dà cioè informazioni circa la composizione del patrimonio.
É tuttavia anche un indice finanziario, poiché consente di svolgere importanti considerazioni sulla possibilità dell'im- presa di reperire risorse e di generare utili. Se i mezzi propri sono scarsi rispetto al capitale investito, la società ha infatti maggiori difficoltà a reperire finanziamenti all'esterno: i creditori, già molto esposti, saranno restii ad accollarsi ulteriori rischi. Diminuisce inoltre la redditività dell'impresa: parte dei ricavi originati dalla gestione ordinaria, quella cioè relati- va all'attività principale (core business), verranno infatti erosi dall'elevato ammontare degli interessi pagati sul debito.


Viceversa, un debt ratio sufficientemente alto consente all'impresa di sfruttare appieno l'effetto leva: questo consiste nel fatto che i redditi indotti dai maggiori investimenti finanziati con risorse prese a prestito superano, se la gestione è effi- ciente, gli interessi pagati sui mutui. Inoltre, un alto indice consente di ottenere prestiti più facilmente e a minor costo.
Tutti gli eccessi tuttavia sono un male, così pure un debt ratio eccessivamente alto. In tali casi infatti, l'impresa risulta sovracapitalizzata ed è impossibilitata a cogliere tutti gli aspetti positivi dell'effetto leva: la sua redditività è più bassa di quella che potrebbe essere.

Decoupling (Economia)

Sul dizionario non si trova, nei libri di economia e di finanza nemmeno: eppure decoupling è un termine che ricorre con frequenza periodica sui quotidiani economici.
Che significa? Tentando di rintracciare le origini del suo significato nella radice inglese couple (in italiano <coppia>), decoupling denota, evidentemente, una "coppia che scoppia, si sdoppia, si rompe".
Tecnicamente, il termine viene perlopiù impiegato con riferimento alla dinamica dei titoli del debito pubblico emessi da Stati differenti, per indicare l'andamento opposto di tassi d'interesse "abituati" a muoversi, quasi sincronicamente, nella stessa direzione.
A metà anno del 1996, per esempio, l'attenzione si è concentrata sul possibile decoupling fra i titoli di Stato americani, il cui rendimento stava crescendo, e i titoli di Stato tedeschi, il cui rendimento stava invece calando.
Perché vi sia vero decoupling, ossia hard decoupling come talora viene definito l'andamento contrario dei titoli per di- stinguerlo da un semplice momento di inversione delle tendenze storiche, è necessario che l'opposto orientamento dei mercati perduri per un periodo sufficientemente lungo, per esempio un anno.
Poiché tuttavia la forte integrazione del mercato dei capitali tende a omogeneizzare gli andamenti, decoupling veri e propri occorrono raramente. Nel caso dei titoli americani e tedeschi, hard decoupling si sono avuti soltanto in cinque occasioni negli ultimi 25 anni: per due anni e mezzo, a partire da agosto '66; per un anno e tre mesi a partire da giugno '74; per un periodo uguale da dicembre '76; per un anno e mezzo ancora, da novembre '82 e infine quasi per tre anni da ottobre '87. In due circostanze è aumentato il rendimento dei titoli tedeschi a fronte di una diminuzione di quello dei ti- toli americani; nella altre tre invece gli andamenti sono risultati invertiti.
Le ragioni di lunghi periodi di decoupling vanno ricercate soprattutto nella diversa fase del ciclo economico attraversato da due Paesi: alla fine degli anni 80 per esempio, l'economia Usa era in una fase di netto rallentamento; i suoi tassi di interesse calarono perciò notevolmente. Per contro, la Germania conobbe un periodo di sviluppo crescente: i suoi tassi quindi salirono.

Deflatore del Pil (Economia)

Il deflatore del Pil è il principe dei deflatori, quello più celebre e più comune. I suoi sudditi formano una popolazione molto numerosa: sono tanti quante sono le voci e le sottovoci in cui il Pil può essere scomposto.
Il deflatore infatti può essere calcolato in relazione a qualunque oggetto, purché questo abbia un prezzo in almeno due periodi differenti: per il singolo bene, esso coincide con il rapporto fra i due prezzi.
La sua funzione è di dare una misura dell'inflazione intercorsa nel settore e nel periodo al quale i prezzi si riferiscono. Più complesso è il calcolo del deflatore per un aggregato di beni: in tal caso al numeratore della frazione bisogna porre il suo valore calcolato a prezzi correnti, detto anche valore nominale, e al denominatore il valore che si otterrebbe se i prezzi fossero rimasti quelli dell'anno scelto a riferimento, detto anno base. Gli economisti chiamano questo valore reale e dicono che è calcolato a prezzi costanti.
Il deflatore del Pil, allora, altro non è che il rapporto fra l'intera produzione interna annua valutata a prezzi correnti e la stessa calcolata a prezzi costanti (per l'Italia, attualmente, quelli prevalenti nel 1995). Per esempio, nel 2003 il Pil nomi- nale è stato pari a 1.300 miliardi di euro correnti, mentre quello reale è stato stimato in 1.040 miliardi di eurolire 1995.
Ciò significa che il deflatore fra i due anni considerati è pari a circa 1,25 e quindi che i prezzi nel periodo sono aumen- tati complessivamente di quasi il 25 per cento.
Il deflatore del Pil, oltre che per stimare l'inflazione fra un anno determinato e l'anno base, può essere anche utilizzato per calcolare la crescita dei prezzi tra due anni qualsiasi. A tal fine è però necessario che il deflatore sia calcolato, per entrambi gli anni presi in considerazione, in relazione a un identico anno base. La differenza percentuale fra i due defla- tori darà la misura dell'inflazione intercorsa nel periodo. Per esempio, nel 2001 il deflatore del Pil calcolato prendendo come anno base il 1995 è stato pari a 1,18; nel 2002, con lo stesso anno base, è stato pari invece a 1,216. La differenza fra i due, pari a 0,036, rappresenta circa il 3% di 1,18. In termini percentuali, essa rappresenta pure il tasso di inflazione nei due anni calcolato con il deflatore del Pil.


Esso dunque costituisce uno dei metodi utilizzati per determinare la variazione dei prezzi. Due sono le sue peculiarità: misura soltanto l'inflazione interna, non tenendo conto di quella indotta dalle importazioni, visto che il commercio con l'estero non rientra nel Pil; e in virtù della gigantesca grandezza del paniere su cui è costruito - l'intera produzione annua di un Paese, il Pil appunto - esso costituisce il più generale degli indici di inflazione.

Deviazione standard (Finanza)

Deviazione standard è un concetto statistico e, più precisamente, una misura della variabilità dei dati appartenenti a un determinato insieme: dà un valore cioè al loro grado di diversità. Più è alta tale misura, maggiori sono le differenze nu- meriche fra i valori che compongono l'insieme considerato. Quando è nulla, cioè è uguale a zero, tutti i dati dell'insieme hanno identico valore.
La variabilità può essere calcolata in vari modi. I principali tuttavia sono due. O calcolando la differenza rispetto a un determinato polo di riferimento (per esempio rispetto alla media, alla mediana, o alla moda), e queste sono le cosiddette misure della dispersione, o calcolando le differenze di ciascun dato rispetto a ogni altro, e allora si hanno le misure di mutua variabilità.
La deviazione standard è una misura di dispersione. Calcola cioè la diversità di ciascun dato dell'insieme rispetto alla sua media algebrica. Più precisamente, è essa stessa una media: la media quadratica degli scostamenti fra i valori osser- vati e la loro media aritmetica. Per calcolarla è sufficiente fare la radice quadrata della media degli scarti al quadrato. Per questo motivo, è anche detta scarto o scostamento quadratico medio.
La deviazione moltiplicata per se stessa, ossia al quadrato, prende il nome di varianza. Rispetto a quest'ultima, la devia- zione standard presenta un grande vantaggio: dà la misura della dispersione nella stessa unità di misura dei dati presi in considerazione e non, come accade alla varianza, in unità di misura al quadrato.
Prendendo a esempio la distribuzione della ricchezza personale nelle diverse regioni italiane e calcolandone la disper- sione intorno alla media nazionale, con la deviazione standard si ottiene un valore in termini di migliaia di euro. Con la varianza invece, si ha un valore in termini di migliaia di euro "quadrati". Che non sono certamente il prodotto di un'im- probabile operazione della Zecca per la quadratura delle monete metalliche.
La deviazione standard, in quanto misura assoluta della variabilità, cioè calcolata facendo riferimento a un'unità di mi- sura, ha un non piccolo svantaggio. Il suo valore viene a dipendere dalla grandezza dei dati su cui viene calcolata. Se si pongono a confronto due deviazioni standard riferentesi a dati di grandezza molto differente (supponiamo il primo in- sieme calcolato in unità, l'altro in migliaia), oppure a dati con unità di misura differente (euro e chili per esempio), è impossibile dire quale sia l'insieme con maggiore variabilità. Per questo motivo, vengono calcolate misure di variabilità relativa, ottenute per esempio dividendo la deviazione standard per la media aritmetica dei dati oppure per il valore massimo che tale variabilità può assumere all'interno dell'insieme considerato. Si ottengono in questo modo numeri pu- ri, quindi dati idonei a raffronti omogenei.

 

Diritti (Finanza)

Diritto d'opzione nella disciplina giuridica commerciale è il diritto che spetta all'azionista e all'obbligazionista converti- bile, quando la società delibera l'aumento di capitale o l'emissione di obbligazioni convertibili. In particolare, soci e ob- bligazionisti convertibili hanno diritto di scelta fra una delle tre seguenti opzioni: esercitare il diritto, sottoscrivendo, a seconda dei casi, l'aumento di capitale o le nuove obbligazioni convertibili; non esercitare il diritto; disporre del diritto, cioè venderlo. In quest'ultimo caso, più comunemente si dice che l'azionista e l'obbligazionista convertibile vendono i propri diritti.
Il diritto di opzione inerisce alla singola azione (da ora in poi si considera per semplicità d'esposizione soltanto il caso del socio) e consiste nella facoltà e contemporaneamente nella pretesa dell'azionista di esprimere la propria scelta. Con un "miracolo" giuridico, la legge consente al diritto di avere manifestazione fisica (da ottobre '98 questo miracolo si ce- lebra soltanto per i titoli per i quali non sia stata prevista la dematerializzazione): un pezzettino di carta numerato, detto cedola, che insieme ad altri pezzettini di carta, reciprocamente separabili, forma il dorso dell'azione, noto come mantel- lo. Ogni volta che il diritto d'opzione viene esercitato, la società richiede che sia staccata dall'azione la cedola individua- ta dal numero comunicato ai soci. Di norma ogni azione vergine porta sul retro 50 cedole. Quando, in seguito alle vi- cende sociali, tutte le cedole sono state staccate, la società provvede alla sostituzione delle vecchie azioni con azioni nuove. Le cedole delle nuove azioni sono numerate progressivamente a partire dal primo numero successivo al più alto della vecchia azione. Se si tratta per esempio di primo "ricambio", esso sarà pari a 51.
I diritti, materialmente, sono queste cedole e al pari di azioni e obbligazioni possono essere acquistati o venduti. Hanno però una durata limitata: da un minimo di 15 giorni per le società quotate a un massimo di poco superiore ai 30 giorni per le società non quotate. Per cui una volta scaduto il termine per l'adesione all'aumento di capitale, il diritto si estingue e le cedole vengono fisicamente distrutte.


Per le società quotate e per tutti gli altri titoli per i quali è prevista la dematerializzazione i diritti, al pari dei titoli stessi, sono rappresentati sotto forma di registrazioni. Le procedure per la loro creazione, compravendita ed estinzione seguono quindi le regole applicabili ai titoli da cui originano.
Se è vero che a ogni azione spetta il diritto d'opzione, non è vero che a ogni cedola-diritto corrisponde il potere di sotto- scrivere una nuova azione. Il numero di diritti necessari per sottoscriverne una, detto rapporto d'esercizio, viene infatti stabilito dall'assemblea straordinaria che delibera sull'aumento di capitale. Per esempio se una società con capitale so- ciale pari a 100 delibera un aumento di 50, e non viene decisa alcuna limitazione del diritto, agli azionisti spetta una nuova azione ogni due vecchie (100/50), o se si vuole ogni due diritti. Se un socio volesse sottoscrivere 15 nuove azio- ni, dovrebbe staccare 30 cedole, cioè possedere 30 vecchie azioni. Nel caso di società quotate tuttavia, potrebbe ugual- mente acquistare i diritti in Borsa, ovvero venderli, al prezzo di mercato. Rara e antieconomica è la terza opzione, quella di non esercitare il diritto in nessun modo.

 

Diritti speciali di prelievo (Economia)

I diritti speciali di prelievo, noti anche con la sigla Dsp, e in inglese Sdr (Special drawing rights) sono, nonostante che l'intuizione suggerisca il contrario, unità di conto o, se si vuole, unità monetarie convenzionali. Sono cioè moneta non stampata, "emessa" e assegnata dal Fondo monetario internazionale agli Stati, in base a precise proporzioni.
In quanto moneta, ossia mezzo dotato di potere d'acquisto, esistono soltanto sui conti tenuti dal Fondo (di qui il nome di unità "di" - cioè "che sta soltanto su un" - conto). Sui conti, ciascuno intestato a un singolo Stato, il Fondo provvede a iscrivere le entrate e le uscite derivanti dai pagamenti reciproci fra gli Stati regolati con diritti speciali di prelievo.
In quanto non sono carta moneta, mancano di un'unità propria che ne esprima il valore. Non esiste cioè un pezzo di car- ta che attesti che il suo valore è pari a dieci, così come un biglietto di banca può valere 50 euro. Il valore di tali diritti viene pertanto espresso in relazione ad altre monete, in particolare il dollaro. Il "tasso di cambio" dei diritti speciali vie- ne determinato sulla base di uno speciale paniere di monete. Esso comprende, in proporzioni che vengono modificate ogni cinque anni (la prossima revisione è prevista nel 2005 con entrata in vigore il 1^ gennaio 2006), il dollaro, l'euro, lo yen, e la sterlina.
I diritti speciali di prelievo furono istituiti dal Fondo monetario internazionale nel 1970. L'obiettivo era quello di mette- re a disposizione degli Stati uno strumento di pagamento differente dal dollaro, uno strumento che fosse più stabile della singola moneta, in quanto "riassunto" dei pregi e dei difetti delle valute più salde.
Al tempo infatti, il dollaro costituiva l'unica divisa usata per gli scambi internazionali. Una sua forte svalutazione nei confronti delle altre monete, come si verificò allora a causa dell'alto tasso di inflazione in America, poteva intralciare gli scambi commerciali. Gli Stati infatti, dovendo pagare o ricevere dollari, sarebbero stati poco propensi a ricevere una moneta, il cui potere d'acquisto calava rapidamente con il tempo. Furono perciò "inventati" i diritti speciali di prelievo, la cui diffusione però è rimasta assai limitata.

Domanda aggregata (Economia)

Una prima distinzione economica discerne fra chi domanda e cosa viene domandato. Chi domanda è sempre colui che vuole acquistare; cosa, è ciò di cui necessita per soddisfare i propri bisogni.
Gli economisti inoltre svolgono un'ulteriore distinzione, a seconda che chi domanda sia un individuo ovvero un insieme di persone e i beni domandati siano prodotti nazionali o meno.
Quando intendono riferirsi alla domanda globale di beni nazionali, usano il termine domanda aggregata: essa aggrega, cioè somma, tutte le richieste di beni prodotti in una determinata economia.
La domanda aggregata è un concetto macroeconomico di estrema importanza, perché secondo una teoria che ha avuto molto successo, la teoria keynesiana, è essa che determina il livello della produzione nazionale, ossia del reddito. In pa- role semplici, questa teoria asserisce che quanto più si acquista, tanto più si produce e, di conseguenza, tanto più si gua- dagna.
Ciò tuttavia non significa che, purché si mantenga alta la volontà di acquistare, tutti i desideri possano diventare realtà.
Esistono infatti dei vincoli che costringono la domanda entro determinati limiti, inceppano la produzione e interrompo- no quel magico processo che tramuta i prodotti in redditi. Accade così che la domanda aggregata, cioè la quantità di be- ni che si vogliono acquistare, superi spesso e talora sia inferiore alla quantità effettivamente acquistata (domanda aggre- gata effettiva).
Per consentire alla domanda aggregata di esprimere tutte le sue potenzialità, gli economisti ne hanno analizzato le com- ponenti, al fine di comprendere quali sono i fattori che la spingono ora verso l'alto, ora verso il basso.


A tal fine, hanno in primo luogo distinto le diverse fonti delle domanda, rilevando che vi è una domanda di beni di con- sumo e di servizi da parte sia delle famiglie (consumi privati) sia della pubblica Amministrazione (consumi pubblici).
Vi è poi una domanda da parte delle istituzioni sociali private che sommata ai consumi pubblici dà l'aggregato dei con- sumi collettivi.
Gli economisti hanno inoltre individuato una domanda di beni di investimento da parte delle imprese e dell'Ammini- strazione Pubblica (investimenti) e una domanda proveniente dall'estero, che dà luogo alle esportazioni; d'altro canto si sono resi conto che non tutti i beni domandati vengono prodotti all'interno di un'economia, per cui dal valore totale della domanda, individuata nelle singole componenti qui menzionate, detraggono le importazioni, ossia il valore totale dei beni domandati all'interno e prodotti all'estero.
Alla fine sono giunti al risultato di definire la domanda aggregata effettiva come la somma algebrica di consumi, inve- stimenti ed esportazioni nette, pari queste ultime alla differenza, positiva o negativa, fra esportazioni e importazioni.
Ciascuna componente risponde a esigenze e influssi diversi ed è sottoposta a vincoli di differente natura; studiandone i comportamenti, gli economisti cercano di suggerire i migliori accorgimenti di politica di bilancio e monetaria  affinché la domanda aggregata non subisca oscillazioni troppo forti e, possibilmente, cresca costantemente nel tempo.

 

Dumping (Economia)

<Dump> nel vocabolario inglese significa <mucchio di spazzatura>. Se usato come verbo significa anche <gettare via>. Il che dopo tutto è logico, visto che l'essere buttato rappresenta il normale destino di tutto ciò che è, o è diventato, inuti- le. Quando però una cosa è stata prodotta e per produrla sono stati sostenuti dei costi, è antieconomico gettarla nel bido- ne. Se non si riesce a venderla altrimenti, si tenta di venderla a prezzo ribassato.
Nel commercio internazionale, si dice che un'impresa adotta pratiche di dumping oppure, più colloquialmente, fa dumping, quando vende a basso prezzo i propri prodotti all'estero.
Ciò che caratterizza il dumping è dunque il prezzo ridotto praticato dall'impresa sui mercati d'esportazione. Si tratta al- lora di determinare quando ciò si verifica. Evidentemente, quando il prezzo di un determinato prodotto venduto all'este- ro è inferiore al prezzo sul mercato interno.
Bisogna precisare che tale confronto deve tenere conto sia delle eventuali differenze nelle caratteristiche del prodotto, sia di tutte le spese connesse all'esportazione, cioè quelle di trasporto, di assicurazione, quelle relative alle operazioni di sdoganamento, e così via. Non è quindi sufficiente comparare direttamente i prezzi di vendita nei due mercati, ma biso- gna tenere conto anche dell'entità della differenza di prezzo e confrontarla con l'insieme dei costi aggiuntivi che richiede la vendita di un prodotto all'estero.
Esistono molte ragioni economiche che possono spingere un'impresa a vendere in dumping. La prima è che sul mercato d'esportazione il gioco della concorrenza sia più sviluppato, per cui l'impresa è costretta a praticare prezzi più bassi se vuole vendere. Un'altra ragione può essere quella di spingere fuori dal mercato d'esportazione le imprese già operanti, in modo da guadagnare su quel mercato una posizione di potere economico. Per far ciò, è generalmente necessario che l'impresa, almeno per un certo periodo, venda i propri prodotti a un prezzo inferiore ai costi di produzione. Ed è questa la seconda accezione in cui viene comunemente inteso il dumping.
Per limitare i danni che il dumping provoca alle imprese domestiche che operano sul mercato d'esportazione, molti Stati hanno emanato leggi speciali, dette antidumping, che stabiliscono sanzioni contro chi pone in essere simili pratiche.

 

Duration (Finanza)

Scegliere quale obbligazione acquistare non è un'operazione facile; di norma, ci si limita a considerare il rendimento: più questo è alto, maggiore è la propensione a farlo oggetto del proprio investimento.
Un altro aspetto che generalmente si considera è la durata del titolo: più questa è lunga, minore è la propensione ad ac- quistarlo. Una teoria finanziaria, enunciata per la prima volta dal famoso economista inglese Keynes negli anni 30, af- ferma infatti che gli individui preferiscono detenere risorse liquide piuttosto che attività difficilmente smobilizzabili e per detenere queste ultime richiedono rendimenti superiori.
Infine, l'investitore privato spesso tralascia di prendere in considerazione la volatilità del titolo, ossia la reattività del suo prezzo alle variazioni dei tassi di interesse. Bisogna infatti tenere presente che questi ultimi influenzano inversamente il corso dei titoli: quando scendono, salgono le quotazioni e viceversa.
Analizzare tutti questi elementi singolarmente può ingenerare nel risparmiatore uno sconfortante disorientamento: è pre- feribile per esempio un titolo con cedola del 5%, rendimento del 5% e durata decennale, oppure uno con cedola del


10%, rendimento del 9% e durata quindicinale? E ancora, è preferibile acquistare un'obbligazione decennale con cedola del 5% e rendimento del 9%, oppure una di pari durata con cedola del 10% e rendimento del 5 per cento?
Probabilmente, a seconda dell'aspetto considerato, il risparmiatore si darà risposte diverse, cosicché alla fine delle sue riflessioni non saprà su quale obbligazione orientare le proprie scelte.
Un dato che aiuta a ridurre le variabili in gioco è la duration. Si tratta di un indice sintetico che riunisce, in un unico va- lore, durata del titolo e ripartizione dei pagamenti originati dall'obbligazione. Esso dà, contemporaneamente, una misura della rapidità con la quale verrà rimborsato il capitale investito e una misura della volatilità del titolo.
Formalmente, la duration è la media ponderata della durata di un titolo; i pesi di ponderazione di ciascun anno sono dati dal cash flow di quell'anno (di solito la cedola; la cedola più l'intero capitale per l'anno di scadenza) attualizzato per il rendimento del titolo.
La duration varia in funzione della durata del titolo (ossia la vita del titolo fino alla scadenza), della cedola e del rendi- mento.
A parità di durata, la duration diminuisce sia in funzione del rendimento che in funzione della cedola (quanto più eleva- te sono queste ultime, tanto più rapidamente si rientra in possesso del capitale investito). Analogamente, a parità di ce- dola e rendimento, la duration aumenta in funzione della durata del titolo. Ma cosa succede quando un titolo ha rispetti- vamente cedola superiore e rendimento inferiore rispetto a un altro? Quale dei due è preferibile? Diverse considerazioni conducono a differenti scelte d'investimento; la duration tuttavia non è elemento da dimenticare.
Nei due esempi svolti più sopra, per esempio, il titolo decennale ha una duration inferiore (7,7) rispetto a quello quindi- cinale (7,9), nonostante che quest'ultimo abbia cedole e rendimenti superiori; mentre nel secondo esempio è il titolo con rendimento più basso e cedola più elevata ad avere duration più bassa (6,9 contro 7,1).
Quale titolo scegliere dunque? Dipende dalla struttura delle preferenze dell'investitore: se intende recuperare al più pre- sto le somme investite e minimizzare il rischio di variazione dei tassi deve scegliere il titolo con duration più bassa. Se intende immunizzarsi completamente dal rischio di variazione dei tassi per conseguire il rendimento desiderato, deve poi detenere i titoli per un periodo pari alla duration. Se infine è totalmente propenso al rischio, allora non bada alla du- ration; o meglio, tiene i titoli per un periodo superiore.
Infine, con riguardo alla duration, bisogna precisare che essa costituisce una misura approssimativa della volatilità di un titolo: quanto più è alta, tanto maggiori sono le escursioni di prezzo che subirà il titolo in conseguenza di un variazione dei tassi di interesse. Una duration pari a sette per esempio indica che il prezzo del titolo si ridurrà di circa il 7% in cor- rispondenza di un aumento di un punto percentuale (cento basis point) dei tassi di interesse.
La duration non rappresenta una misura perfetta della volatilità di un titolo, ma semplicemente un'approssimazione, tan- to più valida, quanto minore è la variazione dei tassi di interesse.

Economie di scala (Economia)

<Piccolo è bello>, è stato detto quando si capì che l'economia nazionale veniva trainata dalle imprese di piccole e medie dimensioni.
Lo slogan, per quanto suggestivo, è vero tuttavia soltanto in parte: i piccoli, per esempio, almeno fino a quando riman- gono tali, non riescono a realizzare le economie di scala; non riescono cioè a conseguire i costi medi di produzione più bassi che riescono a ottenere invece le imprese di maggiore dimensione. Al crescere di questa infatti, i costi per unità di prodotto tendono a diminuire proprio grazie al conseguimento di economie di scala, così chiamate perché dipendono, appunto, dalla scala, ossia dalla dimensione, dell'impresa.
Diventando questa più grande, molti costi possono essere ripartiti su una produzione maggiore: il costo di un  impianto di portata maggiore, per esempio, non è direttamente proporzionale alla propria capacità. Se un impianto che può pro- durre 2mila pezzi costa 100mila euro, uno che ne produce 4mila, non necessariamente deve costare 200mila euro; anzi, probabilmente, costerà di meno. Lo stesso capita ai costi di amministrazione: non bisogna necessariamente raddoppiare gli addetti, se raddoppiano gli operai impiegati nello stabilimento.
Aumentando di dimensione, inoltre, l'impresa può utilizzare tecnologie più sofisticate: per esempio, un investimento in macchinari automatizzati può essere remunerativo soltanto se la produzione raggiunge determinati livelli. In un'impresa più grande, poi, è possibile aumentare il grado di specializzazione di ogni unità e quindi aumentare per questa via l'effi- cienza produttiva.
Un'impresa più grande, infine, ha la possibilità di conseguire significative economie con riguardo soprattutto all'acqui- sto di materie prime e alla raccolta di fondi. Comprando grandi quantità di materiali, ha maggiore facilità a ottenere sconti più importanti dai fornitori e, analogamente, può ottenere finanziamenti dalle banche a tassi di interesse inferiori.


É chiaro tuttavia che, oltre una certa dimensione, i costi medi invece di diminuire, aumentano. Ciò si verifica al supera- mento della dimensione ottimale, quella in corrispondenza della quale sono raggiunte tutte le economie di scala. Una dimensione maggiore significa soltanto aumentare gli sprechi, perdere il coordinamento fra le diverse funzioni, scatena- re, eventualmente, comportamenti ostili fra i diversi reparti. Ha luogo il cosiddetto fenomeno del gigantismo industriale: un'ipertrofia aziendale che causa più danni che benefici.
Le economie di scala servono a spiegare il grado di concentrazione dei mercati: in quelli caratterizzati da economie più elevate è minore il numero delle imprese operanti o, il che è lo stesso, maggiore è il grado di concentrazione. Basti pen- sare per esempio al settore dell'auto: soltanto la produzione di innumerevoli esemplari consente una produzione effi- ciente, tanto più ora che le catene di montaggio sono state soppiantate da impianti automatizzati.
Ciò però non significa che non possano sopravvivere imprese che producono modelli destinati a una clientela particola- re. Ma ciò non basta a ridurre il grado di concentrazione del mercato.

 

Eonia (Finanza)

L'euro overnight index average, altrimenti identificato con il più breve acronimo di Eonia, è il tasso overnight per eccel- lenza nell'area dell'euro. Esso viene calcolato come media ponderata dei tassi dei contratti overnight senza garanzia, comunicati da un gruppo di banche selezionato fra le principali dell'Unione Monetaria. La Banca Centrale Europea ana- lizza i suoi andamenti, assieme a quelli dei tassi euribor, per valutare le condizioni di liquidità sul mercato monetario dell'Unione Monetaria. Il tasso infatti è particolarmente sensibile a variazioni nelle attese di mercato sulle future deci- sioni della Banca Centrale e a variazioni nelle condizioni di liquidità del sistema. In assenza di questi fattori, esso tende a riprodurre in maniera relativamente fedele l'andamento del tasso base applicato dalla Bce.
Analogo all'Eonia è il tasso Euronia, calcolato come media ponderata dei depositi overnight denominati in euro non ga- rantiti scambiati sul mercato di Londra fra un ristretto gruppo di banche di primaria importanza (il gruppo deve essere comunque  costituito  da  un  minimo  di  otto  banche,  così da garantire al  tasso  un  elevato  grado  di significatività).

 

Equity-linked bond (Finanza)

Le obbligazioni equity-linked offrono al sottoscrittore la garanzia della restituzione del capitale alla scadenza, lasciando però assolutamente indeterminata la cedola (soprattutto quando non è previsto il pagamento di un interesse minimo). Il rendimento di tali obbligazioni viene infatti collegato alla performance di un determinato titolo azionario (equity-linked bonds) oppure di un determinato indice di Borsa (index-linked bonds).
Se la performance è positiva, ossia se la quotazione del titolo o dell'indice di riferimento cresce, alla scadenza il portato- re avrà diritto, non solo alla restituzione del valore nominale delle obbligazioni, ma anche al versamento di una somma pari al prodotto fra il loro valore nominale e la crescita percentuale della quotazione del titolo o dell'indice predefinito.
Se, viceversa, la performance dell'attività di riferimento è negativa, l'obbligazionista avrà diritto solo alla restituzione del valore nominale.
Il rapporto fra performance dell'obbligazione e performance dell'attività di riferimento non è sempre di uno a uno, poi- ché talora viene retrocessa soltanto una quota della performance totale dell'attività di riferimento.
Inoltre, questi titoli prevedono spesso dei limiti massimi di rendimento (che operano quando la crescita percentuale del- le quotazioni dell'attività di riferimento supera una determinata soglia), e talora incorporano la facoltà di rimborso anti- cipato a condizioni prefissate da parte dell'emittente.

 

Esternalità (Economia)

Nel migliore dei mercati possibili il prezzo di un bene dovrebbe essere quello in corrispondenza del quale i costi sociali di produzione equivalgono ai benefici sociali generati dall'utilizzo del bene stesso. Nei mercati reali, tuttavia, ciò di norma non si verifica. Il prezzo, nella migliore delle ipotesi, è posto a quel livello in corrispondenza del quale i costi di produzione sostenuti dall'impresa equivalgono al beneficio ritratto dal singolo acquirente.
Cosa significa? Che generalmente il prezzo di un bene o di un servizio non è quello in corrispondenza del quale si rea- lizza l'ottima allocazione delle risorse, secondo quanto affermano gli economisti; in altre parole, si produce troppo di un bene e troppo poco di un altro, rispetto a quanto sarebbe effettivamente richiesto dall'economia se i prezzi riflettessero effettivamente costi e benefici sociali.


É tecnicamente definita esternalità la parte, non ricompresa nel prezzo, di costi e di benefici sociali, quelli cioè che ri- guardano altri soggetti, individui o imprese, non direttamente coinvolti nella produzione o nel consumo del bene consi- derato.
La principale fonte di esternalità è per esempio l'inquinamento risultante da produzioni più o meno tossiche. Se un'indu- stria produce prodotti chimici scaricando residui dannosi nelle acque di un fiume, causando per questa via moria di pe- sci e inutilizzabilità dell'acqua a fini di coltivazione, il costo sociale della produzione supera i costi sostenuti dall'azien- da. Se tali maggiori costi non sono riflessi nel prezzo, si ha un cosiddetto fallimento del mercato. Si produrranno di con- seguenza prodotti chimici in eccesso rispetto a quelli richiesti dalla società nel suo insieme.
Per contro, se i condomini decidono di ristrutturare il palazzo in cui abitano, aumentano i benefici dei passanti, che po- tranno godere della vista di una bella facciata, piuttosto che di una fatiscente e pericolante. In tal caso, poiché presumi- bilmente il prezzo non terrà conto di tali maggiori benefici sociali, verranno generalmente eseguite meno ristrutturazioni di quante la società nel suo complesso sarebbe disposta a richiedere.
Le esternalità rappresentano pertanto il principale fattore di disturbo nella migliore allocazione delle risorse. Costitui- scono altresì la principale giustificazione all'intervento dello Stato nell'economia.
Esso, infatti, può prendere provvedimenti legislativi volti a innalzare i costi per le produzioni inquinanti, per esempio richiedendo alle imprese un corrispettivo per il diritto di inquinare.
Tali provvedimenti infatti non hanno altro effetto che quello di incorporare nei costi d'azienda almeno una parte dei co- sti sociali.

Euribor (Finanza)

Il decollo dell'euro il 1^ gennaio 1999 ha comportato notevoli cambiamenti in tutti i comparti del settore finanziario: dal sistema dei pagamenti, al mercato dei titoli, a quello monetario. Questi cambiamenti discendono, in ultima analisi, dal fatto che la politica monetaria di undici Stati (ora dodici, dopo l'adesione all'Unione Monetaria da parte della Grecia) è stata unificata e posta nelle mani di un'unica Banca Centrale, la Banca Centrale Europea (Bce).
Tali cambiamenti hanno chiaramente toccato anche i mercati interbancari nazionali, ossia i mercati in cui le banche si scambiano depositi per soddisfare le proprie esigenze di liquidità. Dopo l'introduzione dell'euro e l'unificazione della politica monetaria, con la quale viene stabilito un unico tasso di riferimento, l'esistenza di tanti mercati nazionali non ha più ragione d'essere. La liquidità presente in ogni istante nel sistema è infatti uguale per le banche di tutti i Paesi Ue, togliendo così fondamento all'esistenza di un ventaglio di tassi di interesse. I diversi tassi interbancari nazionali (Ribor, Pibor, Fibor, Mibor, eccetera) hanno perso quindi ogni valore indicativo, rendendo pertanto necessaria la loro sostitu- zione con un "supertasso" che potesse rappresentare quotidianamente l'evoluzione del mercato interbancario europeo dei depositi nel suo insieme.
Tuttavia, se sulla questione teorica tutti gli interessati si sono trovati d'accordo, è mancato il consenso su chi debba rile- vare questo tasso, cosicché esistono al momento due tassi interbancari europei: uno calcolato dalla Federazione Banca- ria Europea, nominato Euribor; l'altro, determinato dall'Associazione Bancaria Britannica (che già pubblicava i tassi Li- bor per le principali valute mondiali), individuato con il nome di Euro Libor.
La distinzione non è soltanto terminologica, ma si riverbera sul livello assunto dai due tassi e ciò a sua volta ha (talora) conseguenze di non poco conto sui contratti a tasso variabile nonché sui future e sugli swap che li trattano. Le ragioni di tale differenza di valore risiedono non soltanto nelle diverse modalità di rilevazione (per esempio, nel computo dell'Eu- ro Libor vengono esclusi i tassi offerti che si collocano nel 25% più alto e più basso, mentre nell'Euribor vengono esclu- si i tassi appartenenti agli intervalli estremi del 15%), ma dipendono anche dalla diversa composizione e dal relativo di- verso standing creditizio delle banche che partecipano alla rilevazione (16 operanti a Londra per l'Euro Libor, 57 di cui la maggior parte residenti nell'Unione Monetaria per l'Euribor).
Quale dei due tassi prevale come benchmark? In Europa, si potrebbe dire senz'altro l'Euribor, per ragioni di opportunità politica (per il fatto che sono le stesse banche europee a calcolare il proprio indice di riferimento) e tecniche (l'Euro Li- bor è quotato soltanto al Liffe, mentre l'Euribor è stato adottato dalla Banca Centrale Europea quale indicatore dell'an- damento dei tassi interbancari dell'area dell'euro). Nel mondo, tuttavia, è molto diffuso anche l'impiego dell'Euro Libor, che rispetto all'Euribor presenta il vantaggio di comprendere soltanto le banche maggiori, escludendo le più piccole, e quindi meno rappresentative, che partecipano al panel di rilevazione dell'Euribor.

 

Euro Bund future (Finanza)

L'euro Bund future è un particolare contratto future con il quale una parte si impegna ad acquistare a un dato prezzo, entro una certa data, una determinata quantità di titoli di Stato di lungo termine emessi dalla Repubblica Federale Tede- sca (Bund); per converso, la controparte si impegna a consegnare quanto stabilito alle condizioni prefissate.


Rispetto agli altri future, l'euro Bund future si distingue essenzialmente per il tipo dell'attività sottostante scambiata: i Bund appunto. Attualmente, sull'Eurex, il principale mercato mondiale di strumenti derivati denominati in euro, vengo- no negoziati tre diversi tipi di contratto sui titoli di Stato tedeschi: uno (euro Schatz future) relativo alla compravendita di titoli a breve termine (Schatz a 2 anni), uno (euro Bobl future) relativo allo scambio di titoli a medio termine (Bobl a 5 anni), e uno (l'euro Bund future, appunto) relativo alla negoziazione di titoli a lungo termine (Bund a 10 anni).
Anche il l'euro Bund future, come ogni altro future, è un contratto standardizzato: la quantità e il tipo di attività scam- biata, la durata del contratto, le modalità di liquidazione, i termini di consegna, le variazioni minime di prezzo e altri aspetti contrattuali sono prestabiliti dalla società di gestione del mercato. L'unica variabile che cambia nel tempo è il prezzo, cosicché agli operatori non resta che scegliere se mettersi in posizione di acquisto ovvero di vendita e valutare la convenienza dell'operazione.
L'euro Bund future, al pari di qualsiasi altro contratto future, può essere utilizzato con finalità speculative (acquisto o vendita a un prezzo che si spera essere inferiore al prezzo a cui, rispettivamente, si rivenderà o acquisterà); di copertura del rischio, per limitare per esempio l'effetto negativo prodotto da un aumento dei tassi di interesse sulle quotazioni dei Bund in portafoglio (a tal fine bisogna aprire una posizione in vendita sull'euro Bund future); oppure di arbitraggio (sfruttamento dei differenziali di prezzo che si determinano sul mercato a pronti e a termine dei Bund).
Poiché i contratti sono standardizzati, il titolo che deve essere negoziato a scadenza non è individuato con un Bund (o Schatz, o Bobl) effettivamente scambiati sul mercato a pronti, ma è definito in termini astratti. Tecnicamente questo ti- tolo astratto è detto nozionale e viene definito come un titolo del valore nominale di 100mila euro, con tasso d'interesse nominale annuo del 6 per cento (il nozionale è definito in maniera identica per tutti i tre contratti future menzionati). Di fatto, il venditore consegnerà alla scadenza Bund del medesimo valore nominale, con vita residua compresa tra gli 8,5 e i 10,5 anni (se si tratta di euro Schatz future, la vita residua deve essere compresa tra un anno e 9 mesi e 2 anni e 3 mesi; e per un euro Bobl future tra i 4,5 e i 5,5 anni). Sta al venditore scegliere quale titolo effettivamente consegnare, purché sia un titolo che, almeno dieci giorni lavorativi prima del giorno di liquidazione, abbia raggiunto un controvalore mini- mo di emissione di due miliardi di euro.

 

Euromercato (Finanza)

In finanza, è detto euromercato il mercato in cui operatori provenienti da Paesi diversi scambiano attività (finanziarie e monetarie) il cui valore è espresso in valuta estera rispetto a quella nazionale del Paese in cui tali scambi hanno luogo.
Sull'euromercato di Londra, per esempio, si scambiano obbligazioni denominate in tutte le principali valute straniere, esclusa ovviamente la sterlina che è moneta nazionale.
Nonostante che l'uso abbia esteso l'accezione del prefisso euro fino a ricomprendere qualunque mercato in cui siano trattate attività denominate in valuta differente rispetto alla divisa che ha corso legale nello Stato di riferimento, il mer- cato è veramente euro soltanto se si trova in uno dei Paesi europei. Altrimenti sarà asiatico, africano, e così via.
In generale, si può dire che ciascuno di essi costituisce uno xenomercato o mercato esterno. La preminenza del prefisso euro tuttavia si spiega con il fatto che esso costituisce il più vecchio degli xenomercati: le sue origini risalgono infatti ai prestiti in dollari accordati dagli americani agli Stati europei per attivare il processo di ricostruzione post-bellica alla fine della Seconda Guerra mondiale.
Lo scambio tipico che ha luogo sull'euromercato è il prestito: il cambio di valute quindi ne fuoriesce, poiché il negozio posto in essere è la compravendita.
Le ragioni che spingono gli operatori ad agire sull'euromercato sono sostanzialmente due: la convenienza economica  e il buon nome (standing) che ne riescono a guadagnare.
Il più grande euromercato è a Londra. Su di esso, si scambiano eurodepositi, ossia depositi in eurovaluta, denominati quindi in una qualsiasi divisa che non sia la sterlina; eurobbligazioni, ossia titoli di credito denominati in una qualunque moneta diversa da quella inglese; e infine europrestiti. Questi sono concessi dalle grandi banche d'investimento interna- zionali alle multinazionali che ne fanno domanda.

Factoring (Finanza)

<Mater semper certa> sentenziavano i latini; <i crediti invece no> può ribattere con la stessa perentorietà qualunque ra- gioniere. Infatti il credito è una somma di denaro che deve essere ricevuta in pagamento a una determinata scadenza.
Ma <del domani non v'è certezza>: alla data pattuita il debitore può non avere i soldi per adempiere all'obbligazione; o, viceversa, il creditore può avere necessità di moneta liquida prima della scadenza stabilita.


Per queste ragioni è stato inventato il factoring, ossia l'attività professionale di raccolta di crediti altrui. Il factor, in ita- liano detto cessionario, acquista crediti da imprenditori, pagandoli una somma inferiore al loro valore nominale. La dif- ferenza fra il valore dei crediti acquistati e quanto effettivamente pagato costituisce il ricavo del factor.
Generalmente la società di factoring non paga l'imprenditore cedente al momento del trasferimento del credito, ma suc- cessivamente, alla data di scadenza di questo. In questo caso, l'operazione di cessione del credito viene più precisamente definita maturity factoring. É tuttavia possibile concludere accordi che prevedono anticipazioni sulle somme dovute dal factor: in tal caso, è più corretto parlare di discount factoring.
Cedendo i crediti al factor, il cedente si libera dal rischio di dover effettuare lunghe e costose transazioni per ricuperare il credito dal debitore moroso. Di norma, tuttavia, non si libera dal rischio di insolvenza del debitore, rischio che conti- nua a ricadere sulle sue spalle: la maggior parte dei contratti di factoring prevede infatti che il credito sia ceduto pro solvendo, o anche salvo buon fine. Ciò significa che, in caso di insolvenza del debitore, il factor può chiedere al cedente la restituzione, totale o parziale a seconda degli accordi, della parte di credito che non ha potuto riscuotere. É possibile tuttavia che, dietro un più sostanzioso corrispettivo, la società di factoring accetti di assumersi tutto il rischio di insol- venza del debitore; in tal caso, la cessione è detta pro soluto.
L'imprenditore può utilizzare il factoring anche come mezzo per affidare a terzi l'intera gestione dei crediti dell'azienda: basta che ceda al factor tutti i crediti, anche quelli futuri.

Fed funds (Finanza)

Il gusto degli americani di ridurre le parole a sigle, per rendere più rapida la comunicazione, non ha risparmiato nem- meno la Banca Centrale, la Federal Reserve Bank. Vengono allora qualificati Fed (da Federal) i funds, ossia le riserve, che le banche commerciali e altre istituzioni impegnate in attività di raccolta del risparmio ed esercizio del credito sono tenute a tenere depositate presso una delle diverse filiali della Banca Centrale.
Ogni giorno, presso le diverse sedi della Federal Bank devono essere mantenute riserve in proporzione alla media dei depositi nei 14 giorni precedenti. Sulle riserve la Banca Centrale non paga interessi, le banche quindi sopportano un co- sto-opportunità tutte le volte in cui detengono riserve in eccesso: le maggiori riserve potrebbero infatti essere più util- mente impiegate in investimenti remunerativi.
Accade così che spesso le banche più grandi si trovino a fine giornata in condizioni di insufficienza di riserve, con la necessità di prendere a prestito la differenza mancante.
In tali casi, le alternative a disposizione sono due: concludere una transazione pronti contro termine, che con terminolo- gia anglosassone viene detta repurchase agreement, ovvero repo all'americana, oppure prendere a prestito i fondi neces- sari presso una banca che ha riserve in eccesso. In quest'ultimo caso, il debitore paga alla controparte creditrice un tasso di interesse, detto appunto Fed funds rate.
Di norma, il prestito ha la durata di un giorno, e quindi il tasso di interesse relativo è detto overnight; sul mercato dei Fed funds tuttavia sono ammissibili prestiti di durata più lunga, che vanno da una settimana fino a sei mesi.
Poiché il mercato dei Fed funds è molto grande, il tasso di interesse che si forma per effetto dell'incontro della domanda e dell'offerta è molto significativo. In particolare, questo tasso è il benchmark, ossia il tasso guida, del mercato moneta- rio, il mercato che riunisce tutti gli strumenti finanziari a breve termine.
Il Fed funds rate, inoltre, è generalmente più alto del repo, in media di circa 25 punti base, poiché, a differenza di quel- lo, il prestito non è garantito (nel repurchase agreement, invece, i titoli ceduti temporaneamente costituiscono garanzia per il creditore).
Il Fed funds rate al quale si fa normalmente riferimento è la media ponderata dei diversi tassi di interesse a cui hanno luogo le transazioni poste in essere in una giornata.
Per la Federal Reserve Bank questo tasso costituisce un riferimento, e per fini di politica monetaria interviene sul mer- cato aperto per influenzarne gli andamenti. Il Fed funds rate è il primo dei tassi monetari a cambiare ed è quello caratte- rizzato da più elevata volatilità.

 

Fib 30 (Finanza)

Il Fib 30 è il primo future sull'indice di Borsa italiano e il suo debutto risale al 28 novembre del 1994. Il numero 30, che lo identifica univocamente, è stato apposto per indicare che l'attività scambiata con il future è il Mib 30, ossia l'indice di Borsa che riassume i corsi delle 30 azioni più trattate (le cosiddette blue chip).
Come tutti i future, anche il Fib 30 è un contratto che viene concluso da due parti, una che vende e l'altra che acquista.


Nella fattispecie però, visto che non vi è trasferimento di proprietà né di merci né di valori mobiliari, l'impegno che i due contraenti assumono è quello di scambiarsi, a scadenza, una somma di denaro. Pagherà il venditore, se l'indice sale; viceversa, l'acquirente.
Il saldo da versare è pari alla differenza tra il valore dell'indice alla stipula del contratto e il valore assunto il giorno di scadenza, moltiplicata per 5 euro. A tanto ammonta infatti il prezzo del singolo punto dell'indice. Quindi se il Mib 30 è pari a 28mila punti, ciò significa che il valore del Fib 30 si aggira intorno ai 140mila euro (28mila*5), pari a circa 340 milioni di lire.
Per speculare con il Fib 30 non è necessario investire l'intera somma; inizialmente, è sufficiente versare, in contanti o in titoli del Tesoro, soltanto l'8% del valore del contratto, per dimostrare così di poter onorare eventuali perdite. Nell'e- sempio precedente ciò vorrebbe dire versare 11.200 euro.
L'investitore tuttavia è tenuto a dimostrare quotidianamente la propria solvibilità. Una quota pari al 8% del valore del Fib 30 dovrà pertanto risultare depositata, alla fine di ogni giornata, nel conto appositamente aperto presso un interme- diario. Pertanto se l'indice scende, e quindi con esso il future, l'acquirente dovrà reintegrare la parte "bruciata" nella giornata. Se per esempio l'indice diminuisse del 2%, e conseguentemente il valore del Fib 30 calasse a 137.200 euro, le perdite intaccherebbero il margine di garanzia per 2.800 euro ed egli dovrebbe versare ulteriori 2.576 euro per ricostitui- re la quota del 8% calcolata questa volta sul più basso valore del contratto. Viceversa, se l'indice salisse del 2%, e così il future, l'acquirente avrebbe a disposizione, immediatamente spendibili, 2.800 euro, guadagnando in una giornata oltre il 22% della somma investita.
Bisogna notare che le somme che l'investitore deve reintegrare in caso di andamento negativo dell'indice ovvero le somme a sua disposizione in caso di andamento positivo sono sempre inferiori rispetto all'effettiva perdita o guadagno. Ciò si spiega con il fatto che il margine del 8% viene quotidianamente calcolato sul nuovo valore assunto dal Mib 30. Quindi, se questo scende, inferiore è anche il margine da tenere depositato presso il conto; se sale, il margine è superio- re. In quest'ultimo caso, una quota delle somme guadagnate viene pertanto vincolata al conto per portare il margine alla nuova più elevata consistenza.
Attenzione però, è sufficiente uno scossone della Borsa, per la precisione un calo in una seduta di Borsa del 8%, perché l'investitore in poco tempo perda l'intero investimento. Con il rischio, se decide di continuare a sfidare i mercati finan- ziari per rifarsi delle perdite, di mettere a repentaglio altri risparmi. Fino a un massimo teorico pari al valore assunto dal Fib 30 nella giornata in cui disgraziatamente decise di operare con i future: nell'esempio, 140mila euro.
Il Fib 30 viene trattato in ogni momento con tre differenti scadenze con ciclo trimestrale, quindi marzo, giugno, settem- bre e dicembre. La variazione minima è di cinque punti, pertanto perdite e utili non possono essere inferiori a 25 euro.
L'ultimo giorno di contrattazione del future coincide con il terzo venerdì del mese di scadenza. Il prezzo sulla base del quale viene calcolato quotidianamente il margine da tenere sul conto è quello medio ponderato dell'ultimo 10% dei con- tratti negoziati nella giornata. L'ultimo prezzo di regolamento, quello cioè calcolato il giorno di scadenza del future, è invece fissato sul valore del Mib 30 all'apertura del mercato.
Il Fib 30 può essere negoziato a fini di speculazione, arbitraggio e copertura. Lo acquista chi si attende una crescita del- l'indice di Borsa; lo vende chi, al contrario, ne prevede il calo. Con l'acquisto o la vendita, l'investitore apre una posi- zione, rispettivamente lunga o corta, sul future. Per chiuderla, ossia per uscire dal mercato, è sufficiente che l'investitore compia un'operazione contraria sullo stesso contratto. Pertanto se ha comprato un Fib 30 con scadenza settembre 2004 è sufficiente che ne venda successivamente un altro con la stessa scadenza; il contrario dovrà fare chi ha invece aperto una posizione vendendo inizialmente il contratto.
Sull'indice Mib30, oltre al Fib30, sul mercato italiano dei derivati azionari (Idem) è negoziato anche il MiniFib, un con- tratto destinato ai piccoli investitori. Esso riproduce nella sostanza il future maggiore, con la differenza che più basso  è il moltiplicatore del contratto (un euro invece di cinque). Il Fib 30, in altre parole, vale esattamente cinque MiniFib. Tra i due contratti c'è perfetta fungibilità: ciò significa, per esempio, che una posizione aperta con l'acquisto di un Fib30 può essere chiusa con la vendita di cinque MiniFib con uguale scadenza

 

Fifo (Finanza)

Nella tecnica contabile Fifo indica un particolare metodo di valutazione delle scorte di magazzino, dette più precisa- mente rimanenze: Fifo è infatti acronimo della formula inglese first-in-first-out, traducibile in italiano come <primo en- trato, primo uscito>.
Con questa sigla, i contabili indicano quali costi sono stati presi in considerazione nella redazione del bilancio per la va- lutazione delle rimanenze di beni fungibili, ossia beni standardizzati e perfettamente sostituibili, come ad esempio le materie prime e le produzioni in serie.


Le rimanenze costituiscono infatti una voce dello stato patrimoniale e del conto economico e sono perciò idonee a in- fluenzare l'entità del risultato d'esercizio, utile o perdita che sia.
Più precisamente, se viene utilizzato il criterio di valutazione Fifo, le scorte sono valutate ai costi correnti: l'ipotesi sot- tostante è infatti che l'impresa utilizzi nei propri processi produttivi, ovvero rivenda le materie prime o i prodotti finiti immagazzinati per primi, di modo che le scorte siano costituite soltanto dalle ultime accessioni, avvenute perciò ai costi più recenti.
Se i prezzi non subiscono forti variazioni nel periodo, l'adozione di questo metodo non comporta effetti significativi sul- l'entità del risultato d'esercizio. Viceversa, se variano in misura consistente e, diciamo, aumentano, che è l'ipotesi più realistica, l'applicazione del criterio Fifo può influenzare sensibilmente il quadro contabile dell'impresa, incrementando l'utile ovvero riducendo le perdite rispettivamente al di sopra e al di sotto del loro effettivo valore.
Contabilmente infatti le rimanenze iniziali rappresentano un costo e quelle finali un ricavo. Con l'applicazione del me- todo Fifo, queste vengono valutate ai costi correnti di fine esercizio, mentre le rimanenze iniziali sono contabilizzate ai costi di fine esercizio precedente. Se l'inflazione nel periodo è stata elevata, si ha che le rimanenze finali vengono valu- tate a costi nettamente superiori rispetto a quelle iniziali.
La legge, all'articolo 2426 del Codice civile, non fissa un principio unico circa i costi che bisogna utilizzare per valutare le rimanenze di beni fungibili. Afferma soltanto che l'impresa ha facoltà di utilizzare, fra gli altri, anche il metodo Fifo, con la precisazione che se il valore così ottenuto differisce in misura apprezzabile dai costi correnti alla chiusura d'eser- cizio, la differenza deve essere indicata, per categoria di beni, nella nota integrativa.
Ciò tuttavia non significa che questo metodo possa essere impiegato in ogni caso. Un vincolo al suo utilizzo potrebbe derivare dall'articolo 2423 del Codice civile, ai sensi del quale il bilancio d'esercizio deve rappresentare in modo veritie- ro e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell'esercizio. Se l'applicazio- ne del metodo Fifo dovesse influenzare sensibilmente i risultati d'esercizio, rendendoli sostanzialmente diversi da quelli effettivi, è opportuno non utilizzarlo.

 

Floating rate note (Finanza)

Nel vocabolario finanziario, il termine inglese <float> significa l'esatto contrario di fix: se questo significa, <fermo>,
<stabile>, quello vuol dire mobile, <variabile>.
Ciò che fluttua è il rate, cioè il tasso (di interesse). Che viene pagato a chi detiene note, cioè titoli di credito, ossia pezzi di carta in cui sta scritto che l'emittente (dei titoli suddetti) deve pagare una determinata somma a chi se ne mostrerà possessore alla data indicata sui titoli stessi.
Le floating rate note (Frn), dette anche più rapidamente floater, sono quindi titoli di credito a interesse variabile. Si dif- ferenziano però dalle normali obbligazioni a reddito variabile per alcuni aspetti specifici.
In primo luogo, il credito che rappresentano è espresso in una valuta straniera rispetto alla nazionalità dell'emittente; di solito le floating rate note sono denominate in dollari.
In secondo luogo, vengono scambiate sul mercato di Londra. Ciò spiega perché il tasso di interesse con cui sono remu- nerate viene cambiato periodicamente (ogni tre o sei mesi) in funzione del Libor (London interbank offered rate, ossia il tasso di interesse sui prestiti a breve in valuta che le banche londinesi praticano tra di loro). Quando l'interesse è più alto del Libor si dice che lo spread è positivo; viceversa, è negativo.
Nonostante che il tasso di riferimento sia il Libor, cioè un saggio di interesse per i prestiti a breve, le floating rate note sono titoli di credito di medio-lungo periodo. Infatti la loro durata, cioè il tempo che intercorre tra l'emissione e il mo- mento in cui il loro possessore può richiedere il rimborso del capitale, varia di norma tra i cinque e i sette anni.
Sul mercato internazionale dei capitali, le floating rate note costituiscono l'alternativa agli eurobond (obbligazioni a tas- so fisso) e ai titoli irredimibili, titoli cioè che hanno durata infinita. O in altre parole, titoli che promettono il pagamento degli interessi per un periodo illimitato, senza restituire mai il capitale.
Come tutti i titoli a tasso variabile, anche le floating rate note ripartiscono il rischio fra emittente e possessori dei titoli: in particolare, se i tassi di interesse scendono nel periodo di durata dei titoli, gli investitori ricevono cedole di entità progressivamente inferiore, consentendo così all'emittente di avvantaggiarsi del calo dei tassi; viceversa, se questi ultimi salgono, a trarne vantaggio sono i possessori di floater e l'emittente dovrà pagare cedole più alte di quelle che avrebbe pagato se avesse emesso titoli a tasso fisso.
Per questo motivo, conviene ai risparmiatori acquistare floating rate note quando ci si attende un rialzo dei tassi; e ob- bligazioni a reddito fisso quando è più probabile una discesa dei saggi di interesse.
Le floating rate note, infine, grazie alla loro capacità di mettere l'investitore al riparo da un aumento dei tassi, pagano - nel momento in cui vengono sottoscritte - un interesse inferiore rispetto alle cedole pagate sui titoli a reddito fisso.


Fondo comune d'investimento (Finanza)

Il fondo comune d'investimento per il cittadino italiano costituisce una forma relativamente recente di investire i propri risparmi, essendo stato introdotto nell'ordinamento giuridico nazionale, per il solo investimento in titoli, con la legge n. 77 del 1983 (abrogata nel '98 dal Testo Unico della Finanza che ne ha riscritto la disciplina).
Partecipando a un fondo comune d'investimento mobiliare, il risparmiatore affida una determinata somma di denaro a società che svolgono professionalmente l'attività di intermediazione mobiliare (come viene detto tecnicamente lo scam- bio di titoli), in particolare alle cosiddette società di gestione del risparmio (Sgr).

Queste sono società per azioni con sede legale e direzione generale in Italia, autorizzate a prestare il servizio di gestione collettiva del risparmio (come nel caso dei fondi comuni) e il servizio di gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi.

 

Con l'acquisto di quote che rappresentano il valore della propria partecipazione al fondo, il risparmiatore lascia che altri, più esperti di lui, svolgano proficuamente (si spera), con i suoi soldi e nel suo esclusivo interesse, la difficile attività di acquisto e vendita di valori mobiliari.
Le somme guadagnate nell'esercizio di questa attività, tolte le spese per la gestione del fondo e le provvigioni che la so- cietà di gestione del fondo si riserva a titolo di compenso per l'attività svolta, sono ripartite fra i sottoscrittori del fondo in proporzione alla quota di partecipazione di ciascuno.
Il fondo è comune perché non è privato; molti sono cioè i risparmiatori che con i loro soldi concorrono a formarlo. É d'investimento poi perché le somme raccolte per la sua costituzione devono necessariamente essere investite (non pos- sono ad esempio essere impiegate - consumate - per l'acquisto di un bene per l'uso in comune dei sottoscrittori, né pos- sono rimanere in forma liquida, fatte salve esigenze connesse con la gestione del fondo).
Il fondo infine è d'investimento mobiliare se deve essere composto soltanto da attività finanziarie; è d'investimento im- mobiliare invece quando deve essere investito esclusivamente o prevalentemente (e comunque in misura non  inferiore ai due terzi) in beni immobili, diritti reali immobiliari e partecipazioni in società immobiliari.
Le caratteristiche del fondo - in particolare il valore delle quote di partecipazione, i criteri per la determinazione e le modalità di distribuzione dei proventi di gestione - sono tutte stabilite con apposito regolamento redatto dalla società di gestione autorizzata dalla Banca d'Italia a istituire il fondo.
Il fondo è aperto quando il sottoscrittore può chiedere in qualunque momento il rimborso della propria quota in base al valore del fondo nel giorno della richiesta; è chiuso quando il diritto al rimborso può essere esercitato soltanto a scaden- ze predeterminate. Per uscire da un fondo chiuso in momenti diversi da quelli delle scadenze previste, l'investitore do- vrà dunque vendere a terzi la propria partecipazione.
All'interno dei fondi comuni d'investimento mobiliare possono essere individuate diverse tipologie in funzione dei valo- ri mobiliari verso i quali si indirizza maggiormente l'investimento del fondo. In particolare, essi possono essere suddivi- si in cinque grandi categorie: azionari, bilanciati e obbligazionari, di liquidità e flessibili.
I fondi azionari sono quelli investiti perlopiù (almeno il 70%) in azioni, obbligazioni convertibili o altri valori mobiliari similari; tali fondi, in altre parole, sono rivolti al conseguimento di plusvalenze patrimoniali derivanti dall'aumento delle quotazioni. Sono perciò altamente rischiosi, dal momento che le somme del fondo vengono prevalentemente investite in capitale di rischio.
Opposti per concezione ai fondi azionari sono quelli obbligazionari, investiti perlopiù in titoli di Stato, obbligazioni e altri strumenti del mercato monetario. Caratteristica di questi fondi è il profilo di rischio relativamente basso; l'investi- mento  infatti  si  concentra  su  valori  mobiliari  che  garantiscono  una  remunerazione  sotto  forma  di  interessi. I fondi bilanciati sono quelli in cui l'investimento si ripartisce equamente fra titoli che rappresentano capitale di  rischio e titoli che rappresentano capitale di debito. Il loro profilo di rischio si situa a metà fra i fondi azionari e quelli obbliga- zionari. Chi investe in tali fondi, in altre parole, punta su un rendimento assicurato, ma non rinuncia a rischiare qualcosa su valori mobiliari a più elevato rischio, ma anche a più alto rendimento.
Infine, i fondi di liquidità si caratterizzano per il fatto che il portafoglio è costituito da titoli di credito con scadenza a brevissimo termine (la duration deve essere inferiore ai sei mesi), mentre quelli flessibili sono caratterizzati dall'assoluta libertà del gestore nell'investire il portafoglio nei diversi strumenti finanziari esistenti. Tali fondi, in altre parole, sono particolarmente indicati per coloro che sono intenzionati a cogliere le migliori occasioni offerte dai mercati finanziari mondiali,  senza  vincolare  il  gestore  al  rispetto  di  determinate  proporzioni  fra  un  tipo  di  investimento  e   l'altro.

 

Forward rate agreement (Finanza)


Che può fare il direttore finanziario di una società che tra un mese dovrà chiedere un prestito a tasso variabile, se vuole limitare i rischi di fluttuazione dei saggi di interesse? Può comprare un forward rate agreement (Fra).
Questo tipo di contratto ha contenuto identico al future: consente infatti alle parti di scambiare a una data futura una de- terminata quantità di beni o attività finanziarie, a un prezzo prefissato, detto prezzo forward. Pertanto, come il future, così anche il contratto forward svolge la funzione di bloccare in anticipo il prezzo di una transazione futura.
Differenza essenziale fra i due contratti è che, mentre il future è standardizzato, il forward invece può essere costruito su misura per le esigenze del cliente, in particolare in relazione alle quantità e modalità di consegna dell'attività sottostante.
Proprio per questo carattere "personale", il forward non viene negoziato in Borsa, ma viene stipulato sotto forma di spe- cifico contratto con una banca, la quale accetta di essere diretta controparte del cliente.
Oggetto di scambio del forward rate agreement è il tasso di interesse. Poiché questo alla scadenza del contratto non può essere consegnato da chi vende, l'esecuzione del forward prevede che le parti si liquidino una somma di denaro, pari alla differenza fra il tasso di interesse di mercato prevalente a una stabilita data futura e il tasso di interesse forward, molti- plicata per un determinato ammontare. A pagare sarà il venditore del forward, quando tale differenza è positiva, mentre toccherà all'acquirente, se è negativa.
In questo modo, chi per esempio sa che dovrà stipulare un mutuo, il cui tasso di interesse vari in funzione del Libor, il tasso interbancario sulla piazza di Londra, potrà limitare i rischi di un suo aumento, comprando un forward che ricalchi il mutuo da contrarre, specialmente per quanto riguarda la durata, il tasso di interesse preso a riferimento e il capitale.
Una tale operazione consente di fissare in anticipo il tasso di interesse che verrà effettivamente pagato sul prestito. Se infatti il Libor aumenta, la banca pagherà all'impresa un ammontare tanto più consistente, quanto più alto è il livello raggiunto da questo tasso; e ciò consentirà all'impresa di diminuire il più elevato servizio del debito del mutuo. Il con- trario si verificherà se il Libor dovesse scendere: l'impresa pagherà alla banca la differenza fra tasso effettivamente pa- gato sul mutuo e più elevato tasso forward, traendola dai risparmi in conto interesse che la discesa del Libor le ha per- messo di conseguire. In ogni caso, indipendentemente dal livello che raggiungerà il Libor, l'impresa pagherà una som- ma fissa a titolo di interesse sul prestito. Con la stipulazione di forward rate agreement, in altre parole, l'impresa riesce a trasformare un prestito a tasso variabile in uno a reddito fisso, eliminando così i rischi di un aumento dei tassi di interes- se.

 

Franchising (Finanza)

Il primo obiettivo di un imprenditore è trovare la strategia idonea a portare la propria iniziativa al successo. Il secondo obiettivo, una volta raggiunto il primo, è moltiplicare quante più volte possibile il successo della propria iniziativa.
Una via per realizzare questo secondo obiettivo consiste nell'espandersi, ossia nell'aumentare le capacità produttive del- l'azienda, mediante l'acquisto o l'affitto di nuovi impianti, se si tratta di iniziativa industriale, ovvero nell'accrescere i punti vendita, se si tratta di attività commerciale o di prestazione di servizi.
Per varie ragioni, tuttavia, l'imprenditore può considerare sconveniente la crescita interna, realizzata cioè utilizzando risorse imprenditoriali proprie. D'altra parte, rinunciare del tutto a riprodurre il successo ottenuto una volta è soluzione contraria alla natura dell'imprenditore, amante del rischio, soprattutto di quello calcolato e giustamente remunerato. Non gli rimane allora che intraprendere la strada del franchising.
In questo modo, l'imprenditore moltiplica il successo della propria iniziativa senza investire nuovi capitali e senza alle- arsi con nuovi indesiderati soci. Mette semplicemente a disposizione di altri imprenditori il marchio dei suoi prodotti, l'insegna sotto la quale li commercializza, o il brevetto che contiene i segreti per la loro fabbricazione. Egli è il franchi- sor, coloro che invece utilizzano i suoi segni distintivi sono i franchisee. Questi ultimi sono imprenditori indipendenti che assumono il rischio dell'iniziativa autonomamente, e che trovano conveniente svolgere la propria attività sfruttando la notorietà dei segni distintivi altrui.
Per questa ragione sono disposti a pagare una somma al franchisor. Di solito una parte, detta entry fee, cioè commissio- ne d'entrata è fissa, un'altra invece è legata alle vendite del franchisee (si tratta delle cosiddette royalties).
Il franchising è industriale quando il franchisee fabbrica prodotti usando i brevetti e le informazioni segrete concessi dal franchisor e li commercializza con il relativo marchio (si pensi per esempio alla Coca-Cola); è di distribuzione, quando il franchisee vende al dettaglio sotto l'insegna del franchisor (si pensi ai negozi Benetton); è di servizi, infine, quando fornisce  servizi  secondo  le  modalità  e  sotto  l'insegna  definite  dal  franchisor  (si  pensi  a  certi  parrucchieri).

 

Frattile (Economia)


Frattile è termine del vocabolario statistico e indica genericamente quell'osservazione che in un'ipotetica scala verticale si pone a un livello tale da avere al disotto un numero di osservazioni che rappresentino una determinata porzione sul totale ("fratto") e al di sopra un numero di osservazioni che rappresentino la porzione complementare. Suo sinonimo è quantile.
Nonostante l'oscurità delle locuzioni e l'astrattezza della definizione, il concetto di frattile è relativamente semplice.
Supponiamo per esempio che il Pil si accumuli durante l'anno per un dodicesimo ogni mese: febbraio sarà allora il mese in cui viene realizzato il primo sestile, marzo il mese in cui verrà raggiunto il primo quartile, aprile il primo terzile e co- sì via. A fine febbraio infatti il Pil avrà raggiunto un sesto del valore totale annuo mentre nei dieci mesi successivi ver- ranno realizzati gli altri cinque sesti; a marzo avrà raggiunto un quarto del valore totale e negli altri nove mesi verranno realizzati i restanti tre quarti, e così via.
In questo esempio, il primo quartile è rappresentato dai primi tre mesi dell'anno, il secondo dai mesi che vanno da aprile a giugno, e così di seguito.
<Frattile> è termine generico che assume di volta in volta nome specifico a seconda della porzione sul totale presa in considerazione. Un frattile molto noto, oltre a quelli già citati è il decile: esso consente di individuare le osservazioni in corrispondenza delle quali la variabile in esame supera ogni volta un decimo o suo multiplo del valore totale.
Il più noto dei frattali, tuttavia, è la mediana: essa rappresenta quell'osservazione in relazione alla quale la variabile in considerazione supera per la prima volta il 50% del suo valore totale. Nell'esempio sul Pil, la mediana coincide con l'i- nizio di luglio. É in questo periodo infatti che il Pil supera per la prima volta il 50% del suo valore annuo. La mediana coincide pertanto con il terzo sestile e con il secondo quartile.
L'uso dei frattili consente di avere un'immagine della distribuzione di una determinata variabile. Nell'esempio in consi- derazione la distribuzione è uniforme, perché si è ipotizzato che in ciascun mese il Pil cresca di un dodicesimo; più inte- ressante è fare dei confronti fra un anno e l'altro oppure fra periodi differenti. Se si mostrasse che il primo quartile negli anni 70 veniva raggiunto a marzo e negli anni 90 ad aprile, che cosa significherebbe questo dato sotto il profilo econo- mico?
Le analisi fondate sui frattili non sono utili soltanto nell'ambito della macroeconomia, come indicato nell'esempio, ma possono essere impiegate profittevolmente anche dalle imprese per l'analisi statistica dei costi, dei ricavi e di ogni altra variabile rilevante. Grazie alla loro flessibilità tuttavia si prestano facilmente ai più svariati utilizzi nei più diversi ambi- ti.

 

Fusione (Finanza)

Cosa succede quando una persona benestante passa a miglior vita? Sotto il profilo patrimoniale, lascia un'eredità. La stessa cosa accade nel caso di fusione societaria. Una o più società si estinguono, e i loro beni e i loro debiti vengono trasferiti a quella fra loro che è destinata a sopravvivere (fusione per incorporazione), ovvero a quella che viene apposi- tamente costituita (fusione in senso stretto). La differenza è che la fusione è un atto voluto, il decesso, perlopiù, un e- vento temuto.
Possono partecipare a un processo di fusione non soltanto società dello stesso tipo (fusione omogenea), per esempio so- cietà per azioni, ma anche fra società di tipo diverso (fusione eterogenea), per esempio fra una società in nome colletti- vo e una per azioni. Con la riforma del diritto societario del 2003, è stata poi consentita anche la fusione fra società ed enti di tipo diverso (per esempio, consorzi e società cooperative), ancorché con alcuni limiti.
La fusione è un procedimento complesso che si divide in quattro fasi. Nella prima, che è anche la più lunga, gli ammini- stratori delle società che intendono partecipare alla fusione devono redigere una serie di documenti: in primo luogo, il progetto di fusione, da cui devono risultare le condizioni e le modalità secondo cui avverrà la fusione, fra cui, attesissi- mo dai soci, il rapporto di cambio, ossia il numero di azioni della nuova o più grande società che spettano a ogni socio in funzione delle vecchie azioni possedute.
In secondo luogo, deve redigersi un bilancio d'esercizio infrannuale con cui viene messa a nudo la situazione patrimo- niale di ciascuna società. Ciò viene fatto soprattutto nell'interesse dei creditori sociali perché siano in grado di valutare la  solidità  della  società  risultante  dalla  fusione  nella  quale  confluiranno  tutti  i  debiti  delle  società  partecipanti. In terzo luogo, gli amministratori devono stilare una relazione che commenti il progetto di fusione e soprattutto dia ra- gione del rapporto di cambio, la cui determinazione è lasciata alla discrezionalità degli amministratori.
La legge infine prevede che sulla congruità del rapporto di cambio sia stilata per ciascuna società una relazione da parte di uno o più esperti (scelti fra le società di revisione per le società quotate), designati dal tribunale del luogo ove ha sede la società.


I documenti, accompagnati dai bilanci degli ultimi tre anni, devono rimanere depositati presso la sede di ciascuna socie- tà nei trenta giorni che precedono l'assemblea. É infatti quest'organo sociale che deve deliberare in ultima istanza se par- tecipare o meno alla fusione, nei modi e alle condizioni indicate nel progetto di fusione.
Se le assemblee di tutte le società partecipanti danno voto favorevole, la fusione ha via libera. Ciò tuttavia non significa che essa possa essere portata a termine il giorno successivo. É necessario infatti che trascorrano due mesi dall'iscrizione nel registro delle imprese e che nel frattempo nessun creditore sociale abbia proposto opposizione; in quest'ultimo caso, la fusione può avere luogo solo qualora siano state soddisfatte le ragioni dei creditori che abbiano espresso dissenso.
Decorso il termine, la fusione può aver luogo, per atto pubblico, redatto cioè da un notaio; l'atto deve essere depositato per l'iscrizione presso i registri delle imprese nelle cui circoscrizioni hanno sede le società partecipanti.
L'ultimo deposito deve essere eseguito nel luogo in cui ha sede la società risultante dalla fusione. Da quella iscrizione il patrimonio delle società partecipanti viene trasferito alla nuova società risultante dalla fusione.

 

Future (Finanza)

Di "futuro" in questi contratti c'è solo la consegna: il prezzo e le quantità sono stabilite al momento della stipula. Posso- no essere classificati in due categorie: commodity future e financial future. I primi hanno per oggetto l'acquisto o la vendita di beni reali, come cereali, cacao, e in genere le materie prime; i financial future, invece, riguardano valori mo- biliari (stock future), tassi di interesse (interest rate future), indici borsistici (stock index future) o valuta (currency futu- re).
Con simili contratti una parte acquista o vende a un prezzo prestabilito attività reali o finanziarie in una determinata quantità, con consegna a una data futura. Per questo i future possono essere considerati speciali contratti a termine, per i quali il termine coincide con la data futura stabilita nel contratto.
I future sono scambiati nei mercati regolamentati, e i loro prezzi sono buoni indicatori delle prospettive sui mercati per consegna immediata. In particolare, questi tipi di contratti sono standardizzati, o uniformi, nel senso che le loro caratte- ristiche sono univocamente definite dalle autorità di mercato. Pertanto, un investitore non può determinare autonoma- mente le caratteristiche del contratto (tipo di attività, quantità, prezzo e data di consegna), ma deve scegliere fra i con- tratti trattati sul mercato. Non sempre questi potranno soddisfare perfettamente le esigenze dell'investitore; questi dovrà quindi selezionare il contratto più idoneo a soddisfarle.
Il prezzo di acquisto o di vendita dei beni o dei titoli trasferiti con il future, detto forward price, viene stabilito sulla base del prezzo di mercato delle attività oggetto del contratto nel giorno in cui viene concluso il contratto, detto spot price, e di altri importanti fattori fra i quali, in particolare, la struttura dei tassi di interesse e le aspettative di inflazione. Il for- ward price, in sostanza, è il prezzo che le controparti considerano più probabile alla data di consegna, tenute nel debito conto tutte le informazioni in loro possesso.
Spesso il forward price è superiore allo spot price, cosicché i future possono essere anche considerati un tipo particolare di contratti a premio, visto che il compratore paga al venditore un margine positivo. Rispetto ai contratti a premio, tutta- via, il future si caratterizza per il fatto che il compratore si impegna ad acquistare l'attività sottostante; viceversa, nei contratti a premio, costui acquisisce semplicemente un diritto ad acquistare (oppure a vendere, qualora si tratti di con- tratti put).
La logica sottostante un investimento in future è molto semplice. Acquista questo tipo di contratti chi prevede una cre- scita del prezzo dell'attività scambiata; viceversa, lo vende chi si attende una caduta del prezzo. In questo modo, il pri- mo si tutela contro rialzi dei prezzi, mentre il secondo da loro cadute.
Chiaramente otterrà un risultato positivo soltanto chi avrà previsto correttamente l'andamento dei prezzi. Se questi scendono, l'acquirente del future non avrà fatto un buon affare stipulando questo contratto; viceversa, se salgono, il cat- tivo affare verrà fatto dal venditore, il quale dovrà vendere l'attività sottostante a un prezzo inferiore a quello prevalente sul mercato a pronti.
Gli operatori di mercato che fanno maggiormente ricorso ai future sono coloro che intendono minimizzare i rischi deri- vanti da inattese fluttuazioni nei prezzi e gli speculatori, che invece negoziano febbrilmente questi tipi di contratto nella speranza che ampie fluttuazioni dei prezzi possano tradursi per loro in cospicui profitti.
Sotto questo profilo, bisogna ricordare che il future rappresenta uno strumento ad elevata leva finanziaria. Investendo una somma relativamente ridotta ci si impegna ad acquistare o vendere attività del valore molte volte superiore all'inve- stimento. Le perdite e i guadagni non sono commisurati alla somma inizialmente investita, ma al valore delle attività trattate. I future costituiscono quindi strumenti altamente rischiosi: se le previsioni sono errate, le perdite possono supe- rare anche di molto l'investimento iniziale. Sono pertanto strumenti molto sofisticati che possono essere utilizzati profi- cuamente solo dagli specialisti.
In Italia, attualmente possono essere contrattati quattro diversi tipi di futures sugli indici di Borsa e futures su 19 titoli.


Gap del prodotto (Economia)

Il gap del prodotto (interno lordo) misura la differenza fra quanto una nazione è riuscita a produrre effettivamente in un anno e quanto avrebbe potuto produrre se avesse utilizzato pienamente tutti i fattori produttivi.
Il gap del Pil, nonostante la prima impressione contraria, oltre ad assumere valori negativi quando la produzione reale è inferiore a quella potenziale, può essere anche positivo. Ciò si verifica quando la realtà supera se stessa, ossia quando i fattori produttivi operano più del normale: macchinari che non vengono mai arrestati e lavoratori che prolungano le ore di straordinario fino allo stremo delle forze. In tali circostanze, l'economia produce più di quanto è ragionevole. Si è ai limiti estremi della capacità produttiva: ogni ulteriore richiesta da parte della domanda non può più essere soddisfatta. I prezzi iniziano a salire sempre più velocemente, gli interessi pure (d'altra parte sono prezzi anch'essi, ancorché del dena- ro), il ciclo economico è giunto al suo punto di massimo, la crescita è destinata a tramutarsi in recessione.
La corsa della crescita, giunti a questo punto, è stata tirata troppo a lungo ed è necessario recuperare energie per prose- guire sulla strada dello sviluppo e del benessere. L'aumento dei prezzi arresta la sete della domanda e rallenta, di conse- guenza, la produzione. Il gap all'inizio si restringe, poi oltrepassa il Rubicone (la linea di trend, quella su cui viaggia il prodotto potenziale), quindi inizia a inabissarsi. I lavoratori perdono il posto, gli stabilimenti chiudono, la domanda, non sostenuta dal reddito creato dalla produzione, si rattrappisce.
Il gap si allarga, questa volta però in senso negativo: una porzione sempre più ampia di capacità produttiva rimane inuti- lizzata. Di questo passo l'economia raggiunge il fondo: i prezzi iniziano a calare o, se non calano, crescono molto len- tamente, così da rendere vieppiù agevole l'acquisto di nuovi prodotti; la domanda, interna o estera non importa, rico- mincia a vivacizzarsi. La corsa allora riprende (non a caso questa fase si chiama ripresa), il gap riattraversa il Rubicone e l'economia fa boom.

Global bond (Finanza)

In finanza, a differenza che nei settori industriali, la distanza geografica non costituisce un ostacolo agli scambi, né esi- stono impedimenti alla circolazione delle informazioni, poiché il sistema viaggia su supporto telematico, cosicché la globalizzazione dei mercati finanziari non solo è possibile, ma anche auspicabile.
Prodotto per antonomasia di questo processo di globalizzazione finanziaria è il global bond, o più in generale la global issue, ossia l'emissione in più Paesi di titoli denominati in una determinata valuta.
Ciò che caratterizza il global bond, ossia il collocamento di obbligazioni su scala mondiale, è il fatto che la maggior parte dei titoli, quindi senz'altro più del 50% del loro controvalore totale, siano offerti all'estero. In altre parole, un'emis- sione è global quando titoli dalle identiche caratteristiche vengono collocati indifferentemente sia all'interno del Paese nella cui valuta è denominato il titolo, che all'estero, con prevalenza delle quantità sottoscritte da soggetti stranieri.
L'aggettivo global pertanto non viene utilizzato per qualificare un particolare valore mobiliare, bensì fa riferimento alla tecnica di emissione: un prestito global può indifferentemente riguardare sia bond, ossia obbligazioni che pagano un in- teresse fisso, che floating rate notes, ossia titoli a tasso variabile.
Questa tecnica di collocamento, utilizzata per la prima volta dalla Banca Mondiale nel 1989 e sviluppatasi in particolar modo a partire dal 1993, ha in sé le potenzialità per rivoluzionare completamente i mercati finanziari: i titoli emessi con un collocamento global infatti non vengono trattati su un solo mercato, che per quanto grande, come potrebbe essere quello degli Stati Uniti, è sempre uno e quindi aperto soltanto in determinati orari; ma vengono negoziati su più mercati, in continenti diversi, e quindi sostanzialmente 24 ore su 24.
In un'ottica futura, pertanto, i mercati nazionali non avrebbero più ragione di essere, essendo conveniente per tutti, im- prese e investitori, trattare soltanto titoli scambiati sul mercato globale: le prime riuscirebbero a reperire più  facilmente e a migliori condizioni cospicue somme di denaro; i secondi beneficerebbero della conseguente maggiore liquidità dei titoli acquistati.
Gli ostacoli allo sviluppo delle global issue tuttavia sono molti. Il principale risiede nella frammentazione delle regola- mentazioni nazionali in materia finanziaria, ancora troppo diverse per consentire un largo sviluppo di questa tecnica di collocamento.

 

Global coordinator (Finanza)

In un'operazione di raccolta di fondi realizzata attraverso un'emissione di eurobbligazioni (v. <Euromercato>), viene definito global coordinator il principale interlocutore dell'emittente, di solito uno Stato. La figura del global coordinator, infatti, è richiesta soprattutto quando l'emissione raggiunge somme tanto ingenti da dover essere collocata su mercati


continentali differenti e denominata in valute diverse: tali casi, ovviamente, ricorrono più frequentemente quando è uno Stato a richiedere fondi al mercato.
In simili circostanze, che diventano sempre più frequenti quanto più raffinate si fanno le tecniche finanziarie, non è suf- ficiente la sola figura del lead-manager, ossia la banca d'affari responsabile del consorzio di banche e altre istituzioni finanziarie impegnate nel collocamento di un prestito obbligazionario; sono invece necessarie più lead-manager, magari ciascuna incaricata del buon fine della singola fetta (tranche) del prestito.
Responsabile dell'operato delle lead, e in taluni casi anche responsabile del conferimento di tale incarico, è il global co- ordinator, che risponde direttamente all'emittente. Per potere assumere un ruolo tanto importante, il global coordinator deve essere una grande banca d'affari molto conosciuta nel mondo finanziario.
A seconda delle risorse professionali di cui quest'ultimo dispone, la funzione del global coordinator può essere più o meno ampia. Per esempio, può estendersi fino alla definizione di tutte le caratteristiche tecniche del titolo da collocare, principalmente la valuta di denominazione, il prezzo, la cedola e la natura del tasso di interesse (fisso o variabile), ma può anche essere limitata alla funzione di semplice coordinamento e armonizzazione dell'azione delle diverse lead manager nominate dallo stesso emittente.
E se il collocamento non ha successo, quali sono le conseguenze per il global coordinator? Sono patrimoniali, se il col- locamento è a fermo - il caso tuttavia è raro - ossia con impegno di sottoscrivere in prima battuta tutti i titoli emessi e quindi di venderli sul mercato, oppure se è a garanzia, cioè con l'obbligazione di sottoscrivere tutti i titoli non acquistati dal mercato. E di reputazione, perché il fallimento di operazioni tanto importanti non passa certo inosservato all'interno del sempre attento mercato finanziario internazionale. Infine, nei casi peggiori, non è da escludere anche la possibilità di azioni giudiziarie da parte dell'emittente.

Golden share (Finanza)

La golden share per chi ne è titolare è veramente una <azione d'oro>, come recita la sua traduzione letterale in italiano. É infatti quella azione che assegna al proprietario - lo Stato o suo rappresentante - diritti più ampi di quelli che spettano normalmente ai possessori di azioni dello stesso tipo. La golden share non configura pertanto una nuova categoria di azioni.
Tali maggiori diritti, che consistono nell'esercizio di veri e propri poteri, vengono conferiti mediante inserimento di ap- posita clausola nello statuto sociale, approvata con deliberazione dell'assemblea straordinaria. La golden share è  quindi il meccanismo - introdotto nell'ordinamento giuridico italiano con il decreto sulle privatizzazioni del 1994 e modificato da ultimo con la legge Finanziaria 2004 - mediante il quale lo Stato riserva a sé il potere di partecipare efficacemente al controllo di una società anche dopo la cessione ai privati della maggioranza delle sue azioni. Grazie a questo strumento giuridico, in altre parole, lo Stato garantisce a sé il potere di incidere sensibilmente sulla gestione, anche dopo aver per- so il controllo della proprietà.
La golden share, tuttavia, non opera indefinitamente, anche se ha una durata minima fissata per legge: la clausola statu- taria in cui trova espressione non può essere modificata dai nuovi proprietari della società privatizzata prima che siano trascorsi tre anni dalla vendita.
Per alcune società statali che offrono un pubblico servizio, principalmente quelle operanti nel settore della difesa, dei trasporti e delle telecomunicazioni, individuate con apposito atto del presidente del Consiglio, la clausola della golden share deve poi essere prevista obbligatoriamente prima della perdita del controllo della proprietà da parte dello Stato.
Fra i poteri che con essa possono essere attribuiti, vi è, in primo luogo, il potere del ministro dell'Economia e delle Fi- nanze di opporsi, entro dieci giorni da quando ne riceve comunicazione, all'acquisizione di partecipazioni rilevanti (tali cioè da rappresentare almeno il 5% del capitale con diritto di voto nelle assemblee ordinarie, o la percentuale minore fissata dal ministro stesso con apposito decreto), qualora vi sia il rischio che l'operazione rechi pregiudizio agli interessi vitali dello Stato. In caso di esercizio del potere di opposizione, l'acquirente non può esercitare i diritti di voto connessi alle azioni che rappresentano la partecipazione rilevante e dovrà cedere le stesse azioni entro un anno. Il potere di oppo- sizione può essere esercitato, sempre nei limiti dei dieci giorni dal giorno della comunicazione e con la stessa motiva- zione (pregiudizio agli interessi vitali dello Stato), anche contro la conclusione di patti o accordi parasociali in cui vi sia rappresentata una partecipazione rilevante. In caso di emanazione del provvedimento di opposizione, gli accordi sono inefficaci. Qualora dal comportamento in assemblea dei soci sindacali si desuma il mantenimento degli impegni assunti con l'adesione ai patti, le delibere assunte con il voto determinante dei soci stessi sono impugnabili.
La golden share può poi attribuire il potere di veto all'adozione di alcune importanti deliberazioni che riguardano la vita sociale, per esempio, lo scioglimento della società, il cambiamento dell'oggetto sociale, il trasferimento della sede all'e- stero. Anche l'esercizio di questo potere è subordinato alla rilevazione da parte del ministro dell'Economia e delle Fi- nanze di un rischio concreto di pregiudizio agli interessi vitali dello Stato. Infine, la golden share può riservare allo Sta- to il potere di nomina di un amministratore senza diritto di voto.


Green shoe (Finanza)

Green shoe all'origine era semplicemente la denominazione di una società statunitense produttrice di <scarpe verdi>.
Essa però ebbe la ventura di essere la prima a lanciare una sottoscrizione pubblica "con scorta" di titoli. L'obiettivo era di mantenere quanto più possibile stabile il corso dei titoli emessi anche dopo la chiusura dell'offerta.
Da allora, nei mercati finanziari green shoe è andato via via perdendo ogni riferimento alla società che per la prima vol- ta aveva adoperato l'espediente della riserva di titoli, acquisendo dignità di nome proprio.
Attualmente con green shoe viene indicata proprio la riserva di titoli, di solito azioni, che il sindacato di banche incari- cato del collocamento tiene a disposizione nel caso in cui la domanda ecceda in misura rilevante l'offerta pubblica di vendita o sottoscrizione.
In tal caso, per evitare che il prezzo dei titoli oscilli violentemente nelle prime settimane successive all'offerta (evento sgradito sia all'emittente che ai sottoscrittori), il sindacato può decidere di immettere sul mercato i titoli presenti nella riserva.
Generalmente l'utilizzo della green shoe avviene nelle prime due settimane successive la chiusura dell'offerta e in ogni caso non oltre i 30 giorni.
La dimensione della green shoe varia in funzione dei gradi di flessibilità che si vogliono mantenere sull'operazione. Una green shoe ridotta lascia poco spazio di manovra al sindacato di collocamento, aumentando il rischio volatilità. Per con- tro, una abbondante green shoe consente di attutire anche forti tensioni sul titolo. Di norma, la green shoe si colloca al- l'interno dell'intervallo 1%-10% rispetto al valore globale dell'offerta.

Hedge funds (Finanza)

Secondo un'opinione molto diffusa, gli hedge funds costituiscono la forma di investimento collettivo più rischiosa, per- ché adottano strategie non tradizionali, come per esempio l'utilizzo di strumenti derivati (futures e option), la vendita allo scoperto (cioè senza possedere i titoli venduti), il leverage (ossia l'impiego di risorse prese a prestito) e così via. In realtà, soltanto una minima parte degli hedge funds persegue strategie di investimento a elevatissimo profilo di rischio, mentre la maggior parte di loro persegue strategie opposte, volte cioè alla riduzione del rischio e alla realizzazione di un profitto costante. D'altronde, il loro stesso nome denota la loro più intima natura, che dovrebbe essere quella di proteg- gersi (hedge significa copertura) contro il rischio.
Questa falsa opinione, tuttavia, non è priva di ragioni apparentemente plausibili: la principale mette in relazione il fatto che gli hedge funds siano accessibili soltanto ai risparmiatori più facoltosi (l'investimento minimo può variare tra i 200mila e i 20 milioni di dollari) con la supposizione che i rischi connessi alle loro strategie di investimento siano molto alti. Ma la vera ragione per cui le leggi prevedono soglie minime di partecipazione molto elevate sta nel fatto che si trat- ta di fondi non regolamentati e chiusi: ciò significa che i partecipanti non hanno specifici diritti di informazione circa le operazioni poste in essere dai gestori e che non possono chiedere il rimborso della quota prima che sia trascorso un cer- to numero di anni dopo l'iscrizione. Due aspetti, questi, che di per sé rendono gli hedge funds adatti soltanto ai rispar- miatori facoltosi, indipendentemente dal grado di rischio connesso alla strategia di investimento perseguita.
L'Associazione degli hedge funds distingue 14 diverse strategie di investimento, ordinandole in cinque diverse classi di rischio: molto alto, alto, moderato, basso, variabile. Le strategie in assoluto più rischiose, ossia quelle che offrono in al- cuni anni rendimenti altissimi e in altri rendimenti anche profondamente negativi, sono perseguite dai fondi specializza- ti nell'investimento in Paesi emergenti (Emerging Markets), nelle vendite allo scoperto (Short Selling) e dai fondi co- siddetti Macro, i quali fondano le proprie decisioni di investimento sugli effetti che le scelte di politica economica adot- tate di volta in volta dai diversi Stati possono avere sui mercati finanziari.
Meno rischiosi, ma caratterizzati comunque da un'elevata volatilità dei rendimenti, sono gli hedge funds Aggressive Growth che investono principalmente in società di piccole dimensioni ad alto potenziale di sviluppo con rapporti prez- zo/utili elevatissimi (e quindi poco o affatto redditizie al momento dell'investimento) e i fondi Market Timing, che ba- sano le proprie decisioni di acquisto o di vendita sulla percezione del gestore che sia il momento giusto.
Sono caratterizzati da una moderata volatilità di rendimento i fondi Distressed Securities che investono in titoli di socie- tà in ristrutturazione o vicino al fallimento; i fondi dei fondi (Fund of Funds), la cui attività consiste nell'acquisire quote in altri hedge funds o organismi di investimento collettivo; i fondi Special Situations che investono in titoli di società interessate da operazioni di straordinaria amministrazione (fusioni e acquisizioni ostili); e i fondi Value che investono in titoli ritenuti ingiustificatamente sottovalutati dal mercato. É infine basso il profilo di rischio degli hedge funds Income, che investono soprattutto in titoli di debito, e dei Market Neutral-Arbitrage, i quali cercano di trarre vantaggio dalle i- nefficienze di mercato che determinano, per esempio, discrepanze di prezzo su uno stesso titolo in mercati geografici differenti.


Hedging (Finanza)

Hedge nel linguaggio comune inglese significa <siepe>. Funzione primaria della siepe è recintare, delimitare un'area.
La siepe nasconde e ripara la zona che cinge. Queste due funzioni che la siepe svolge rispetto al giardino, l'hedging as- solve con riguardo al rischio di fluttuazione dei prezzi. Lo limita e consente a chi esegue operazioni di hedging di ripa- rarvisi. Hedging è infatti l'attività che copre dal rischio di variazioni consistenti dei prezzi delle merci, delle attività fi- nanziarie, delle valute e dei tassi di interesse.
L'esempio più banale di hedging è l'acquisto di una casa da parte di chi teme un'improvvisa recrudescenza del tasso d'in- flazione. Acquistando l'immobile, l'investitore difende il valore reale dei propri risparmi, ossia il loro potere d'acquisto, dall'aggressione di un'impennata dei prezzi.
Un esempio meno banale di hedging interessa chi compra e rivende uno stesso bene. Supponiamo per esempio che u- n'impresa italiana acquisti dollari al tasso cambio di 1,18 euro per comprare e rivendere materie prime sul mercato ame- ricano. Supponiamo inoltre che il suo ufficio finanziario preveda che l'euro si rivaluti sulla valuta statunitense prima che le materie prime possano essere rivendute.
In queste circostanze, l'impresa può trovare conveniente stipulare un contratto a termine, con scadenza nel periodo in cui essa dovrà cambiare in euro il ricavato della vendita delle materie prime. In base a tale contratto, l'impresa dovrebbe per esempio assicurarsi la possibilità di vendere dollari a un tasso di cambio più basso, per esempio a 1,16 dollari per euro.
Se al momento di cambiare il ricavato in euro, l'euro si fosse effettivamente apprezzato, e valesse 1,22 dollari, l'impresa, grazie alla stipula del contratto a termine, avrebbe la possibilità di acquistare dollari a questo tasso sul mercato a pronti per rivenderli a 1,16, guadagnando così su ogni dollaro venduto per contratto sei centesimi di euro. Le perdite sul cam- bio accumulate con l'operazione commerciale verrebbero così più che compensate. Da un lato, l'impresa avrebbe infatti acquistato 1,18 dollari per euro per poi cambiarli dopo la vendita dei prodotti a 1,22, perdendo così quattro centesimi su ogni dollaro di fatturato; per altro verso, però, riuscirebbe a guadagnare grazie al contratto a termine sei centesimi per ogni dollaro così negoziato.
É chiaro che non necessariamente la quantità di dollari cambiati in euro dopo la vendita delle materie prime coincide con la quantità di dollari venduti in base al contratto a termine. La coincidenza dipenderà in particolare dal grado di co- pertura deciso dall'ufficio finanziario dell'impresa. Se esso avesse fatto bene i calcoli e avesse inteso coprirsi totalmente dal rischio di cambio, l'operazione di hedging frutterebbe all'impresa un utile di due centesimi per ogni dollaro di fattu- rato.
Casi come questi, tuttavia, sono molto rari nella realtà: in primo luogo, perché è difficile stabilire quale sia l'importo to- tale da coprire dal rischio di cambio. Nell'esempio, l'ufficio finanziario avrebbe dovuto prevedere con precisione l'esatto ammontare del fatturato realizzato con la rivendita delle materie prime: un calcolo tutt'altro che facile.
Un'operazione di hedging come quella indicata nell'esempio, inoltre, non è utile soltanto in caso di rivalutazione dell'eu- ro, ma funzionerebbe anche se si verificasse una svalutazione della nostra moneta. In casi siffatti, la copertura operereb- be in senso contrario: maggiori utili verrebbero conseguiti dall'impresa cambiando sul mercato a pronti i risultati dell'o- perazione commerciale, mentre perdite verrebbero subite a causa dell'operazione di hedging. Se quest'ultima fosse ese- guita perfettamente, l'impresa conseguirebbe comunque l'obiettivo di completare l'intera operazione commerciale con un tasso di cambio euro/dollaro fisso a 1,18.
Ragionamenti analoghi a quello svolto nell'esempio possono essere applicati alla variazione di prezzo di qualunque altra attività, reale o finanziaria che sia. Non cambierebbe in ogni caso la funzione delle operazioni di hedging, che rimane quella di "sterilizzare" le fluttuazioni dei prezzi.

 

In (at, out) of the money (Finanza)

La locuzione inglese in the money appartiene al lessico finanziario. Essa qualifica l'opzione, intesa come contratto di Borsa, quando è conveniente per il possessore esercitare il diritto connesso. Non esiste una traduzione letterale della formula in italiano; il suo significato, tuttavia, non si discosta molto dall'espressione <in attivo> o <in nero>.
Money in inglese vuol dire soldi: quando essi sono in, è buon segno; viceversa, se sono out, significa che le cose stanno volgendo al peggio. Out of the money è infatti l'opzione che non conviene esercitare. In tale circostanza, è meglio sop- portare la perdita del premio pagato per acquistare l'opzione, piuttosto che esercitarne il diritto connesso.
Infine, at the money è l'opzione, quando è indifferente per il possessore esercitare o meno il diritto inerente. In ogni ca- so, le perdite subite uguaglieranno il prezzo del premio, rendendo nullo il saldo dell'operazione di acquisto dell'opzione.
A seconda che l'opzione sia call o put, differenti sono le circostanze che la rendono in the money o out of the money.


Identiche, viceversa, sono quelle che la rendono at the money.
In caso di call, ossia di opzione che dà diritto all'acquisto, entro o a una determinata data, di una certa attività (titoli, merci, valute o tassi di interesse), l'opzione è in the money se il prezzo strike, cioè il prezzo contrattuale d'acquisto, è inferiore a quello spot, cioè quello prevalente sul mercato. In tal caso, per il possessore della call è conveniente compra- re l'attività al prezzo strike per poi rivenderla sul mercato al superiore prezzo spot.
Se l'opzione invece è put, ossia dà diritto a vendere una determinata attività, allora è in the money nella circostanza ver- sa, ossia quando il prezzo di esercizio, strike price, è superiore a quello di mercato. In tal caso, la convenienza sta nel fatto che il possessore dell'opzione può acquistare l'attività sul mercato a un prezzo inferiore rispetto a quello al quale può venderla in base al contratto.
L'opzione in the money non comporta necessariamente un guadagno: può essere esercitata semplicemente al fine di contenere le perdite. Ciò accade quando la differenza fra prezzo di esercizio (strike) e prezzo di mercato (spot) è inferio- re in termini assoluti al premio pagato per l'acquisto dell'opzione stessa.

 

Sia la call che la put, infine, sono at the money quando lo strike price eguaglia lo spot price.

Insider trading (Finanza)

<Inside> in inglese significa dentro (anche nel senso <in prigione>); insider è colui che sta dentro (ma non in prigione).
Dentro dove? O all'interno di un'organizzazione, spesso un'azienda - ma anche un'autorità di controllo, un'istituzione, un ministero - oppure addentro alle segrete cose.
Il vocabolario finanziario fonde questi due significati, per cui insider è colui che, in virtù della posizione occupata all'in- terno di un'organizzazione, è a conoscenza di informazioni privilegiate. Trading è una parola inglese che denota l'attivi- tà di acquisto e di vendita. Insider trading è dunque l'acquisto o la vendita di titoli da parte di chi possiede informazioni privilegiate, ottenute in virtù della propria posizione all'interno di un'organizzazione, o per altre vie (ad esempio dalla confidenza di un amico che occupa una tale posizione). L'insider, grazie all'informazione riservata, nota solo a lui e a pochi altri, è in condizione di acquistare titoli prima che la notizia diffusa tra il pubblico provochi l'aumento del loro prezzo. Analogamente, quando l'informazione è tale da provocare con la sua diffusione un netto ribasso dei prezzi, l'in- sider può trarne vantaggio, vendendo i titoli eventualmente in suo possesso prima che il ribasso si verifichi.
Poiché una simile condotta è sleale, nel senso che procura un ingiusto vantaggio a chi la può mettere in pratica a danno di tutti gli altri che non godono del privilegio di un'informazione riservata, l'ordinamento giuridico italiano la punisce con sanzioni pecuniarie e penali (prigione). Il rischio che corre l'insider è dunque quello di finire inside (dentro).
Giuridicamente la fattispecie è disciplinata dagli articoli 180 e seguenti del Testo Unico della Finanza, i quali riscrivono in parte la disciplina in vigore dal 1991. In base alle nuove norme è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da 10.329 euro (pari a 20 milioni delle vecchie lire) a 309.874 euro (pari a 600 milioni delle vecchie lire) chiun- que, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della partecipazione al capitale di una società, ovvero dell'esercizio di una funzione, anche pubblica, di una professione o di un ufficio, acquista, vende o compie altre opera- zioni, anche per interposta persona, su strumenti finanziari avvalendosi delle informazioni medesime; ovvero, senza giustificato motivo, ne dà comunicazione; o ancora, consiglia ad altri, sulla base di esse, il compimento di talune delle operazioni menzionate.
La sanzione, sia amministrativa che penale, scatta dunque a prescindere dal fatto che risulti un profitto dall'impiego ille- cito di informazioni privilegiate. Chi ne è in possesso, in virtù della propria particolare posizione, non ne deve dare co- municazione, senza giustificato motivo, ad alcuno: è sufficiente che comunichi l'informazione senza rispettare i doveri di riservatezza che essa richiede per essere soggetto alle pene previste.
La sanzione pecuniaria, in particolare, può essere aumentata fino al triplo del suo valore quando essa appare inadeguata, anche se applicata al massimo, in considerazione della rilevante offensività del fatto, delle qualità personali del colpevo- le o dell'entità del profitto derivato. Inoltre, il colpevole può essere interdetto, per un periodo compreso fra i sei mesi e i due anni, dai pubblici uffici, da una professione o da un'arte, dagli uffici direttivi di persone giuridiche o imprese, o es- sere dichiarato incapace di trattare con la pubblica amministrazione. La sentenza, inoltre, viene pubblicata su due gior- nali a diffusione nazionale, di cui uno economico. In caso di condanna, infine, viene ordinata la confisca dei mezzi, an- che finanziari, utilizzati per commettere il reato e dei beni che ne costituiscono il profitto.
A queste pene sono soggetti anche tutti coloro che, pur non trovandosi nelle condizioni previste dalla legge, vengono comunque a conoscenza di informazioni privilegiate, ponendo in essere i comportamenti vietati sopra elencati. Pertanto, è soggetto alle pene previste per l'insider trading anche il risparmiatore che sia venuto indirettamente a conoscenza di informazioni privilegiate (per esempio, tramite l'amico di un soggetto che si trova in una condizione prevista dalla leg- ge) e che le comunichi ad altri conoscenti, indipendentemente dal fatto che lucri un profitto o meno.


Ma quando un'informazione può definirsi privilegiata? Per essere tale deve trattarsi di un'informazione specifica di con- tenuto determinato (per esempio, <entro il mese venturo la società Alfa aumenterà il capitale sociale di 20 milioni di euro>; non: <la società Alfa potrebbe trovare conveniente aumentare il capitale invece che ricorrere a un prestito obbli- gazionario>); deve essere un'informazione di cui il pubblico non dispone; deve concernere strumenti finanziari o emit- tenti di strumenti finanziari; e infine deve essere tale che, se resa pubblica, sia idonea a influenzare sensibilmente il prezzo degli strumenti finanziari ai quali si riferisce.
Il procedimento per la violazione delle norme di insider trading viene attivato su iniziativa del pubblico ministero che ne dà notizia alla Consob, la quale svolge un vero e proprio ruolo investigativo: non solo compie accertamenti presso i soggetti sottoposti alla sua vigilanza, ma può anche chiedere notizie, dati e documenti e procedere all'audizione di chiunque appaia informato sui fatti, quindi anche soggetti non sottoposti alla sua vigilanza. A conclusione di tale proce- dimento il presidente della Consob invia al pubblico ministero, corredata da una relazione, la documentazione raccolta per lo svolgimento del processo. Nel procedimento giudiziario la Consob esercita i diritti e le facoltà attribuiti dal Codi- ce di procedura penale agli enti e alle associazioni rappresentativi degli interessi lesi dal reato.

Interest rate swap (Finanza)

Il primo interest rate swap fu stipulato nel 1981. A oltre vent'anni di distanza il mercato degli swap è cresciuto enorme- mente, modificando radicalmente il ruolo dell'intermediario, di solito una banca d'investimento.
Con tale contratto, due parti si scambiano il pagamento di interessi su un determinato ammontare. Supponiamo che la società Alfa abbia emesso obbligazioni al tasso fisso del 7% per un valore nominale di 50 miliardi e che la società Beta abbia acceso un prestito per la stessa cifra a un tasso variabile pari alla somma del Libor più uno spread.
Tramite un interest rate swap con capitale sottostante di 50 miliardi, la società Alfa si impegna a pagare alla società B il tasso variabile e viceversa la Beta si impegna a pagare il tasso fisso alla società Alfa. Come risultato di questo scambio, la società Alfa pagherà di fatto sul capitale raccolto tramite emissione obbligazionaria un tasso variabile, mentre la so- cietà Beta di fatto pagherà un tasso fisso sul proprio prestito stipulato a tasso variabile.
Chiaramente, lo swap viene posto in essere soltanto se entrambe le parti ne derivano un vantaggio, che il più delle volte consiste in tassi di interesse inferiori a quelli che sarebbe stato possibile spuntare sul mercato, ma talora può consistere nel desiderio di adeguare la propria esposizione debitoria alla nuova situazione determinatasi sul mercato del credito.
All'inizio uno swap veniva stipulato grazie all'intermediazione di una banca d'investimenti, la quale si limitava a mettere in contatto i contraenti; ora, con lo sviluppo del mercato, le stesse banche d'investimento si propongono come contro- parte.
Il problema del mercato degli swap è la scarsa liquidità del mercato secondario. Per uscire da un contratto, una parte ha tre possibilità: stipulare un nuovo swap dalle caratteristiche opposte a quello originario; vendere il contratto a un terzo interessato   a   subentrare   nella   posizione    del    venditore;    vendere    il    contratto    alla    stessa    controparte. Nel primo caso, si aumenta l'esposizione al rischio di default, negli altri due è invece necessario il consenso della con- troparte: circostanze entrambe che accrescono le difficoltà di uscita da uno swap.

 

Investimenti diretti (Economia)

Gli investimenti sono una delle voci dell'economia che conosce più possibilità di classificazione: sono fissi, lordi, tangi- bili, residenziali e non, diretti.
Ma cosa sono gli investimenti? La definizione più generale è certamente quella negativa: gli investimenti sono tutto ciò che non viene acquistato per ragioni di consumo. La riprova è che gli investimenti sono finanziati con risorse che non vengono spese nell'acquisizione di beni di consumo.
L'idea più comune di investimento è quella collegata all'acquisto di impianti, macchinari, capannoni da parte delle im- prese. Questo però è più precisamente l'investimento fisso. Tale tipo di investimento può essere fatto anche dalle ammi- nistrazioni pubbliche, nel qual caso prenderà soprattutto forma di strade, ponti, scuole, treni, e dalle famiglie, sotto for- ma soprattutto di abitazioni residenziali.
Quando non è fisso, l'investimento è in capitale circolante, ossia scorte (di materie prime, di semilavorati, di prodotti finiti). Caratteristica di quest'ultimo è di non essere sempre volontario. L'aumento imprevisto delle scorte, nonostante che vada a incrementare la voce investimenti della contabilità nazionale, indica una domanda inferiore alle attese e pre- lude al rallentamento dell'attività economica.
Investimenti fissi e scorte sono investimenti diretti. Quest'ultima categoria è stata creata per differenziare gli investi- menti che danno luogo a un aumento effettivo della capacità produttiva, tramite la creazione fisica di nuovi beni di capi- tale, dagli investimenti finanziari, detti anche investimenti di portafoglio. Questi, pur rientrando a tutti gli effetti nel va-


sto concetto di investimento, registrano soltanto i passaggi di proprietà fra soggetti diversi di beni di investimento già esistenti. Per questo motivo in economia il termine investimento viene utilizzato esclusivamente nel senso di investi- mento diretto.
Tutte le diverse nozioni di investimento fin qui descritte possono poi essere lorde o nette. Queste ultime sono le più im- portanti, perché danno l'esatta misura di quanto si è effettivamente accresciuta la capacità di produrre. Gli investimenti netti sono infatti "ripuliti" di quella parte che serve a rimpiazzare i beni di investimento non più utilizzabili.
Vi sono poi gli investimenti intangibili o immateriali: per esempio, le spese per istruzione, sanità, ricerca e sviluppo. Queste ultime tuttavia nella contabilità nazionale vengono considerate investimenti o consumi a seconda che assumano la forma di investimenti diretti (scuole, ospedali, laboratori) oppure di altre spese, per esempio remunerazione del per- sonale.
Gli investimenti sono variabili procicliche, tendono cioè a subire variazioni dello stesso segno, ma più alte in valore as- soluto, rispetto a quelli dell'economia in generale. Nel 2000, per esempio, gli investimenti diretti interni lordi in Italia sono aumentati del 7,3% a fronte di aumento del Pil reale del 3,2 per cento. Viceversa, nel primo trimestre 2003, essi sono calati del 4,9% congiunturale a fronte di un arretramento del Pil dello 0,2 per cento.

 

Ipo (Finanza)

Ipo sta per initial public offering e si legge <aìpìo>. Di che si tratta? Semplicemente del corrispettivo inglese di un'of- ferta pubblica di vendita o di sottoscrizione di azioni non ancora diffuse tra il pubblico.
L'offerta pubblica viene definita "iniziale", perché per la prima volta da quando la società esiste le sue azioni vengono offerte sul mercato al pubblico degli investitori. Prima dell'Ipo, i titoli sono infatti detenuti da un unico o da pochi sog- getti: la società è pertanto una private company. Con l'Ipo, essa diventa public, ossia una società ad azionariato diffuso.
Initial public offering è dunque qualsiasi offerta pubblica di vendita o di sottoscrizione di azioni finalizzata alla loro quotazione in Borsa. Nel nostro Paese, la sigla ha acquisito notorietà soprattutto a metà del '99, grazie all'avvio del Nuovo Mercato e quindi alla quotazione di piccole società a elevato potenziale di sviluppo, come per esempio le società che operano nel settore di Internet.
Diversa dalla Ipo è la primary offering, la quale consiste nell'offerta in sottoscrizione di azioni di nuova emissione da parte di una società quotata (o i cui titoli siano comunque diffusi fra il pubblico). La differenza fra i due tipi di offerta è che una società, nella sua vita, può eseguire soltanto una Ipo, ma tante primary.

Junk bond (Finanza)

Peggiore fama i junk bonds non potrebbero avere. Persino il nome sta a indicare le loro umilissime e spesso "oscure" origini: la locuzione inglese significa letteralmente <obbligazioni spazzatura>.
Le agenzie di rating, ossia quelle società cioè che classificano la bontà dei diversi titoli offerti sui mercati finanziari - le più famose, e temute, sono Moody's e Standard & Poor's - denotano tuttavia i junk bonds con un termine meno collo- quiale: non-investment-grade bonds o anche speculative-grade bonds. Il significato in ogni caso non cambia: si tratta sempre di titoli che non raggiungono <la qualifica di investimento>. Vale a dire, sono titoli emessi da società che nella scala usata da Standard & Poor's, per esempio, hanno un rating pari o inferiore a BB.
Il rating, cioè la posizione delle attività finanziarie all'interno della speciale classifica stilata dalle singole agenzie, è il risultato della composizione di numerosi fattori, fra i quali uno dei più importanti è la performance passata del titolo.
Quanto più alto è il rating (AAA o triple A è il massimo), tanto minore è il rischio per l'investitore di vedere non remu- nerato il proprio credito, e quindi tanto minore è il tasso di interesse pagato dall'emittente. Junk bonds sono invece i tito- li che hanno un rating molto basso: sono pertanto molto rischiosi, ma anche altamente remunerativi (se tutto va bene).
Prima della fine degli anni 70, per la precisione il 1977, non esistevano i junk bonds. Fino a quella data le società ame- ricane più piccole e quelle con situazione finanziaria poco brillante, cioè le società non-investment-grade, non erano mai riuscite a collocare un prestito obbligazionario in Borsa. A partire da quell'anno, con il primo collocamento, si rup- pe una tradizione consolidata, e i junk bonds divennero per questo tipo di società una forma ricorrente di finanziamento.
Nel 1990 però, dopo alcuni fallimenti di società che avevano emesso obbligazioni di questo tipo, i junk bonds quasi scomparvero dallo Stock Exchange di New York, per ricomparirvi verso la fine del '91. La cattiva nomea che avevano acquistato,    almeno    temporaneamente,   ebbe   il   sopravvento   anche   sugli   alti   tassi   di   interesse      promessi.

 

Lead manager (Finanza)


É forse la verità cardinale della moderna sociologia: ogni raggruppamento umano è divisibile in due parti, di cui la pri- ma è molto più piccola dell'altra. Da un lato stanno i leader (le <guide>, i primi, i migliori), dall'altro i gregari, coloro che lavorano per la realizzazione degli obiettivi stabiliti dal capo.
Questa legge vale anche in finanza (d'altra parte, anche questo è un mondo popolato di uomini), e in particolare nel mi- crocosmo dell'euromercato, il mega-store dove possono essere acquistate e vendute tutta una serie di attività finanziarie denominate in valuta straniera rispetto al luogo di scambio.
Caratteristica di tale mercato è che non si può frequentare "da soli", ma soltanto accompagnati da una guida, di solito una merchant o investment bank, esperta nell'individuare il prodotto che meglio soddisfa i bisogni del cliente (se i turisti si affidano alle puntuali conoscenze del loro cicerone, le società, gli enti e le organizzazioni internazionali in cerca di nuove risorse monetarie si appoggiano alla professionalità e alla reputazione dei lead-manager).
A seconda del modo con cui i clienti intendono approvvigionarsi di denaro fresco, diverse sono le funzioni svolte dal lead-manager, il quale in ogni caso ha la piena responsabilità della riuscita dell'operazione.
Se il prenditore (borrower) intende raccogliere fondi mediante europrestito, cioè con un mutuo in eurovaluta offerto da banche straniere, compito principale del lead-manager è mettere a punto le caratteristiche tecniche del progetto in modo tale da indurre altri istituti creditizi a parteciparvi attivamente.
Formato il manager group, ossia il gruppo di banche che parteciperanno attivamente alla formazione del contratto di mutuo - assumendosi l'onere di sottoscrivere l'intero prestito se il mandato al lead-manager è on a fully underwritten ba- sis, ovvero di fare tutto il possibile per il completo successo dell'operazione, in caso di mandato on a best effort basis - il lead manager ha l'ulteriore compito di formare la lista delle banche disponibili a sottoscrivere quote del prestito.
Il lead manager, a seconda degli accordi, può anche redigere una bozza del contratto. E nelle operazioni più grandi, può farsi affiancare da più co-lead manager, il cui minor potere è da ascrivere precipuamente alla minore ampiezza delle quote di prestito che si sono impegnati a sottoscrivere.
Se l'operazione decisa dal borrower è un'emissione di eurotitoli (invece dell'apertura di un mutuo), la struttura del con- sorzio di banche responsabili del collocamento rimane pressoché invariata, ma i puri finanziatori prendono il nome di sub-underwriters, <sotto-sottoscrittori>. Diverse tuttavia sono in questo caso le capacità che deve possedere il lead- manager, il quale come un esperto di marketing deve riuscire a realizzare un prodotto finanziario (l'eurotitolo) che sap- pia perfettamente combinare le esigenze di finanziamento dell'emittente (per ammontare e per durata) con i sempre più raffinati gusti della domanda.

 

Leading & lagging indicators (Economia)

Lead nel vocabolario comune inglese ha, tra gli altri significati, anche quello di <anticipo>; lag, al contrario, significa
<ritardo>.
Le variabili economiche, come è noto, sono in vario modo legate fra loro. Quando il valore di una cambia, si modifica anche quello di altre variabili (e la scienza economica cerca di indicare quali). Tali variazioni tuttavia non sono simulta- nee, ma differite nel tempo.
Alcune variabili o gruppi di variabili anticipano regolarmente di un determinato periodo altre variabili o gruppi di va- riabili. Quando le statistiche mostrano che simili relazioni persistono in un arco di tempo sufficientemente lungo, le prime vengono definite leading indicators, le altre, viceversa, lagging indicators.
Per esempio gli ordinativi di beni di investimento e la costruzione di immobili sono spesso utilizzati come leading indi- cators per l'andamento del Pil. I prezzi alla produzione e all'ingrosso sono leading indicators per quelli al consumo.
D'altra parte, la disoccupazione e i fallimenti sono lagging indicators della contrazione dell'attività economica, eviden- ziata dal segno negativo davanti alla variazione del Pil.
Leading e lagging indicators sono importanti perché consentono previsioni circa gli andamenti futuri dell'economia. La tecnica di previsione che si fonda su tali concetti è nota come lead-lag technique, o anche come tecnica del barometro.

 

Leasing finanziario (Finanza)

Il leasing finanziario è una tecnica utilizzata per l'acquisto di beni d'investimento molto costosi, definiti dalla terminolo- gia inglese big-ticket item. Di norma, un bene viene così definito quando il suo costo supera i cinque milioni di dollari.
Esempi classici sono gli aerei commerciali, le navi, i grandi impianti e le strutture per il trasferimento di energia.
Con un contratto di leasing finanziario, chi ha bisogno di acquistare tali beni si accorda con il venditore su tutti i termini contrattuali, quindi in particolare il prezzo, le garanzie, e i termini di consegna. Si rivolge successivamente a un istituto


finanziario, il quale, se accetta la proposta, si impegna ad acquistare direttamente il bene in considerazione, fornendolo in leasing all'utilizzatore finale. In questo modo, la banca, detta lessor, può sfruttare i benefici fiscali che le derivano dall'essere proprietaria del bene, mentre l'utilizzatore, detto lessee, ne ottiene la disponibilità a costi inferiori a quelli che avrebbe dovuto sostenere se avesse chiesto un finanziamento per l'acquisto diretto del bene.
Leasing finanziari posti in essere con lo scopo per il lessor di beneficiare di vantaggi fiscali vengono definiti tax- oriented leases. In questo tipo di contratti la banca può decidere, fra l'altro, se acquistare il bene utilizzando unicamente fondi propri, ovvero somme prese a prestito presso altri istituzioni o banche. Nel primo caso, si accollerà per intero il rischio del finanziamento, nel secondo invece avrà l'opportunità di ripartire il rischio su più soggetti.
Quando la banca impiega soltanto propri fondi per l'acquisto del bene, il contratto prende nome di single investor lease ovvero di direct lease; in caso contrario, di leveraged lease. É quasi superfluo aggiungere che quest'ultima forma è quel- la più diffusa sul mercato: con essa infatti, il lessor non solo consegue benefici fiscali in quanto titolare della proprietà del bene, ma aggiunge anche quelli relativi al pagamento degli interessi sul prestito ottenuto da terzi. Gli interessi a de- bito sono infatti deducibili dal reddito delle imprese.
Nella realtà, i casi più noti di leasing finanziario riguardano l'acquisto di aeroplani commerciali. Quasi tutte le compa- gnie si affidano a questo strumento per allargare o modernizzare la propria flotta. Di norma, si tratta di operazioni di pa- recchie centinaia di milioni di dollari.

 

Leveraged buy-out (Finanza)

Letteralmente leverage significa <azione o potere di una leva>. <Leva> è quel meccanismo che consente, tra l'altro, di sollevare un peso con minore sforzo. E <l'effetto leva> consiste appunto nella minore forza richiesta per vincere una de- terminata resistenza.
Il principio della leva è stato applicato con profitto anche in finanza e recita all'incirca così: per acquistare una società non occorre possedere tutte le risorse finanziarie all'uopo necessarie; basta averne una parte, e sfruttare per il resto l'ef- fetto leva prodotto dalle risorse prese a prestito presso un consorzio di banche. In questo modo, con uno sforzo econo- mico relativamente modesto, un gruppo di imprenditori o anche un singolo imprenditore può "sollevare" la vecchia pro- prietà dalla posizione di controllo e prenderne il posto.
Perché il meccanismo non si inceppi è però necessario che il fulcro sia sufficientemente stabile. Ed esso è tanto più sal- do, quanto più rosee sono le prospettive di redditività della società bersaglio e quanto più solida è la sua situazione pa- trimoniale. La speranza degli scalatori, infatti, è di ripagare i debiti accesi per l'acquisizione con i più alti utili che la so- cietà riuscirà a generare sotto la loro "superiore" gestione. D'altra parte, le banche sono tanto più incentivate a sostenere l'operazione, quanto più sicuro è il loro investimento: se gli scalatori non riescono a onorare i propri impegni, esse pos- sono facilmente soddisfare i propri crediti collocando sul mercato una società molto appetibile.
Con leveraged buy-out (Lbo), il vocabolario finanziario denota il caso in cui la scalata è posta in essere dagli stessi manager della società. Suo sinonimo è management buy-out (Mbo), locuzione che si distingue dalla precedente per l'o- rigine linguistica: americana quella, inglese questa.
Quando la scalata è intrapresa da parte di soggetti esterni alla società il termine più corretto è leveraged takeover, che secondo la più stretta osservanza del vocabolario britannico prende nome di management leveraged buy-in.
Se la scalata è ostile, cioè portata da terzi esterni alla compagine sociale, il leveraged buy-out può rappresentare una tecnica di difesa del management deciso a non lasciare il "board". Tuttavia, una tecnica che spesso si è dimostrata anco- ra più efficace contro gli hostile takeovers è la leveraged recapitalization. La società bersaglio si indebita fortemente per acquisire le risorse necessarie per comprare azioni proprie a un prezzo superiore a quello di mercato. In tal modo, la scalata diventa non soltanto più onerosa a causa dei corsi azionari più alti, ma anche meno vantaggiosa: il maggiore in- debitamento deprime infatti la redditività futura dell'impresa. Come si suol dire in gergo tecnico, la leveraged recapitali- zation è una poison pill: una <pillola avvelenata>.

Lifo (Finanza)

Lifo è una sigla composta dalle iniziali di quattro parole inglesi: last in, first out, che letteralmente significa <ultimo en- trato, primo uscito>.
La sigla è nota in tutte quelle discipline che studiano i flussi, ma il concetto può essere facilmente applicato anche alle situazioni più comuni: un esempio di last in, first out può essere desunto dalle operazioni di carico e scarico degli auto- mezzi sulle navi. Le prime a entrare sono anche le ultime a uscire e viceversa.
Lo stesso può accadere con le scorte di magazzino di un'impresa: si pensi per esempio a casse contenenti sfere di ac- ciaio. Le prime verranno stivate in fondo al magazzino mentre le ultime saranno collocate più vicine all'uscita.  Quando


si tratterà di utilizzare le sfere nel processo produttivo, verranno utilizzate prima quelle contenute nelle ultime casse ac- quistate.
Una tale ipotesi di rotazione del magazzino, come si dice tecnicamente con linguaggio ragionieristico, serve ai contabili come metodo per la valutazione delle rimanenze, quando esse siano formate da beni fungibili, ossia prodotti standardiz- zati.
Il principio contabile generale per la valutazione delle rimanenze, sancito dall'articolo 2426 n. 9 del Codice civile, stabi- lisce che, quando sia applicabile il criterio del costo, le scorte vengano contabilizzate in funzione dei costi di acquisto o di produzione.
Non sempre tuttavia ciò è possibile, in specie quando si tratta di beni fungibili. In questi casi, il contabile può trovare difficoltà ad attribuire alla singola sfera in magazzino il costo effettivo risultante da relativa fattura, poiché in questo documento risulterà indicato presumibilmente soltanto il numero di casse acquistate e il prezzo di acquisto.
Come potrà allora risolvere la questione? Una soluzione consiste proprio nell'applicazione del metodo Lifo. In base a esso, le rimanenze di beni fungibili sono valutate ai prezzi di acquisto più lontani nel tempo. Ciò significa che il valore delle rimanenze non cambia da un anno all'altro, se le quantità in magazzino a inizio esercizio coincidono con quelle esistenti alla fine dello stesso esercizio; se queste ultime sono inferiori, il valore verrà ridotto detraendo i costi sostenuti in periodi precedenti, partendo dal più recente; se invece sono aumentate, il valore storico verrà incrementato in propor- zione alla quota dei costi sostenuti nell'ultimo esercizio.
La principale distorsione prodotta dall'impiego del Lifo si ha in periodi di alta inflazione: in tali circostanze, le rimanen- ze risulteranno sottostimate in misura rilevante, consentendo all'impresa di accantonare riserve occulte. Per tali motivi, quando il valore delle rimanenze calcolato con il metodo Lifo differisce in misura apprezzabile dai costi correnti alla chiusura dell'esercizio, la legge richiede che la misura di tale sottostima debba essere indicata per categorie omogenee di beni nella nota integrativa (al bilancio).

 

M3 (Economia)

Si chiama così l'aggregato monetario per eccellenza nell'area dell'euro, perché costituisce l'indicatore centrale dell'anali- si monetaria condotta mensilmente dalla Banca centrale europea al fine di valutare la presenza di eventuali minacce alla stabilità dei prezzi nel medio termine (la quale rappresenta l'obiettivo istituzionale della politica monetaria nell'Uem).
L'aggregato monetario è un insieme specifico delle tante forme che può assumere la moneta in quanto mezzo di paga- mento e riserva di valore. Nell'ambito dell'Unione monetaria, la Banca centrale europea ha definito M1 (aggregato mo- netario ristretto) come la somma di circolante e depositi a vista; M2 (aggregato monetario intermedio), come la somma di M1 e di depositi con una durata prestabilita fino a due anni e depositi rimborsabili con preavviso fino a tre mesi; M3 (aggregato monetario ampio), come M2 più pronti contro termine, quote e partecipazioni in fondi comuni di investi- mento monetario, e obbligazioni emesse dalle istituzioni finanziarie monetarie che abbiano durata originaria inferiore a due anni.
Prima della revisione della propria strategia di politica monetaria intervenuta a metà del 2003, la Bce aveva fissato al 4,5% annuo il valore di riferimento del tasso di crescita di M3 nel medio periodo. L'andamento di questo aggregato ten- de infatti a mantenere una relazione stabile con il livello dei prezzi nell'area dell'euro, cosicché un suo elevato tasso di crescita per un prolungato periodo di tempo può talora suggerire in anticipo la presenza nel sistema economico di pres- sioni inflazionistiche idonee a mettere in pericolo la stabilità dei prezzi.
Dopo la revisione della strategia di politica monetaria, con la quale è stato tra l'altro rivisto il rapporto tra i due  pilastri in cui essa si divide (analisi economica e analisi monetaria), la Bce ha deciso di non indicare più formalmente un preci- so tasso di crescita di M3 quale parametro di riferimento, ma di tenerne sotto attenta sorveglianza l'andamento, in modo tale da rilevare eventuali pressioni inflazionistiche che sfuggissero anche alla più scrupolosa indagine di analisi econo- mica. Secondo la Banca, infatti, vi sono shock potenzialmente destabilizzanti difficilmente ravvisabili con il solo im- piego di un modello del settore reale e, d'altra parte, vi è un filone importante dell'economia - con il quale la Banca con- corda - che dimostra come il tasso di inflazione sia strettamente correlato nel lungo periodo alla quantità di moneta in circolazione nel sistema: maggiore questa, più alto quello. Poiché però compito della Banca è gestire la politica moneta- ria in maniera tale che il tasso di inflazione si aggiri nel medio termine intorno al 2%, si capisce perché essa consideri tanto importante tenere sott'occhio l'andamento di M3, in sostanza la misura più ampia della quantità di moneta presente nel sistema economico dell'Unione monetaria.

 

Margine operativo lordo (Finanza)


La dizione estesa è margine operativo lordo, ma spesso i contabili lo chiamano Mol. Si tratta di una variabile chiave nell'analisi di bilancio: dà infatti la misura del risultato economico conseguito dall'impresa con la sua sola attività di produzione. É quindi pari alla differenza fra i ricavi derivati dalla produzione e i costi sostenuti per essa.
É opportuna tuttavia una precisazione: fra i costi di produzione rientrano anche le spese di vendita e quelle amministra- tive. Di queste spese non bisogna tenere conto per il calcolo del Mol, il quale quindi assume il significato di risultato economico della "gestione industriale".
E in effetti le spese di vendita e amministrative costituiscono proprio l'elemento che differenzia il Mol dal reddito ope- rativo, il quale invece rappresenta il reddito prodotto dalla gestione caratteristica.
La determinazione quantitativa del Mol si ottiene mediante una serie di sottrazioni successive. Il primo elemento da cal- colare e dal quale bisogna eliminare di volta in volta le singole voci di costo è il valore della produzione inteso in senso stretto (quindi non nel senso allargato nel quale viene esposto nel conto economico, che sotto la voce altri proventi comprende anche ricavi non attinenti alla gestione caratteristica).
Il valore della produzione per il calcolo del Mol è pari alla somma dei ricavi netti, della variazione delle scorte e delle costruzioni in economia.
La ragione per cui viene preso in considerazione il valore della produzione, invece dei ricavi netti, risiede nel fatto che non tutta la produzione viene venduta, ma una parte rimane in giacenza nei magazzini. Se il Mol deve tuttavia misurare il risultato economico (non quello di cassa) della produzione, bisogna tenere conto del valore globale che essa riesce a generare, indipendentemente quindi dal fatto che poi riesca a essere interamente venduta.
Dal valore della produzione così calcolato bisogna sottrarre i cosiddetti consumi di esercizio, ossia sostanzialmente l'ac- quisto di materie prime e beni intermedi in genere, i costi del lavoro direttamente impegnato nella produzione, escluse pertanto le remunerazioni degli amministratori, degli addetti al reparto vendite e degli altri uffici amministrativi e gli altri costi "industriali", rappresentati da costi di manutenzione, ammortamenti ordinari e canoni di locazione dei mac- chinari utilizzati nella produzione. Eseguite queste operazioni, si ottiene infine il Mol.
Nelle analisi contabili la principale utilità di questo valore risiede nel confronto con il Mol di imprese concorrenti ope- ranti nello stesso settore. Un Mol maggiore o minore espresso in termini percentuali sul valore della produzione consen- te un giudizio sul grado di efficienza produttiva di un'impresa.

 

Mark-up (Economia)

Il principio cardine dell'economia statuisce che il prezzo è il risultato dell'incontro della domanda e dell'offerta. Da que- sto principio sembrerebbe discendere che i prezzi debbano cambiare al più piccolo variare di una delle due forze di mercato. In realtà non è così: i prezzi cambiano, ma non al minimo disequilibrio fra domanda e offerta.
La ragione di ciò sta nel fatto che gli imprenditori seguono di norma una regola pratica per fissare i prezzi dei propri prodotti, detta regola del mark-up. In base a questo metodo di determinazione dei prezzi, essi calcolano in primo luogo un prezzo desiderato, pari alla somma dei costi medi variabili e di un margine di profitto lordo, giudicato normale.
Gli imprenditori, in altre parole, per la determinazione di questo prezzo prendono in considerazione i costi per unità di prodotto derivanti dalla remunerazione del lavoro e dall'acquisto delle materie prime, in ipotesi di livelli di produzione normali, ossia con impiego degli impianti a circa l'80% della loro capacità massima. E a tale costo medio aggiungono un margine lordo di profitto, che essi considerano normale: la somma di questi due addendi fornisce loro il prezzo a cui desidererebbero vendere i propri prodotti.
Il margine lordo di profitto in inglese prende nome di mark-up. É "lordo" perché incorpora, oltre al profitto netto vero e proprio, anche il costo fisso medio per unità prodotta, ossia il costo di quei fattori che comunque l'impresa deve pagare indipendentemente dal livello della produzione. Fra questi vanno annoverati i costi dovuti al deperimento degli impianti e dei macchinari e quelli degli uffici amministrativi.
Gli imprenditori fissano così il prezzo desiderato; quello effettivamente praticato dipenderà invece dalle condizioni di mercato. In particolare, in una situazione fortemente espansiva, i prezzi effettivi tenderanno a essere superiori rispetto a quelli desiderati, consentendo così il guadagno di extraprofitti, ossia utili netti più elevati del normale; in una fase reces- siva, al contrario, i prezzi di mercato saranno più bassi, costringendo gli imprenditori a guadagnare profitti inferiori ri- spetto a quelli ritenuti normali.
Le fasi del ciclo economico, tuttavia, non costituiscono le uniche fonti di divergenza tra prezzi effettivamente praticati e prezzi desiderati: altro fattore molto importante sono le barriere all'entrata. Quanto è più difficile per un'impresa esterna operare in un determinato mercato, tanto maggiore saranno i prezzi effettivamente praticati su quello; e viceversa, quan- to più facile è entrarvi, tanto più bassi saranno i prezzi praticati.


Market maker (Finanza)

Market maker è, letteralmente, <colui che fa il mercato>. Nell'accezione più comune è quindi colui che compie opera- zioni di vendita o di acquisto di attività finanziarie di entità tanto rilevante da poter influenzare in misura sensibile il lo- ro prezzo o, come si dice con linguaggio tecnico, il loro corso. Secondo questa nozione sono quindi market maker i principali operatori di mercato.
Dall'ottobre del 1986, in corrispondenza con il Big Bang del London Stock Exchange, la Borsa inglese, market maker denota in Inghilterra una nuova figura professionale, la quale però era già nota all'esperienza americana poiché rappre- sentava il tipico operatore dell'over-the-counter market. In questa accezione, il market maker è il professionista di Borsa che adempie le funzioni che prima erano separatamente svolte dallo stock-broker e dallo stock-jobber. Il primo era l'in- termediario che dava esecuzione alle operazioni di acquisto o di vendita per conto dei clienti. L'altro era colui che anda- va alla ricerca di tali clienti. Il singolo stock-jobber aveva il compito di riunire, per determinati titoli in cui si era specia- lizzato, la domanda con l'offerta. Quindi trasferiva l'ordine allo stock-broker il quale eseguiva le operazioni per il tra- passo della proprietà dei titoli. Dal 1986 le due funzioni sono riunite nella figura del market maker, il quale per questo motivo è detto avere una dual function o dual capacity.
Il market maker può acquistare e vendere direttamente in Borsa soltanto quei titoli per cui è registered market maker, cioè specializzato. In questi casi, si dice che lavora come agent. Viceversa, deve agire come principal, facendo eseguire le operazioni ai market maker che sono registered sulla categoria di titoli che vuole trattare.
Il metodo di lavoro dei market maker è il two-way price, traducibile come <tecnica del doppio prezzo>. A richiesta del cliente i market maker sono tenuti a quotare un prezzo di vendita (detto ask price, o prezzo lettera nella nostra lingua) e un prezzo di acquisto (bid price in inglese, prezzo denaro in italiano). La differenza fra i due prezzi, che è sempre posi- tiva poiché il primo prezzo è sempre superiore al secondo, è detta spread, e costituisce il guadagno del market maker.
Nell'ambito dei mercati regolamentati italiani, la figura del market maker è ufficialmente prevista, in particolare, per il mercato italiano dei derivati (Idem). Nell'apposito elenco, tenuto da Borsa Italiana, sono iscritti tutti gli operatori che rispondono ai requisiti necessari per tale qualifica, distinti in primary market maker o market maker senza ulteriore spe- cifica, a seconda che abbiano assunto l'obbligo di quotazione continuativa ovvero soltanto di rispondere a richieste di quotazione.

 

Marking to market (Finanza)

Marking to market ossia, con una traduzione libera dall'inglese, <aggancio al mercato>, è definita la tecnica con la qua- le viene garantito l'esatto adempimento dei contratti future. Serve infatti ad evitare che qualche speculatore eccessiva- mente azzardato assuma posizioni delle quale poi non riesca a sopportare l'onere finanziario.
Per comprendere le modalità di funzionamento di questo meccanismo, bisogna tenere presente che il future è uno stru- mento altamente speculativo: non è necessario pagare l'intera somma per acquistarlo, né detenere l'intero quantitativo dell'attività sottostante per venderlo, ma è sufficiente versare all'inizio una quota, detta margine iniziale. Questo margine viene calcolato applicando una determinata percentuale al valore del future. Per esempio, se il contratto riguarda l'ac- quisto di 100.000 dollari a 1,20 euro per dollaro con consegna novembre, la quota da versare è una frazione percentuale di 120.000 euro (100.000 dollari per 1,20 euro). Se questa è pari al 10%, il margine iniziale ammonta a 12.000 euro.
Il margine iniziale deve essere versato dall'investitore in un conto presso il proprio intermediario, il quale a sua volta trasferisce la somma in un conto proprio detenuto presso la Cassa di compensazione e garanzia. Questa provvede ogni sera a regolare i conti delle parti, aggiungendo i profitti a coloro che nella giornata hanno guadagnato e detraendo le perdite a chi ha invece subito gli andamenti del mercato. Se per esempio il prezzo future sale a 1,21 euro il giorno dopo che l'investitore ha aperto la posizione, la Cassa aggiunge al conto dell'acquirente 1.000 euro (0,01 euro per 100.000 dollari) e contemporaneamente toglie 1.000 euro al conto di chi, rispetto al future, si è messo in posizione di vendita.
Toccherà poi all'intermediario di quest'ultimo integrare il conto versando alla Cassa i 1.000 euro mancanti prima dell'a- pertura del mercato il giorno successivo.
Tuttavia se la perdita è stata tale da intaccare il margine di mantenimento, ossia un livello del margine iniziale conside- rato minimo, l'integrazione sarà a carico dell'investitore, al quale verrà richiesto, con una margin call, il pagamento del margine di variazione, cioè la somma necessaria per riportare la consistenza del conto al livello di margine iniziale. Se non paga, l'intermediario chiude la posizione per suo conto, rendendo definitiva una perdita che forse avrebbe potuto essere soltanto temporanea.

Media mobile (Finanza)


É nota a tutti la nozione più semplice di media: la somma di più fattori divisa per il loro numero. Questa tuttavia non è l'unica media, né la media in sé, ma è uno dei tanti modi in cui può essere calcolato il "punto frammezzo" a più dati. Es- sa si chiama media algebrica.
Applicata a una serie temporale, cioè a un insieme di valori che si espande con il tempo (a esempio i consumi mensili delle famiglie), la media algebrica viene calcolata sommando tutti i valori a partire da una determinata data fino all'ul- timo registrato. Il denominatore cresce quindi di un'unità ogni volta che trascorre l'intervallo temporale in relazione al quale viene rilevato il valore di riferimento (per cui ogni giorno se la rilevazione è quotidiana, ogni mese se è mensile, e così via).
Operando in questo modo però la media algebrica (e qualunque altra media) ha il non piccolo difetto di perdere vieppiù di significato quanto più ampio si fa l'arco temporale, in specie se è calcolata su valori che cambiano sensibilmente con l'andare del tempo. Si pensi per esempio alle variabile economiche che subiscono l'erosione provocata dall'inflazione.
Non ha senso calcolarne la media oltre un certo lasso temporale.
Ovvia in parte a tali lacune la media mobile. Essa è una media algebrica (ma può essere benissimo anche una qualsiasi altra media), calcolata però su uno stesso numero di osservazioni. Supponiamo che il valore osservato sia il corso gior- naliero delle azioni, e che la media mobile sia calcolata su trenta valori (cioè il prezzo osservato in trenta giorni conse- cutivi). Trascorso il trentunesimo giorno, quello che era il primo giorno della serie non viene più preso in considerazio- ne, mentre diventa primo quello che era secondo. In altre parole, i termini di una media di questo tipo cambiano ogni giorno. Ecco perché viene detta mobile.
Il problema principale nel calcolare una media mobile è quello di determinare il numero delle osservazioni sulla base delle quali deve essere calcolata. Una serie troppo lunga infatti comporta il rischio di mettere insieme dati non confron- tabili, una troppo corta di falsare l'interpretazione della realtà.
La media mobile è particolarmente indicata quando è nota l'ampiezza del ciclo economico di una variabile. In tal modo, tutti i valori appartenenti al singolo ciclo vengono sintetizzati nella media mobile, la quale quindi assume significato di simbolo quantitativo di una determinata variabile in quel periodo.
Più medie mobili a confronto disegnano la linea di tendenza della variabile nel tempo.
La media mobile è anche molto utile per evidenziare o per eliminare da una determinata serie storica gli effetti delle stagionalità sui livelli dei valori. Anche in tal caso, lo strumento si dimostra tanto più efficace quanto più regolare è la cadenza di tali effetti: si pensi per esempio alle vacanze d'agosto o alle feste natalizie. Per evitare che la loro considera- zione falsi l'analisi, sarà opportuno calcolare la media mobile su dodici mesi.

 

Mercati regolamentati (Finanza)

Una volta in Italia c'erano soltanto le Borse Valori e il Mercato Ristretto. Dopo il big bang avvenuto all'inizio degli anni 90 e proseguito per tutto il decennio successivo, in corrispondenza con il diffondersi di nuovi strumenti finanziari e il sorgere di esigenze differenziate, i mercati regolamentati si sono moltiplicati.
Il più noto è Mercato telematico azionario (Mta), ex Borsa Valori di Milano, in cui si negoziano, per qualunque quanti- tativo, azioni, obbligazioni convertibili, diritti di opzione, warrant nonché quote o azioni di organismi di investimento collettivo del risparmio (queste ultime sono trattate sul segmento Mtf, Mercato telematico dei fondi, dedicato appunto alla quotazione di fondi, Sicav e Etf, ossia exchange-traded funds).
L'Mta è a sua volta ripartito in tre segmenti, in funzione della capitalizzazione e della quota di capitale flottante delle società quotate: il primo, denominato Blue chip, riunisce i titoli con capitalizzazione superiore agli 800 milioni di euro; il secondo, denominato Star (Segmento Titoli con Alti Requisiti), raccoglie le società che hanno una capitalizzazione inferiore (e comunque superiore ai 20 milioni di euro), ma flottante almeno pari al 35% o al 20% del capitale rappresen- tato da azioni aventi diritto di voto nell'assemblea ordinaria, a seconda che siano società ammesse alla quotazione da meno o da più di un anno; il terzo, denominato Segmento ordinario, raggruppa tutti i rimanenti titoli, ossia le azioni di società con capitalizzazione compresa fra i 20 e gli 800 milioni di euro che non soddisfano i requisiti di flottante stabili- ti per l'appartenenza al segmento Star oppure che non desiderano farne parte, a causa dei più elevati requisiti che è ne- cessario rispettare in termini di trasparenza e corporate governance.
Le azioni possono essere quotate anche sul Nuovo Mercato; esse, però, devono essere azioni ordinarie emesse da socie- tà nazionali o estere ad alto potenziale di sviluppo. Oltre alle azioni, sul Nuovo Mercato vengono trattati anche i relativi diritti di opzione, nonché obbligazioni convertibili e warrant su tali azioni.
Dal 1^ dicembre 2003 le azioni di società di piccole dimensioni (con capitalizzazione minima di 1 milione di euro) e di società che intendono avvicinarsi al mercato finanziario in modo graduale possono poi essere quotate sul Mercato E-


xpandi, sorto da una profonda revisione del Mercato Ristretto, e caratterizzato da requisiti di ammissione più semplici, oltre che da un processo di quotazione più agile.
Sono tre i mercati regolamentati italiani su cui si negoziano obbligazioni non convertibili in titoli azionari e titoli di Sta- to, e precisamente: il Mot, Mercato delle obbligazioni e dei titoli di Stato quotati, istituito nel luglio del 1994 e gestito da Borsa Italiana; l'Euromot, istituito a dicembre '99 e anch'esso gestito da Borsa Italiana, su cui vengono quotate le ob- bligazioni emesse da società, enti o Stati esteri; le euroobbligazioni, in particolare i titoli di debito assoggettati a una normativa diversa da quella a cui è sottoposto l'emittente e collocati in due o più Stati; e le asset-backed securities; e l'Mts, Mercato telematico secondario dei titoli di Stato, istituito nel 1988, sul quale i titoli del debito pubblico vengono trattati per grossi quantitativi e che perciò è riservato ai soli intermediari autorizzati, risultando pertanto precluso ai ri- sparmiatori.
Vi sono infine due mercati regolamentati degli strumenti derivati: il Mercato italiano dei derivati (Idem, Italian derivati- ve market), entrato in funzione il 28 novembre 1994, su cui vengono negoziati contratti futures e contratti di opzione che possono avere come attività sottostante strumenti finanziari, tassi di interesse, valute, merci e relativi indici, e il Se- dex (Mercato Telematico dei Securitised Derivatives) che dal 26 aprile del 2004 costituisce il nuovo nome di quello che fu il Mercato dei covered warrant, sul quale sono negoziati strumenti derivati le cui caratteristiche contrattuali sono in- corporate in un titolo negoziabile emesso generalmente da un'istituzione finanziaria.

Mercato dei blocchi (Finanza)

Non è il marmo ciò che si scambia sul mercato dei blocchi, bensì azioni o, più in generale, strumenti finanziari normal- mente negoziati sui mercati regolamentati. In particolare, si ha blocco quando un numero relativamente grande di titoli (azioni, obbligazioni e altri strumenti finanziari diversi dai prodotti derivati) viene scambiato tra due parti con unica transazione e al prezzo concordato dalle parti stesse.
Quando un'operazione di scambio assume tanta rilevanza da assurgere a rango di blocco? Dipende dalla "portata" del titolo. La Consob, in apposito regolamento - si tratta della deliberazione n. 11768 del 23/12/98 - ha identificato quattro soglie minime oltre le quali un ordine può avere carattere di blocco.
La prima soglia, fissata a 150mila euro, si applica agli strumenti finanziari il cui controvalore giornaliero medio nego- ziato sul relativo mercato regolamentato italiano risulta, negli ultimi sei mesi, inferiore a 1,5 milioni di euro.
La seconda soglia, fissata a 250mila euro, si applica agli strumenti finanziari il cui controvalore giornaliero medio ne- goziato sul relativo mercato regolamentato italiano risulta compreso, negli ultimi sei mesi, tra gli 1,5 e i 3 milioni di eu- ro.
La terza soglia, fissata a 500mila euro, si applica agli strumenti finanziari il cui controvalore giornaliero medio negozia- to sul relativo mercato regolamentato italiano risulta compreso, negli ultimi sei mesi, tra i 3 e i 10 milioni di euro.
La quarta soglia, fissata in 1,5 milioni di euro, si applica agli strumenti finanziari il cui controvalore giornaliero medio negoziato sul relativo mercato regolamentato italiano risulta, negli ultimi sei mesi, superiore ai 10 milioni di euro.
Ma perché definire per ogni valore mobiliare i relativi blocchi? Perché lo scambio in unica soluzione di una rilevante quantità di titoli, può determinare profonde oscillazioni di prezzo e quindi aumentare la volatilità del mercato, ossia il suo grado di rischio. Il che, in ultima analisi, si traduce nell'allontanamento di una cospicua parte di investitori, vale a dire di quelli meno propensi all'azzardo eccessivo. Per questo motivo, è consentito scambiare i blocchi fuori dal mercato ufficiale, al prezzo stabilito dal cliente con la controparte.
Proprio perché scambiati al di fuori del mercato regolamentato, i blocchi possono essere negoziati anche prima o dopo l'orario ufficiale di contrattazione; le relative transazioni, inoltre, non partecipano alla formazione degli indici di Borsa.
Ciò tuttavia non significa che tali operazioni cadano nell'oblio. Entro cinque minuti dall'esecuzione, l'intermediario deve fornire una serie di informazioni alla società di gestione del mercato regolamentato interessato: titolo trattato, quantità scambiata, prezzo unitario al netto di commissioni e ora di esecuzione dell'operazione. Decorsa un'ora, le stesse infor- mazioni vengono diffuse al mercato dalla società di gestione.

Mercato grigio (Finanza)

Il dizionario definisce <grigio> il colore a metà tra il bianco e il nero. Mercato è il luogo in cui domanda e offerta si in- contrano per effettuare scambi di merce contro denaro.
A seconda della trasparenza e del grado di liceità delle operazioni che hanno luogo fra la domanda e l'offerta, il mercato può essere mercato senza alcuna aggiunta di colore (neutro come il bianco) oppure grigio o nero.
É mercato e basta quando gli scambi avvengono in conformità delle leggi e dei regolamenti amministrativi. É mercato nero al contrario quando il commercio avviene in palese violazione della legge. Non è un caso che il mercato nero sia


particolarmente rigoglioso quando esistono leggi molto restrittive, in vigore di solito nei periodi di guerra e in quelli di carestia. Caratterizzano il mercato nero prezzi nettamente superiori a quelli del mercato ufficiale, che sono fissati per legge a livelli anche più bassi di quelli che si determinerebbero per effetto del libero gioco della domanda e dell'offerta.
I prezzi del mercato nero risultano così esageratamente più alti dei prezzi ufficiali perché incorporano il duplice effetto al rialzo prodotto dalla legge di mercato e dall'extrarischio connesso alle attività illecite, rischio tanto più alto quanto più severe sono le sanzioni e l'efficienza della polizia.
É invece grigio il mercato che non è in contrasto con le leggi, bensì ne è al di fuori, nel senso che non vi sono leggi par- ticolari che regolino gli scambi al suo interno, nonostante la "situazione speciale" in cui si verificano. Si tratta in sostan- za di operazioni di compravendita di merci di cui c'è temporanea scarsezza. Tali operazioni si caratterizzano per non essere totalmente in linea con gli usi commerciali, e per la possibilità di abusi da parte dell'offerta. Ad esempio, la ven- dita può essere subordinata all'acquisto di altra merce non desiderata dall'acquirente.
In finanza, viene definito grigio il mercato secondario quando vengono scambiati titoli sottoscritti non ancora emessi, o non ancora ammessi alla quotazione ufficiale. In quest'ultimo caso, il mercato grigio svolge una funzione di acclimata- mento: gli operatori, in altre parole, possono formarsi un'idea circa il prezzo del titolo una volta che verrà ammesso alla quotazione.
In caso di offerte pubbliche di vendita, in cui il prezzo di collocamento del titolo è noto, il prezzo che si forma sul mer- cato grigio può essere un valido indicatore della misura dei guadagni o delle perdite a cui va incontro nel brevissimo termine il sottoscrittore che abbia partecipato all'offerta pubblica.

Mercato primario (Finanza)

Vuole la tradizione che la prima lezione nelle facoltà economiche sia dedicata alla definizione di mercato. Il mercato, viene insegnato, è il luogo di incontro della domanda e dell'offerta. Le due parti si incontrano per realizzare lo scambio: di solito, merce contro denaro.
L'immagine più comune che una tale definizione suscita è quella del mercato come luogo fisico (una piazza, un magaz- zino, un ufficio) in cui a un tempo sono riuniti due soggetti, chi vende e chi acquista, e la merce oggetto della transazio- ne. Di fatto, non è necessario che i tre protagonisti del mercato si trovino contemporaneamente in un unico luogo. É suf- ficiente che il venditore si metta d'accordo con l'acquirente, ad esempio per telefono, per scambiare a un determinato prezzo una certa quantità di merce, che può trovarsi depositata presso un terzo.
Questa situazione di "dispersione del mercato" è tipica quando oggetto di scambio sono azioni, obbligazioni, titoli, valu- te e attività finanziarie in genere. Per lo più vengono scambiate in Borsa, ma non necessariamente. E in ogni caso, pos- sono essere scambiate solo sul mercato primario o su quello secondario.
Ciò che differenzia i due mercati non è il luogo fisico in cui avvengono le transazioni, bensì il fatto che diversa è la na- tura del venditore, e quindi differente è la funzione svolta dal mercato. Sul mercato primario chi cede titoli è lo stesso emittente, che vende titoli di nuova emissione. Suo scopo è raccogliere così fondi per finanziare altre iniziative. Sul mercato secondario sono invece scambiati titoli acquistati, e scopo di chi vende è liquidare l'investimento finanziario.
In base a questa classificazione dei mercati, risulta che ogni titolo viene scambiato la prima volta sul mercato  primario, e le successive sul mercato secondario. Si ha mercato primario, per esempio, quando un'impresa offre in opzione ai pro- pri vecchi azionisti le nuove azioni emesse in seguito ad aumento di capitale; è mercato primario ugualmente il mercato dei titoli di Stato quando vengono offerti nuovi Bot, Cct, e così via. La Borsa è invece perlopiù un mercato secondario, dato che soltanto una minima parte dei titoli scambiati è di nuova emissione.

Merchant banking (Finanza)

Nel linguaggio finanziario viene chiamata merchant banking l'attività delle merchant bank. E cosa fanno le merchant bank? Dipende dai tempi.
Quando sorsero, nel diciottesimo secolo in Inghilterra, le merchant bank erano banche specializzate nei servizi a favore dei <mercanti>(merchant). Al tempo, il problema maggiore per il commercio internazionale consisteva nella scarsa pos- sibilità di circolazione delle cambiali, principale mezzo di pagamento delle merci. Per il commerciante straniero trovare qualcuno che gli desse fiducia e accettasse cambiali era forse l'aspetto più problematico dell'intera iniziativa. La solu- zione fu trovata dagli stessi commercianti stranieri che fondarono banche specializzate nell'accettazione di cambiali, e le chiamarono merchant bank. Per i commercianti stranieri non era infatti difficile conoscere la situazione patrimoniale dei debitori, spesso loro connazionali. Potevano così prestare, senza eccessivi rischi, il loro nome a garanzia della solvibilità del titolo di credito.
Oggi, in corrispondenza con il diversificarsi delle necessità del commercio internazionale, il raggio di azione delle mer- chant bank si è notevolmente ampliato. La loro tipica funzione di sostegno all'attività economica non è tuttavia cambia-


ta. Le merchant bank di oggi provvedono al collocamento dei prestiti obbligazionari lanciati dai loro clienti, raccolgono fondi per finanziare maxi-prestiti a Stati o a istituzioni, danno consulenza alle imprese, in particolare sulle operazioni di fusione e acquisizione, finanziano le piccole e medie imprese che intendono lanciarsi in iniziative altamente rischiose, ma con prospettive di ingenti guadagni.
In Italia, l'attività di merchant banking viene svolta dalle banche d'affari, dalle banche mercantili, e dai bracci specializ- zati di grandi banche commerciali. La disciplina nazionale precisa che non rientra nell'attività di merchant banking il salvataggio di aziende in crisi.
Analogo alla funzione svolta dalle merchant bank è il compito svolto dalle investment bank. La differenza fra le due i- stituzioni del mercato finanziario è spesso molto labile. Si può dire tuttavia che le investment bank hanno un ruolo più limitato rispetto alle merchant bank. La loro funzione riguarda soprattutto il collocamento dei nuovi titoli emessi dalla clientela, senza nessun tipo di coinvolgimento di lungo periodo di risorse proprie nel capitale di rischio o di debito del- l'impresa cliente. Le merchant bank propriamente dette, invece, possono assumere posizioni di medio-lungo periodo nel capitale del cliente.

Mibo (Finanza)

Termina in "o", tuttavia il genere è femminile: Mibo è la sigla che individua l'opzione sull'indice di Borsa Mib30.
Come ogni opzione, option in inglese, da tenere distinta dai diritti d'opzione che vengono offerti in Borsa soltanto in oc- casione di aumenti di capitale od offerta di obbligazioni convertibili, anche Mibo30 è un contratto standardizzato, ossia un contratto dalle caratteristiche predefinite. L'investitore non deve fare altro che scegliere quale contratto acquistare o vendere: l'unica vera e propria variabile è il prezzo, il cui movimento in una direzione o nell'altra determinerà l'entità dei profitti o delle perdite.
Come ogni opzione, anche Mibo dà diritto all'acquirente di vendere, se si tratta di Mibo put, oppure di acquistare, se si tratta di Mibo call, a un prezzo prefissato, una determinata attività: nella fattispecie, l'indice di Borsa Mib30. L'acqui- rente dell'opzione Mibo, sia nella versione put che in quella call, pagherà al venditore una determinata somma detta premio, ottenendo in cambio da quest'ultimo l'impegno di vendere (nel caso di Mibo call), o comprare (nel caso di Mibo put), l'indice a un prezzo prefissato, detto strike price.
Il fatto che l'indice non possa formare oggetto di scambio tra il venditore e l'acquirente, non significa che esso non abbia un valore: non potendo scambiarsi il bene, le controparti del contratto, ossia l'acquirente e il venditore dell'opzione Mi- bo, si scambieranno una somma di denaro: in particolare, l'acquirente dell'opzione verserà al venditore, al momento del- la sottoscrizione, il controvalore del premio; questi, per contro, potrebbe essere tenuto a pagare, alla scadenza dell'op- zione, la differenza fra il valore dell'indice moltiplicato per un determinato coefficiente, nella fattispecie 2,5 euro, e il prezzo strike dell'opzione.
Per la precisione, il venditore di Mibo put dovrà pagare la differenza tra l'indice e il prezzo strike, quando il primo è su- periore; il venditore della call dovrà pagare la differenza, quando invece l'indice è più basso.
Mibo è un'opzione europea: ciò significa che può essere esercitata soltanto alla scadenza: pertanto, per determinare se il venditore deve pagare la differenza all'acquirente bisognerà tenere conto dell'indice Mib 30 al momento della scadenza dell'opzione. In particolare, il valore dell'indice viene calcolato tenendo conto del prezzo di apertura dei titoli che ne fanno parte l'ultimo giorno di contrattazione dell'opzione, che coincide con il terzo venerdì del mese di scadenza.
Attualmente, le Mibo vengono trattate quotidianamente con almeno nove diversi prezzi strike con un intervallo di 500 punti per ciascuna scadenza, e con sei scadenze differenti: quattro con scadenza nei successivi trimestri e due nei mesi immediatamente seguenti quello di contrattazione. Nel mese di gennaio, per esempio, vengono trattate opzioni con sca- denza gennaio, febbraio, marzo, giugno, settembre e dicembre.

 

Moneta interbancaria (Finanza)

Moneta interbancaria, come esprime lo stesso significato letterale della locuzione, sono i soldi, o meglio i depositi, che le banche scambiano tra loro al fine di riequilibrare temporanee eccedenze e transitori deficit di tesoreria. Di norma, so- no le banche piccole che trasferiscono depositi a quelle più grandi, visto che più frequentemente sono esse ad avere sur- plus di liquidità, mentre le grandi si trovano di norma in costante stato di bisogno.
Caratteristica di questi depositi è di avere una durata relativamente breve; taluni anche di un giorno. La loro tipologia è fissa e dipende, oltre che dalla durata, anche dal giorno in cui avviene l'effettivo trasferimento di fondi da una banca al- l'altra. Ciascun deposito viene poi remunerato con un differente tasso d'interesse, il cui nome coincide con quello del deposito stesso.
Il più famoso dei depositi interbancari è l'overnight, il quale viene trasferito il giorno stesso della contrattazione e scade il giorno successivo. Vi sono però anche altri depositi della durata di un giorno: il tomorrow-next, lo spot-next e il  cor-


porate. Il primo parte il primo giorno lavorativo successivo a quello di contrattazione; il secondo, il secondo giorno la- vorativo successivo; e il terzo, il terzo giorno lavorativo successivo a quello di negoziazione.
Depositi a più lunga scadenza sono invece i time deposits e i depositi a tempo: i primi vengono trasferiti il giorno stesso ed hanno scadenze inferiori ai 30 giorni; gli altri, che partono il secondo giorno successivo, hanno diverse scadenze: set- te o 15 giorni, uno, due, tre, quattro, cinque, sei o 12 mesi.
Infine, il deposito può essere a vista, detto anche con terminologia inglese call-money. In tal caso, il suo trasferimento ha luogo il giorno stesso di contrattazione, mentre la sua scadenza è variabile: basta darne preavviso con 48 ore di anti- cipo.
L'insieme di tali depositi costituisce il cosiddetto mercato interbancario. La sua origine risale al 1963, anche se è soltan- to a partire dal 1990, quando è partito il mercato interbancario dei depositi (Mid) su circuito telematico, che i volumi si sono fatti significativi. Tanto da ridurre in misura sensibile le operazioni di rifinanziamento delle banche presso la Ban- ca Centrale.

Opa (Finanza)

Opa ufficialmente è l'abbreviazione di offerta pubblica d'acquisto, il particolare istituto giuridico che disciplina tutte le offerte, gli inviti a offrire o i messaggi promozionali, in qualsiasi forma effettuati, finalizzati all'acquisto in denaro di prodotti finanziari (azioni, obbligazioni, futures, opzioni e altri strumenti finanziari), rivolti a più di 200 persone e di ammontare complessivo superiore a 40mila euro. Qualora l'acquisto venga realizzato consegnando, a titolo di corrispet- tivo, altri prodotti finanziari l'offerta pubblica viene definita di scambio (Ops).
Le offerte pubbliche di acquisto e di scambio, inizialmente regolamentate dalla legge n. 149, del 18 febbraio 1992, sono attualmente disciplinate dagli articoli 102-112 del <Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finan- ziaria>, contenuto nel Decreto legislativo n. 58, del 24 febbraio 1998, nonché dal relativo regolamento di attuazione emanato dalla Consob ed entrato in vigore il 1^ luglio del '98.
La normativa si divide in due parti: la prima stabilisce le regole generali, valide per tutte le offerte di acquisto e di scambio; la seconda, fissa la particolare disciplina valida per le offerte rivolte all'acquisto di azioni emesse da società italiane con azioni ordinarie quotate in mercati regolamentati italiani.
Per quanto concerne le norme generali, il primo adempimento che deve compiere chiunque (persona fisica o giuridica, quotata o no) intenda procedere a un'offerta pubblica è darne immediata comunicazione alla Consob, all'emittente dei prodotti finanziari che ne formano l'oggetto, e al mercato, indicando gli elementi essenziali e le finalità dell'operazione nonché i nomi degli eventuali consulenti. Alla Consob, contestualmente alla comunicazione deve essere inviato il do- cumento dell'offerta e la scheda di adesione, perché l'Autorità ne possa prendere visione ed eventualmente richiedere all'offerente di fornire informazioni integrative, di prestare particolari garanzie e/o di rispettare determinate modalità di pubblicazione. La Consob può agire entro 15 giorni dal ricevimento della comunicazione (trenta giorni se si tratta di prodotti finanziari non quotati né diffusi tra il pubblico), trascorsi i quali il documento può essere pubblicato integral- mente su organi di stampa di adeguata diffusione e trasmesso all'emittente.
Quest'ultimo è tenuto a valutare l'offerta e a redigere un comunicato nel quale viene espresso un giudizio sull'operazio- ne. Il comunicato deve essere inviato alla Consob almeno due giorni prima della sua diffusione al mercato, al fine di consentire all'Autorità di richiedere ulteriori informazioni. La sua pubblicazione deve avvenire prima della data a partire dalla quale è concessa facoltà di aderire all'offerta. Il periodo per il quale tale facoltà viene concessa non può essere in- feriore ai 15 giorni né superiore ai 40 giorni di Borsa aperta. Per esigenze di corretto svolgimento dell'offerta e di tutela degli investitori, tuttavia, la Consob può prorogare la durata dell'offerta fino a un massimo di 45 giorni. Inoltre, nel caso in cui l'emittente convochi un'assemblea negli ultimi dieci giorni disponibili per aderire all'offerta, il termine di quest'ul- tima viene differito di ulteriori dieci giorni.
L'offerta è irrevocabile ed è rivolta a parità di condizioni a tutti i titolari dei prodotti finanziari che ne formano oggetto, i quali vi aderiscono mediante sottoscrizione della scheda di adesione (forme diverse possono essere previste per la rac- colta delle adesioni all'offerta sui mercati regolamentati).
Durante tutto il periodo dell'offerta, ossia dalla data della prima comunicazione al mercato a quella del pagamento del corrispettivo, l'offerente, l'emittente, i loro amministratori, sindaci o direttori generali nonché tutti i soggetti a essi legati da rapporti di controllo, sono tenuti al rispetto di norme di trasparenza e correttezza, volte a fornire al mercato tutte le informazioni fondamentali circa le caratteristiche e l'andamento dell'operazione nonché a impedire comportamenti che possano influenzare le adesioni o alterare in maniera rilevante i presupposti della offerta stessa.
In particolare, per l'offerente è previsto l'obbligo di adeguare il prezzo di offerta al più alto prezzo pagato per gli acqui- sti di prodotti finanziari oggetto di offerta effettuati durante il periodo della stessa. Per l'emittente di azioni quotate che sono oggetto di offerta, è invece previsto il divieto di compiere atti od operazioni che possano contrastare il consegui- mento degli obiettivi dell'offerta, senza l'autorizzazione dell'assemblea (ordinaria o straordinaria a seconda della   mate-


ria), la quale deve deliberare in qualsiasi convocazione con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino almeno il 30% del capitale.
L'offerta può essere modificata in aumento dallo stesso offerente fino a tre giorni prima della data prevista per la chiusu- ra, purché tuttavia non venga ridotto il quantitativo richiesto. Sono ammesse inoltre offerte concorrenti da parte di altri soggetti se il corrispettivo globale per ciascuna categoria di strumenti finanziari interessata è superiore a quello dell'ul- tima offerta o rilancio, o se comportano l'eliminazione di una condizione di efficacia. Offerte concorrenti possono esse- re lanciate fino a cinque giorni prima della chiusura dell'offerta originaria ovvero dell'ultima offerta presentata e co- munque, in caso di proroga, non oltre il cinquantesimo giorno dal lancio della prima offerta.
La normativa delle offerte pubbliche di acquisto e di scambio prevede anche una disciplina speciale quando ne formano oggetto azioni di società italiane quotate in un mercato regolamentato italiano. Le finalità specifiche perseguite da que- sta disciplina sono due: tutelare gli azionisti di minoranza in caso di trasferimento del controllo della società e garantire parità di trattamento a tutti gli azionisti. Il primo obiettivo è perseguito essenzialmente tramite la previsione di un'opa obbligatoria totalitaria quando un soggetto acquisisce più del 30% delle azioni con diritto di voto sugli argomenti ri- guardanti nomina o revoca o responsabilità degli amministratori o del consiglio di sorveglianza; il secondo, tramite la definizione di uno specifico criterio di determinazione del prezzo di offerta, che consente anche agli azionisti di mino- ranza di poter guadagnare almeno parte del premio di controllo (il maggior prezzo, rispetto a quello di mercato, pagato dall'acquirente al vecchio azionista di controllo).
La disciplina speciale, in particolare, definisce alcune fattispecie in relazione alle quali sorge l'obbligo di promuovere un'offerta (opa totalitaria, residuale, di concerto, a cascata, tra il 30% e il 50%), condiziona a specifiche condizioni il lancio di offerte facoltative e stabilisce sanzioni per la violazione delle norme relative.
Al riguardo, l'articolo 110 del Testo Unico stabilisce che chi viola le norme sull'Opa non possa esercitare il diritto di vo- to sulle azioni possedute (e se lo fa, la delibera assembleare è impugnabile) e debba alienare quelle eccedenti i limiti previsti entro dodici mesi.

Operazioni di rifinanziamento a più lungo termine (Economia)

Assieme alle operazioni di rifinanziamento principale (Orp) e a quelle, più rare, di regolazione puntuale (fine-tuning), le operazioni di rifinanziamento a più lungo termine costituiscono una delle modalità con cui la Banca Centrale Europea può condurre operazioni di mercato aperto, ossia operazioni di rifinanziamento a cui possono accedere tutte le istituzio- ni finanziarie autorizzate dell'Unione Monetaria, al fine di regolare la situazione di liquidità nell'area dell'euro.
Tali operazioni si caratterizzano per la frequenza mensile e la più ampia scadenza, superiore al mese e di norma pari a tre mesi. Si tratta di operazioni inverse, ossia di operazioni di vendita (acquisto) con patto di riacquisto (rivendita) o di operazioni di credito accompagnato da garanzia. Un'ulteriore caratteristica di queste operazioni è che possono essere eseguite esclusivamente a tasso variabile: ciò significa che la Banca Centrale Europea determina soltanto la quantità da immettere nel sistema, preventivamente annunciata, mentre il tasso a cui essa verrà collocata dipenderà dalla domanda delle banche.
Tramite le operazioni di rifinanziamento a più lungo termine, la Banca Centrale non dà indicazioni circa l'orientamento della politica monetaria, poiché il tasso di interesse alle quali vengono eseguite non è sotto il suo diretto controllo, ma dipende dalla risposta del mercato; con esse, piuttosto, la Banca Centrale fornisce al sistema bancario dell'Unione Mo- netaria liquidità aggiuntiva, a integrazione di quella fornita tramite le operazioni di rifinanziamento principale.
Nel 2003 l'Eurosistema ha portato a termine 12 Orlt, ognuna con un importo preannunciato di 15 miliardi di euro. Nel gennaio del 2004 tale ammontare è stato innalzato a 25 miliardi di euro. In media le Orlt hanno fornito il 19% della li- quidità netta complessiva immessa attraverso operazioni di mercato aperto nel 2003. La percentuale di richieste soddi- sfatte in ogni Orlt nel 2003 è variata fra il 42 e il 60 per cento.

 

Operazioni su iniziativa delle controparti (Economia)

Assieme alle operazioni di mercato aperto e al sistema di riserva obbligatoria, le operazioni su iniziativa delle contro- parti costituiscono uno strumento di politica monetaria nell'ambito dell'area dell'euro.
Queste operazioni possono essere di due tipi: operazioni di credito, con le quali le istituzioni creditizie autorizzate (ossia tutti gli istituti di credito soggetti a riserva obbligatoria) impiegano, al tasso di deposito marginale, eventuali eccedenze giornaliere di liquidità presso la Banca Centrale Europea, oppure operazioni di debito, con le quali gli stessi soggetti au- torizzati prendono a prestito dalla Bce, al tasso di rifinanziamento marginale, la liquidità di cui hanno bisogno per copri- re eventuali deficit giornalieri di liquidità.
I due tassi sono particolarmente importanti perché, in condizioni normali, costituiscono il corridoio all'interno del quale varia il tasso overnight di mercato (se questo fosse più alto del tasso marginale di finanziamento o più basso del tasso di


deposito, le banche - rispettivamente - non si finanzierebbero o non presterebbero sul mercato, ma esclusivamente pres- so la Bce, spingendo così il tasso di mercato al di sotto del primo o al di sopra del secondo, a seconda delle circostanze).
Per questo motivo, questi due tassi hanno un'importanza notevole nel segnalare l'orientamento della politica monetaria nel medio termine, tanto più che la Banca Centrale può modificarli in misura diversa. Per esempio, il 9 aprile '99 ha ri- dotto il tasso di deposito di 50 centesimi e quello di rifinanziamento di un punto percentuale, privilegiando così in ma- niera particolare il rifinanziamento bancario.
Di norma, le operazioni su iniziativa delle parti non sono soggette a limitazioni, benché la Bce abbia la possibilità di imporre restrizioni, cosicché gli istituti di credito autorizzati possono ricorrervi tutte le volte che lo desiderano nella mi- sura ritenuta più adeguata alle proprie esigenze.
Tuttavia, nel caso delle operazioni di debito, è necessario che gli istituti di credito prestino le dovute garanzie, sotto forma di titoli stanziabili. Sono tali i titoli che presentano determinate caratteristiche di importanza per i mercati finan- ziari e per i sistemi creditizi, indipendentemente dal fatto che siano negoziabili o meno. Essi, in particolare, possono es- sere distinti in due categorie: attività di primo livello (titoli pubblici, obbligazioni emesse da istituti di credito, dalle Banche Centrali e da imprese non finanziarie) e attività di secondo livello (altri tipi di strumenti, negoziabili e non).
Nel 2003 il ricorso medio giornaliero totale alle operazioni di rifinanziamento marginale è stato pari a 269 milioni di euro,    mentre    quello    relativo    ai    depositi    presso    la    banca    centrale    si    è    collocato    a    242    milioni.

 

Option (Finanza)

Il termine inglese option è traducibile in italiano molto semplicemente con la parola <opzione>.
L'opzione è un contratto di Borsa in base al quale una parte, detta writer, <sottoscrittore>, o seller, <venditore>, cede a un'altra, detta buyer, <acquirente>, contro il pagamento di un corrispettivo, detto premio, il diritto di acquistare o di vendere, entro o a una certa data futura, a un dato prezzo, detto strike o exercise price e in italiano <prezzo d'esercizio> o <base>, una determinata quantità di attività reali o finanziarie.
Le option possono essere due tipi: call o put. La differenza consiste nel diritto acquisito dal buyer: se si tratta di diritto ad acquistare l'attività oggetto del contratto, detta attività sottostante, l'opzione è call; se si tratta di diritto di vendere, l'opzione è put. Per contro, il seller o writer di una call si impegna a vendere l'attività sottostante su richiesta del buyer, mentre il venditore di una put si impegna ad acquistarla.
Comprando un'option infatti, il buyer acquista un diritto; egli dunque non è obbligato a dare esecuzione al contratto di compravendita sottostante; ne richiede il perfezionamento soltanto se l'esecuzione ne massimizza i profitti ovvero mi- nimizza le perdite (v. <in, at, out of the money>).
L'opzione call viene acquistata da chi si attende una crescita dei prezzi dell'attività sottostante; l'opzione put, invece, da chi si attende una riduzione dei corsi. Aspettative esattamente contrarie ha il venditore di opzioni.
Chi si attende un rialzo delle quotazioni può quindi scegliere se acquistare una call ovvero vendere una put, e analoga- mente chi si attende un ribasso, può acquistare una put ovvero vendere una call. La differenza è che acquistando un'op- zione, l'investitore pone un limite massimo alle perdite che può subire per effetto di un andamento delle quotazioni con- trario alle sue aspettative: tale limite è pari al prezzo del premio. L'acquirente infatti comprando un'opzione acquista il diritto di esercitarla, e quindi nel caso non gli convenga gli è sufficiente non dare esecuzione al contratto.
Viceversa, chi vende un'opzione si obbliga a eseguirla su domanda dell'acquirente. Sa pertanto che in caso di andamen- to delle quotazioni contrario alle proprie attese, e quindi favorevole alle attese del compratore, egli incorrerà senza dub- bio in una perdita. D'altronde ciò che spinge un investitore a vendere opzioni è proprio la convinzione che l'andamento delle quotazioni rispetterà le proprie attese, consentendo così di guadagnare il prezzo del premio.
In particolare, il venditore di opzioni è convinto che il prezzo dell'attività sottostante si muoverà in una certa direzione, ma in misura inferiore al valore doppio del premio. Vendendo un'option pertanto egli ha la possibilità di guadagnare il prezzo del premio, una somma che, secondo le proprie aspettative, è superiore a quanto potrebbe guadagnare acquistan- do l'opzione.
Le option possono essere di tipo americano o europeo a seconda che il buyer possa acquistare ovvero vendere l'attività sottostante in qualsiasi momento entro la data di scadenza del contratto oppure esclusivamente a quella data.
L'opzione presenta molti aspetti analoghi ai contratti a premio. Si differenzia tuttavia sotto il profilo della standardizza- zione: come i future anche le opzioni sono contratti di Borsa uniformi, nel senso che le caratteristiche vengono definite dall'autorità di mercato e gli investitori non hanno altro ruolo che quello di scegliere il tipo di opzione e quale posizione prendere, di vendita ovvero di acquisto.


Le opzioni, al pari dei future, sono strumenti caratterizzati da elevata leva finanziaria; consentono, in altre parole, di prendere posizione sull'attività sottostante per valori nettamente superiori a quelli necessari per comprare o vendere le opzioni stesse. Sono pertanto strumenti particolarmente utili e poco costosi per le operazioni di copertura (v. <he- dging>).
Possono essere ugualmente utilizzate per scopi speculativi. Rispetto ai future, sotto questo profilo, presentano un note- vole vantaggio: comprandole si limita il rischio di perdite al prezzo del premio. Presentano invece lo stesso profilo di rischio dei future se le si vende: l'unica differenza è che in tal caso il venditore può almeno consolarsi con l'incasso del premio, che tuttavia rappresenta una quota minima rispetto al massimo valore teorico delle perdite che potrebbe subire.
Per quanto concerne le diverse strategie d'azione fra le quali può scegliere l'acquirente di un'opzione, esse sono tre: può esercitare il diritto, se gli conviene; abbandonare l'opzione, ossia non esercitare il diritto, in caso contrario; e anche ven- dere l'opzione a un terzo, il quale quindi prende il suo posto nel rapporto contrattuale stabilito dall'opzione.

Opv (Finanza)

L'offerta pubblica di vendita, comunemente denotata dalla sigla Opv, rappresenta, forse, il più importante strumento giuridico/finanziario tramite il quale gli azionisti di controllo di una società offrono al pubblico dei risparmiatori tutte o parte delle proprie azioni aventi diritto di voto. L'Opv è inoltre lo strumento principe attraverso cui si realizza la priva- tizzazione delle società pubbliche.
Con l'offerta pubblica di vendita i prodotti finanziari che ne formano oggetto sono offerti a un identico prezzo, determi- nato in funzione dei corsi borsistici se sono quotati. L'acquirente non può comprare un numero di prodotti finanziari in- feriore a quello che costituisce il lotto minimo, e deve acquistarli rivolgendosi a una sola delle banche incaricate del col- locamento. In questo modo, la legge garantisce che l'offerta sia veramente pubblica, siano cioè numerosi gli acquirenti.
Infatti, la funzione dell'Opv è di consentire la più ampia diffusione possibile dei prodotti finanziari di un emittente.
Meno nota dell'offerta di vendita è l'offerta pubblica di sottoscrizione. La differenza fra le due è semplice: tramite la prima, l'offerente si impegna a vendere i titoli in suo possesso; nel secondo caso, vengono offerti prodotti finanziari di nuova emissione: coloro che aderiscono a questo tipo di offerta, pertanto, in quanto primi prenditori di nuovi titoli, ne sono propriamente sottoscrittori (e non acquirenti).
Offerta pubblica di vendita e di sottoscrizione costituiscono le due principali fattispecie della cosiddetta sollecitazione all'investimento, disciplinata dagli articoli 94 e seguenti del Testo Unico della Finanza. Con questa dizione viene con- templata <ogni offerta, invito a offrire o messaggio promozionale, in qualsiasi forma rivolti al pubblico, finalizzati alla vendita o alla sottoscrizione di prodotti finanziari>, con l'esclusione della raccolta dei depositi bancari o postali realizza- ta senza emissione di strumenti finanziari.
Perché l'offerta possa essere qualificata come pubblica, è necessario, tra l'altro, che soddisfi i seguenti requisiti: sia ri- volta anche a soggetti diversi dagli investitori istituzionali (banche, Sgr, Sicav, Sim eccetera), che il numero di soggetti ai quali si rivolge sia superiore a quello stabilito dalla Consob (al momento 200, precedentemente 300), e che il valore complessivo dei prodotti offerti superi i 40mila euro.
Coloro che intendono procedere a una sollecitazione all'investimento sono tenuti a darne preventiva comunicazione alla Consob, allegando un prospetto informativo redatto secondo precise modalità stabilite dall'Autorità stessa.
La comunicazione deve contenere una sintetica descrizione dell'offerta nonché l'indicazione dei soggetti che la promuo- vono. Il prospetto informativo, invece, deve fornire agli investitori le informazioni necessarie affinché essi possano per- venire a un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell'emittente. Fra le altre indicazio- ni, il prospetto informativo deve anche contenere il prezzo di vendita o di collocamento, nonché la quantità dei prodotti finanziari offerti. Queste due ultime informazioni, tuttavia, possono esserne fornite anche in un momento successivo, tramite i cosiddetti avvisi integrativi.
Ricevuta la comunicazione, la Consob verifica se è necessario richiedere ulteriori informazioni; nel caso non ce ne sia bisogno, autorizza la pubblicazione del prospetto informativo, il quale deve essere reso pubblico almeno cinque giorni prima dell'inizio del periodo di adesione.
Il prospetto viene reso pubblico in tre modi: mediante deposito presso la Consob; mediante deposito di copie a disposi- zione di chiunque ne faccia richiesta presso l'offerente, l'emittente, gli intermediari incaricati del collocamento e la so- cietà di gestione del mercato (nel caso in cui oggetto dell'offerta siano strumenti finanziari quotati); mediante pubblica- zione di un avviso su organi di stampa adeguatamente diffusi.
Il periodo di adesione ha inizio entro 60 giorni dalla data in cui è possibile pubblicare il prospetto (ossia dalla data di autorizzazione della Consob a pubblicarlo) e non può avere durata inferiore a due giorni. L'adesione alla sollecitazione è effettuata di norma mediante la sottoscrizione di un modulo appositamente predisposto dall'offerente.


Over-the-counter (Finanza)

Over-the-counter significa in inglese <sopra il banco>. Il banco è quello dei mercati. Su di esso giacciono le merci in vendita: verdura, frutta, detersivi, pasta... Diversi momenti scandiscono l'atto di vendita sul banco: la scelta da parte del compratore che manipola per ogni verso il prodotto desiderato, il consiglio interessato del venditore, la consueta richie- sta di sconto dell'acquirente, la riluttanza del venditore e infine lo scambio a condizioni che apparentemente non soddi- sfano nessuno dei due. Questo per dire che le contrattazioni over-the-counter avvengono senza una regola precisa, nel totale disprezzo delle formalità, e in assenza di un'autorità di controllo.
In finanza, over-the-counter vengono definite le operazioni di compravendita di titoli non quotati, oppure le contratta- zioni di titoli quotati che avvengono al di fuori della Borsa (v. <terzo mercato> e <mercato dei blocchi>).
Caratteristica delle operazioni over-the-counter è la trattativa diretta fra il titolare dell'attività finanziaria o suo rappre- sentante e l'acquirente, fatta di solito per telefono. La determinazione del prezzo rispetta naturalmente la legge della domanda e offerta, però l'assenza di procedure standardizzate e di controlli, sia prima che dopo l'operazione, lascia spa- zio a manovre non ortodosse, almeno secondo i canoni dei mercati regolamentati.
In italiano, dopo l'introduzione della nuova disciplina dei mercati e degli intermediari, contenuta nel Testo Unico della Finanza entrato in vigore il 1^ luglio 1998, over-the-counter si può tradurre con la locuzione mercato non regolamenta- to. Un simile mercato si caratterizza non tanto per la mancanza di organizzazione, visto che anche su tale mercato gli scambi di strumenti finanziari rispondono a determinate regole di contrattazione, quanto per la mancanza di una società di gestione, di intermediari autorizzati e di attività esercitata in modo professionale.
Su tali mercati l'intervento dell'autorità di vigilanza, la Consob, è meno pregnante, anche se a essa la legge riserva co- munque il potere di imporre obblighi di invio di dati, notizie e documenti relativi agli scambi realizzati, oltrecché il po- tere di sospendere e di vietare tali mercati nei casi più gravi (qualora, cioè, comportino un grave pregiudizio alla tutela dell'investitore).
La forma più frequentemente assunta dai mercati over-the-counter è quella di "rete elettronica di comunicazione" o, in inglese, Electronic communication network (Ecn), ossia di circuito gestito da una società finanziaria sul quale viene rea- lizzato lo scambio telematico di un certo numero di titoli, quotati e non, domestici ed esteri. La prima Ecn italiana, il circuito Tlx, ha iniziato a operare il 18 gennaio 2000.
Negli Stati Uniti, over-the-counter indica invece un mercato specifico di titoli non quotati, gestito dalla National Asso- ciation of Securities Dealers (Nasd). In questo mercato vengono trattate perlopiù azioni e altri valori mobiliari emessi da società di piccole dimensioni che non possiedono i requisiti per la quotazione in Borsa. Su tale mercato è tuttavia possi- bile scambiare anche titoli di società che avrebbero i requisiti sufficienti per l'ammissione alla quotazione, ma che prefe- riscono il Nasdaq (National Association of Securities Dealers Quotation), in particolare in virtù del meccanismo di ne- goziazione considerato più efficiente. Caratteristica di tale mercato è infatti la negoziazione per via telematica.

Parità di potere d'acquisto (Economia)

Quando si parla di potere d'acquisto, di norma, si fa riferimento alla moneta. E' con essa infatti che si compera. Parità di potere d'acquisto (Ppa), o in inglese purchasing-power parity (Ppp), è dunque il risultato del confronto del potere d'ac- quisto di due valute quando esso si risolve con una "x" (da intendersi come segno in schedina).
In altre parole, la parità del potere d'acquisto fra due valute è quel tasso di cambio che consente di acquistare l'identica quantità di cose con un dato ammontare di moneta, indipendentemente dal fatto che esso sia espresso in una divisa o nell'altra.
Una volta l'anno, l'autorevole settimanale <The Economist> pubblica la parità di potere d'acquisto fra diverse valute, calcolandola sulla base di uno speciale paniere, composto da un unico bene, il Big Mac, celeberrimo panino distribuito in tutto il mondo dalla catena di fast food Mac Donald's.
Perché il Big Mac? Perché è uno dei pochi beni omogenei a livello mondiale: si può acquistare praticamente ovunque ed è costituito dagli stessi ingredienti. Prendendo a termine di riferimento il Big Mac non vi è possibilità di falsare le Ppa: così calcolate, consentono di comperare dovunque lo stesso bene. Se per esempio il Big Mac costasse in Italia 3,5 euro e negli Stati Uniti 3,5 dollari, ciò significherebbe che la parità di potere d'acquisto euro/dollaro calcolata in funzio- ne del "grande" panino è uguale a un dollaro per unità di moneta europea.
A questo tasso di cambio, un'identica quantità di moneta - 3,5 monete da 1 dollaro e 3,5 monete da un euro - compera lo stesso bene, in Italia e negli Stati Uniti. In particolare, una Ppa pari a 1 euro per dollaro starebbe a significare una so- pravvalutazione della nostra moneta, visto che il tasso di cambio attuale si aggira intorno a 1,20 dollari per euro. La di- visa nazionale cioè dovrebbe subire una svalutazione di 20 centesimi perché il tasso di cambio eguagli la parità di pote- re d'acquisto con il dollaro. Se viceversa la Ppa fosse pari a 1,30, l'euro risulterebbe sottovalutato di dieci centesimi.
Parità di potere d'acquisto più "scientifiche" sono determinate dall'Ocse sulla base di panieri ben più nutriti.


La teoria delle parità di potere d'acquisto è sorta originariamente con lo scopo di spiegare l'andamento dei tassi di cam- bio: l'evidenza mostra tuttavia che nel breve periodo questi variano in funzione di forze completamente diverse. Le Ppa tornano però utili per tracciare le curve di tendenza di lungo periodo.

 

Patrimonio netto (Finanza)

In diritto, patrimonio è l'insieme dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo a un soggetto; semplificando, si può dire che è la differenza fra i crediti e i debiti di un individuo. In contabilità invece, viene definito patrimonio l'insieme dei beni economici a disposizione dell'impresa; tende quindi a coincidere con l'attivo. La differenza fra l'attivo e il pas- sivo è invece denominata patrimonio netto. In pratica il patrimonio netto dei ragionieri corrisponde al patrimonio dei giuristi.
Fatte queste precisazioni terminologiche, fondamentali per non incorrere in confusioni e fraintendimenti, va detto che il patrimonio netto rappresenta quello che comunemente viene chiamato capitale di rischio dell'impresa, contrapposto al capitale di debito, che sono le passività, ossia le risorse economiche prese a prestito presso terzi. Il patrimonio netto rappresenta cioè quanto i soci di un'impresa collettiva, o il singolo imprenditore se l'impresa è individuale, hanno confe- rito direttamente sotto forma di versamenti, o indirettamente sotto forma di utili o altre risultanze attive non distribuite, al fine di dotare l'intrapresa delle risorse economiche indispensabili per potere operare. Tale valore viene definito anche capitale di rischio, perché se l'iniziativa dovesse fallire, l'intero ammontare dei versamenti e degli utili non distribuiti andrebbe definitivamente perduto.
Nonostante che il patrimonio netto, in quanto differenza dell'attivo con il passivo, rappresenti un valore unico e inscin- dibile, la legge prescrive che nello stato patrimoniale venga distinto nelle sue componenti ideali, classificate in ordine di indisponibilità, partendo dalla componente che più di tutte è vincolata alle sorti dell'impresa, il capitale (sociale), ossia il capitale sottoscritto dai soci o dal singolo imprenditore (nel qual caso sarà semplicemente capitale), in sede di costitu- zione dell'impresa o di aumento di capitale.
E' importante non confondere il patrimonio netto con il capitale sociale: quest'ultimo, lungi dal rappresentare il valore dei mezzi propri a disposizione dell'impresa, come il suo nome indurrebbe a ritenere, è un semplice dato contabile, pri- vo sotto questo profilo di efficacia segnaletica.
Oltre al capitale sociale, fanno parte del patrimonio netto tutta una serie di riserve, ciascuna distinta a seconda della fon- te da cui ha tratto origine; per cui, in ordine di indisponibilità: la riserva da sovrapprezzo delle azioni, originata dall'e- missione di nuove azioni a un prezzo superiore al valore nominale; le riserve da rivalutazione, iscritte quando una nuova legge consente di rivalutare i cespiti dell'attivo per tenere conto dell'erosione di valore dovuta all'inflazione; la riserva legale, detratta per legge ogni anno nella misura del 5% dagli utili di esercizio fino a quando non abbia raggiunto un va- lore pari al 20% del capitale sociale; la riserva per azioni proprie in portafoglio, iscritta per compensare la fuoriuscita di capitale dovuta all'acquisto da parte della società di proprie azioni; le riserve statutarie e le altre riserve, distintamente indicate.
Infine, compongono il patrimonio netto gli utili o le perdite riportati a nuovo e gli utili o le perdite di esercizio, sulla cui destinazione l'assemblea non ha ancora deliberato.
Il patrimonio netto costituisce il primo titolo della sezione dello stato patrimoniale in cui sono elencate le passività del- l'impresa. La ragione della sua collocazione nel passivo tuttavia non ha nulla a che fare con la natura economica del pa- trimonio netto, che in nessun caso può essere definito come passività dell'impresa, ma dipende da questioni di tecnica contabile, in particolare dalla regola secondo cui il totale dell'attivo deve coincidere con il totale del passivo: essendo il patrimonio netto la differenza, generalmente positiva, fra attivo e passivo, non può trovare altra collocazione che nella colonna del passivo.
Al proposito, vale ricordare che il patrimonio netto può essere completamente eroso dalle perdite, che una volta veniva- no iscritte con segno positivo nella sezione dell'attivo poiché dovevano compensare il maggior valore delle passività.
Dal '91, con l'adeguamento della normativa nazionale alla disciplina comunitaria, le perdite vengono iscritte, più coe- rentemente, alla voce del patrimonio netto (con segno, però, negativo). Può così capitare che una società in stato di tota- le dissesto economico abbia un patrimonio netto negativo: esso è la misura di quanto le passività superano le attività.

 

Payout (Finanza)

<Payout> è una parola inglese composta da due termini "originari": pay e out. Il primo significa letteralmente <paga> o
<pagamento>, il secondo <fuori>. Payout viene pertanto definito l'atto con il quale un soggetto effettua pagamenti a fa- vore di terzi (in genere più di uno).


In realtà, il termine non rientra nel comune vocabolario inglese, ma fa parte del gergo tecnico utilizzato dagli analisti di bilancio: con payout essi indicano la distribuzione di utili netti sotto forma di dividendi. In particolare, in contabilità è noto il payout-ratio, ossia il rapporto fra dividendi distribuiti e utili netti d'esercizio.
Tale indice, espresso di norma in termini percentuali, è molto importante, perché fornisce un'immagine circa le scelte strategiche dell'impresa in ordine al finanziamento dei propri investimenti. É ovvio che quanto più alto è il rapporto di payout, tanto minore è la quota di utili netti a disposizione dell'impresa per autofinanziare progetti futuri. Gli utili netti d'impresa possono avere infatti soltanto due destinazioni: essere distribuiti come dividendi, accrescendo così il payout- ratio, ovvero essere trattenuti in seno all'impresa, andando per questa via ad accrescere il patrimonio netto e quindi il tasso di autofinanziamento.
Dal punto di vista dell'investitore, il payout-ratio fornisce utili elementi per valutare il proprio investimento azionario.
In particolare, la presenza di dividendi rivelata da un payout positivo è senz'altro segno che degli utili, nell'esercizio ap- pena concluso o in quelli passati, sono stati conseguiti dalla società e che quindi l'investimento è, in qualche misura, remunerativo.
I dividendi, tuttavia, non possono essere considerati come unico termine di riferimento per la valutazione del rendimen- to di un investimento azionario: bisogna tenere altresì conto dei capital gains (guadagni in conto capitale) conseguiti grazie all'aumento dei prezzi delle azioni. Un payout-ratio molto elevato, in questo senso, può quindi avere un significa- to negativo per l'investitore: può significare che l'impresa non stia accantonando sufficienti risorse per gli investimenti futuri, dovendo poi finanziarli mediante capitale preso a prestito o aumenti di capitale. E' vero, d'altronde, che un payout elevato ha il pregio di consentire all'investitore di rientrare in possesso della somma investita più velocemente.
Storicamente le imprese più giovani hanno payout molto bassi, avendo estrema necessità di finanziare internamente la propria espansione; viceversa, le società che gestiscono servizi di pubblica utilità tendono ad essere caratterizzate da payout molto elevati.

 

Pil (Economia)

Per un Pil i Governi possono cadere, i Parlamenti sciogliersi, e i cittadini essere chiamati alle urne. Succede spesso quando il Pil corre in discesa per più anni consecutivi.
Perché il Pil misura il prodotto interno lordo, vale a dire il valore dei beni e dei servizi finali, ossia non destinati a essere utilizzati nei processi produttivi, prodotti nel territorio di un Paese in un anno di attività economica. Il Pil è la principale misura dell'attività economica svolta in un Paese in un determinato periodo, di norma il trimestre o l'anno.
Se aumenta la produzione, aumenta anche il reddito, sotto forma di salari, stipendi, profitti, interessi e rendite. Il reddito in parte viene risparmiato, e quindi impiegato per finanziare nuovi investimenti, in parte viene "consumato" nell'acqui- sto di beni e servizi (vestiti, discoteche, bollette telefoniche, viaggi, e quant'altro ancora), e in parte (quella di compe- tenza dello Stato) viene distribuito sotto forma di servizi forniti dalla Pubblica Amministrazione.
Il Pil però non rappresenta il reddito globale guadagnato dai cittadini di un Paese, poiché incorpora la frazione di reddi- to prodotta sul territorio nazionale da cittadini stranieri, e non tiene conto del reddito guadagnato dai connazionali all'e- stero. Soltanto detraendo il primo e aggiungendo il secondo, si ha l'effettivo ammontare del reddito (o prodotto) nazio- nale lordo, (Rnl o Pnl).
Si tratta, in tutti i casi, di un valore lordo, perché non è depurato dal consumo dei beni utilizzati nei processi produttivi (macchinari, capannoni, mezzi di trasporto). Per depurarlo, è necessario detrarre gli ammortamenti, ossia una somma rappresentativa del costo di "usura" . La versione depurata del Reddito nazionale lordo è il reddito nazionale netto (Rnn).
É auspicabile per una nazione che il suo Pil cresca sempre. L'augurio è sincero, però, se si riferisce alla crescita reale, ossia a prezzi costanti; una crescita nominale, cioè a prezzi correnti, infatti può nascondere una diminuzione reale. Il che si verifica quando i prezzi crescono più velocemente del Pil nominale. In tal caso, il più alto reddito, non rende i cittadi- ni più ricchi, poiché inferiore è la quantità di beni che con esso possono acquistare. In termini tecnici, si dice che si è ridotto il loro potere d'acquisto.
Per calcolare la crescita "vera", il Pil deve essere valutato a prezzi costanti, ossia utilizzando sempre gli stessi prezzi . Essi sono i prezzi prevalenti in un determinato anno, scelto come anno di riferimento, e definito anno base.

Plusvalenze (Finanza)

Il termine plusvalenza denota una differenza positiva - in più (plus) - fra due valori. Non ogni differenza tra due valori costituisce, tuttavia, una plusvalenza; perché essa si possa dare è necessario che siano soddisfatte due condizioni. In primo luogo, i valori confrontati devono avere natura economica (non si può pertanto parlare di plusvalenza dell'Everest


rispetto al Monte Bianco, perché più alto), e in secondo luogo, devono essere riferiti a uno stesso bene (così non si può dire che il prosciutto crudo è caratterizzato da plusvalenza rispetto al cotto, perché più caro). La plusvalenza è pertanto la differenza positiva fra due misurazioni differenti del valore economico di uno stesso bene. Il concetto, per sua stessa natura, è quindi essenzialmente contabile (cioè relativo alla tecnica del "contare", cioè valutare i beni); in particolare, al plurale - plusvalenze - costituisce una voce del conto economico.
Un'impresa realizza una plusvalenza quando vende un cespite a un prezzo superiore al valore netto iscritto in bilancio.
Può essere sia ordinaria che straordinaria, a seconda che l'operazione dalla quale origini rientri nella gestione ordinaria ovvero straordinaria dell'impresa. Per esempio, la plusvalenza derivante dalla vendita di un camion che debba essere sostituito con uno nuovo costituisce una fonte ordinaria di reddito e va iscritta sotto la voce del conto economico <altri ricavi e proventi>nel valore della produzione. Viceversa, l'alienazione di un intero impianto per cambiamento dell'attivi- tà d'impresa ovvero per ridimensionamento della stessa, va considerata plusvalenza straordinaria e quindi iscritta nella voce <proventi e oneri straordinari>.
Le plusvalenze derivano normalmente dalla cessione di attività immobilizzate, tuttavia in casi eccezionali possono deri- vare anche dalla cessione di elementi dell'attivo circolante. Un caso tipico in questo senso è la cessione di uno stock di scorte di materie prime vendute a un prezzo superiore al valore netto contabile.
Analogo discorso vale per le cessioni che procurano all'impresa una perdita; in tal caso, tuttavia, si parla di minusvalen- ze. In simili circostanze, il cespite viene venduto a un prezzo inferiore al valore netto contabile.
A differenza delle plusvalenze, le minusvalenze possono derivare anche da svalutazioni contabili rese necessarie quan- do il valore netto iscritto nello stato patrimoniale non rappresenta il valore effettivo dell'attività.
Anche le minusvalenze, qualunque sia la loro origine, possono essere ordinarie o straordinarie e riguardare immobiliz- zazioni o attivo circolante.

 

Politica di bilancio (Economia)

Fra le politiche economiche che un governo può porre in atto, la più importante è quella di bilancio. Con la politica di bilancio il governo sceglie l'ammontare desiderato di deficit o di surplus del bilancio dello Stato. L'obiettivo è di in- fluenzare così in senso ottimale la situazione macroeconomica del Paese.
Il primo effetto della politica di bilancio è sulla domanda. Può essere diretto (aumento o diminuzione della spesa pub- blica in beni o servizi) o indiretto (incremento o riduzione del reddito disponibile dei soggetti economici mediante mo- difica verso l'alto o il basso delle imposte).
La politica di bilancio incide sulle quantità, ma ha anche conseguenze sulla composizione della domanda. Per esempio, una politica espansiva può essere condotta in modo tale da aumentare il peso dei consumi pubblici a detrimento degli investimenti privati oppure in modo da ottenere l'effetto inverso.
Inoltre, proprio perché una politica espansiva richiede di reperire somme ingenti sul mercato dei capitali, tende a gene- rare spinte al rialzo sui rendimenti obbligazionari. Questo andamento, se si realizza, tende a sua volta ad attirare capitali esteri, con conseguente rivalutazione della valuta nazionale sulle monete straniere. L'apprezzamento della moneta tende a innalzare le importazioni e a deprimere le esportazioni, ponendo in questo modo le condizioni per la creazione o l'am- pliamento del disavanzo commerciale. Trova così spiegazione perché una politica di bilancio espansiva tende a favorire la formazione dei cosiddetti deficit gemelli, ossia della bilancia commerciale e del bilancio dello Stato.
Influenzando la domanda, la politica di bilancio incide, indirettamente, anche sul livello della produzione, a condizione però che l'economia nazionale non si trovi in uno stato di piena occupazione o di massimo utilizzo degli impianti. In tal caso, non potendo aumentare le quantità prodotte, salgono soprattutto i prezzi.
Oltre a questi effetti che sono di breve periodo, ve ne sono altri che invece permangono a lungo nel tempo. Una politica espansiva comporta nel futuro, in primo luogo, una maggiore pressione fiscale. Tutto ciò che viene preso a prestito oggi deve infatti essere restituito, con gli interessi, domani. Per reperire le risorse necessarie per il rimborso non resta altro che aumentare le aliquote fiscali (o tagliare drasticamente le spese pubbliche; il che peraltro è una forma di tassa occul- ta).
In secondo luogo, una politica espansiva tende a comprimere i livelli futuri di produzione, in specie se le maggiori spese pubbliche hanno natura corrente. Il risparmio che serve a finanziarle viene consumato a discapito degli investimenti.
Che, dell'attività produttiva e dell'occupazione, sono la benzina.


Politica monetaria (Economia)

Da quando è stato abbandonato il baratto, la moneta ha assunto un rilievo di primaria importanza nel funzionamento delle economie: perché funge da mezzo di scambio (si comprano beni o servizi fornendo in compenso moneta), da unità di conto (consente cioè di fissare un prezzo per ciascun prodotto), da riserva di valore (tende a mantenere nel tempo il proprio potere d'acquisto, per cui chi la detiene sa che potrà utilizzarla in futuro per fare acquisti).
La moneta svolge dunque un ruolo fondamentale per il funzionamento del motore economico. Non è sbagliato dire che per le economie non fondate sul baratto essa svolge una funzione analoga a quella della benzina per i motori delle auto- vetture: senza moneta, le economie moderne si fermano, non si produce, né si consuma.
Perché tuttavia la moneta possa svolgere le sue funzioni efficacemente, è necessario che essa venga fornita in modo cor- retto: se tutti potessero stampare moneta, essa non potrebbe svolgere le tre funzioni che la rendono tanto importante per il funzionamento dei sistemi economici. Per questo motivo, la gestione della moneta viene attribuita in esclusiva a un unico soggetto, la Banca Centrale, la quale esercita questa sua competenza in funzione di determinati obiettivi e per mezzo di particolari strumenti. L'insieme degli obiettivi e degli strumenti in funzione e tramite i quali la Banca Centrale agisce costituisce l'ossatura di quella che viene comunemente denominata politica monetaria.
Nell'ambito dell'Unione Monetaria, il principale obiettivo di politica monetaria perseguito dall'Eurosistema, ossia dal- l'insieme delle Banche Centrali nazionali dei 12 Paesi che hanno finora adottato l'euro più la Banca Centrale Europea, è il mantenimento della stabilità dei prezzi nel medio periodo, secondo quanto previsto all'articolo 105, 1^ comma del Trattato di Maastricht.
Questo, tuttavia, non è l'unico obiettivo che deve perseguire la politica monetaria dell'Uem: fatto salvo il suo raggiun- gimento, l'Eurosistema è tenuto anche a sostenere le politiche economiche generali dell'Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell'Unione stessa definiti all'articolo 2 del Trattato, tra cui: uno sviluppo armonioso, equi- librato e sostenibile delle attività economiche; un elevato livello di occupazione e di protezione sociale; una crescita so- stenibile e non inflazionistica; il miglioramento del tenore e della qualità della vita; la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri.
La politica monetaria europea non deve invece perseguire nessuno specifico obiettivo di cambio: il tasso di cambio del- l'euro è, in altre parole, il risultato della combinata azione della politica monetaria e delle altre politiche economiche dell'Unione, ciascuna delle quali ha propri obiettivi specifici.
Con riguardo all'obiettivo principale della politica monetaria, l'Eurosistema non si è limitato a darne un definizione ge- nerica, ma l'ha dotata di contenuto specifico: si ha stabilità dei prezzi quando l'aumento sui 12 mesi dell'indice armoniz- zato dei prezzi al consumo per l'area dell'euro è inferiore, ma prossimo al due per cento. Ciò implica che un tasso di in- flazione sensibilmente inferiore a questa soglia non è compatibile con questo obiettivo.
Quali sono gli strumenti dei quali l'Eurosistema si è dotato per il perseguimento dei propri obiettivi di politica moneta- ria? Sono tre principalmente: le operazioni sul mercato aperto, le operazioni su iniziativa delle controparti, e il sistema di riserva obbligatoria.
Tramite le operazioni di mercato aperto, l'Eurosistema controlla i tassi di interesse a breve termine, gestisce le condi- zioni di liquidità del mercato monetario e segnala gli orientamenti di politica monetaria. Le operazioni su iniziativa del- le controparti hanno la funzione di fornire e assorbire liquidità overnight e indicare in termini generali le intenzioni che nel medio periodo ispirano la condotta di politica monetaria. La riserva obbligatoria ha soprattutto la funzione di stabi- lizzare i tassi di interesse del mercato monetario e di creare o ampliare un fabbisogno strutturale di liquidità.

Posizioni corte e lunghe (Finanza)

Tra gli innumerevoli significati che possono essere attribuiti all'aggettivo inglese short, i più comuni sono <basso, bre- ve, corto>. La locuzione short position viene quindi letteralmente tradotta dal dizionario finanziario italiano con <posi- zione corta>; long position, corrispondentemente, con <posizione lunga>.
Queste definizioni, se beneficiano della letteralità, peccano tuttavia di potere evocativo. Vale allora sottolineare che short può essere utilizzato per indicare situazioni in cui taluno è <a corto> di qualcosa. Lo short selling per esempio è la
<vendita allo scoperto>, ossia senza il contestuale possesso della cosa che si vende. Per deduzione logica inversa, la po- sizione di chi acquista può dunque essere a ragione definita lunga. La simmetria contrattuale, oltre che concettuale, è così perfettamente assicurata: da una parte sta il venditore che è "corto"; dall'altra l'acquirente, "lungo".
É chiaro dunque che simili posizioni possono venirsi a creare soltanto quando la consegna del venduto è procrastinata nel futuro. Per questo motivo, le due posizioni sono tipiche dei future e delle option: questi strumenti finanziari rappre- sentano infatti i principali contratti a esecuzione differita.


Nel gergo finanziario, invero, viene detta lunga anche la posizione di chi acquista titoli "a pronti". Tale posizione però non è accompagnata dalla correlativa posizione corta del venditore: per vendere a contanti egli non può infatti essere scoperto.
Una posizione corta o lunga, poi, è sempre una posizione aperta. Una posizione si apre nel momento in cui viene com- piuta la prima operazione, di acquisto o di vendita.
Nel caso di future, aprono una posizione sia il venditore che l'acquirente: il primo apre tuttavia una posizione corta, il secondo lunga. La chiuderanno, il primo acquistando un future della stessa specie oppure consegnando l'attività vendu- ta; il secondo ricevendola, ovvero - più frequentemente - rivendendo il contratto. Risulta allora che posizione lunga e corta non sono altro che spie delle aspettative degli operatori: ne apre una corta chi si attende un ribasso del mercato; una lunga, chi si immagina il futuro in maniera diametralmente opposta.
Nel caso di option, la fattispecie è più complessa: sia la posizione lunga che la corta possono rivelare un animo rialzista: dipende dal tipo di contratto, se è call o put. Nel caso di call, si riproduce sostanzialmente la situazione in cui viene trat- tato un future: l'unica differenza consiste nel fatto che chi si mette in posizione di vendita, lo writer, non è certo di dover dare esecuzione al contratto entro la sua scadenza. Egli vi sarà tenuto, soltanto se all'acquirente conviene esercitare il diritto comprato.
Per contro, se l'opzione è put, è il venditore "corto" ad attendersi un'impennata del mercato: se i prezzi salgono, l'acqui- rente del put non esercita il proprio diritto di vendita, poiché ci perderebbe, e lo writer guadagna il premio, oppure chiu- de la posizione acquistando un identico put, ma a prezzo inferiore.

Premio di rischio (Finanza)

I latini la chiamavano fortuna, denotando con questo termine la buona e la cattiva sorte; gli statistici la chiamano proba- bilità; in finanza si usa il termine rischio, con il quale viene indicata la possibilità che l'investimento non generi i redditi attesi: a ben vedere però, tutte e tre le locuzioni denotano la stessa circostanza, ossia l'incertezza del futuro.
In finanza, in particolare, il rischio consiste nella probabilità che un investimento creduto remunerativo si trasformi in una perdita secca oppure in un'iniziativa meno redditizia di quanto ci si attendeva. Ciò accade per esempio se la società di cui si sono comprate le azioni fallisce, oppure se l'ente di cui si sono comprate le obbligazioni viene a trovarsi mo- mentaneamente in una situazione di illiquidità.
Nel primo caso, l'investitore subisce una perdita secca, non riesce infatti a recuperare il capitale inizialmente investito; nel secondo, invece vede ridursi il rendimento, visto che il mancato pagamento degli interessi alla scadenza ovvero il rimborso del capitale alla fine del prestito impediscono il reinvestimento delle somme promesse e quindi la  possibilità di derivarne nuova remunerazione.
Quanto più è rischioso l'investimento, tanto maggiore è il rendimento richiesto dagli investitori. In assenza di una mag- giore remunerazione, infatti, essi preferiscono mettere i propri soldi in iniziative prive di rischio, per esempio titoli di Stato. Per definizione, i titoli del debito pubblico dei Paesi industrializzati sono gli strumenti finanziari con minore gra- do di rischio.
In finanza il maggior rendimento richiesto per un investimento rischioso rispetto a uno privo di rischio viene definito appunto premio di rischio. Il miraggio di guadagnare più del normale spinge gli investitori a correre il rischio di incorre- re in una perdita oppure di ottenere dal loro investimento un rendimento più basso.
Un esempio può chiarire la logica sottostante la richiesta del premio di rischio. Supponiamo che un investimento di 2mila euro presenti pari probabilità di un ricavo di 5mila euro così come di una perdita di mille. Ebbene, se fosse effet- tuato un gran numero di volte, gli statistici affermano che dovrebbe assicurare in media un'entrata di 2mila euro. E' chiaro che un investitore, a meno che non sia neutrale, cioè indifferente al rischio, non sarà disposto a investire 2mila euro per ottenere in cambio la stessa cifra; soprattutto perché i soldi utilizzati per l'investimento sono certamente spesi, mentre quelli in entrata sono soltanto probabili, e per di più mediamente probabili. A queste condizioni, l'investitore sensibile al rischio non è disposto a investire i propri soldi.
Egli invece potrebbe essere disposto a fare l'investimento nel caso in cui quella distribuzione dei rendimenti potesse es- sere realizzata con l'impiego di soli mille euro. La differenza fra 2mila euro di rendimento atteso e mille euro di inve- stimento è il cosiddetto premio di rischio.
In pratica, il premio di rischio viene di norma calcolato come la differenza di rendimento fra uno strumento  finanziario e uno di identica natura emesso da un soggetto con minimo profilo di rischio. Per esempio, se un'obbligazione decenna- le emessa da una società offre un rendimento pari al 8%, e un BTp con uguale maturità offre un rendimento pari al 4,5%, il premio di rischio è pari a 250 punti base, ogni punto base essendo pari a un centesimo di punto percentuale.
Il premio di rischio varia in funzione di molteplici fattori. I principali sono tuttavia tre: il grado di rischio connesso alla solidità economica e finanziaria dell'emittente, nonché all'attività da esso svolta; la durata del titolo; e la sua liquidità,


ossia la facilità di smobilizzo. In particolare, il premio di rischio è tanto più alto, quanto maggiore è il grado di rischio dell'emittente, quanto più lunga è la durata del titolo e quanto minore è la sua liquidità. A quest'ultimo riguardo, basta por mente al fatto che il premio di rischio cresce in funzione delle difficoltà che l'investitore incontra per venderlo sul mercato; difficoltà che di norma implicano dei costi aggiuntivi, di cui l'investitore non si farebbe senz'altro carico se non sperasse di ottenere dal suo investimento un rendimento capace di ripagarli per intero e anche più.

 

Prestiti sindacati (Finanza)

Come ogni prestito, anche il prestito sindacato viene concesso dalle banche. La differenza è che questo non viene con- cesso da un'unica banca, come avviene di norma, ma da un pool di banche, o se si vuole, da un sindacato. La ragione di questa molteplicità di soggetti creditori trova fondamento nell'entità del prestito, troppo grande perché una sola banca, per quanto solida, possa assumersene il rischio per intero.
La società che ha bisogno di grandi somme di denaro ha a disposizione due opzioni: aumentare il capitale oppure otte- nere un prestito sindacato. In questa seconda circostanza, si rivolge a una grossa banca d'affari e chiede di riunire un gruppo di banche che possano essere interessate a partecipare all'operazione.
Il mutuo di norma ha una struttura standard, sulla quale di volta in volta possono essere introdotte variazioni per tenere conto delle particolari esigenze del singolo cliente. L'interesse nella maggior parte dei casi è variabile, nel senso che è legato a un tasso di riferimento, per esempio il Libor, oppure il prime rate, o ancora il tasso sui certificati di deposito, al quale viene aggiunto un differenziale (spread, in inglese). Il saggio di interesse viene rivisto periodicamente in funzione delle variazioni subite dal tasso di riferimento.
Il mutuo prevede inoltre un piano di ammortamento che definisce le quote periodiche a carico del debitore. Di norma, il pagamento dello stock di capitale preso a prestito decorre dopo qualche anno, in modo da consentire al prenditore che l'iniziativa finanziata con le somme mutuate possa dare i suoi frutti e con essi ricavare le somme per ripagare il debito.
Non è esclusa, tuttavia, la possibilità che l'intero capitale sia restituito al momento dell'estinzione del prestito; in tal caso il prestito prende nome di bullet loan.
Una volta costituito il sindacato ed erogato il prestito, le banche hanno la possibilità di rivendere quote del mutuo ad altri investitori istituzionali e a risparmiatori individuali. Le tecniche disponibili possono assumere forme diverse; in generale, tuttavia, lo stato giuridico del terzo che acquista quote di debito possono essere sostanzialmente due: o acqui- sisce qualità di creditore diretto della società mutuataria, o diventa creditore di secondo grado, nel senso che i suoi rap- porti diretti di credito sono nei confronti della banca sindacata. Questa seconda fattispecie, tuttavia, ha un'attrattiva mi- nore sia per la banca che per lo stesso investitore. La banca, infatti, rimane esposta in prima persona al rischio di default del debitore, mentre l'investitore riceverà presumibilmente un interesse inferiore, tenuto conto che una quota verrà trat- tenuta dalla banca in contropartita del rischio al quale rimane esposta.

 

Price-earnings (Finanza)

Qual è il prezzo giusto di un'impresa? La somma algebrica dei valori di tutte le attività e passività che formano il suo patrimonio? Teoricamente no; l'utilità che deriva dall'acquisto di un'impresa sta infatti nella sua capacità di generare uti- li.
Perché non attribuirle allora un valore pari alla somma totale dei profitti che riuscirà a produrre lungo tutta la sua vita?
Purtroppo perché il futuro è insondabile. Ed è per questa ragione che i commercialisti si sono di fatto arresi alle difficol- tà del metodo reddituale.
Non però gli analisti finanziari. I quali tengono valido il principio, applicandolo però in maniera rudimentale. La loro domanda è: il prezzo di un'azione è sopravvalutato (e allora non compro), oppure è sottovalutato (e allora compro)? Ri- spondere non è facile, ma un numero, meglio un indice, può aiutare.
Si tratta del rapporto price-earnings, ossia del quoziente fra prezzo di mercato dell'azione, quello di chiusura alla Borsa Valori per le società quotate, e utile netto per azione. Esso viene indicato anche con la sigla P/E, derivata dalle iniziali dei due termini che compongono il nome dell'indice, o P/U se si utilizza la traduzione italiana, <prezzo/utili>.
Se il P/E è molto alto, gli analisti deducono che il titolo è sopravvalutato a causa di forze estranee alla capacità dell'im- presa di generare profitti, come per esempio una scalata ostile; se è basso, lo considerano sottovalutato.
In effetti il P/E rappresenta il numero di anni che l'impresa impiega per acquistare se stessa con gli utili che nel frattem- po riesce a produrre. Un titolo è sopravvalutato quando sono necessari troppi anni, e sottovalutato quando lo sono trop- po pochi.


Ma chi decide se la "soglia del troppo" sia stata varcata oppure debba essere ancora raggiunta? Gli analisti si affidano a numeri tratti dall'esperienza: ad esempio, 16 per le società del comparto industriale e 50 per quelle assicurative; oppure confrontano il P/E della società in esame con il P/E dell'intero settore d'appartenenza. Se il primo supera il secondo, si ha sopravvalutazione; viceversa, sottovalutazione.
Nel caso in cui la società faccia parte di un gruppo, gli analisti considerano al denominatore l'utile netto consolidato per azione. In questo modo tentano di evitare che la florida situazione economica dell'impresa in esame possa oscurare la grave situazione patrimoniale e finanziaria a livello di gruppo.
Inoltre, soprattutto quando confrontano il P/E di un'impresa nazionale con quello di una straniera, spesso agli utili ag- giungono gli ammortamenti. Ciò perché questi potrebbero essere discrezionalmente gonfiati dagli amministratori nazio- nali al fine di occultare utili troppo elevati. Invece del P/E, utilizzano allora il cosiddetto price/cash-flow (P/CF).

 

Primary dealer (Finanza)

I primary dealer sono i market maker del Mercato telematico dei titoli di Stato (Mts), ossia il mercato all'ingrosso dei titolo di Stato e garantiti dallo Stato.
Affermare che dei dealer sono market maker potrebbe sembrare una contraddizione: dealer, secondo la nozione comu- ne, sono infatti coloro che negoziano titoli in nome e per conto proprio, senza nessun obbligo di trattarli in via continua- tiva quotando un prezzo d' acquisto (denaro) e uno di vendita (lettera). Market maker invece sono gli operatori che, oltre a quest'obbligo, hanno anche assunto l'impegno di scambiare un quantitativo notevole di determinati titoli. Proprio per- ché sono tenuti a trattare determinati titoli, di essi si può ben dire, seguendo la traduzione letterale, che "fanno mercato": volenti o nolenti, devono quotare i due prezzi, di modo che chiunque possa acquistare o vendere in qualsiasi momento.
La contraddizione si risolve tenendo conto che sia i dealer che i market maker operano per proprio conto, e non per con- to altrui. In quest'ultimo senso, pertanto, va inteso il dealer nell'accezione che si dà a questo termine nell'ambito del- l'Mts.
Sull'Mts non può accedere un investitore qualunque; possono operare soltanto le banche e le imprese di investimento legittimate all'attività di negoziazione per conto proprio.
Se tali soggetti possono essere tutti autorizzati a operare su questo mercato, non tutti però possono svolgere funzione di primary dealer, ossia di operatori principali, come vengono chiamati in lingua italiana.
Perché possano operare come primary è necessario che tali imprese siano iscritte nel Registro degli operatori principali, tenuto a cura della società di gestione del mercato, la quale vigila che i primary soddisfino requisiti più stringenti rispet- to a quelli richiesti per l'ammissione alle negoziazioni sull'Mts.
Per poter essere iscritti nell'Elenco, i primary dealer devono rispondere a particolari requisiti patrimoniali, operativi e professionali.

 

Private placement (Finanza)

Place in inglese può essere nome o verbo: nel primo caso significa <posto, luogo, piazza>, nel secondo <piazzare>, cioè collocare. Placing dunque è il collocamento. Di cosa? Di tutto ciò che può essere spostato da un posto a un altro. In fi- nanza con contratti di compra-vendita vengono trasferiti da un proprietario all'altro titoli. Per la caratteristica di essere trasferibili, e per il fatto di rappresentare attività economiche, i titoli sono anche detti valori mobiliari.
Con il placing i titoli vengono collocati, cioè ceduti soltanto a una ristretta cerchia di soggetti che presentano determina- te caratteristiche richieste dal proprietario. Il placing quindi è differente dall'offerta pubblica o dalla vendita in Borsa, poiché in questi casi tutti possono concorrere all'acquisto dei titoli messi in vendita.
Sinonimo di placing è private placement, espressione tecnica che con l'aggiunta dell'aggettivo private sottolinea ancora più esplicitamente il carattere non pubblico dell'offerta. In italiano, la traduzione potrebbe essere collocamento riserva- to.
Le società ricorrono al private placement in occasione dell'emissione di nuovi titoli azionari, oppure per favorire la dif- fusione di proprie quote di capitale nell'ambito di processi di privatizzazione. In quest'ultimo caso, una parte delle azio- ni viene offerta in collocamento riservato ai cosiddetti investitori istituzionali, cioè a soggetti che per professione inve- stono in valori mobiliari. Tipici investitori istituzionali sono le banche, le società d'assicurazione, i fondi comuni d'inve- stimento, gli istituti di previdenza, i fondi pensione e le società finanziarie in genere.


Il vantaggio del private placement rispetto ad altre forme di collocamento è che viene sempre assicurata, magari tramite un sindacato di collocamento, la sottoscrizione dell'intera emissione. Non c'è il rischio in altre parole che una parte dei titoli offerti non venga acquistata.
Il private placement può costituire così il primo stadio di un'offerta al pubblico. In tal caso, il collocamento presso il pubblico degli investitori sarà eseguito dagli investitori istituzionali che hanno partecipato in prima battuta al placing.

Prodotto Potenziale (Economia)

Per Aristotele, la realtà è in atto o in potenza. L'albero è in atto, in quanto realtà perfettamente realizzata, il seme invece è una realtà in potenza, perché diverrà albero. Gli economisti hanno imparato la lezione del filosofo greco e l'hanno a- dattata al campo della loro indagine. La differenza principale sta nel fatto che, mentre per Aristotele la realtà in atto è il fine cui tende quella in potenza, spesso nella realtà economica i rapporti sono invertiti: quella in atto vorrebbe essere in potenza.
Dall'insegnamento antico è scaturita la duplice nozione di prodotto interno lordo (v. <Pil>): effettivo, o attuale (la paro- la inglese actual è indizio manifesto di come gli anglofoni si siano strettamente attenuti alle parole dello Stagirita) o po- tenziale.
Il Pil effettivo è il valore di tutti i beni e servizi finali che i soggetti operanti all'interno di uno Stato sono riusciti a pro- durre in un determinato periodo, convenzionalmente l'anno.
Il Pil potenziale è invece il valore dei beni e dei servizi finali che i soggetti operanti all'interno del territorio nazionale potrebbero produrre se fosse realizzata la condizione del pieno impiego delle risorse produttive (capitale e lavoro) di- sponibili.
Ma quando si verifica una tale circostanza? Quando la forza lavoro è interamente occupata? Quando tutti gli impianti sono attivi giorno e notte e la produzione segue un ciclo continuo di 365 giorni? No, perché nella realtà un tale caso non potrebbe mai darsi. Più che potenziale, un Pil definito da queste ipotesi sarebbe irreale.
Potenziale è invece quel prodotto che si ottiene quando viene realizzata la migliore delle ipotesi possibili, ossia quando i disoccupati sono senza lavoro soltanto perché lo vogliono, cioè quando tutta la disoccupazione è frizionale. E quando tutti gli impianti sono utilizzati secondo la loro piena capacità, che non significa al limite di rottura.
Se tali ipotesi consentono di definire il prodotto potenziale, non è in base a tali ipotesi che lo si calcola. Esso viene de- terminato per approssimazione in base ad altri indici. E soprattutto, non viene determinato il suo valore puntuale, ma viene disegnato il suo andamento nel tempo.
Confrontando la dinamica del Pil effettivo con quella del Pil potenziale (differenza, questa, che tecnicamente prende nome di gap del prodotto), gli economisti traggono utili informazioni circa gli indirizzi che i governi dovrebbero seguire nelle loro politiche economiche: in particolare, quando un'economia cresce oltre il proprio potenziale di sviluppo, è op- portuno che siano adottate politiche economiche restrittive, in modo da scongiurare il rischio di una fiammata inflazio- nistica; viceversa, quando il gap è negativo, le politiche economiche possono avere un indirizzo espansivo, in modo da consentire all'economia di raggiungere il suo potenziale.

 

Project financing (Finanza)

Un comune ha bisogno di un nuovo ospedale a causa dell'invecchiamento della propria popolazione. Non ha i fondi ne- cessari per il compimento dell'opera, né la possibilità di reperire i fondi necessari attingendo dalle finanze statali, perché totalmente esangui. Come può dare comunque attuazione all'iniziativa? Affidandosi al project financing, una tecnica di finanziamento delle opere pubbliche relativamente nuova nel nostro Paese, ma assai diffusa all'estero.
Come funziona questo tipo di finanziamento? L'amministrazione pubblica competente indice una gara per la realizza- zione di una determinata infrastruttura. Gli imprenditori interessati alla sua costruzione, detti promotori o sponsor, rac- colgono intorno a sé altri soggetti disposti a prendere parte all'iniziativa. Viene messo a punto un progetto da presentare all'autorità pubblica, la quale affida l'incarico a chi ha offerto le migliori condizioni per l'esecuzione dell'opera.
Chi vince, con gli altri soggetti imprenditori che è riuscito a raccogliere intorno all'iniziativa, costituisce appositamente una società, detta project company, la quale, anche con le somme raccolte presso terzi finanziatori, banche per esempio, costruisce l'impianto.
Quale guadagno ritraggono i promotori? I redditi che la gestione dell'infrastruttura riesce a produrre. L'amministrazione pubblica che ha conferito l'incarico dell'esecuzione dell'opera, in contropartita dell'impegno economico assunto dai promotori, si impegna infatti a concedere loro in concessione la gestione dell'impianto per un certo numero di anni. In tal modo, essi hanno la possibilità di recuperare il capitale investito e guadagnare un margine di profitto. Al termine, la gestione torna nelle mani dell'ente pubblico.


Questo tipo di project financing prende nome di Boot (Build, own operate, Transfer) ed è particolarmente adatto quando la gestione dell'impianto ha prospettive di buona redditività. Per infrastrutture non remunerative sono previste forme più complesse    di    project    finance,     comunque    fondate    sul    meccanismo    della     gestione    in      concessione. In ogni caso, il rischio dell'intera iniziativa ricade sugli sponsor. Nessuno, se non il proprio fiuto imprenditoriale, garan- tisce loro un ritorno sicuro.

Pronti contro termine (Finanza)

L'operazione pronti contro termine (P/t) costituisce un utile strumento di finanziamento e di investimento a breve perio- do, realizzato tramite lo scambio temporaneo di titoli a reddito fisso, in specie titoli di Stato.
Il pronti contro termine è di finanziamento per chi ha bisogno di liquidità; in tal caso, se possiede dei titoli, può cederli temporaneamente a chi invece ha un eccesso di liquidità, impegnandosi contemporaneamente a riacquistarli dallo stesso compratore, nella medesima quantità e della stessa qualità, in una data successiva, a un prezzo determinato, che ovvia- mente è superiore al prezzo ricevuto.
Il prezzo di riacquisto viene infatti calcolato applicando al prezzo iniziale il tasso di interesse di mercato al momento della vendita, rapportato alla frazione di anno rappresentata dalla durata dell'operazione.
In pratica, il pronti contro termine di finanziamento consente al possessore di titoli di ottenere la liquidità necessaria senza perdere definitivamente la proprietà degli strumenti finanziari ceduti, ma di rientrarne in possesso una volta venu- ta meno la situazione di crisi di liquidità.
Il P/t è viceversa un'operazione di investimento a breve per chi cede liquidità. Al pari di ogni altro investimento, anche questo infatti procura all'investitore il pagamento di un interesse, pari alla differenza tra il prezzo di vendita dei titoli alla scadenza del contratto e il minor prezzo a cui inizialmente sono stati acquistati.
Il pronti contro termine viene generalmente stipulato dalle banche con la clientela. In tal caso, le banche lo usano come forma di finanziamento, e i clienti come mezzo di investimento. Il P/t viene spesso stipulato fra le banche stesse come strumento di finanziamento o investimento di temporanei squilibri di Tesoreria.

Public company (Finanza)

Per varie ragioni può apparire che la nozione di public company non desti particolari questioni circa il suo significato.
Sarà perché a partire dal 1993, con l'apertura in Italia del dibattito sulla dismissione delle aziende pubbliche, se ne è fat- to un uso così frequente che il termine si può dire sia entrato nel gergo quotidiano; sarà perché la radice latina non lascia molto spazio a dubbi interpretativi; pare certo però che il concetto di public company rispecchi perfettamente l'immagi- ne suscitata dalla traduzione più celebre del termine: società ad azionariato diffuso.
Se così fosse, non si capirebbe tuttavia perché la comparsa della locuzione nel dizionario nazionale abbia origini tanto recenti. Nel senso accennato infatti, qualunque società quotata è una public company: per la quotazione in Borsa  infatti è necessario che almeno il 25% del capitale rappresentato dalla categoria di azioni per la quale si richiede la quotazione sia polverizzato nelle mani del pubblico.
Per comprendere l'anomalia, bisogna invece tenere conto che il concetto di public company è stato introdotto nel voca- bolario nazionale in contrapposizione a quello di nocciolo duro, vocabolo di derivazione francese, noyau dur, utilizzato come sinonimo del più preciso concetto giuridico di gruppo d'azionariato stabile.
I due termini sono stati impiegati per indicare due tecniche opposte di privatizzazione: la prima, volta a distribuire le azioni fra i risparmiatori attraverso un'offerta pubblica di vendita; la seconda, diretta a trasferire la proprietà sociale a un nucleo stabile di azionisti, mediante trattativa privata (v. <private placement>).
Al fine di garantire la massima diffusione azionaria, l'articolo 3 della legge n. 474 del 1994 stabilisce che nello  statuto di società operanti in settori sensibili per l'economia (trasporti, energia, banche, assicurazioni e altri) è possibile intro- durre per il singolo socio un limite del possesso azionario al 5% del capitale. Risultano così ostacolate eventuali velleità di scalata da parte di grossi azionisti.
Proprio questa norma tuttavia "tradisce" il significato originario di public company. Nel diritto inglese infatti tale figura non si contraddistingue per l'elevato numero dei suoi soci, ma per il fatto che le azioni possono essere liberamente ac- quistate e vendute da chiunque, senza limitazioni di sorta. Tale società viene definita public in opposizione a private company, locuzione che individua una società le cui quote non possono essere trasferite liberamente, ma soltanto con il consenso degli altri soci.
Ecco allora che non è del tutto adeguato l'impiego di public company come sinonimo di società ad azionariato diffuso, in particolare quando esistono clausole anti-scalata. Public company è invece, essenzialmente, società pubblica, ossia a disposizione di chiunque.


Put (Finanza)

Nel gergo finanziario put denota una specifica categoria all'interno della famiglia dei contratti di Borsa noti con il nome di option, in italiano opzioni. In base a tali contratti, l'acquirente, detto buyer, compra dal venditore, seller, il diritto di vendere una determinata quantità di attività reali o finanziarie (titoli o indici azionari, valute, e titoli di Stato soprattutto) a un prezzo stabilito, detto exercise o strike price e in italiano prezzo d'esercizio.
A seconda che il put sia di tipo americano o europeo, il detentore può esercitare il diritto acquistato, in qualunque mo- mento entro una determinata data ovvero soltanto alla scadenza dell'opzione.
Il prezzo dell'opzione, o se si vuole del diritto, è detto premio; rappresenta il guadagno realizzato dal venditore nel caso in cui le sue previsioni al rialzo siano confortate dalle quotazioni dei mercati. Per guadagnare infatti il seller deve spera- re che il prezzo delle attività sottostanti - quelle in relazione alle quali il diritto di vendita è stato ceduto - sia superiore allo strike price, eventualmente diminuito del premio. Viceversa, il buyer eserciterà il diritto acquistato vendendogli at- tività finanziarie comprate sul mercato aperto a un prezzo inferiore a quello stabilito secondo contratto. In particolare, condizione necessaria perché costui eserciti il diritto è che il prezzo di mercato sia inferiore allo strike price. In tal caso tuttavia, egli riuscirà a derivare un guadagno dall'operazione soltanto a condizione che il prezzo di mercato scenda sotto il prezzo d'esercizio per un ammontare superiore al premio.
Supponendo per esempio che egli abbia comprato un'opzione put a 300 dollari su cento azioni e che il prezzo strike sia 50 dollari, si ha che per ogni azione egli paga un premio pari a tre dollari. Finché il prezzo di mercato non scende sotto i 47 dollari, l'acquirente paga al venditore più di quanto non riceva: se per esempio il prezzo di mercato del titolo alla scadenza del contratto è di 48 dollari, egli guadagna per ogni azione due dollari (acquistandola a 48 sul mercato a pronti e rivendendola a 50 in forza dell'opzione), ma ne paga a titolo di premio tre. D'altra parte, gli conviene esercitare il dirit- to: in caso contrario, pagherebbe il premio intero senza il vantaggio di limitare i danni, possibilità che nella fattispecie gli è consentita dal fatto che la sua previsione di ribasso delle quotazioni del titolo è almeno qualitativamente corretta.
L'esempio mostra come sia difficile speculare con le opzioni: non solo è necessario prevedere la direzione delle varia- zioni dei prezzi, ma anche azzeccarne l'ampiezza e il timing. L'opzione infatti, a differenza dell'attività sottostante, ha breve durata e una volta scaduta non ha più valore. Il buyer e il seller non possono sperare che "tenendo duro" la varia- zione prevista finalmente si realizzi. In particolare, i rischi più grossi vengono corsi dal venditore: nell'esempio prece- dente, se le attività sottostanti fossero azioni e la società fallisse, il prezzo di mercato andrebbe a zero e egli subirebbe una perdita netta di 4.700 dollari. Sarebbe infatti costretto ad acquistare, per 50 dollari l'una, cento azioni che non hanno più valore di mercato. Il premio percepito, pari a 300 dollari, avrebbe soltanto l'effetto di ridurre, ancorché in minima parte, le perdite subite.

Raider (Finanza)

Raider, che la pronuncia corretta vuole si legga <reider>, è chi compie raid: non aerei però, bensì societari. Raider è la dizione americana; in Gran Bretagna, per quanto possa apparire paradossale, prende nome di cow-boy. Il Far West, evi- dentemente, quando si tratta di mercati finanziari non è solamente in California, ma anche nella City, il distretto econo- mico di Londra.
In italiano il raider viene definito scalatore, con palesi rinvii al carattere ascensionale della sua attività. Egli infatti, ra- strellando sul mercato azioni di società sane quotate a buon prezzo, sale rapidamente le erte che conducono alla vetta societaria, conquistando la maggioranza assoluta in assemblea. Una volta impiantato sulla cima il proprio stendardo, chiede la convocazione dell'assemblea societaria e detta le sue volontà.
Passa quindi all'azione: ridisegna da cima a fondo l'organigramma sociale, separando il grano dal loglio; liquida separa- tamente i rami d'azienda più proficui, i cosiddetti gioielli di famiglia, traendo pingui profitti; e infine si disfa di quanto resta vendendo al primo acquirente le azioni che gli sono rimaste in tasca.
Il raider quindi è una figura, per la società vittima, dalle connotazioni spiccatamente negative. Non a caso, il suo campo d'attività sono i cosiddetti hostile takeover, le <scalate ostili>. Che diventano contested (oppure defended o anche oppo- sed), cioè , se il consiglio d'amministrazione della società preda reagisce intraprendendo azioni di difesa.
Cosa fa il raider quando individualmente non ha forza bastante, quando cioè non ha proprie risorse finanziarie sufficien- ti per portare a termine con successo un hostile takeover? Sostanzialmente si trova di fronte un'alternativa - visto che la terza via, la rinuncia, non fa parte del suo patrimonio genetico: prendere soldi a prestito, e in tal caso lanciare una leve- raged bid, un'Opa che fa perno sulla "leva" dei capitali messi a disposizione da terzi - raccolti magari con l'emissione di junk bonds, obbligazioni spazzatura, ad alto rendimento e rischio ancora più alto; in alternativa, può accontentarsi di spartire il bottino con altri e costituire il cosiddetto concert party, formare cioè quella che in italiano, rimanendo sempre valida la metafora alpinistica, viene definita <cordata>.


Rating (Finanza)

Una legge economica asserisce che un maggiore rischio deve essere ricompensato con una più elevata remunerazione.
A parità di rendimento infatti, l'investitore preferisce fare prestito al debitore economicamente più solido. Chi ha quindi una situazione finanziaria meno florida, per ricevere i fondi di cui ha bisogno, deve promettere ai risparmiatori un inte- resse più elevato. La possibilità di un guadagno maggiore indurrà questi a sottrarre una parte delle proprie attività dagli investimenti più sicuri e meno remunerativi per orientarli verso quelli più rischiosi e allettanti.
Il problema però è classificare ciascun prenditore di capitale in funzione della propria capacità di onorare gli impegni assunti, di restituire cioè la somma ricevuta e di pagare gli interessi promessi. Tale valutazione è tutt'altro che  semplice e richiede approfondite analisi delle risultanze di bilancio, nonché l'elaborazione di ulteriori informazioni. Per questo motivo, tale lavoro è svolto da società specializzate, le agenzie di rating. Esse danno a chiunque ne faccia richiesta, e d'ufficio ai debitori più grandi e noti, ossia principalmente gli Stati e le organizzazioni internazionali, un voto, che rap- presenta sinteticamente il grado, rating, di rischio connesso alla situazione finanziaria di ciascuno.
Non esiste un'unica scala di valori in base ai quali viene redatta la pagella dei migliori e dei peggiori, ma questa varia a seconda delle agenzie. Le due più famose sono le americane Moody's e Standard & Poor's, le quali prevedono diverse gradazioni di rischio, ciascuna denominata in maniera differente, con uniche eccezioni la votazione massima (AAA, de- bitore eccellente) e minima (C, debitore con profilo di rischio elevatissimo), identicamente denotate. "C" non indica tut- tavia rischiosità massima, ma soltanto la più elevata fra quelle classificabili: vi sono società così rischiose da non meri- tare nemmeno il rating più basso.
Il rating di norma viene richiesto dallo stesso prenditore, che ne sopporta anche le spese, per spuntare un interesse mino- re. Il mercato infatti attribuisce a questi voti notevole importanza e premia chi riesce a ottenere almeno un "piazzamen- to".

 

Rendimento obbligazionario (Finanza)

La prima domanda che un investitore si pone quando deve valutare l'acquisto di obbligazioni è questa: <quanto rendo- no>? Nella maggior parte dei casi, questa domanda è anche l'ultima, nel senso che se il tasso di interesse è giudicato in- teressante, il risparmiatore procede senz'altro all'investimento.
Porsi soltanto questa domanda è sbagliato, ma ancora più sbagliato è darsi una risposta erronea. Per quanto semplice possa apparire, la nozione di rendimento è, al contrario, piuttosto complessa.
In primo luogo, essa non coincide con il tasso di interesse nominale offerto dal titolo obbligazionario. Se il valore no- minale di un'obbligazione è di mille euro e l'interesse pagato annualmente è pari a cento euro, il tasso di interesse nomi- nale è indubbiamente pari al 10%, ma ciò non vuol dire che esso rappresenti in qualche modo il rendimento effettivo di un investimento che ve l'abbia a oggetto.
Questo dipenderà anche dal prezzo al quale l'obbligazione viene acquistata: se è inferiore al suo valore nominale, il ren- dimento sarà superiore al tasso di interesse nominale, e viceversa. Il valore monetario dell'interesse pagato annualmente infatti rimane costante, poiché costante è per tutta la durata del titolo il valore nominale dell'obbligazione, ancorché il suo prezzo di mercato varii in continuazione. Un interesse annuo pari a cento euro verrà dunque incassato dall'investito- re, indipendentemente dal prezzo a cui avrà acquistato l'obbligazione. Se l'avrà comprata al prezzo di 900 euro, egli in- casserà cento euro su 900 investiti, ottenendo di conseguenza un rendimento superiore al tasso di interesse nominale, e precisamente pari all'11,1 per cento. Tale percentuale, ottenuta dividendo il valore monetario dell'interesse annuo per il prezzo di acquisto dell'obbligazione prende tecnicamente nome di rendimento immediato.
Per quanto possa dare un'idea più precisa dell'effettivo rendimento dell'investimento obbligazionario, costituisce tuttavia un'approssimazione ancora troppo imprecisa, poiché non tiene conto del fatto che alla scadenza l'obbligazione viene rimborsata al suo valore nominale e non al prezzo di acquisto. Pertanto, l'investitore che l'avesse acquistata a un prezzo inferiore incasserebbe alla scadenza più di quanto avesse sborsato per comprarla. Il "rendimento effettivo" dell'investi- mento ne risulterebbe così ulteriormente accresciuto, superando pertanto anche il rendimento immediato.
Il tasso di rendimento che tiene conto anche della differenza fra prezzo di acquisto e valore nominale dell'obbligazione è detto rendimento a scadenza o a rimborso. É detto così proprio perché viene calcolato ipotizzando che l'obbligazione sia detenuta fino alla sua scadenza, in modo da dare luogo al suo rimborso al valore nominale. Tale rendimento è superiore al rendimento immediato se il prezzo di acquisto è inferiore al valore nominale, e viceversa.
Da quanto detto, potrebbe sembrare che il rendimento a scadenza sia quello che dia meglio la misura del rendimento effettivo dell'investimento obbligazionario. Ma di norma non è così. Il rendimento a scadenza, infatti, viene calcolato sulla base dell'ipotesi che il capitale inizialmente investito e le cedole incassate siano periodicamente reinvestite allo stesso identico tasso di rendimento, pari appunto al rendimento a scadenza.


L'ipotesi è molto forte e nella realtà non verrà quasi mai soddisfatta (ad eccezione che per i titoli zero-coupon, i quali non pagano cedole), dando così luogo a una discrepanza fra rendimento a scadenza e rendimento effettivo dell'investi- mento. Molto spesso, infatti, l'investitore non reinveste l'intera cedola incassata, e se anche la reinveste integralmente non la riesce a impiegare esattamente allo stesso tasso di rendimento al quale ha fatto l'investimento iniziale. Di conse- guenza, il rendimento effettivo dell'investimento risulterà superiore o inferiore al rendimento a scadenza a seconda che gli interessi siano di volta in volta reinvestiti integralmente e a un tasso di rendimento superiore o inferiore a quello del- l'investimento iniziale.
Bisogna poi tenere conto che sul rendimento effettivo di un investimento incidono, oltre alle imposte, anche le commis- sioni di negoziazione. Il rendimento a scadenza viene talora calcolato tenendo conto dell'onere fiscale - prendendo così nome di rendimento netto - mentre non viene mai calcolato al netto delle commissioni di intermediazione, poiché esse variano da intermediario a intermediario e qualche volta anche da cliente a cliente.
Per tutte queste ragioni è sostanzialmente sbagliato definire il rendimento a scadenza come rendimento effettivo, come peraltro spesso si fa. Perché è chiaro che l'aggettivo <effettivo> ha l'evidente significato di denotare un rendimento che sia stato <effettivamente realizzato>, mentre è altrettanto chiaro che il rendimento a scadenza non potrà mai essere pre- cisamente realizzato, viste le ipotesi irrealistiche sulla base delle quali viene calcolato.
Ma se il rendimento effettivo non coincide con il tasso nominale di interesse, né con il rendimento immediato, né con quello a scadenza, a cosa è uguale? E che significato ha? Quanto al suo significato è molto semplice da esplicitare: esso fornisce una misura di quanto velocemente sia variato il valore nominale dell'investimento iniziale in un determinato arco di tempo. A rigore, dunque, esso può venire calcolato soltanto ex-post, quando sono noti con precisione tutti i flus- si di cassa originati dall'investimento. Algebricamente esso è pari alla differenza fra incassi totali (al netto di imposte e commissioni) e spese totali (al lordo delle commissioni) rapportate a queste ultime.
Vale infine un'ultima precisazione: non bisogna confondere il rendimento effettivo con quello reale. Benché l'aggettivo possa suggerire l'idea che si tratti di un sinonimo, nella misura in cui possa denotare un rendimento "realmente" conse- guito, in finanza così come in economia l'aggettivo <reale> viene impiegato in contrapposizione a <nominale>. Nomi- nale viene definito qualunque valore origini da un prezzo di mercato storicamente rilevato, reale invece è tale valore de- purato dalla componente inflazionistica. Pertanto il rendimento effettivo può essere sia nominale che reale: nel primo caso origina dal confronto del valore monetario di quanto effettivamente incassato alla fine dell'investimento con quan- to effettivamente sborsato all'inizio; nel secondo caso, il valore nominale viene opportunamente scontato per il tasso di inflazione. Il tasso reale, in pratica, dà una misura della crescita del potere d'acquisto conseguente i risultati dell'inve- stimento.
Il rendimento reale può approssimativamente essere calcolato come la differenza fra il rendimento nominale e il tasso di inflazione.

 

Reverse convertible bond (Finanza)

Il reverse convertible bond è una particolare obbligazione convertibile (di qui, l'aggettivo convertible). A differenza del- le normali obbligazioni convertibili, tuttavia, la conversione dell'obbligazione in azioni non costituisce un diritto spet- tante al sottoscrittore, ma costituisce un diritto dell'emittente, il quale, al verificarsi di determinate circostanze, può rim- borsare il capitale consegnando azioni invece che restituendo soldi.
I reverse convertible bond vengono di norma emessi da società finanziarie su azioni emesse da altre società e hanno una durata relativamente limitata (un anno o poco più). La loro struttura è piuttosto semplice, anche se il relativo profilo di rischio è difficilmente valutabile. Essi pagano una cedola, semestrale o annuale, generalmente molto più alta rispetto alle condizioni prevalenti sul mercato. Tale cedola viene calcolata sul valore nominale dell'azione e viene comunque pagata. Per contro, però, i reverse convertible consentono all'emittente la facoltà di rimborsare il capitale alla scadenza con un determinato numero di azioni invece che con moneta. In particolare, questo tipo di obbligazioni prevedono che il rimborso del capitale sia alla pari nel caso in cui, alla scadenza, il prezzo delle azioni sottostanti superi un determinato livello ovvero, in caso contrario, avvenga mediante consegna di un determinato numero di azioni del tipo indicato nello stesso regolamento del prestito.
Con questo tipo di obbligazioni, pertanto, il sottoscrittore corre il rischio di ricevere alla scadenza azioni per un contro- valore monetario anche di molto inferiore al valore nominale delle obbligazioni sottoscritte. D'altronde, è proprio questa la contropartita all'elevato tasso di interesse pagato. Il tutto, in un certo senso, è legato a questa scommessa: se le quota- zioni dell'azione sottostante scendono al di sotto di un determinato valore, vince l'emittente delle obbligazioni, il quale rimborsa il capitale preso a prestito con azioni che valgono tanto meno, quanto più basso è il loro prezzo di mercato ri- spetto al livello prefissato come soglia; se le quotazioni, viceversa, salgono, vince l'investitore, il quale ottiene dalle ob- bligazioni sottoscritte un rendimento nettamente superiore a quello che poteva offrire il mercato al momento della loro sottoscrizione.


Reverse floating rate note (Finanza)

La reverse floating rate note, identificata anche con la sigla Rfrn e denominata in gergo reverse floater, costituisce un particolare tipo di obbligazione, in parte a tasso fisso e in parte a tasso variabile. Il tasso variabile, poi, risulta inversa- mente (reverse) correlato con i tassi di mercato, per cui se essi scendono la cedola variabile pagata dalla rfrn aumenta e viceversa.
In particolare, questo tipo di obbligazioni prevedono il pagamento di una cedola fissa per un certo numero di anni e suc- cessivamente il pagamento di una cedola variabile, determinata come differenza fra un valore di riferimento e un tasso di mercato prescelto. Per esempio, il titolo Bei 1998-2013 determina la cedola variabile pagabile dal febbraio 2003 co- me la differenza fra 15% (valore di riferimento) e il doppio del Libor (tasso di mercato prescelto), con un massimo del 6,5% e un minimo del 3%, valevole però soltanto per le cedole pagabili a partire dal 2009. Al crescere del Libor, pertan- to, diminuisce la cedola pagata dall'obbligazione e viceversa.
Queste obbligazioni rappresentano una sorta di scommessa fra l'emittente e il sottoscrittore: il primo punta sulla futura risalita dei tassi di mercato, il secondo, sulla loro caduta. Resta inteso che, in ogni caso, il tasso di interesse non potrà diventare negativo: il sottoscrittore, pertanto, non dovrà pagare una cedola all'emittente. Nell'esempio del titolo Bei, ciò significa che nel periodo in cui non è operativo il limite minimo del 3% (2003-2008), per valori del tasso Libor pari o superiori al 7,5%, la cedola sarà comunque pari a zero.

Roe (Finanza)

Return on equity, meglio noto come Roe - suo acronimo - è uno fra i più noti e diffusi indici di redditività d'impresa.
Esso misura il peso degli utili netti conseguiti in un esercizio in rapporto al capitale proprio. Algebricamente è pari al valore, espresso in termini percentuali, della frazione fra utili d'esercizio e patrimonio netto. Esso esprime la capacità dell'impresa di far fruttare le risorse poste a sua disposizione dagli azionisti, sia direttamente con i conferimenti, sia in- direttamente tramite la non distribuzione degli utili.
Il patrimonio netto infatti non coincide con il semplice capitale sociale, cioè il valore nominale delle azioni o quote sot- toscritte dai soci, ma incorpora anche altri valori: per esempio il sovrapprezzo pagato dagli azionisti in caso di aumento di capitale, le riserve obbligatorie o facoltative accantonate di anno in anno, gli utili non distribuiti e le perdite even- tualmente accumulate negli esercizi precedenti.
Poiché il valore del patrimonio netto varia nell'arco di un anno, il suo ammontare a inizio esercizio non coincide di re- gola con quello a fine esercizio. É necessario quindi calcolarne un valore medio di periodo. Tale valore viene spesso calcolato come semplice media aritmetica della consistenza del patrimonio netto a inizio e fine esercizio. Calcolandolo, si ottiene all'incirca la quantità media di risorse proprie a disposizione dell'impresa in ciascuno dei 365 giorni che for- mano il periodo in relazione al quale il Roe viene calcolato.
Un'altra questione di ordine pratico per la corretta misurazione dell'indice riguarda l'utile da mettere al numeratore della frazione. Non sempre infatti quello risultante da bilancio è il più adatto. In particolare, quando nell'esercizio si sono a- vute significative componenti di reddito straordinarie (in senso negativo, per esempio, l'improvviso calo della domanda dei prodotti ittici a causa di episodi di colera; in senso positivo, la plusvalenza derivante dalla cessione di un intero ramo d'azienda), è opportuno depurare l'utile netto della quota ascrivibile a tali eventi anomali, ragionevolmente considerati irripetibili.
Calcolato il Roe con queste precauzioni, si può quindi porlo a confronto con i rendimenti offerti da investimenti alterna- tivi. In specie, può essere raffrontato con il rendimento dei Bot o dei certificati di deposito bancari. Va da sé, che tanto più alto è il valore dell'indice, tanto maggiore è la redditività dell'impresa e quindi tanto più remunerativo l'investimento azionario.
Messo a confronto con il Roe di altre imprese operanti nello stesso mercato, può essere un valido indicatore del grado di efficienza gestionale raggiunto dall'impresa.

Roi (Finanza)

Roi è la sigla comunemente utilizzata dagli analisti di bilancio per indicare un particolare indice di redditività dell'im- presa, che in inglese prende nome di return on investment (di cui Roi è l'acronimo) e in italiano è detto indice della red- ditività del capitale investito. Esso è uguale al rapporto, espresso in termini percentuali, fra utile operativo e capitale in- vestito.
Per comprendere il significato di questo indice è necessario definire con precisione i due termini del rapporto. In primo luogo, al numeratore viene posto l'utile operativo e non l'utile netto. Ciò significa che l'indice intende fornire una misura della redditività della sola gestione caratteristica d'impresa, e non la redditività globale derivante anche dalla gestione


finanziaria, straordinaria, fiscale o non caratteristica. Il Roi non tiene conto dei risultati positivi o negativi derivanti da queste attività limitrofe, ma esclusivamente dell'attività principale. Soltanto i redditi che traggono origine da questa so- no infatti idonei a garantire l'esistenza futura dell'impresa. Gli altri redditi, pur potendo avere carattere permanente, sono o, meglio, dovrebbero essere di entità molto inferiore.
L'utile operativo è dunque la misura che bisogna prendere in considerazione per tenere conto dei risultati prodotti dalla sola gestione caratteristica: esso infatti è pari alla differenza dei ricavi e dei costi generati da questa.
Per quanto concerne il capitale investito, vanno svolte due precisazioni. In primo luogo, esso non coincide perfettamen- te in questo caso con il valore totale dell'attivo dello stato patrimoniale (o del passivo, visto che i due termini hanno i- dentica misura); si ottiene bensì sottraendo da esso l'insieme delle attività estranee alla gestione caratteristica, e quindi principalmente le immobilizzazioni finanziarie. In secondo luogo, bisogna tenere conto del valore medio d'esercizio, visto che nel periodo l'entità di capitale investito può variare.
Rapportando quindi l'utile operativo al capitale investito così determinato si ottiene una misura precisa della redditività della sola gestione caratteristica. Ovviamente, quanto più essa è elevata, tanto maggiori sono le potenzialità dell'impresa sul mercato. Un Roi elevato indica in particolare che l'impresa può pagare senza difficoltà i debiti e potrà superare con relativa tranquillità eventuali periodi in perdita.
Per sapere se il Roi di un'impresa è alto o basso, bisogna confrontarlo con il tasso medio del costo del denaro, sotto il cui livello non dovrebbe mai scendere. Infatti, non tutto il capitale investito è patrimonio dell'impresa, ma una quota ri- levante è presa a prestito e viene remunerata approssimativamente al tasso di costo medio del denaro. Il confronto del Roi con tale tasso indica altresì se conviene finanziare nuove iniziative con capitale di debito ovvero con mezzi propri.

 

Second best (Economia)

Per gli americani the best è il "number one", e basta. Ce n'è uno e uno soltanto. Tutti gli altri seguono: possono essere "good" e anche "very good", ma non the best. Non è allora un ossimoro unire best, <il meglio> , a second, che irrime- diabilmente qualifica tutto ciò che non è best? <Basta intendersi>, direbbe quel tale.
La locuzione second best non vuole rinviare a un "best secondo", a un "ottimo di secondo grado", "più piccolo" rispetto a un fantomatico "best of best", ma intende segnalare che esistono tanti best quante sono le diverse situazioni in riferi- mento alle quali viene determinato. Per ciascuna il best è unico. Second best denota quindi "l'optimum" per una situa- zione che viene definita "seconda" rispetto a una implicitamente considerata "prima". Il second best è dunque il meglio nella "seconda" circostanza.
Quali sono allora i criteri per distinguere la prima dalla seconda circostanza? É prima la situazione teorica, nella quale tutto è possibile. In tal caso, la scienza economica afferma che the best è raggiunto quando sono soddisfatte le tre condi- zioni stabilite da Pareto; semplificando, quando beni e servizi sono venduti al prezzo minimo in tutti i settori.
La seconda situazione, quella il cui ottimo è detto second, è quella quotidiana: cioè una realtà nella quale non tutto ciò che si vuole si avvera. In tali circostanze, le tre condizioni enunciate da Pareto non possono essere soddisfatte sempre e dovunque. Qual è allora il meglio in tali casi? Avvicinarsi quanto più possibile all'ottimo paretiano, vale a dire creare le condizioni perché il prezzo di vendita sia minimo in quanti più settori possibile? No, il second best - ciò che è meglio nella situazione in cui i desideri hanno il morso - non solo non è un "first best" in versione ridotta, ma è un best che può avere caratteristiche anche diametralmente opposte.
Per esempio, la teoria del libero scambio vuole che la riduzione delle barriere commerciali comporti in ogni caso un miglioramento del benessere sociale, ossia un avvicinamento all'optimum; e ciò, nonostante che la loro eliminazione totale - che rappresenta l'ottimo paretiano - sia un'opzione valida soltanto sulla carta.
Questa asserzione, a prima vista inconfutabile, potrebbe però dimostrarsi drammaticamente falsa nel caso in cui la par- ziale liberalizzazione riducesse di tanto il commercio con i Paesi protezionisti da diminuire il benessere sociale del glo- bo. Se ciò accadesse, "l'optimum" verrebbe piuttosto raggiunto mantenendo invariate le regolamentazioni commerciali o addirittura introducendo forme di protezionismo che convogliassero gli scambi nel senso di aumentare il benessere glo- bale. Che non significa aumentare gli scambi, ma migliorarne la qualità. E in ciò consisterebbe il second best.

Securitization (Finanza)

Securitization, in italiano titolarizzazione o cartolarizzazione, è neologismo per lo stesso vocabolario finanziario ingle- se. Deriva da security che significa, soprattutto se usato al plurale, <valore mobiliare>, cioè documento attestante un diritto patrimoniale, ad esempio un credito. Spesso security viene utilizzato nel più ristretto senso di <azione> o <obbli- gazione>; questa limitazione, tuttavia, è arbitraria.


Tenuto conto delle origini semantiche del termine, securitization può assumere diversi significati: può essere così de- nominata qualunque operazione o tendenza volta a moltiplicare oppure a trasformare attività economiche in valori mo- biliari.
Secondo il suo principale significato, securitization denota la cartolarizzazione di crediti, sia bancari che di imprese  (v.
<asset-backed securities>). In altre parole, banche e imprese possono cedere a pagamento i propri crediti, compresi quelli in sofferenza, a soggetti specializzati (le cosiddette società-veicolo appositamente create dagli intermediari finan- ziari per lo svolgimento di questa attività), i quali riuniscono tutti i prestiti aventi le stesse caratteristiche e sulla base di questi creano valori mobiliari ad hoc (generalmente titoli obbligazionari), che collocano successivamente presso il pub- blico dei risparmiatori. In questo modo, banche e imprese liberano risorse impegnate nei crediti, raccogliendo in pro- porzione nuovi fondi da riutilizzare, mentre agli investitori si offre un nuovo strumento finanziario, sostanzialmente del- le "obbligazioni garantite". Il rimborso del capitale e il pagamento degli interessi che esse offrono sono infatti garantiti dai crediti sulla base dei quali vengono create.
In Italia, questa attività finanziaria è stata disciplinata con oltre vent'anni di ritardo rispetto alla prima operazione di se- curitization, realizzata negli Stati Uniti da Bank of America nel '77: la legge nazionale che disciplina questa attività è stata emanata infatti soltanto il 30 aprile '99 (si tratta della legge n. 130). Successivamente, è stata emanata la legge n. 410 del 23 novembre 2001 per la cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato.
Securitization può indicare anche la tendenza delle imprese e degli enti economici in generale a prediligere il finanzia- mento tramite emissione di valori mobiliari rispetto all'indebitamento verso banche. Tale tendenza si è sviluppata ini- zialmente negli Stati Uniti, intorno alla metà degli anni 80, in seguito alle politiche di deregolamentazione attuate dal- l'amministrazione Reagan che favorirono il proliferare di nuovi valori mobiliari più flessibili, idonei perciò a soddisfare meglio le molteplici esigenze dei prenditori di capitali.

 

Senior (Finanza)

Senior e junior nel nostro Paese servono per identificare padre e figlio quando condividono il nome. Lo stesso vale an- che nei Paesi anglosassoni, con la differenza che essi classificano con questi due termini anche i valori mobiliari.
Essi distinguono in particolare tra senior e junior securities. La differenza sta nel fatto che i titoli del primo tipo attribui- scono ai portatori il diritto di ottenere prima dei possessori di quelli del secondo tipo il pagamento di interessi e divi- dendi, oppure il rimborso del capitale. I proprietari di titoli junior, quindi, hanno diritto alla relativa prestazione econo- mica soltanto dopo che i portatori di senior securities siano stati integralmente soddisfatti.
É possibile pertanto che i titolari di junior securities non ricevano per intero quanto dovuto ed è anche possibile che non ricevano nulla, se l'emittente, dopo aver pagato i proprietari dei titoli senior, non ha più risorse disponibili per onorare i propri impegni.
Sinonimo di junior è il termine subordinated, per cui un titolo può essere definito indifferentemente junior o subordina- ted.
Nella classificazione degli strumenti finanziari in ordine di prelazione nell'esercizio dei diritti, la terminologia tecnica non si limita a distinguere soltanto due categorie, ma individua diversi gradi del privilegio offerto dai singoli valori mo- biliari emessi da una stessa società, organizzazione o ente. Possono così essere individuati senior subordinated securities e junior subordinated securities, con i primi che hanno diritto di precedenza sui secondi, cedendo però il passo alle "ve- re" senior securities.
Il rapporto senior-junior non vale solo all'interno di una stessa famiglia di titoli, per esempio azioni, ma anche fra titoli diversi: in Italia, ad esempio, le obbligazioni emesse da una società sono senior rispetto alle azioni emesse dalla stessa.
Ciò perché, in sede di liquidazione, gli obbligazionisti, che sono creditori della società, hanno diritto a ottenere il paga- mento degli interessi e il rimborso del capitale prima che i soci si spartiscano il capitale residuo.
D'altra parte, i titolari di azioni di risparmio hanno un diritto di precedenza rispetto ai soci ordinari. I primi, per esem- pio, hanno di solito diritto a un dividendo minimo ogni anno, purché la società sia in utile; per gli altri, il medesimo di- ritto sorge soltanto dopo che l'assemblea abbia deliberato favorevolmente.
Limitando l'attenzione soltanto a queste tre differenti categorie di titoli, risulta allora che le obbligazioni sono titoli se- nior rispetto alle azioni di risparmio, che sono a loro volta titoli senior subordinated rispetto alle azioni ordinarie, che quindi rispetto agli altri due sono junior subordinated.

 

Servizi di investimento (Finanza)


Nel Testo Unico della Finanza del 1998 vengono definiti servizi di investimento le attività aventi a oggetto strumenti finanziari (ossia azioni, obbligazioni, strumenti del mercato monetario, quote di fondi comuni e prodotti derivati) svolte a favore di un unico soggetto: il singolo risparmiatore, il singolo emittente oppure se stessi (in quest'ultimo caso, però, deve trattarsi di soggetto autorizzato alla negoziazione per conto proprio). Rientrano pertanto in questa categoria la già citata negoziazione per conto proprio (servizio di investimento svolto nel proprio interesse), la negoziazione per conto terzi (servizio di investimento rivolto al singolo cliente, non soltanto persona fisica, ma anche persona giuridica), il col- locamento di titoli con o senza assunzione di garanzia (servizio di investimento rivolto al singolo emittente), la ricezio- ne e la trasmissione di ordini, la mediazione e la gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto ter- zi (servizi questi ultimi tutti svolti a favore di singoli clienti).
Diversa dai servizi di investimento, che hanno come s'è visto una precisa connotazione individuale, è la gestione collet- tiva del risparmio, che invece comprende tutte le attività di natura finanziaria svolte nell'interesse comune di un insieme di investitori. Essa non concerne la semplice gestione finanziaria del patrimonio dei cosiddetti organismi di investimen- to collettivo del risparmio (Oicr), ossia fondi comuni di investimento e Sicav, ma riguarda anche attività di tipo ammi- nistrativo-istituzionale, come quelle necessarie per la promozione, l'istituzione e l'organizzazione di un fondo comune di investimento, oppure quelle relative all'amministrazione dei rapporti con i rispettivi partecipanti.
La distinzione fra servizi di investimento e gestione collettiva del risparmio è importante poiché le due attività non pos- sono essere svolte contemporaneamente dallo stesso soggetto. Chi è autorizzato a svolgere servizi di investimento non può svolgere anche servizi di gestione collettiva del risparmio e viceversa.
La ragione per cui la legge separa nettamente queste attività risiede nella volontà di limitare quanto più possibile con- flitti di interesse e abusi. É chiaro che se un soggetto venisse autorizzato alla gestione collettiva del risparmio e contem- poraneamente alla negoziazione di strumenti finanziari per conto proprio (o anche di terzi, per esempio amici), si apri- rebbero enormi spazi per comportamenti scorretti.
L'unica eccezione a questa regola della separatezza fra le due attività è prevista a favore delle società di gestione del ri- sparmio (Sgr), ossia le società autorizzate a prestare servizi di gestione collettiva del risparmio. Esse possono infatti an- che svolgere il servizio di investimento consistente nella gestione su base individuale di un portafoglio di investimento.
Tale eccezione infatti non è tale da creare serie questioni di conflitto di interesse e consente a tali società di organizzare in maniera unitaria prodotti di gestione professionale del risparmio sia collettivi che individuali.
A eccezione, dunque, della sola attività di gestione su base individuale di un portafoglio di investimento, gli altri servizi di investimento possono essere svolti in via esclusiva da banche, Sim, imprese di investimento comunitarie ed extraco- munitarie, agenti di cambio, società fiduciarie nonché dagli intermediari finanziari iscritti nell'elenco previsto dall'arti- colo 107 del Testo Unico bancario.

Sicav (Finanza)

Sicav è un sigla che nel gergo finanziario indica le società di investimento a capitale variabile. Tali società sono state istituite nel nostro ordinamento giuridico relativamente di recente, con il decreto legislativo n. 84 del 25 gennaio 1992, abrogato - a eccezione dell'articolo 14 - con l'art. 214 del <Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria>, contenuto nel Decreto Legislativo n. 58, del 24 febbraio 1998, che agli articoli da 43 a 50 ne definisce la nuova disciplina.
Le Sicav sono vere e proprie società per azioni; due caratteristiche essenziali le contraddistinguono però da quelle "or- dinarie" disciplinate dal codice civile: in primo luogo, l'attività svolta, che consiste esclusivamente nell'investimento collettivo in strumenti finanziari del capitale raccolto mediante emissione di azioni; in secondo luogo, il fatto che le a- zioni possano essere emesse e rimborsate ai sottoscrittori con la frequenza stabilita nello statuto sociale.
Quest'ultimo tratto distintivo spiega, tra l'altro, le ragioni della qualifica a capitale variabile di tali società: quando le a- zioni vengono rimborsate, il capitale diminuisce in proporzione; ugualmente, quando vengono sottoscritte nuove azioni esso aumenta. Il capitale delle Sicav non è quindi fisso come quello delle normali spa, ma varia continuamente di giorno in giorno. In particolare, il capitale delle società non è un valore nominale che esiste soltanto sulla carta, privo di alcun concreto significato economico, ma è sempre pari al valore del patrimonio netto della società. E le azioni debbono sem- pre avere un valore pari al patrimonio netto diviso per il loro numero.
Inoltre le azioni devono essere immediatamente liberate al momento dell'emissione; non possono essere privilegiate né di risparmio; e infine non è consentito alle Sicav acquistare azioni proprie o azioni di altri Sicav. Queste società non possono neanche emettere obbligazioni.
Le azioni possono invece essere sia nominative che al portatore, a scelta del sottoscrittore; tuttavia, a seconda che siano del primo tipo ovvero del secondo, variano i diritti di voto in assemblea. In caso di azioni al portatore, il voto del pos- sessore ha valore unitario, qualunque sia la parte di capitale detenuta; in caso di azioni nominative, vale invece la regola generale di un voto per ogni azione posseduta.


L'acquisto di azioni di una Sicav rappresenta una forma di investimento parallelo e in competizione con altre forme di impiego del risparmio; principalmente, esso si pone in alternativa diretta con l'acquisto di quote di fondi comuni. In en- trambi i casi il risparmiatore decide di affidare la gestione delle proprie risorse a terzi. Tuttavia, mentre con l'acquisto di un quota di un fondo comune, la gestione del proprio patrimonio viene interamente affidata ad altri soggetti, senza pos- sibilità di influenzarla, con l'acquisto di azioni di Sicav il risparmiatore può intervenire, almeno indirettamente, nella stessa gestione. Tale intervento si attua con la partecipazione e l'esercizio del relativo voto nell'assemblea sociale. An- che per le Sicav è infatti previsto l'organo assembleare che delibera, sia in sede ordinaria che straordinaria, qualunque sia la parte sociale convenuta.
Le Sicav, a causa della particolare attività svolta, sono sottoposte a particolari oneri e cautele: non possono essere costi- tuite in mancanza dell'autorizzazione della Banca d'Italia; debbono avere capitale minimo di un milione di euro e sono soggette alla vigilanza della Banca d'Italia e della Consob.
Il patrimonio delle Sicav può essere gestito direttamente oppure, per il tramite di un'apposita convenzione, da una socie- tà di gestione del risparmio. Il patrimonio delle Sicav può essere ripartito in più comparti di investimento, ciascuno ca- ratterizzato da una propria strategia e da una propria categoria di strumenti finanziari in cui è possibile investire. In tal caso, la Sicav emette più di una categoria di azioni, ciascuna riferita al singolo comparto. Gli strumenti finanziari in cui può essere investito il patrimonio vengono indicati nel prospetto informativo.
Contrariamente alle attese, le Sicav non hanno ottenuto un grande successo in Italia: la causa, probabilmente, ha a che vedere con il fatto che i risparmiatori non riescono a valutare con precisione le differenze con i più noti e diffusi fondi comuni.

 

 

Sim (Finanza)

Sim è uno dei pochi acronimi presenti nel dizionario italiano della finanza: sta per <società di intermediazione mobilia- re>. Il nome dice l'attività, ma non cosa fanno queste società.
Che cos'è infatti l'intermediazione mobiliare? É la stessa legge istitutiva delle Sim, la legge n. 1 del 2 gennaio 1991, successivamente assorbita con modificazioni nel Testo Unico dell'intermediazione finanziaria del 1998, a fornire gli opportuni chiarimenti. Le Sim possono compiere una serie di attività finanziarie (definite servizi di investimento) che, prima della loro istituzione, venivano svolte da soggetti diversi.
Possono negoziare strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, titoli diversi, prodotti derivati), per conto proprio o dei propri clienti. Tale attività una volta era appannaggio degli agenti di cambio, la cui figura, pur non essendo stata for- malmente abolita, va col tempo scomparendo (l'iscrizione all'apposito albo è stata infatti chiusa con l'entrata in vigore della legge).
Le Sim possono collocare e distribuire presso il pubblico strumenti finanziari per conto dell'emittente. Quest'attività una volta era di esclusiva pertinenza dei consorzi bancari.
Gestiscono patrimoni privati: per conto del cliente individuale cioè, investono e disinvestono in strumenti finanziari il patrimonio dato in gestione; attività quest'ultima, propria delle società fiduciarie.
Possono inoltre raccogliere ordini di compravendita di strumenti finanziari, attività una volta svolta soprattutto dalle banche.
Le Sim offrono servizi di investimento, salvo talune eccezioni, in concorrenza con le banche e con le imprese di inve- stimento estere. Sono sottoposte alla vigilanza della Banca d'Italia e della Consob.

Spiazzamento (Economia)

Gli anglofoni lo chiamano crowding-out; gli italiani l'hanno tradotto effetto spiazzamento: si tratta della diminuzione della domanda privata per effetto di un aumento della domanda da parte del settore pubblico.
Il crowding-out può essere totale o parziale: nel primo caso, l'aumento della spesa pubblica riduce dello stesso ammon- tare la domanda privata; nel secondo, quest'ultima si riduce in misura meno che proporzionale rispetto a quella.
L'effetto spiazzamento è importante perché di norma la maggiore spesa pubblica riduce la domanda per investimenti privati. Questa circostanza è particolarmente grave quando l'aumento della spesa pubblica consiste soltanto in un incre- mento dei consumi pubblici: in tal caso, una spesa per consumi ha l'effetto di ridurre la spesa per investimenti, pregiudi- cando così, almeno in parte, le possibilità future di creare reddito. É meno grave, quando la spesa pubblica aggiuntiva è impiegata in investimenti: in tal caso, l'effetto globale potrebbe essere giudicato negativo, soltanto a condizione che  gli


investimenti pubblici siano molto meno efficienti di quelli privati. Una diminuzione, anche piccola di questi ultimi, non riuscirebbe a essere compensata da un aumento di quelli.
Il crowding-out si produce sostanzialmente per due ragioni: o perché l'aumento della spesa pubblica determina un innal- zamento dei tassi di interesse; o perché favorisce una fiammata inflativa.
Nel primo caso, i tassi aumentano in conseguenza dell'aumento del reddito indotto dalla maggiore spesa pubblica; tale maggior reddito si trasforma in una maggiore domanda di moneta; la quale, tendenzialmente, si riverbera in un incre- mento dei tassi di interesse, che a loro volta contraggono in primo luogo gli investimenti privati (possono tuttavia risul- tare spiazzati per questa via anche i consumi privati e le esportazioni nette).
Nel secondo caso, l'effetto si produce quando l'economia è vicina alla piena occupazione: in tal caso, un'espansione del- la domanda da parte dello Stato non può tradursi in un corrispondente aumento della produzione, visto che la capacità produttiva è quasi del tutto utilizzata. Il più elevato livello della domanda si tradurrà pertanto in un aumento del livello dei prezzi, riducendo così il potere d'acquisto del reddito delle famiglie e dei profitti delle imprese, le quali quindi spen- deranno di meno rispettivamente in consumi e investimenti.
Non sempre tuttavia l'aumento della spesa pubblica comporta un effetto spiazzamento: ciò accade quando non variano né i tassi di interesse, né i prezzi. Di norma, tuttavia, le circostanze sono tali per cui così come l'effetto spiazzamento non è totale, non è nemmeno del tutto assente. Esso sarà tanto più cospicuo, quanto maggiori saranno le escursioni ver- so l'alto subite da prezzi e tassi di interesse. Ciò a sua volta dipende da quanto più è vicina l'economia al pieno impiego.

Spin-off (Finanza)

Spin-off nel vocabolario comune inglese denota il risultato secondario derivante dall'impiego di una determinata tecno- logia.
Quando viene riferito all'impresa, spin-off indica invece quel particolare processo per cui una costola d'impresa si sepa- ra dal corpo della società madre per formare una nuova società, più piccola e operante in un settore attiguo, non neces- sariamente identico a quello dell'impresa madre. Caratteristica dello spin-off è che a capo dell'impresa figlia vi è di norma un ex-dipendente o un ex-manager, il quale sia riuscito a sviluppare abilità tali da poter affrontare in prima per- sona il mercato.
Quando lo spin-off non genera un'impresa concorrente, bensì una fornitrice oppure una cliente, il principale vantaggio per la società madre consiste nel riuscire a delegare all'esterno funzioni che prima erano invece eseguite all'interno, ap- pesantendo così la struttura dell'impresa. Con lo spin-off, la casa madre può snellire la propria organizzazione, concen- trandosi esclusivamente sull'attività principale.
Per il dipendente, lo spin-off significa invece la possibilità di passare dalla schiera dei lavoratori al fronte dei datori di lavoro.
A seconda che l'iniziativa sia autonoma del dipendente oppure promossa dalla società, lo spin-off viene definito sponta- neo o guidato. In questo secondo caso, l'impresa madre si impegna a predisporre a favore del neo-imprenditore le con- dizioni necessarie per la sopravvivenza della nuova intrapresa: può quindi partecipare direttamente al capitale sociale, affidargli parte dei propri clienti, o ancora garantirgli commesse sicure.

Stand-by (Finanza)

Varie sono le immagini che possono esprimere il significato della locuzione inglese stand-by, tuttavia la più astratta, in cui tutte le altre si possono riassumere, è quella di qualcosa immediatamente disponibile all'utilizzo. Stand letteralmente significa <stare in piedi>, by <vicino>. Ma se qualcosa sta in piedi, vuol dire anche che esiste, e se sta vicino, significa che può essere adoperata da colui che si trova nei suoi dintorni.
Ecco perché nelle diverse branche dell'economia, vengono qualificate stand-by tutte quelle situazioni in cui un soggetto può impiegare liberamente di alcunché posto a sua disposizione.
In ambito bancario vengono definiti stand-by quelle linee di credito a favore di un'impresa, dalle quali quest'ultima può attingere liberamente, in una o più soluzione, secondo le proprie necessità. Esse si differenziano dai mutui veri e propri poiché, con questi, l'intero ammontare concesso a prestito viene attribuito all'impresa in un unico momento, all'apertura del credito. L'impresa poi può disporne come crede, senza dover seguire specifiche regole di utilizzazione, salvo l'impe- gno di rimborsare il capitale e pagare gli interessi.
Con un prestito stand-by, invece, viene messo a disposizione dell'impresa un ammontare massimo di risorse monetarie, che può essere utilizzato, in tutto o in parte, per un periodo limitato, di solito non superiore a tre mesi. Prima di ottener- ne la disponibilità, l'impresa deve indicare alle banche, con un congruo preavviso, per esempio 15 giorni, la somma di cui necessita. Decorso il periodo di utilizzo, l'impresa può comunicare alle banche, con un preavviso concordato, l'in- tenzione di disporre della somma anche per il periodo successivo.


Sulle somme utilizzate in ciascun periodo viene applicato un interesse di riferimento, generalmente calcolato come il prime rate all'inizio del periodo più uno spread, ossia un differenziale stabilito per contratto. Sulle somme non utilizzate, l'impresa paga alle banche, generalmente ogni trimestre, una commissione di credito.
Inoltre, nel prestito stand-by viene di norma stipulato che l'impresa non possa disporre di una porzione qualunque della linea di credito, ma ogni volta di un multiplo rispetto a una predeterminata somma minima. É infine spesso richiesto al- l'impresa di non utilizzare per un certo periodo, negli anni successivi al primo, il fido concessole, diciamo un mese al- l'anno; in alternativa, le può essere richiesto di non utilizzare il fido sopra una determinata percentuale, diciamo l'80 per cento.
Nella disciplina aziendale, stand by viene anche definito l'accordo con il quale una banca d'investimento si impegna a sottoscrivere la quota inoptata di un'emissione di titoli. In tal caso, l'impresa paga alla banca una commissione, detta stand-by fee.
Infine, viene così detto l'accordo fra il Fondo Monetario Internazionale e uno Stato membro, in base al quale viene con- cesso a quest'ultimo un prestito in valuta per sopperire a un temporaneo squilibrio della bilancia dei pagamenti. Il Fondo subordina la concessione del fido alla sottoscrizione, da parte delle autorità del Paese beneficiario, di una lettera predi- sposta dal Fondo stesso, in cui vengono delineate le principali misure per riportare in equilibrio la posizione economica e finanziaria dello Stato debitore.

Stock option (Finanza)

Stock option sono i contratti di opzione sui singoli titoli azionari. Essi danno diritto a chi le acquista di esercitare entro un determinato periodo l'inerente diritto di compravendita su un determinato numero di azioni, a un prezzo prefissato, detto prezzo d'esercizio.
Possono essere di tipo call o put: nel primo caso, chi compra l'opzione ha diritto di acquistare un determinato quantitati- vo di azioni; nel caso di put, ha diritto di vendere.
In Italia, sono attualmente (maggio 2004) trattate sul mercato dei prodotti derivati (Idem) stock option su 39 titoli, sele- zionati tra quelli più liquidi negoziati in Borsa.
Si tratta di opzioni di tipo americano: il compratore può cioè esercitare il diritto di acquisto o vendita in un momento qualsiasi entro la data di scadenza.
Ciascuna stock option trattata in Italia dà diritto all'acquisto o alla vendita di 100, 500, 1.000, 2.500, 5mila o 10mila a- zioni, a seconda del titolo sottostante, su sei scadenze diverse: i primi tre mesi a partire dal mese in corso, più il mese finale del primo, del secondo e del terzo trimestre successivo, individuato dividendo l'anno in trimestri (quindi marzo, giugno, settembre o dicembre).
Il premio, che l'acquirente deve pagare al venditore dell'opzione, è espresso in euro per azione, e deve essere versato il giorno dopo l'acquisto del contratto. Viceversa, il venditore deve versare i margini secondo quanto determinato dalla Cassa di compensazione e garanzia.

 

Specifiche del contratto di opzione su azioni
Titoli sottostanti e dimensione del contratto: la dimensione del contratto è data dal prodotto fra il valore dello strike (e- spresso in euro) e il rispettivo lotto. Esempio: se il prezzo dell'opzione sull'azione Fiat con strike 31,45 è pari a 0,6500 , il contratto ha una dimensione pari a 31,45 x 500 = 15,725
Premio del contratto: Il premio del contratto è pari al valore del premio dell'opzione moltiplicato per il rispettivo lotto.
Esempio: se il premio dell'opzione sull'azione Fiat con strike 31,45 euro è pari a 0,6500 euro, il premio del contratto ha un valore di 0,6500 x 500 = 325 .
Movimento   minimo    di    prezzo    (tick):    il    movimento    minimo    di    prezzo    è    uguale    a    0,0005   . Ultimo giorno di negoziazione: le negoziazioni sulle serie in scadenza terminano il giorno precedente il giorno della lo- ro scadenza, alle 17,40.
Prezzo di regolamento: il prezzo di regolamento è pari al valore del prezzo di riferimento dell'azione sottostante il con- tratto rilevato l'ultimo giorno di contrattazione.
Esercizio dell'opzione: l'esercizio anticipato dell'opzione è possibile durante tutta la fase di negoziazione in qualunque giorno compreso tra la prima seduta di negoziazione e l'ultimo giorno di negoziazione. L'esercizio anticipato viene so- speso nei seguenti casi: 1) nella seduta precedente il giorno della distribuzione di dividendi dell'azione sottostante il contratto; 2) nella seduta precedente il giorno in cui prendono avvio operazioni sul capitale dell'azione sottostante il contratto; 3) nell'ultimo giorno di durata di un'offerta pubblica totalitaria. Inoltre la Borsa Italiana può sospendere l'eser-


cizio anticipato con apposito provvedimento qualora abbia adottato un provvedimento di sospensione dalle negoziazioni dell'azione sottostante il contratto. Il giorno di scadenza le opzioni in the money sono esercitate automaticamente. L'e- sercizio per eccezione è possibile entro le ore 8,15 del giorno di scadenza Quando, a scadenza, si ha l'esercizio dell'op- zione da parte del suo acquirente, la Cassa di Compensazione e Garanzia ne assegna il venditore sulla base di un'estra- zione casuale.
Liquidazione: la liquidazione avviene mediante consegna fisica dei titoli alla Stanza di Compensazione, per il tramite della Cassa di Compensazione e Garanzia, tenuto conto del numero di contratti esercitati e del lotto minimo. Il giorno di liquidazione del contratto coincide con il terzo giorno lavorativo successivo all'esercizio anticipato dell'opzione o al giorno di scadenza della stessa.

Stripping (Finanza)

Nel linguaggio comune inglese, il verbo (to) strip significa spogliare. In finanza stripping, che è il gerundio del verbo (to) strip, indica l'attività svolta di norma da un banca d'affari di separare le cedole - che rappresentano materialmente il diritto alla riscossione degli interessi - dal corpo principale dell'obbligazione - che contiene invece il diritto al rimborso del capitale nella misura del suo valore nominale. In considerazione del fatto che il "corpo" del titolo prende nome in italiano di mantello, il verbo (to) strip è quindi perfetto per illustrare con un'immagine questa operazione finanziaria: le cedole, dopo lo stripping, risultano effettivamente "spogliate" del loro mantello.
Il titolo privo di cedole prende nome di stripped bond (in particolare se si tratta di obbligazione); non sembra invece scientificamente corretta la traduzione onomatopeica di titolo strippato, anche se nella prassi questa terminologia è piut- tosto diffusa.
Con lo stripping si trasforma un titolo che matura periodicamente degli interessi in tanti titoli zero-coupon bond: di que- sti, quello con durata più lunga è il corpo del titolo che matura una "cedola" pari al rimborso del capitale alla scadenza del titolo originario; gli altri titoli derivano dalle vere cedole del titolo originario e hanno durata variabile in funzione del loro numero e della frequenza.
Per esempio, se si considera lo stripping al momento dell'emissione di un'obbligazione quinquennale che paga interessi semestrali, si avranno 13 zero-coupon bond: quello con durata più breve sarà rappresentato dalla prima cedola, con sca- denza dopo sei mesi; il secondo sarà costituito dalla cedola che matura dopo un anno e così via, fino allo scadere del quinto anno, in cui giungeranno a maturazione l'ultima cedola e il corpo dell'obbligazione.
Lo stripping pertanto consente di derivare da un titolo tanti zero-coupon dalle caratteristiche diverse, rendendo così il titolo originario idoneo a soddisfare maggiormente le varie esigenze degli investitori.
Lo stripping non riguarda soltanto le obbligazioni; può concernere anche le azioni. In questo caso, ciò che viene "strip- pato" non sono le cedole, visto che tali titoli non pagano gli interessi, ma i dividendi. Tant'è che per distinguere le due modalità, la seconda viene definita dividend stripping. Con tale locuzione viene denotata la strategia finanziaria con la quale l'investitore compra azioni al solo scopo di incassare i dividendi. Egli pertanto acquisterà i titoli relativi appena prima della distribuzione degli utili.

Superprimary dealer (Finanza)

Sull'Mts, il mercato telematico dei titoli di Stato, definito anche mercato all'ingrosso dei titoli del debito pubblico a cau- sa dell'elevato valore minimo dei lotti negoziabili, pari a 2,5 milioni di euro, possono operare soltanto i soggetti impe- gnati nell'intermediazione di strumenti finanziari: quindi, principalmente, banche e imprese di investimento legittimate alla negoziazione per conto proprio, oltre al ministero del Tesoro e alla Banca d'Italia che risultano iscritti di diritto.
A seconda della dimensione patrimoniale dell'intermediario e dell'entità degli scambi eseguiti sull'Mts, è possibile di- stinguere su questo mercato tre categorie di operatori: i dealer, i primary dealer e i superprimary dealer, detti anche spe- cialisti in titoli di Stato. I primi non possono svolgere funzioni di market maker, mentre gli altri due sì: sotto questo pro- filo in particolare, primary e superprimary hanno l'obbligo di quotare continuativamente in acquisto e in vendita un cer- to numero di titoli.
La differenza fra primary e superprimary è soprattutto di natura dimensionale.
É super il primary che abbia un patrimonio netto pari almeno a 38.734.267 euro (pari a 75 miliardi delle vecchie lire); si aggiudichi in asta sul mercato primario una quota almeno pari al 3% del totale dei titoli di Stato di nuova emissione e svolga sul mercato secondario attività di negoziazione con continuità, su un determinato numero di titoli e per quantità molto elevate (più elevate di quelle richieste per la qualifica di primary dealer).
I primary dealer che presentano i suddetti requisiti possono fare richiesta presso il ministero del Tesoro di essere iscritti nell'Elenco degli specialisti in titoli di Stato, tenuto a cura dello stesso Ministero. Il quale, ogni due anni provvede, a verificare che tali requisiti siano mantenuti, pena l'esclusione dall'elenco.


A fronte di questi e altri doveri, allo specialista sono però riservati alcuni speciali privilegi. Soltanto agli specialisti, in particolare, è data facoltà di partecipare ad aste supplementari dei titoli di Stato e a proporre operazioni a titolo definiti- vo alla Banca d'Italia.
Infine, in considerazione anche degli altri obblighi di informativa che gravano sui superprimary, essi hanno il non pic- colo vantaggio di intrattenere più strette relazioni con le autorità di settore.

 

Swap (Finanza)

Swap è vocabolo di terminologia comune inglese che in italiano viene perfettamente tradotto con <baratto>. Il baratto è lo scambio di una cosa per un'altra e ha luogo se due persone trovano conveniente scambiarsi reciprocamente ciò che è in loro possesso.
Un viticoltore, per esempio, fa uno swap con un allevatore di galline, se scambia grappoli con uova. Perché un tale scambio avvenga, è però necessario che esso sia per entrambi più conveniente che comprare al mercato. Il che si verifi- ca se coltivatore e contadino ottengono ciò che desiderano, cedendosi reciprocamente una quantità di uva e uova infe- riore a quella che dovrebbero vendere per acquistare al mercato quanto hanno bisogno. Tutte le volte in cui due abitanti della campagna portano a termine un simile scambio, pongono in essere senza saperlo un commodity swap. Lo swap viene definito commodity perché oggetto dello scambio sono beni materiali.
A seconda delle esigenze delle parti, possono essere scambiati anche tassi di interesse e valute. Si hanno allora interest- rate swap e currency swap. Con i primi, un'impresa che ha debiti a tasso fisso e una che ne ha a tasso variabile si scam- biano i rispettivi pagamenti degli interessi; con i currency swap, invece, due imprese si scambiano somme di denaro e- spresse in valuta diversa.
Presupposto e conseguenza di entrambi i tipi di swap è un risparmio in termini di costi per entrambe le parti. É chiaro quindi che, in questo senso, gli swap sono molto frequenti fra imprese che presentano sull'attività ceduta un vantaggio relativo rispetto alla controparte.
Uno swap tuttavia può essere conveniente anche quando una delle due imprese riesca a comprare le attività oggetto di scambio a condizioni comunque più favorevoli della controparte. Ciò si verifica quando i vantaggi dell'una vengono tra- sferiti a pagamento alla seconda, in modo tale che entrambe possano ottenere ciò di cui necessitano a un costo inferiore rispetto a quello che dovrebbero sostenere se operassero da sole.

 

Swaption (Finanza)

Swaption è lemma del vocabolario finanziario, ottenuto con la crasi di due termini: swap e option. La fusione a livello linguistico, si traduce - sul piano pratico - nella creazione di uno strumento "composto"; swaption infatti è l'opzione su un interest rate swap. In altre parole, essa conferisce al titolare il diritto di stipulare, a una certa data e alle condizioni prefissate, uno swap su tassi di interesse.
Come qualsiasi altra opzione, anche la swaption può essere call o put. Con la prima, il portatore ha diritto di acquistare uno swap, cioè di pagare un interesse fisso e di ricevere il pagamento di un interesse variabile. Per questo motivo, può essere anche definita payers.
Viceversa, quando è put, il titolare ha diritto di vendere uno swap, e quindi di pagare un interesse variabile e di ricevere in cambio il pagamento di un interesse fisso. In quest'ultimo caso, viene anche denominata receivers.
Il tasso di interesse variabile, di norma, è determinato in riferimento al tasso Libor (<London interbank offered rate>), ossia il tasso di interesse richiesto a Londra dalle banche su un deposito in eurovaluta.
Il pregio della swaption è quello di consentire al titolare di acquisire il diritto di concludere uno swap alle condizioni prevalenti al momento dell'acquisto dell'opzione. Ai vantaggi connessi allo swap, unisce così quelli dati dall'utilizzo di un prodotto derivato, ossia precipuamente il vantaggio di fissare oggi i parametri del futuro.
In particolare, la swaption si rivela uno strumento molto importante per le imprese in periodi di incertezza sui tassi di interesse. Se una società trova conveniente tramutare propri debiti a tasso variabile in tasso fisso, e altresì sa che tra un anno prenderà a prestito una determinata somma a tasso variabile, può acquistare una call. La eserciterà, se nel frattem- po sarà diventato più oneroso fare uno swap, ossia se il tasso fisso da pagare sarà superiore a quello stabilito nella swap- tion; viceversa, stipulerà uno swap alle migliori condizioni di mercato e lascerà che il diritto acquistato si estingua inuti- lizzato. Uno strumento analogo alla swaption è il forward swap, detto anche deferred swap o, nella traduzione   italiana,
<swap differito>. Anche in tal caso, le condizioni per l'esercizio dello swap risultano determinate in anticipo. Tuttavia, a differenza di una swaption, il forward swap non dà al titolare possibilità di scelta. Egli deve necessariamente stipulare lo swap alle condizioni prestabilite, anche qualora l'evoluzione del mercato abbia una dinamica diversa da quelle previste.


In contropartita però, il forward swap non comporta costi iniziali.

Tasso di rifinanziamento principale (Economia)

É il principale tasso di politica monetaria nell'area dell'euro: è infatti il tasso al quale vengono eseguite dalla Banca Cen- trale Europea le operazioni di rifinanziamento principale (Orp). Con queste operazioni, condotte con frequenza settima- nale e aventi dal 9 marzo 2004 durata settimanale (invece delle tradizionali due settimane), la Bce controlla i tassi di interesse a breve termine, fornisce liquidità al sistema bancario dell'Unione Monetaria e segnala l'orientamento di politi- ca monetaria.
A quest'ultimo riguardo, vale precisare che tali operazioni possono essere eseguite a tasso fisso (metodo usato fino al 28 giugno 2000), oppure a tasso variabile (metodo usato successivamente). Nel primo caso, la Bce fissa un unico tasso al quale le istituzioni finanziarie autorizzate dell'area dell'euro possono finanziarsi indicando la quantità di liquidità desi- derata. Di norma, non verrà soddisfatta tutta la domanda, ma soltanto una quota, a seconda della liquidità che la Bce in- tende immettere nel sistema.
Nel caso di operazioni a tasso variabile, invece, la Bce fissa la quantità di liquidità offerta, preannunciando il tasso mi- nimo di offerta, mentre le banche presentano le domande indicando, oltre alla quantità desiderata, anche il relativo tasso di interesse. Esse possono, tra l'altro, presentare molteplici domande per quantità e tassi differenti.
A seconda del metodo prescelto dalla Bce, il tasso al quale verranno soddisfatte le domande potrà essere unico, e preci- samente il più basso che consente di assorbire tutta la quantità offerta, detto tasso marginale (si tratta del cosiddetto si- stema olandese), oppure ciascuna domanda potrà essere soddisfatta al tasso indicato dalla banca stessa (questo sistema è detto americano ed è quello finora utilizzato dalla Bce).
In entrambe le circostanze, la domanda non verrà di norma soddisfatta per intero, ma pro quota. Con una differenza: che con il sistema olandese le banche riceveranno una proporzione uguale della quantità domandata, mentre con quello a- mericano vengono soddisfatte per intero le domande alle quali sono associati i tassi di interesse più alti, mentre il riparto opera soltanto per le domande presentate al tasso più basso (tasso marginale) che consente di assorbire tutta la quantità offerta.

Terzo mercato (Finanza)

Una classificazione molto nota in finanza, distingue i mercati in primari e secondari. É primario il mercato in cui ven- gono collocati i titoli di nuova emissione; secondario, il mercato in cui i titoli collocati vengono trattati, passando di mano dal primo prenditore ai successivi e tra possessori successivi al primo.
Ancorché meno noto, esiste tuttavia anche il terzo mercato. Esso può definirsi come il mercato fuori Borsa dei titoli quotati. Il terzo mercato può quindi anche essere definito come il mercato over-the-counter dei titoli quotati.
Non è possibile parlare propriamente di terzo mercato se i titoli non sono quotati e appare ugualmente improprio defini- re terzo mercato la negoziazione di titoli che verranno quotati. In quest'ultimo senso, più preciso è l'utilizzo della locu- zione mercato grigio.
Esempio tipico di terzo mercato è il mercato dei blocchi. La legge, infatti, consente di negoziare grandi quantità di titoli al di fuori dei mercati regolamentati per evitare che le quotazioni possano subire forti oscillazioni in occasioni di tali scambi, aumentando così la volatilità.
Il terzo mercato crebbe di importanza negli anni 50 in Inghilterra, a causa soprattutto delle alte commissioni di negozia- zione richieste dagli intermediari abilitati a operare allo Stock Exchange. Per ridurre i costi di intermediazione e per evi- tare altresì che le quotazioni dei mercati regolamentati subissero eccessive oscillazioni, molti investitori istituzionali di- ressero la propria domanda di titoli quotati a intermediari non abilitati che trattavano titoli in listino. La crescita di que- sto mercato fu una delle cause che favorirono la liberalizzazione delle commissioni sul mercato di Londra nel 1975. Il terzo mercato tuttavia rimase florido anche successivamente in virtù dell'esigenza di mantenere stabili le quotazioni sui mercati regolamentati.

Trust (Finanza)

<L'unione fa la forza>, recita un noto adagio. Lo sanno bene gli atleti che giocano in una squadra; lo sanno bene i diri- genti d'azienda che invitano i propri collaboratori a fare <gioco di squadra>; e lo sanno bene anche le imprese. Il fatto è che per esse il principio non vale sempre: hanno scelto di correre da sole, e da sole perlopiù devono pedalare. Ci sono accordi infatti che non possono stipulare, perché falsano il gioco della concorrenza; come risulta falsata una corsa ippica se i fantini si mettono d'accordo per spartirsi il premio spettante all'outsider. Ma mentre all'ippodromo a perderci sono gli spettatori, sul mercato a rimetterci sono soprattutto i consumatori: l'accordo anticoncorrenziale (quello che fa cate- naccio contro l'attacco della concorrenza) consente alle imprese che vi partecipano di vendere una quantità inferiore   di


prodotti a un prezzo più alto di quello che potrebbero richiedere se operassero in concorrenza, cioè ciascuna per conto proprio.
Gli accordi anticoncorrenziali possono assumere tante forme. Una di queste è il trust, celebre perché provocò negli Stati Uniti alla fine dell'800 l'emanazione di una legge, lo Sherman Act, che dichiarò vietate tali forme di accordo fra impre- se.
Costituendo un trust, le imprese più grandi che operano in un mercato affidano la responsabilità della propria gestione a un unico organo direzionale. Coordinando il comportamento delle partecipanti, l'organo centrale di direzione  definisce le strategie che ciascuna impresa deve seguire soprattutto in materia di prezzi e di quantità, in modo tale da consentire al trust di agire come monopolista di mercato e guadagnare di conseguenza profitti più alti del normale. I più elevati utili conseguiti dal trust vengono quindi distribuiti fra le imprese che ne fanno parte in proporzione alla partecipazione; i profitti della singola impresa risultano così superiori a quelli che sarebbero stati conseguiti se avesse operato in concor- renza con le altre partecipanti al trust.
Il trust è anche un negozio di diritto anglosassone, in base al quale una parte, detta beneficiaria, trasferisce suoi diritti di proprietà a un'altra, detta fiduciaria, la quale è tenuta a gestirli nell'esclusivo interesse della prima.

Utile operativo (Finanza)

L'utile operativo è il nome con cui viene tecnicamente chiamato il risultato economico positivo della gestione caratteri- stica, ossia della gestione che attiene all'attività principale svolta dall'impresa. Può prendere anche nome di risultato o reddito operativo, in particolare quando si intende fare indifferentemente riferimento a un risultato positivo o negativo; utile operativo denota invece soltanto un risultato positivo. Poiché tuttavia un'impresa non può resistere a lungo accu- mulando perdite operative, utile operativo assume in pratica valore di dizione generale.
Formalmente esso è pari alla differenza fra i ricavi e i costi attinenti alla gestione caratteristica.
In particolare, i ricavi da prendere in considerazione per il suo calcolo sono dati dalla somma di ricavi netti di vendita, variazione delle scorte e variazione delle costruzioni in economia realizzate durante l'esercizio.
I costi da detrarre sono invece costituiti dalle spese per l'acquisto di beni intermedi (materie prime e semilavorati che vengono immessi nel processo produttivo per la trasformazione in prodotti), dalle remunerazioni degli addetti alla pro- duzione, comprese quelle spettanti agli impiegati degli uffici amministrativi e commerciali, e dai costi di utilizzo degli impianti e dei macchinari.
Tali costi non sono distintamente indicati nel conto economico, ma possono essere reperiti nella nota integrativa se è compilata in dettaglio. In caso contrario, non rimane che accontentarsi delle approssimazioni consentite comunque da tale documento.
L'utile operativo è un indicatore molto importante per capire se l'impresa è capace di far fronte ai propri impegni finan- ziari. In particolare, se è superiore a questi, l'attività è sufficiente a remunerare anche gli azionisti ed eventualmente a far fronte a spese straordinarie; se è inferiore, l'impresa è in crisi. Diventa allora necessaria una revisione del processo produttivo in senso più efficiente oppure una ristrutturazione delle passività finanziarie.
Esso costituisce anche un valore fondamentale per il calcolo di alcuni importanti indici della redditività, primo fra  tutti il Roi.

Utile per azione (Finanza)

Utile per azione (U/A), detto in inglese earnings per share e spesso denotato dalla sigla Eps, è un indice molto diffuso nelle analisi della redditività delle imprese. In generale, può essere definito come il rapporto fra utili netti e numero di azioni ordinarie. Esso, in altre parole, consente di calcolare l'utile spettante a ciascuna azione ordinaria. Per quanto sem- plice possa apparire questa definizione, il calcolo di questo indice è tuttavia relativamente complesso.
Bisogna infatti apportare degli aggiustamenti sia al numeratore che al denominatore: non basta considerare l'utile netto risultante da bilancio e dividerlo per il numero di azioni ordinarie esistenti, ma è necessario che il primo rappresenti l'u- tile effettivamente spettante alle azioni ordinarie, e il divisore tenga conto non solo delle azioni ordinarie esistenti, ma anche di quelle potenziali. Queste ultime sono rappresentate dalle azioni ordinarie che dovrebbero essere emesse se i titolari di diritti di opzione, warrant e obbligazioni convertibili ne chiedessero, nell'esercizio, la conversione.
La prima correzione è abbastanza semplice da effettuare: è sufficiente detrarre dall'utile netto il dividendo pagato alle azioni di risparmio, a quelle senza voto o a voto limitato e a quelle con voto condizionato; in generale cioè, a tutte quel- le azioni che ordinarie non sono.
Per operare il secondo aggiustamento, bisogna prima di tutto por mente al fatto che mentre l'utile conseguito in un pe- riodo è un valore unico, il numero delle azioni ordinarie, esistenti e potenziali, nell'arco dello stesso periodo, può varia-


re. Di tali possibili variazioni è quindi necessario tenere conto, inserendo al denominatore una media del numero di a- zioni  ordinarie  ponderata   per   i   giorni   dell'esercizio   in   cui   esse   effettivamente   o   potenzialmente  esistono. In secondo luogo, non bisogna tenere conto di tutte le azioni ordinarie emesse, bensì soltanto di quelle in circolazione, ossia di quelle che non siano in mano alla società stessa. Bisognerà quindi tenere presente gli acquisti e le vendite di a- zioni proprie.
L'utile per azione è un indice che interessa molti soggetti attenti alle sorti economiche della società per la quale viene calcolato: gli amministratori lo considerano come termometro, ancorché approssimativo, del successo della gestione; creditori e contabili come misura dello stato di salute dell'azienda (un suo forte calo potrebbe annunciare con qualche anticipo l'opportunità di attivare procedure concorsuali); gli investitori lo analizzano con la speranza che i più alti utili spettanti in linea teorica alle azioni ordinarie si traducano in maggiori dividendi e/o in quotazioni più alte.

Valore aggiunto (Economia)

É forse la locuzione di più immediata comprensione in economia; il nome stesso valore aggiunto esplicita già da sé chiaramente ciò che intende denotare: il <valore, aggiunto a qualcosa, per effetto di qualcos'altro>.
Tuttavia, se risulta chiaro che, in quanto "aggiunto", tale valore debba essere immaginato come differenza fra un valore finale e un valore iniziale, dubbi possono sussistere in merito ai due estremi.
La formula classica definisce valore aggiunto la differenza fra il valore della produzione e il valore dei prodotti inter- medi.
Il primo termine della differenza non coincide pertanto con il fatturato, poiché esso esprime "soltanto" il valore delle vendite, non quello globale della produzione. Per ottenere questo, bisogna aggiungere algebricamente, ossia con il se- gno opportuno, la variazione delle scorte. Un loro incremento indica infatti un valore della produzione superiore al fat- turato; una loro diminuzione, un valore inferiore.
Per quanto riguarda poi i beni intermedi, bisogna tenere conto che vengono così definiti i beni di produzione a uso im- mediato, ossia quelli che partecipano a un solo processo produttivo (la farina che diventa pane) o che in quello si di- struggono (carburante).
Bisogna quindi rifuggire da eccessive semplificazioni che considerano il valore aggiunto come la differenza fra fatturato e costi di produzione. Al primo bisogna aggiungere la variazione delle scorte; dei secondi bisogna tenere conto soltanto nella misura dei costi per l'acquisto di beni intermedi.
Compreso dunque quale sia il contenuto concettuale, bisogna esaminare da chi o da cosa tale valore venga aggiunto. Se si considerano tutti gli elementi che intervengono in un processo produttivo, si constata che oltre ai beni intermedi ven- gono impiegati beni capitali (impianti, attrezzature, macchinari), lavoro e terra; i cosiddetti fattori della produzione, i quali mescolati insieme in giuste proporzioni trasformano i beni intermedi in prodotti destinati alla vendita. Il valore aggiunto risulta essere quindi il maggior valore conferito ai beni intermedi dalla partecipazione alla produzione di cia- scuno di questi fattori.

A ciascuno di essi, spetterà quindi come remunerazione una quota più o meno importante del valore aggiunto totale: ai lavoratori spetterà il salario, agli imprenditori i profitti, ai capitalisti gli interessi e ai proprietari terrieri la rendita. Il valore aggiunto può essere calcolato indifferentemente a livello di impianto, di azienda, di settore. A livello di conta- bilità nazionale, la somma del valore aggiunto prodotto in ciascun ramo dell'economia determina l'entità del prodotto interno lordo (Pil).

 

 

 

Fonte: http://www.notaio-canali.it/download/docs/dizionario.pdf

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