Aforismi, novelle e profezie di Leonardo da Vinci
Aforismi, novelle e profezie di Leonardo da Vinci
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Aforismi, novelle e profezie di Leonardo da Vinci
Aforismi, novelle e profezie
di Leonardo da Vinci
AFORISMI
Ciò che non ha termine non ha figura alcuna
Data la causa, la natura opera l’effetto nel più breve modo che operar si possa
Ogni azione fatta dalla natura non si pò fare con più brieve modo co’ medesimi mezzi. Date le cause la natura partorisce li effetti per i più brievi modi che far si possa.
Sì come ogni regno in sé diviso è disfatto, così ogni ingegno diviso in diversi studi si confonde e indebolisce.
A ciascuno strumento si richiede esser fatto colla esperienza. Ciascuno strumento per sé debbe essere operato colla esperienza dond’esso è nato.
Perché si vede più certa la cosa l’occhio ne’ sogni che colla immaginazione stando desto.
Fuggi e precetti di quelli speculatori che le loro ragioni non son confermate dalla isperienzia.
… O studianti, studiate le matematiche, e non edificate sanza fondamenti.
Chi biasima la somma certezza delle matematiche si pasce di confusione, e mai porrà silenzio alle contradizioni delle sofistiche scienzie, colle quali s’impara uno eterno gridore.
Li abbreviatori delle opere fanno ingiuria alla cognizione e allo amore, con ciò sia che l’amore di qualunche cosa è figliol d’essa cognizione, e l’amore è tanto più fervente quanto la cognizione è più certa; la qual certezza nasce dalla cognizione integrale di tutte quelle parti, le quali, essendo insieme unite, compongano il tutto di quelle cose che debbono essere amate.
I’ ho tanti vocavoli nella mia lingua materna, ch’io m’ho più tosto da dolere del bene intendere delle cose, che del mancamento delle parole, colle quali io possa bene espriemere il concetto della mente mia.
Non mi legga chi non è matematico nelli mia principi.
La idea, over imaginativa, è e timone e briglia de’ sensi, in però che la cosa immaginata move il senso.
Chi disputa allegando l’autorità, non adopra lo ‘ngegno, ma più tosto la memoria.
La sperienzia, interprete in fra l’artifiziosa natura e la umana spezie, ne ‘nsegna ciò che essa natura in fra’ mortali adopra da necessità constretta, non altrimenti oprar si possa che la ragione, suo timone, oprare li ‘nsegni.
Nessuna azione naturale si po’ abreviare.
Ogni azion naturale è generata dalla natura nel più brieve modo che trovar si possa.
È da essere giudicati e non altrementi stimati li omini inventori e ‘nterpreti tra la natura e gli uomini, a comparazione de’ recitatori e trombetti delle altrui opere, quant’è dall’obbietto fori dello specchio alla similitudine d’esso obbietto apparente nello specchio, che l’uno per sé è qualcosa, e l’altro è niente. Gente poco obrigate alla natura, perché sono sol d’accidental vestiti, e sanza il quale potrei accompagnarli in fra li armenti delle bestie.
Molti mi crederanno ragionevol mente poter riprendere allegando le mie prove per essere contro all’alturità d’alquanti omini di gran riverenza apresso de’ loro inesperti iudizi, non considerando le mie cose essere nate sotto la semplice e mera sperienza, la quale è maestra vera.
Naturalmente li omini boni desiderano sapere. So che molti diranno questa essere opra inutile, e questi fieno quelli de’ quali Demetrio disse non faceva conto più del vento, il quale nella lor bocca causava le parole, che del vento ch’usciva dalle parte di sotto; uomini i quali hanno solamente desiderio di corporal ricchezze, diletto, e interamente privati di quello della sapienza, cibo e veramente sicura ricchezza dell’anima; perché quant’è più degna l’anima che ‘l corpo, tanto più degni fien le ricchezze dell’anima che del corpo. E spesso quando vedo alcun di questi pigliare essa opra in mano, dubito non si come scimia sel mettino al naso o che mi domandi’ se è cosa mangiativa
Nessuno effetto è in natura sanza ragione; intendi la ragione e non ti bisogna sperienza.
La esperienza non falla, ma sol fallano i nostri giudizi, promettendosi di lei cose che non sono in sua potestà.
A torto si lamentan gli omini della isperienza, la quale con somme rampogne quella accusano esser fallace. Ma lasciàno stare essa sperienza, e voltate tale lamentazione contro alla vostra ignoranzia, la quale vi fa transcorrere, co’ vostri vani e instolti desideri, a impromettervi di quelle cose che non sono in sua potenzia, dicendo quella esser fallace.
A torto si lamentano li omini della innocente esperienzia, quella accusando di fallacie e di bugiarde dimonstrazioni.
Chi si promette dalla sperienza quel che non è in lei si discosta dalla ragione.
La sapienza è figliola della sperienzia.
La necessità è maestra e tutrice della natura.
La necessità è tema e inventrice della natura, e freno e regola eterna.
Fuggi quello studio del quale la risultante opera more coll’operante d’essa.
O speculatori dello continuo moto, quanti vani disegni in simile cerca avete creati! Accompagnatevi colli cercatori dell’oro.
Medicina è ripareggiamento de’ disequalati elementi; Malattia è discordanza d’elementi fusi nel vitale corpo.
Muovesi l’amante per la cos’amata come il senso alla sensibile, e con seco s’unisce e fassi una cosa medesima. L’opera è la prima cosa che nasce dall’unione. Se la cosa amata è vile, l’amante si fa vile. Quando la cosa unita è conveniente al suo unitore, li seguita dilettazione e piacere e sadisfazione. Quando l’amante è giunto all’amato, lì si riposa. Quando il peso è posato, lì si riposa. La cosa cognosciuta col nostro intelletto.
Quattro sono le potenzie: memoria e intelletto, lascibili e concupiscibili. Le due prime son ragionevoli e l’altre sensuali.
De’ 5 sensi, vedere, uldir, odorato sono di poca proibizione, tatto e gusto no.
Scienzia: notizia delle cose che sono possibile presente e preterite. Prescenzia: notizia delle cose ch’è possivine che possin venire.
Ogni nostra cognizione prencipia da sentimenti.
I sensi sono terrestri, la ragione sta for di quelli quando contempla.
Il moto è causa d’ogni vita.
Natura non rompe sua legge.
La natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamente vive.
E questa sperienza si faccia più volte, acciò che qualche accidente non impedissi o falsassi tal prova, che le sperienzia fussi falsa, e ch’ella ingannassi o no il suo speculatore.
Chi nega la ragion delle cose, pubblica la sua ignoranza.
Come è più difficile a ‘ntendere l’opere di natura che un libro d’un poeta.
Aristotile e Alessandro furono precettori l’un de l’altro. Alessandro fu ricco di stato, il qual li fu mezzo a osurp[ar]e il mondo; Aristotile ebbe grande scienzia, la quale li furon mezzo a osurpasi tutto il rimanente delle scienzie composte dalla somma de’ filosofi.
La natura è piena d’infinite ragioni, che non furon mai in isperienzia.
D’ogni cosa la parte ritiene in sé la natura del tutto.
Voi, speculatori, non vi fidate delli autori che hanno sol co’ l’imaginazione voluto farsi interpreti fra la natura e l’omo, ma sol di quelli che, non coi cenni della natura, ma co’ gli effetti delle sue esperienzie hanno esercitato i loro ingegni. E riconoscere come l’esperienzie ingannano chi non conosce loro natura, perché quelle che spesse volte paiono una medesima, spesse volte son di grande varietà, come qui si dimostra.
La scienza è il capitano, e la pratica sono i soldati.
La proporzione non solamente nelli numeri e misure fia ritrovata, ma etiam nelli suoni, pesi, tempi e siti, e ‘n qualunque potenzia sia.
Quando tu metti insieme la Scienzia de’ moti dell’acqua, ricordati di mettere, di sotto a ciascuna proposizione, li sua giovamenti, a ciò che tale scienzia non sia inutile.
De l’error di quelli che usano la pratica senza scienzia, vedi prima la poetica d’Orazio.
Quelli che s’innamoran di pratica sanza scienzia son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada.
O speculatore delle cose, non ti laldare di conoscere le cose che ordinariamente per sé medesima la natura conduce. Ma rallegrati di conoscere il fine di quelle cose che son disegniate dalla mente tua.
Nessuna certezza è dove non si pò applicare una delle scienze matematiche, over che non sono unite con esse matematiche.
La Meccanica è il paradiso delle scienze matematiche, perché con quella si viene al frutto matematico.
Ma prima farò alcuna esperienza avanti ch’io più oltre proceda, perché mia intenzione è allegare prima l’esperienzia e poi colla ragione dimostrare perché tale esperienzia è costretta in tal modo ad operare. E questa è la vera regola come li speculatori delli effetti naturali hanno a procedere, e ancora che la natura cominci dalla ragione e termini nella sperienzia, a noi bisogna seguitare in contrario, cioè cominciando, come di sopra dissi, dalla sperienzia, e con quella investigare la ragione.
Nissuna umana investigazione si pò dimandare vera scienzia s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni, e se tu dirai che le scienzie, che principiano e finiscono nella mente, abbiano verità, questo non si concede, ma si niega, per molte ragioni, e prima, che in tali discorsi mentali non accade esperienzia, sanza la quale nulla dà di sé certezza.
Studia prima la scienzia, e poi seguita la pratica nata da essa scienzia.
Nissuna cosa è che più c’inganni che ‘l nostro giudizio.
II AFORISMI E PROVERBI SULL’UOMO
Chi tempo ha e tempo aspetta, perde l’amico e danari non ha mai.
Il giudizio nostro non giudica le cose fatte in varie distanzie di tempo nelle debite e propie lor distanzie, perché molte cose passate di molti anni parranno propinque e vicine al presente, e molte cose vicine parranno antiche, insieme coll’antichità della nostra gioventù, e così fa l’occhio infra le cose distanti, che per essere alluminate dal sole, paiano vicine all’occhio, e molte cose vicine paiano distanti.
La somma filicità sarà somma cagione della infelicità, e la perfezion della sapienza cagion della stoltizia.
Ogni parte ha inclinazion di ricongiugnersi al suo tutto per fuggire dalla sua imperfezione.
L’anima desidera stare col suo corpo, perché, sanza li strumenti organici di tal corpo, nulla può oprare né sentire.
O tempo, consumatore delle cose, e, o invidiosa antichità, tu distruggi tutte le cose, e consumate tutte le cose dai duri denti della vecchiezza, a poco a poco, con lenta morte. Elena, quando si specchiava, vedendo le vizze grinze del suo viso fatte per la vecchiezza, piagne, e pensa seco perché fu rapita du’ volte.
L’età che vola discorre nascostamente e inganna altrui, e niuna cosa è più veloce che gli anni, e chi semina virtù fama raccoglie.
Raro cade chi ben cammina.
Si come l’animosità è pericolo di vita, così la paura è la sicurtà di quella.
L’omo e gli animali sono propio transito e condotto di cibo, sepoltura d’animali, albergo de’ morti, facendo a sé vita dell’altrui morte, guaina di corruzione.
O dormiente. O che cosa è sonno? Il sonno ha similitudine con la morte. O perché non fai adunque tale opra, che dopo la morte tu abbi similitudine di perfetto vivo, che vivendo farsi col sonno simile ai tristi morti?
Dov’entra la Ventura, la ‘nvidia vi pone lo assedio e lo combatte, e dond’ella si parte vi lascia il dolore e il pentimento.
Molti ci gabbano.
A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s’accorgendo quello essere di bastevole transito; ma bona memoria, di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa lungamente passata ci pare esser presente.
Le minacce sol son arme dello imminacciato.
Ecci una cosa, che quanto più se n’ha di bisogno, più si refiuta; e questo è consiglio, mal volentieri ascoltato da chi ha più bisogno, cioè dagli ignoranti. Ecci una cosa che quanto più n’hai paura e più la fuggi, più te l’avvicini; e questo è la miseria , che quanto più la fuggi più ti fai misero e sanza riposo.
Alli ambiziosi, che non si contentano del benefizio della vita, né della bellezza del mondo, è dato per penitenzia che lor medesimi strazino essa vita, e che non possegghino la utilità e la bellezza del mondo.
L’ordinare è opra signorile, l’oprare è atto servile.
Acquista cosa nella tua gioventù che ristori il danno della tua vecchiezza. E se tu intendi la vecchiezza aver per suo cibo la sapienza, adoprati in tal modo in gioventù, che a tal vecchiezza non manchi il nutrimento.
La pazienza fa contra alle ingiurie non altrementi che si faccino i panni contro del freddo; imperò che se ti multiplicherai di panni secondo la multiplicazione del freddo, esso freddo nocere non ti potrà; similmente alle grandi ingiurie cresci la pazienza, esse ingiurie offendere non ti potranno la tua mente.
Quando io crederò imparare a vivere, e io imparerò a morire.
Aristotile nel terzo dell’Etica: l’uomo è degno di lode e di vituperio solo in quelle cose che sono in sua potestà di fare e di non fare.
Quando Fortuna vin, prendila [a] man salva, dinanti dico, perché direto è calva..
Si come il ferro s’arrugginisce sanza esercizio, e l’acqua si putrefà o nel freddo s’addiaccia, così lo ‘ngegno sanza esercizio si guasta.
Mal fai se laldi, e pegio istu riprendi la cosa, quando bene tu no la ’ntendi.
Beata è quella possessione, che vist’è da l’occhio del padrone.
Amor ogni cosa vince.
Questo per isperienza è provato, che chi non si fida mai sarà ingannato.
Non mi sazio di servire.
Ostinato rigore. Destinato rigore.
No’ si volta chi a stella è fisso.
Ogni impedimento è distrutto dal rigore.
Chi vol essere ricco in un dì è impiccato in un anno.
Orazio: Iddio ci vende tutti li beni per prezzo di fatica.
Il foco è da esser messo per consumatore d’ogni sofistico e scopritore e dimostratore di verità, perché lui è luce, scacciatore delle tenebre occultatrici d’ogni essenzia.
La verità al fine non si cela; non val simulazione. Simulazion è frustrata avanti a tanto giudice.
L’omo ha desiderio d’intendere se la femmina è cedibile alla dimandata lussuria, e intendendo di sì e come ell’ha desiderio dell’omo, elli la richiede e mette in opera il suo desiderio, e intender nol pò se non confessa, e confessando fotte.
Salvatico è quel che si salva.
Da Cornelio Celso. Il sommo bene è la sapienza, il sommo male è il dolore del corpo. Imperochè essendo noi composti di due cose, cioè d’anima e di corpo, delle quali la prima è migliore, la peggiore è il corpo, la sapienzia è della miglior parte, il sommo male è della peggior parte e pessima. Ottima cosa è nell’animo la sapienza. Così è pessima cosa nel corpo il dolore. Adunque siccome il sommo male è ‘l corporal dolore, così la sapienza è dell’animo il sommo bene, cioè de l’om saggio, e niuna altra cosa è da a questa comparare.
La stoltizia è scudo della vergognia, come la improntitudine della povertà.
Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire.
L’acqua che tocchi de’ fiumi è l’ultima di quella che andò e la prima di quella che viene. Così il tempo presente.
La vita bene spesa lunga è.
Lo corpo nostro è sottoposto al cielo, e lo cielo è sottoposto allo spirito.
Discernere, giudicare, consigliare sono atti umani.
Un vaso rotto crudo si può riformare, ma il cotto no.
Molte volte una medesima cosa è tirata da due violenzie, cioè necessità e potenzia: l’acqua piove, la terra la sorbisce per necessità d’omore, el sole l’asciuga non per necessità ma per potenzia.
L’anima mai si può corrompe[re] nella curuzzion del corpo, ma sta nel corpo a similitudine del vento ch’è causa del sono de l’organo, che guastandosi una cana no’ resultava per quella, del vento buono effetto.
E questo omo ha una somma pazzia, cioè che sempre stenta per non istentare, e la vita se li fugge sotto speranza di godere i beni con somma fatica acquistati.
La natura pare qui in molti o di molti animali stata più presto crudele matrigna che madre, e d’alcuni non matrigna, ma piatosa madre.
Io t’ubbidisco, Signore, prima per l’amore che ragionevolmente portare ti debbo, secondaria ché tu sai abbreviare o prolungare le vite a li omini.
Ecco alcuni che non altramente che transito di cibo, e aumentatori di sterco e riempitori di destri chiamarsi debono, perché per loro non altro nel mondo apare, alcuna virtù in opera si mette, perché di loro altro che pieni destri non resta.
Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro.
Tanto è a dire ben d’un tristo, quanto a dire mal d’un bono.
La memoria dei beni fatti, appresso l’ingratitudine, è fragile.
Reprendi l’amico tuo in segreto e laldalo in paleso.
Non esser bugiardo del preterito.
Chi teme i pericoli non perisce per quegli.
Lussuria è causa della generazione.
Gola è mantenimento della vita.
Paura over timore è prolungamento di vita.
Dolor è salvamento dello strumento.
Ogni danno lascia dispiacere nella ricordazione, salvo che ‘l sommo danno, cioè la morte che uccide essa ricordazione insieme colla vita.
Nessuna cosa è da temere quanto la sozza fama. Questa sozza fama è nata da’ vizi.
Il voto nasce quando la speranza more.
La ‘nvidia offendo con la finta infamia, cioè col detrarre, la qual cosa spaventa la vertù.
La fama vola e si leva al cielo, perché le cose vertudiose sono amiche a Dio.
La infamia sottosopra figurare si debbe, perché tutte le sue operazioni sono contrarie a Dio e inverso l’ìnferi si dirizzano.
Facciàno nostra vita coll’altrui morte.
Ogni cosa per distirpare il tristo.
Ogni torto si dirizza.
Cogli la gremigna perchè le bon’erbe crescino.
Tal fia il getto qual fia la stampa.
Di lieve cosa nascesi gran ruina.
Costanzia: non chi comincia, ma quel che persevera.
Al cimento si conosce il vero oro.
L’acqua che trabocca sopra i sua ripari, quegli discalza e ruina dalla opposita parte.
Dimanda consiglio a chi ben si corregge.
Giustizia vol potenzia, intelligenzia e volontà, e si assomiglia a’re delle ave .
Chi non punisce il male, comanda che si facci.
Chi piglia la biscia per la coda, quella poi lo morde.
Chi cava la fossa, questa gli ruina addosso.
Chi scalza il muro, quello gli cade addosso.
Chi taglia la pianta, quella si vendica con la sua ruina.
Al traditore la morte è vita, perché se usa lialtà non gli è creduta.
Non si po’ aver ragione né minor signoria che quella di se medesimo.
Più facilmente si contasta al principio che alla fine.
Nessun consiglio è più leale che quello che si dà dalle navi che sono in pericolo.
Aspetti danno quel che si regge per giovane in consiglio.
Chi poco pensa molto erra.
Chi non raffrena la volontà colle bestie s’accompagni.
Chi non stima la vita, non la merita.
Sicome il mangiare sanza voglia fia dannoso alla salute, così lo studio sanza desiderio guasta la memoria, e no’ ritiene cosa ch’ella pigli.
Non si dimanda ricchezza quella che si può perdere. La virtù è vero nostro bene ed è vero premio del suo possessore: lei non si può perdere, lei non ci abbandona, se prima la vita non ci lascia. Le robe e le esterne devizie sempre le tieni con timore, ispesso lasciano con iscorno e sbeffato il loro possessore, perdendo lor possessione.
Tal’è ‘l mal che non mi noce, quale il bene che non mi giova: li giunchi che ritengono le pagliucole che l’anniegano.
Chi altri offende, sé non sicura.
La verità sola fu figliola del tempo.
La paura nasce più tosto che altra cosa.
L’uomo ha grande discorso del quale la più parte è vano e falso, li animali l’hanno piccolo ma è utile e vero; e meglio è la piccola certezza che la gran bugia.
Sempre le parole che non saddisfanno all’orecchio dello alditore li danno tedio over rincrescimento; e l’segno di ciò vedrai spesse volte tali ulditori essere copiosi di sbavigli. Adunque tu che parli dinanti a omini di cui tu cerchi benivolenzia, quando tu vedi tali prodigi di rincrescimento, abrevia il tuo parlare o tu muta ragionamento; e se tu altrementi farai, allora i’ loco della desiderata grazia, tu acquisterai odio e nimicizia.
E se vòi vedere di quel che un si diletta, senza udirlo parlare, parla con lui mutando diversi ragionamenti; e quel dove tu lo vedi stare intento, sanza sbavigliamenti o storcimenti di ciglia o altre varie azione, sia certo che quella cosa di che si parla è quella di che lui si diletta, ecc.
Per lo spino, insiditoli sopra boni frutti, significa quello che per sé non era disposto a virtù, ma mediante l’aiuto del precettore dà di sé utilissime virtù.
Non si debba desiderare lo impossibile.
NOVELLE
[ La Penitenza dell’acqua ]
Trovandosi l’acqua nel superbo mare, suo elemento, le venne voglia di montare sopra l’aria, e confortata dal foco elemento, elevatosi in sottile vapore, quasi parea della sittiglieza dell’aria, e , montato in alto, giunse infra l’aria più sottile e fredda, dove fu abbandonata dal foco. E piccoli granicoli, sendo restretti, già s’uniscano e fannosi pesanti, ove cadendo la super[bia ] si converte in fuga, e cade del cielo; onde poi fu beuta dalla secca terra, dove, lungo tempo incarcerata, fèpenitenzia del suo peccato.
[ La fiamma e la candela ]
Il lume, o foco incordo sopra la candela, quella consumando se consuma.
[ La vendetta del vino ]
Il vino consumato dallo imbriaco. Esso vino col bevitore si vendica.
[L’inchiostro e la carta ]
L’inchiostro displezzato per la sua nerezza dalla bianchezza della carta, la quale da quello si vide imbrattare. Vedendosi la carta tutta macchiata dalla oscura negrezza dell’inchiostro, di quello si dole; el quale mostra a essa che per le parole, ch’esso sopra lei compone, essere cagione della conservazione di quella.
[Il fuoco e l’acqua ]
Il foco contende l’acqua posta nel laveggio, dicendo che l’acqua no merita star sopra il foco, re delli elemente, e così vo’ per forza di bollore cacciare l’acqua del laveggio; onde quella per farli onore d’ubbidienzia discende in basso e anniega il foco.
[ Lo specchio e la regina]
Lo specchio si groria forte tenendo dentro a sé specchiata la regina e, partita quella, lo specchio riman vile.
[Il ferro e la lima ]
Il pesante ferro si reduce in tanta sottilità mediante la lima, che piccolo vento poi lo porta via.
[La pianta, il palo e i pruni ]
La pianta si dole del palo secco e vecchio, che se l’era posto allato, e de’ pruni secchi che lo circundano: l’un lo mantiene diritto, l’altro lo guarda dalle triste compagnie.
[ Il ligustro e il merlo]
I’ rovistrice, sendo stimolato nelli sua sottili rami, ripieni di novelli frutti, dai pungenti artigli e becco delle importune merle, si doleva con pietoso rammarichio inverso essa merla, pregando quella che poi che lei li toglieva e sua diletti frutti, il meno nolle privassi de le foglie, le quali lo difendevano dai cocenti razzi del sole, e che coll’acute unghie non iscorticasse [e] desvestissi della sua tenera pella. A la quale la merla con villane rampogne rispose: ”O taci, salvatico sterpo. Non sai che la natura t’ha fatti produrre questi frutti per mio notrimento? Non vedi che se’ al mondo di tale cibo? Non sai, villano, che tu sarai innella prossima invernata notrimento e cibo del foco?” Le quali parole ascoltate dall’albero pazientemente non sanza lacrime, infra poco tempo il merlo preso dalla ragna e colti de’ rami per fare gabbia per incarcerare esso merlo, toccò, infra l’altri rami, al sottile rovistrico a fare le vimini della gabbia, le quali vedendo esser causa della persa libertà del merlo, rallegratosi, mosse tale parole: ”O merlo, i’ son qui non ancora consumata, come dicevi, dal foco; prima vederò te prigione, che tu me brusiata.
[L’alloro, il mirto, il pero ]
Vedendo il lauro e mirto tagliare il pero, con alta voce gridarono:”O pero, ove vai tu? Ov’è la superbia che avevi quando avevi i tua maturi frutti? Ora non ci farai ombra colle tue folte chiome”. Allora il pero rispose:” Io ne vo coll’agricola che mi taglia, e mi porterà alla bottega d’ottimo sculture, il quale mi farà con su’ arte pigliare la forma di Giove iddio, e sarò dedicato nel tempio, e dagli omini adorato invece di Giove, e tu ti metti in punto a rimanere ispesso storpiata e pelata de’ tua rami, i quali mi fieno da li omini per onorarmi posti d’intorno”.
[ Il castagno e il fico]
Vedendo il castagno l’uomo sopra il fico, il quale piegava inverso sé i sua rami, e di quelli ispiccava i maturi frutti, e quali metteva nell’aperta bocca disfacendoli e disertandoli coi duri denti, crollando i lunghi rami e con temultevole mormorio disse:” O fico, quanto se’ tu men di me obrigato alla natura! Vedi come in me ordinò serrati i mia dolci figlioli, prima vestiti di sottile camicia, sopra la quale è posta la dura e foderata pelle, e non contentandosi di tanto beneficarmi, ch’ell’ha fatto loro la forte abitazione, e sopra quella fondò acute e folte spine, a ciò che le mani dell’homo non mi possino nuocere”. Allora il fico cominciò insieme co’ sua figlioli a ridere, e ferme le risa, disse:” Conosci l’omo essere di tale ingegno, che lui ti sappi colle pertiche e pietre e sterpi, tratti infra i tua rami, farti povero de’ tua frutti, e quelli caduti, peste co’ piedi e co’ sassi, in modo ch’e frutti tua escino stracciati e storpiati fora dell’armata casa; e io sono con diligenza tocco dalle mani, e non come te da bastoni e da sassi”.
[La farfalla e la fiamma della candela ]
Non si contentando il vano e vagabondo parpaglione di potere comodamente volare per l’aria, vinto dalla dilettevole fiamma della candela, diliberò volare in quella; e ‘l suo giocondo movimento fu cagione di subita tristizia; imperò che ‘n detto lume si consumorono le sottile ali, e ‘l parpaglione misero, caduto tutto brusato a piè del candellieri, dopo molto pianto e pentimento, si rasciugò le lagrime dai bagnati occhi, e levato il viso in alto, disse:” O falsa luce, quanti come me debbi tu avere, ne’ passati tempi, avere miserabilmente ingannati. O si pure volevo vedere la luce, non dovev’io conoscere il sole dal falso lume dello spurco sevo?”
[ La noce e il campanile]
Trovandosi la noce essere dalla cornacchia portata sopra un alto campanile, e per una fessura, dove cadde, fu liberata dal mortale suo becco, pregò esso muro, per quella grazia che Dio li aveva dato dell’essere tanto eminente e magno e ricco di sì belle campane e di tanto onorevole sono, che la dovessi soccorrere; perché, poi che le non era potuta cadere sotto i verdi rami del suo vecchio padre, e essere nella grassa terra, ricoperta dalle sue cadenti foglie, che non la volessi lui abbandonare: imperò ch’ella trovandosi nel fiero becco della cornacchia, ch’ella si botò, che, scampando da essa, voleva finire la vita sua ‘n un picciolo buso. Alle quali parole, il muro, mosso a compassione, fu contento ricettarla nel loco ov’era caduta. E infra poco tempo, la noce cominciò aprirsi, e mettere le radici infra le fessure delle pietre, e quelle allargare, e gittare i rami fori della sua caverna; e quegli in brieve levati sopra lo edifizio e ingrossate le ritorte radici, cominciò aprire i muri e cacciare le antiche pietre de’ loro vecchi lochi. Allora il muro tardi e indarno pianse la cagione del suo danno, e, in brieve aperto, rovinò gran parte delle sua membre.
[ La scimmia e l’uccellino]
Trovando la scimia un nidio di piccioli uccelli, tutta allegra appressatasi a quelli, e quali essendo già da volare, ne potè solo pigliare il minore. Essendo piena di allegrezza, con esso in mano se n’andò al suo ricetto; e cominciato a considerare questo uccelletto, lo cominciò a baciare; e per lo isvecerato amore, tanto lo baciò e rivolse e strinse ch’ella gli tolse la vita.
È detta per quelli che, per non gastigare i figlioli, capitano male.
[ Il salice, la gazza e i semi della zucca]
Il misero salice, trovandosi non potere fruire il piacere di vedere i sua sottili rami fare ovver condurre alla desiderata grandezza e dirizzarsi al cielo – per cagione della vite e di qualunche pianta li era visina, sempre elli era storpiato e diramato e guasto – e raccolti in sé tutti li spiriti, e con quelli apre e spalanca le porte alla immaginazione; e stando in continua cogitazione, e ricercando con quella l’universo delle piante, con quale di quelle esso collegare si potessi, che non avessi bisogni dell’aiuto de’ sua legami; e stando alquanto in questa notritiva immaginazione, con subito assalimento li corse nel pensiero la zucca; e crollato tutti i rami per grande allegrezza, paren[do]li avere trovato compagnia al suo disiato proposito – imperò che quella è più atta a legare altri che essere legata – e fatta tal deliberazione, rizzò i sua rami in[v]erso il cielo; attendea spettare qualche amichevole uccello, che li fussi a tal disiderio mezzano.
In fra’ quali, veduta a sé vicina la sgazza, disse inver di quella: “O gentile uccello, per quello soccorso, che a questi giorni, da mattina, in e mia rami trovasti, quando l’affamato falcone crudele e rapace te voleva divorare; e per quelli riposi che sopra me ispesso hai usato, quando l’alie tue a te riposo chiedeano; e per quelli piaceri che, infra detti mia rami, scherzando colle tue compagne ne’ tua amori, già hai usato, io ti priego che tu truovi la zucca e impetri da quella alquante delle sue semenze, e di’ a quelle che, nate ch’elle fieno, ch’io le tratterò non altrementi che se del mio corpo generate l’avessi e similmente usa tutte quelle parole che di simile intenzione persuasive sieno, benché a te, maestra de’ linguaggi, insegnare non bisogna. E se questo farai, io sono contenta di ricevere il tuo nidio sopra il nascimento de’ mia rami, insieme colla tua famiglia, senza pagamento d’alcun fitto.”
Allora la sgazza fatto e fermi alquanti capitoli di novo col salice, e massimo che bissie o faine sopra sé mai non accettassi, alzato la coda e bassato la testa e gittatasi del ramo, rendé il suo peso all’ali, e quelle battendo sopra la fuggitiva aria, ora qua, ora in là curiosamente col timon della coda dirizzandosi, pervenne a una zucca, e con bel saluto e alquante bone parole, impetrò le dimandate semenze. E condottele al salice, fu con lieta cera ricevuta; e raspato alquanto co’ piè il terreno vicino al salice, col becco, in cerch[i]o a esso, essi grani piantò. Le quali in brieve tempo crescendo, cominciò collo accrescimento e aprimento de’ sua rami a occupare tutti i rami del salice, e colle sue gran foglie a torle la bellezza del sole e del cielo. E, non bastando tanto male, seguendo le zucche, cominciò, per disconcio peso, a tirare le cime de’ teneri rami inver la terra, con istrane torture e disagio di quelli. Allora scotendosi e indarno crollandosi, per fare da sé esse zucche cadere, e indarno vaneggiando alquanti giorni in simile inganno, perché la bona e forte collegazione tal pensieri negava, vedendo passare il vento, a quello raccomandandosi, e quello soffiò forte. Allora s’aperse il vecchio e vòto gambo del salice in due parti insino alle sue radice, e caduto in due parti, indarno pianse sé medesimo, e conobbe chi era nato per non aver mai bene.
[La fiamma e la candela ]
Le fiamme, già uno me[se] durato nella fornace de’ bicchieri e veduto a sé avvicinarsi una candela ‘n un bello e lustrante candeliere, con gran desiderio si forzavano accostarsi a quella. Infra le quali una la[s]ciato il suo naturale corso e tiratasi d’entro a uno voto stizzo, dove si pasceva, e uscita da l’opposito, fori d’una piccola fessura, alla candela che vicina l’era, si gittò, e con somma golosità e ingordigia quella divorando, quasi al fine condusse; e volendo riparare al prolungamento della sua vita, indarno tentò tornare alla fornace, donde partita s’era, perché fu costretta morire e mancare insieme colla candela; onde al fine col pianto e pentimento in fastidioso fumo si convertì, lascian[do] tutte le sorelle in isplendevole e lunga vita e bellezza.
[ Il vino e i maomettani]
Trovandosi il vino, divino licore dell’uva, in una aurea e ricca tazza, e sopra la tavole di Maumetto, e montato in groria di tanto onore, subito fu assaltato da una contraria cogitazione, dicendo a sé medesimo: ”Che fo io? Di che mi rallegro io? Non m'avvedo esser vicino alla mia morte e lasciare l’aurea abitazione della tazza, e entrare innelle brutte e fetide caverne del corpo umano, e lì trasmutarmi di odorifero e suave licore in brutta e trista orina? E non bastando tanto male, ch’io ancora debba sì lungamente diacere in e brutti ricettacoli coll’altra fetida e corrotta materia uscita dalle umane interiora?” Gridò inverso al cielo, chiedendo vendetta di tanto danno, e che si ponessi ormai fine a tanto dispregio, che poiché quello paese producea le più belle e migliore uve di tutto l’altro mondo, che il meno esse non fussino in vino condotte. Allora Giove fece che il beuto vino da Maumetto elevò l’anima sua inverso il celabro e quello in modo contaminò, che lo fece matto, e partorì tanti errori, che, tornato in sé, fece legge che nessuno asiatico beessi vino. E fu lasciato poi libere le viti co’ sua frutti.
[Il topo e la donnola]
Stando il topo assediato in una piccola sua abitazione, dalla donnola, la quale con continua vigilanza attendea alla sua disfazione, e per uno piccolo spiraculo ragguardava il suo gran periculo. Infrattanto venne la gatta e subito prese essa donnola, e immediate l’ebbe divorata. Allora il ratto, fatto sagrificio a Giove d’alquante sue nocciole, ringraziò sommamente la sua deietà; e uscito fori dalla sua busa a possedere la già persa libertà, de la quale subito, insieme colla vita, fu dalle feroci unglia e denti della gatta privato.
[ Il cedro superbo]
Il cedro, insuperbito della sua bellezza, dubita delle piante che li son d’intorno, e fattolesi torre dinanzi, il vento poi, non essendo interrotto, lo gittò per terra diradicato.
[ La formica e il seme di miglio]
La formica trovato uno grano di miglio, il grano sentendosi preso da quella gridò:” Se mi fai tanto piacere di lasciarmi fruire il mio desiderio del nascere, io ti renderò cento me medesimi”. E così fu fatto.
[Il ragno e il grappolo d’uva]
Trovato il ragno uno grappolo d’uve, il quale per la sua dolcezza era molto visitato da ave e diverse qualità di mosche, li parve aver trovato loco molto comodo al suo inganno. E calatosi giù per lo suo sottile filo, e entrato nella nova abitazione, lì ogni giorno, facendosi alli spiraculi fatti dalli intervalli de’ grani dell’uve, assaltava, come ladrone, i miseri animali, che da lui non si guardavano. E passati alquanti giorni, il vendemmiatore còlta essa uva e messa coll’altre, insieme con quelle fu pigiato. E così l’uva fu laccio e ‘nganno dello ingannatore ragno, come delle ingannate mosche.
[ La vitalba scontenta]
La vitalba, non istando contenta nella sua siepe, cominciò a passare co’ sua rami la comune strada e appiccarsi all’opposita siepe; onde da’ viandanti poi fu rotta.
[L’asino e il ghiaccio]
Addormentatosi l’asino sopra il diaccio d’un profondo lago, il suo calore dissolvé esso diaccio, e l’asino sott’acqua, a mal suo danno, si destò, e subito annegò.
[La neve umile ]
Trovandosi alquanta poca neve appiccata alla sommità d’un sasso, il quale era collocato sopra la strema altezza d’una altissima montagna, e raccolto in sé la maginazione, cominciò con quella a considerare, e infra sé dire: ”Or non son io da essere giudicata altera e superba, avere me, piccola drama di neve, posto in sì alto loco, e sopportare che tanta quantità di neve quanto di qui per me essere veduta pò, stia più bassa di me? Certo la mia poca quantità non merta quest’altezza, ché bene posso, per testimonianza della mia piccola figura, conoscere quello che ‘l sole fece ieri alle mia compagne, le quali in poche ore dal sole furono disfatte; e questo intervenne per essersi poste più in alto che a loro non si richiedea. Io voglio fuggire l’ira del sole, e abbassarmi, e trovare loco conveniente alla mia parva quantità.”
E gittatasi in basso, e cominciata a discendere, rotando dall’alte spiagge su per l’altra neve, quando più cercò loco basso, più crebbe sua quantità, in modo che, terminato il suo corso sopra uno colle, si trovò di non quasi minor grandezza che ‘l colle che essa sostenea: e fu l’ultima che in quella state dal sole disfatta fusse. Detta per quelli che s’aumiliano: son esaltati.
[Il falcone impaziente]
Il falcone non potendo sopportare con pazienza il nascondere che fa l’anitra fuggendosele dinnanzi e entrando sotto acqua, volle come quella sotto acqua seguitare, e, bagnatosi le penne, rimase in essa acqua, e l’anitra, levatasi in aria, schernia il falcone che annegava.
[Il ragno e il calabrone ]
Il ragno, volendo pigliare la mosca con sue false rete, fu sopra quelle dal calabrone crudelmente morto.
[L’aquila e il gufo ]
Volendo l’aquila sche[r]nire il gufo, rimase coll’alie impaniate, e fu dall’omo presa e morta.
[Il cedro ambizioso ]
Avendo il cedro desiderio di fare uno bello e grande frutto in nella sommità di sé, lo mise a seguizione con tutte le forze del suo omore, il quale frutto, cresciuto, fu cagione di fare declinare la elevata e diritta cima.
[Il pesco invidioso ]
Il persico, avendo invidia alla gran quantità de’ frutti visti fare al noce suo vicino, diliberato fare il simile, si caricò de’ sua in modo tale, che ‘l peso di detti frutti lo tirò diradicato e rotto alla piana terra.
[Il noce e i viandanti ]
Il noce mostrando sopra una strada ai viandanti la ricchezza de’ sua frutti, ogni omo lo lapidava.
[ Il fico]
Il fico stando sanza frutti nessuno lo riguardava; volendo, col fare essi frutti, essere laldato da li omini, fu da quelli piegato e rotto.
[ Il fico e l’olmo]
Stando il fico vicino all’olmo, e riguardando i sua rami essere sanza frutti, e avere ardimento di tenere il sole a’ sua acerbi fichi, con rampogne gli disse: “O olmo, non hai tu vergogna a starmi dinanzi? Ma aspetta ch’e mia figlioli sieno in matura età, e vedrai dove ti troverai”. I quali figlioli poi maturati, capitandovi una squadra di soldati, fu da quelli, per torre i sua fichi, tutto lacerato e diramato e rotto. Il quale stando poi così storpiato delle sue membra, l’olmo lo dimandò dicendo:” O fico, quanto era il meglio a stare sanza figlioli, che per quelli venire in sì miserabile stato”.
[Il fuoco superbo e il paiolo]
Uno poco di foco, che in un piccolo carbone infra la tiepida cenere remaso era, del poco omore, che in esso restava, carestiosa e poveramente sé medesimo notrìa, quando la ministra della cucina, per usare con quello l’ordinario suo cibario offizio, quivi apparve, e, poste le legne nel focolare, e col solfanello, già resucitato d’esso, già quasi morto, una piccola fiammella, e infra le ordinate legne quella appresa, e posta di sopra la caldara, sanz’altro sospetto, di lì sicuramente si parte.
Allora, rallegratosi il fo[co] delle sopra sé poste secche legne, comincia a elevarsi, [c]acciando l’aria delli intervalli d’esse legne, infra quelle con ischerzevole e giocoso transito, se stessi tesseva. Cominciato a spirare fori dell’ intervalli delle legne, di quelli a se stessi dilettevoli finestre fatto avea; e cacciato fori di lucenti e rutilanti fiammelle, subito discaccia le oscure tenebre della serrata cucina; e col galdio le fiamme già cresciute scherzavano coll’aria d’esse circundatrice e con dolce mormorio cantando creava[n] suave sonito.
Vedutosi già fortemente essere sopra delle legne cresciuto e fatto assai grande, cominciò a levare il mansueto e tranquillo animo in gonfiata e incomportabile superbia, facendo quasi a sé credere tirare tutto el superiore elemento sopra le poche legne. E cominciato a sbuffare, e empiendo di scoppi e scintillanti sfavillamenti tutto il circunstante focolare, già le fiamme fatte grosse, unitamente si dirizzavano inverso l’aria, quando le fiamme più altiere percosse[r] nel fondo della superiore caldara.
[I tordi e la civetta]
I tordi si rallegrarono forte vedendo che l’omo prese la civetta e le tolse la libertà, quella legando con forti legami ai sua piedi. La qual civetta fu poi, mediante il vischio, causa non di far perde[re] la libertà ai tordi, ma lo loro propia vita.
Detta per quelle terre, che si rallegran di vedere perdere la libertà ai loro maggiori, mediante i quali poi perdano soccorso e rimangono legati in potenzia del loro nemico, lasciando la libertà e spesse volte la vita.
[La pulce]
Dormendo il cane sopra la pelle di un castrone, una delle sue pulci, sentendo l’odore della unta lana, giudicò quello doversi essere loco di migliore vita e più sicura da’ denti e unglia del cane che pascersi del cane, e sanza altro pensieri, abbandonò il cane, e, entrata intra la folta lana, cominciò con somma fatica a volere trapassare alle radici de’ peli. La quale impresa, dopo molto sudore, trovò esser vana, perché tali peli erano erano tanto spessi che quasi si toccavano, e non v’era spazio dove la pulce potessi saggiare tal pelle; onde, dopo lungo travaglio e fatica, cominciò a volere ritornare al suo cane, il quale essendo già partito, fu costretta, dopo lungo pentimento, amari pianti, a morirsi di fame.
[Il rasoio vanitoso e borioso]
Uscendo un giorno il rasoio di quel manico col quale si fa guaina a sé medesimo, e postosi al sole, vide lo sole ispecchiarsi nel suo corpo: della qual cosa prese somma groria, e rivolto col pensiero indirieto, cominciò con seco medesimo a dire:” Or tornerò io più a quella bottega, della quale novamente uscito sono? Certo no. Non piaccia agli Dei, che sì splendida bellezza caggia in tanta viltà d’animo! Che pazzia sarebbe quella la qual mi conducessi a radere le insaponate barbe de’ rustichi villani e fare sì meccaniche operazione? Or è questo corpo da simili esercizi? Certo no. Io mi vogli[o] nascondere in qualche occulto loco, e lì con tranquillo riposo passare la mia vita”.
E così, nascosto per alquanti mesi, un giorno ritornato all’aria, e uscito fori della sua guaina, vide sé essere fatto a similitudine d’una rugginente sega, e la sua superficie non ispecchiare più lo splendente sole, Con vano pentimento indarno pianse lo inreparabile danno, con seco dicendo:” O quan[to] meglio era esercitare col barbiere il mi’ perduto taglio di tanta sottilità. Dov’è la lustrante superfizie? Certo la fastidiosa e brutta ruggine l’ha consumata”.
Questo medesimo accade nelli ingegni, che ‘n iscambio dello esercizio, si dànno all’ozio, i quali, a similitudine del sopradetto rasoio, perde la tagliente sua suttilità e la ruggine dell’ ignoranzia guasta la sua forma.
[La pietra scontenta della sua vita solitaria]
Una pietra novamente per l’acque scoperta, di bella grandezza, si stava sopra un certo loco rilevata, dove terminava un dilettevole boschetto sopra una sassosa strada, in compagnia d’erbette, di vari fiori di diversi colori ornata, e vedea la gran somma delle pietre che nella a sé sottoposta strada collocate erano. Le venne desiderio di la giù lasciarsi cadere, dicendo con seco:” Che fo qui con queste erbe? Io voglio con queste mie sorelle in compagnia abitare”. E giù lassatosi cadere infra le desiderate compagne, finì il suo volubile corso; e stata alquanto cominciò a essere da le rote de’ carri, dai piè de’ ferrati cavalli e de’ viandanti, a essere in continuo travaglio; chi la volta, quale la pestava, alcuna volta si levava alcuno pezzo, quando stava coperta dal fango o sterco di qualche animale, e invano riguardava il loco donde partita s’era, innel loco della soletaria e tranquilla pace.
Così accade a quelli che nella vita soletaria e contemplativa vogliano venir a abitare nelle città, infra i popoli pieni d’infini[ti] mali.
[La farfalla e il lume ad olio]
Andando il dipinto parpaglione vagabundo, e discorrendo per la oscurata aria, li venne visto un lume, al quale subito si dirizzò, e, con vari circuli quello attorniando, forte si maravigliò di tanta splendida bellezza, e non istando contento solamente al vederlo, si mise innanzi per fare di quello come delli odoriferi fiori fare solìa. E, dirizzato suo volo, con ardito animo passò per esso lume, l’elettrone quale gli consumò li stremi delle alie e gambe e altri ornamenti. E caduto a’ piè di quello, con ammirazione considerava esso caso donde intervenuto fussi, non li potendo entrare nell’animo che da sì bella cosa male o danno alcuno intervenire potessi. E restaurato alquanto le mancate forze, riprese un altro volo, e, passato attraverso del corpo d’esso lume, cadde subito bruciato nell’olio che esso lume notrìa, e restogli solamente tanta vita, che potè considerare la cagion del suo danno, dicendo a quello:
” O maladetta luce, io mi credevo avere in te trovato la mia felicità; io piango indarno il mio matto desiderio, e con mio danno ho conosciuto la tua consumatrice e dannosa natura”. Alla quale il lume rispose:” Così fo io a chi ben non mi sa usare”. E immediate ito al fondo finì la sua vita.
Detta per quelli i quali, veduti dinanzi a sé questi lascivi e mondani piaceri, a similitudine del parpaglione, a quelli corrano, sanza considerare la natura di quelli; i quali, da essi omini, dopo lunga usanza, con loro vergogna e danno conosciuti sono.
[La pietra focaia e l’acciarino]
La pietra, essendo battuta dall’acciarolo del foco, forte si maravigliò, e con rigida voce disse a quello:” Che presunzio ti move a darmi fatica? Non mi dare affanno, che tu m’hai colto in iscambio. Io non dispiacei mai a nessuno”.Al quale l’acciarolo rispose:” Se sarai paziente, vedrai che maraviglioso frutto uscirà di te”. Alle quale parole la pietra, datosi pace, con pazienza stette forte al martire, e vide di sé nascere il maraviglioso foco, il quale, colla sua virtù operava in infinite cose.
Detta per quelli i quali spaventano ne’ prencipi delli studi, e poi che a loro medesimi si dispongano potere comandare, e dare con pazienza opera continua a essi studi, di quelli si vede resultare cose di maravigliose dimostrazioni.
[Il ragno]
Il ragno credendo trovar requie nella buca della chiave, trova la morte.
[Il giglio e la corrente del fiume]
Il ligio si pose sopra la ripa di Tesino, e la corrente tirò la ripa insieme col lilio.
[L’ostrica, il topo e la gatta]
Sendo l’ostriga insieme colli al[tri] pesci in casa del pescatore scaricata vicino al mare, priega il ratto che al mare la conduca. Il ratto, fatto disegno di mangiarla, la fa aprire e mordendola, questa li serra la testa e sì lo ferma. Viene la gatta e l’uccide.
[Il contadino e la vite]
Vedendo il villano la utilità che resultava dalla vite, le dette molti sostentaculi da sostenerla in alto, e, preso il frutto, levò le pertiche e quella lasciò cadere, facendo foco de’ sua sostentaculi.
[La triste morte di un granchio]
El granchio stando sotto il sasso per pigliar e pesci che sotto aquello entravano, venne la piena con rovinoso precipitamento di sassi, e collo rotolarsi sfracelloron tal granchio.
[Il ragno e l’uva]
Il ragno, stante infra all’uve, pigliava le mosche che in su tale uve si pasceva[n]. Venne la vendemmia, e fu pesto il ragno insieme coll’uve.
[La vite e l’albero vecchio]
La vite, invecchiata sopra l’albero vecchio, cadde insieme con la ruina d’esso albero, e fu per la trista compagnia a mancare insieme con quello.
[Il torrente]
Il torrente portò tanto di terra e pietre nel suo letto, che fu po’ constretto a mutar sito.
[La rete e i pesci]
La rete, che soleva pigliare li pesci, fu presa e portata via dal furor de’ pesci. [Ar. 42 v.]
[La palla di neve]
La palla della neve quanto più rotolando discese delle montagne della neve, tanto più moltiplicò la sua magnitudine.
Il salice
Il salice, che per li sua lunghi germinamenti cresce da superare ciascuna altra pianta, per avere fatto compagnia colla vite, che ogni anno si pota, fu ancora lui sempre storpiato.
[La penna e il temperino]
Necessaria compagnia ha la penna col temperatoio e similmente utile compagnia, perché l’una sanza l’altro non vale troppo.
IV FACEZIE
[Il vecchio e il giovane]
Dispregiando uno vecchio pubblicamente un giovane, mostrando aldacemente non temer quello, onde il giovane li rispuose che la sua lunga età li faceva migliore scudo che la lingua o la forza.
[L’artigiano e il signore]
Uno artigiano andando spesso a vicitare un signore, sanza altro proposito dimandare, al quale il signore domandò quello che andava facendo. Questo disse che venia lì per avere de’ piaceri che lui aver non potea; perocchè lui volentieri vedeva omini più potenti di lui, come fanno i popolari, ma che ‘l signore non potea vedere se non omini di men possa di lui: e per questo i signori mancavano d’esso piacere.
[L’uomo con la spada]
Uno vede una grande spada allato a un altro e dice:” O poverello! Ell’è gran tempo ch’io t’ho veduto legato a questa arme: perché non ti disleghi, avendo le mani disciolte e possiedi libertà?”
Al quale costui rispose:” Questa è una cosa non tua, anzi è vecchia.” Questo, sentendosi mordere, rispuose:” Io ti conosco sapere sì poche cose in questo mondo, ch’io credevo che ogni divulgata cosa a te fussi per nova.
[Due viandanti nella notte]
Due camminando di notte per dubbiosa via, quello dinanzi fece gran strepido col culo; e disse l’altro compagno: “ Or veggo io ch’i son da te amato”. “Come?” disse l’altro. Quel rispose;” Tu mi porgi la correggia perch’io non caggia, né mi perda da te”.
[Il gioco delle brache]
Uno disputandosi e vantandosi di sapere fare molti vari e belli giochi, un altro de’ circustanti disse:” Io so fare uno gioco il quale farà trarre le brache a chi a me parirà”. Il primo vantatore, trovandosi sanza brache: “Che no”, disse, “che a me non le farai trarre! E vadano un paro di calze”. Il proponitore d’esso gioco, accettato lo ‘nvito, impromutò più para di brache e trassele nel volto al mettitore delle calze. E vinse il pegno.
[Gli occhi dallo strano colore]
Uno disse a un suo conoscente: “Tu hai tutti li occhi trasmutati in istrano colore”. Quello li rispose intervenirli spesso. “Ma tu non ci hai posto cura? E quando t’addivien questo?” Rispose l’altro: “Ogni volta ch’e mia occhi veggono il tuo viso strano, per violenza ricevuta da sì gran dispiacere, subito e’ s’impallidiscano e mutano in istran colore”.
[La stessa]
Uno disse a un altro: “Tu hai tutti li occhi mutati in istran colore”. Quello li rispose: “Egli è perché i mia occhi veggono il tuo viso strano”.
[Il paese in cui nascevano le cose più strane]
Uno disse che in suo paese nasceva le più strane cose del mondo. L’altro rispose: “Tu che vi se’ nato, confermi ciò esser vero, per la stranezza della tua brutta presenza”.
[La lavandaia e il prete]
Una lavava i panni e pel freddo aveva i piedi molto rossi, e, passandole appresso, uno prete domandò con ammirazione donde tale rossezza dirivassi; al quale la femmina subito rispuose che tale effetto accadeva, perché ella aveva sotto il foco. Allora il prete mise mano a quello membro, che lo fece essere più prete che monaca, e, a quella accostatosi, con dolce e sommessiva voce pregò quella che ‘n cortesia li dovessi un poco accendere quella candela.
[Il prete e il pittore]
Andando un prete per la sua parrocchia il sabato santo, dando, com’è usanza, l’acqua benedetta per le case, capitò nella stanza d’un pittore, dove spargendo essa acqua sopra alcuna sua pittura, esso pittore, voltosi indirieto alquanto scrucciato , disse, perché facessi tale spargimento sopra le sue pitture.
Allora il prete disse essere così usanza, e ch’ era suo debito il fare così e che faceva bene, e chi fa bene debbe aspettare bene e meglio, che così promettea Dio, e che d’ogni bene, che si faceva in terra, se n’arebbe di sopra per ogni un cento. Allora il pittore, aspettato ch’elli uscissi fori, se li fece di sopra alla finestra, e gittò un gran secchione d’acqua addosso a esso prete, dicendo: “Ecco che di sopra ti viene per ogni un cento, come tu dicesti che accaderebbe nel bene, che mi facevi colla tua acqua santa, colla quale m’hai guasto mezze le mie pittura”.
[Un frate e il mercante]
Usano i frati minori, a certi tempi, alcune loro quaresime, nelle quali essi non mangiano carne ne’ lor conventi; ma in viaggio, perché essi vivano di limosine, hanno licenzia di mangiare ciò che è posto loro innanzi. Onde, abbattendosi in detti viaggi una coppia d’essi frati a un’osteria in compagnia d’un certo me[r]cantuolo, il quale, essendo a una medesima mensa, alla quale non fu portato, per la povertà dell’ostieri, altro che un pollastro cotto, onde esso mercantuolo, vedendo questo essere poco per lui, si volse a essi frati, e disse: “Se io ho ben di ricordo, voi non mangiate in tali dì ne’ vostri conventi d’alcuna maniera di carne”. Alle quali parole i frati furono costretti, per la loro regola, sanza alt[r]e gavillazioni, a dire ciò essere la verità: onde il mercantetto ebbe il suo desiderio; e così si mangiò essa pollastra, e i frati feciono il meglio poterono.
Ora, dopo tale desinare, questi commensari si partirono tutti e tre di compagnia; e dopo alquanto di viaggio, trovati un fiume di bona larghezza e profondità, essendo tutti tre a piedi – i frati per povertà e l’altro per avarizia -, fu necessario, per l’uso della compagnia, che uno dei frati, essendo discalzi, passassi sopra i suoi omeri esso mercantuolo: on[de] datoli il frate a serbo i zoccoli, si caricò di tale omo.
Onde accadde che, trovandosi esso frate in mezzo del fiume, esso ancora si ricordò de la sua regola; e fermatosi, a uso di San Cristofano, alzò la testa inverso quello che l’aggravava, e disse: “Dimmi un poco, hai tu nessun dinari addosso?”.“Ben sai”, rispose questo,” come credete voi che la mia pari mercatante andassi altrementi attorno?” “Oimè!”, disse il frate, “la nostra regola vieta che noi non possiano portare danari addosso.” E subito lo gettò nell’acqua. La qual cosa, conosciuta dal mercatante facetamente la già fatta ingiuria essere vendicata, con piacevole riso, pacificamente, mezzo arrossito per vergogna, la vendetta sopportò.
[L’amico e il maldicente]
Uno lasciò lo usare con uno suo amico, perché quello spesso li diceva male delli amici sua. Il quale lasciato l’amico, un dì, dolendosi collo amico, e dopo il molto dolersi, lo pregò che gli dicesse quale fusse la cagione che lo avessi fatto dimenticare tanta amicizia. Al quale esso rispose: “Io non voglio più usare con teco perch’io ti voglio bene e non voglio che, dicendo tu male ad altri di me tuo amico, che altri abbiano a fare, come me, a fare trista impressione di te, dicendo tu a quelli male di me tuo amico; onde non usando noi più insieme, parrà che noi siamo fatti nimici e per il dire tu male di me, com’è tua usanza, non sarai tanto da essere biasimato, come se noi usassimo insieme”.
[La putta e il prete]
Una putta mostrò il cuno d’una capra ‘n cambio del suo a un prete, e prese un grosso, e così lo beffò.
[La donna e il “triste passo”]
La femmina nel passare uno tristo e fangoso, tre verità. Ella nell’alzarsi colle mani i panni dirieto e dinnanzi si tocca la potta e l’culo e dice: “Questo è uno triste passo!”
[Il seguace di Pitagora]
Uno volendo provare colla alturità di Pitagora come altre volte lui era stato al mondo, e uno non li lasciava finire il suo ragionamento, allo costui disse a questo tale: “E per tale segnale che io altre volte ci fussi stato, io mi ricordo che tu eri mulinaro”. Allora costui, sentendosi mordere colle parole, gli confermò essere vero, che per questo contrassegno lui si ricordava che questo tale era stato l’asino, che li portava la farina.
[Un pittore dai brutti figli]
Fu dimandato un pittore, perché facendo lui le figure sì belle, che eran cose morte, per che causa avessi fatto i figlioli sì brutti. Allora il pittore rispose che le pitture le fece di dì e i figlioli di notte.
[Il viaggiatore e la gabella]
Uno andando a Modana ebbe a pagare cinque soldi di gabella della sua persona. Alla qual cosa, cominciato a fare gran cramore e ammirazione, attrasse a sé molti circunstanti, i quali domandando donde veniva tanta maraviglia, ai quali Maso rispose: “O non mi debbo io maravigliare con ciò sia che tutto un omo non paghi altro che cinque soldi, e a Firenze io, solo a metter dentro el cazzo, ebbi a pagare dieci ducati d’oro, e qui metto el cazzo e coglioni e tutto il resto per sì piccol dazio? Dio salvi e mantenga tal città e chi la governa!”
[Il malato e la madonna Bona]
Sendo uno infermo in articulo di morte, esso sentì battere la porta e domandato uno de’ sua servi chi era che batteva l’uscio, esso servo rispose essere una che si chiamava Madonna Bona. Allora l’infermo, alzato le braccia al cielo, ringraziò Dio con alta voce, poi disse ai servi che lasciassino venire presto questa, acciò che potessi vedere una donna bona innanzi che esso morissi, imperocchè in sua vita ma’ ne vide nessuna.
[Il dormiglione]
Fu detto a uno che si levasse dal letto, perché già era levato il sole, e lui rispose: “Se io avessi a fare tanto viaggio e faccende quanto lui, ancora io sarei già levato, e però, avendo a fare sì poco cammino, ancora no mi vo’ levare”.
[L’arciprete e lo sparviero]
Facezia dell’arciprete di Sancta Maria del Monte, che sta a Varese, che fu mandato legato al Duca ‘n iscambio d’uno sparviere.
[L’illegittimo]
Uno rimproverò a uno omo da bene che non era legittimo. Al quale esso rispose esser legittimo nelli ordini della spezie umana e nella legge di natura, ma che lui nell’una era bastardo, perch’egli aveva più costumi di bestia che d’omo, e nella legge delli omini non avea certezza d’esser ligittimo.
[Il ladro e il merciaio]
Sapiendo un ladro che ‘n suo cognoscente merciaio avea assai danari ‘n una cassa in sua bottega, fece pensiero di rubarliele, e di mezzanotte, entrato in bottega d’esso merciaio, cominciato a dare ordine alla sua intenzione, fu sopraggiunto, la bottega dischiavata dal gran catenaccio. E con grande spavento, posto li occhi alle fessure donde spirava il lume del ladro, subito serrò di fori il catenaccio; e serrato il ladro in bottega, corse per la famiglia del rettore. Allora il ladro, trovandosi dentro serrato, ricorse a un subito scampo della salute sua, e, accesi due candelieri del merciaio e cavato fori un paio di carte da giucare, parte ne gittò per terra, dov’era tristo giuoco, e altrettante ne serbò in mano con gioco bono, e così aspettò la famiglia del rettore. La quale subito che giunse col cavalieri, costui ch’era in bottega, sentendo dischiavare l’uscio, gridò: “Alla fede di Dio, tu m’hai serrato qui per non mi pagare li danari che io t’ho vinti. E io ti giuro che tu mi farà ‘l dovere. E non si vole giuocare, chi non vuol perdere. Tu m’hai fatto mezzo giucar per forza e poi, quando perdi, ti fuggi for di bottega co’ tua danari e co’ mia, e mi serri dentro, perché io non ti corra dirieto”. E così detto, li cacciò la mano alla scarsella per ispiccarliela dal lato. Allora il cavalieri, parendoli esser stato giuntato, fece che ‘l merciaio li diede i danari che colui dimandava ch’eran sua.
[Il povero e il signore]
Uno povero omo fece intendere a uno usceri d’un gran signore come e’ dovessi dire al suo signore, che quivi era venuto un suo fratello, il quale avea gran bisogno di parlarli. Il quale usceri, avendo riferita tale imbasciata, ebbe comessione di dare l’entrata a tale fratello. Il quale giunto al cospetto del signore, li mostrò come, essendo tutti discesi dal gran padre Adam, ch’elli era suo fratello, e che la roba era mal divisa, e che lo pregava che cacciassi da lui tale povertà, perché a gran pena potea vivere di limosine. Allora il signori rispose ch’elli era ben lecito tale richiesta e domandò il tesorieri e feceli donare un soldo. Allora il povero ebbe grande ammirazione e disse che quel non si richiedea a tal fratello. Allora il signore disse ch’egli avea tanti simili fratelli, che a dar tanto per ciascuno, che non li rimanea niente a lui, e che tal soldo era bastante a tal divisione di roba. E così con lecita licenzia lo divise da tal redità.
[Il tavolaccio e la lancia]
Uno, vedendo una femmina parata a tener tavola in giostra, guardò il tavolaccio e gridò, vedendo la sua lancia: “Oimè, quest’è troppo picciol lavorante a sì gran bottega!”
V. INDOVINELLI FANTASTICI O PROFEZIE
Vederassi la spezie leonina colle ungliate branche aprire la terra, e nelle fatte spelonche seppellire sé insieme co’ li altri animali a sé sottoposti
Uscirà della terra animali vestiti di tenebre, i quali, con maravigliosi assalti, assaliranno l’umana generazione, e quella da feroci morsi fia, con fusion di sangue, da essi divorata.
Ancora: scorrerà per l’aria la nefanda spezie volatile, la quale assaliranno li omini e li animali, e di quelli si ciberanno con gran gridore: empiranno i loro ventri di vermiglio sang[u]e.
Vedrassi il sangue uscire dalle stracciate carni, rigare le superfiziali parte delli omini.
Verrà alli omini tal crudele malattia, che colle proprie unghie si stracceranno le loro carni.
Sarà la rogna.
Vedrassi le piante rimanere sanza foglie e i fiumi fermare i loro corsi.
L’acqua del mare si leverà sopra l’ alte cime de’ monti verso il cielo e ricaderà sopra alle abitazione delli omini.
Cioè per nugoli.
Vederà i maggiori alberi delle selve essere portati dal furor de’ venti dall’oriente all’occidente.
Cioè per mare.
Li omini gitteranno via le propie vettovaglie.
Cioè seminando.
Verrà a tale la generazione umana che non si intenderà il parlare l’uno dell’altro.
Cioè un tedesco con un turco.
Vedrassi ai padri donare le lor figliole alla lussuria delli omini e premiarli e abbandonare ogni passata guardia.
Quando si maritano le putte.
Usciranno li omini delle sepulture convertiti in uccelli, e assaliranno li altri omini tollendo loro il cibo delle propie mani e mense.
Le mosche.
Molti fien quegli che scorticando la madre, li arrovescieranno la sua pelle addosso.
I lavoratori della terra.
Felici fien quelli che presteranno orecchi [al]le parole de’ morti.
Leggere le bone opere e osservarle.
Le penne leveranno li omini, siccome li uccelli, inverso il cielo.
Cioè per le lettere fatte da esse penne.
L’umane opere fien cagione di lor morte.
Le spade e le lance.
Li omini perseguiranno quella cosa della qual più temano.
Cioè saran miseri per non venire in miseria..
Le cose disunite s’uniranno e riceveranno in sé tal virtù che renderanno la persa memoria alli omini.
Cioè i palpiri che sono fatti di peli disuniti e tengano memoria delle cosse e fatti delli omini.
Vedrassi l’ossa de’ morti, con veloce moto, trattare la fortuna del suo motore.
I dadi..
I boi colle lor corna difenderanno il foco della sua morte.
La lanterna.
Le selve partoriranno figlioli che fian causa della lor morte
Il manico della scura.
Li omini batteranno aspramente chi fia causa della lor vita.
Batteranno il grano.
Le pelle delli animali removeranno li omini con g[r]an gridori e bestemmie dal lor silenzio.
Le balle da giucare.
Molte volte la cosa disunita fia causa di grande unizione.
Cioè il pettine, fatto della disunita canna, unisce le file nella tela
Il vento passato per le pelli delli animali farà saltare li omini.
Cioè la piva che fa ballare.
De noci battuti
Quelli che aranno fatto meglio saranno più battuti e e sua figlioli tolti e scortica’ ovvero spogliati, e rotte e fracassate le sue osse.
Delle scolture
Omè! Chi vedo il Salvatore di nuovo crocefisso.
De la bocca dell’omo ch’è sepoltura
Uscirà gran romori de le sepolture de quelli che so’ finiti di cattiva e violente morte.
Delle pelle delli animali che tengono il senso del tatto che v’è su le scritture
Quanto più si parlerà colle pelle, veste del sentimento, tanto più s’acquisterà sapienzia.
De’ preti che tengano l’ostia in corpo
Allora tutti quasi i tabernacoli, dove sta il Corpus Domini, si vederanno manifestamente per se stessi andare per diverse strade del mondo.
E quelli che pascan l’er[b]e, faran della notte giorno.
Sevo.
E molti terrestri e acquatici animali monteranno fra le stelle.
E i pianeti.
Vedrassi i morti portare i vivi in diverse parti.
I carri e navi.
A molti fia tolto il cibo di bocca.
A’ forni.
Del forno
E que’ che si imboccheranno per l’altrui mani fia lor tolto il cibo di bocca.
Il forno.
De crocifissi venduti
I’ vedo di nuovo venduto e crocifisso Cristo e martirizzare i sua santi.
I medici che vivan de’ malati
Verranno li omini in tanta viltà, che aran di grazia che altri trionfi sopra i lor mali, ovver della perduta lor vera ricchezza.
Cioè la sanità.
Delle religion de’ frati che vivano per li loro santi, morti per assai tempo
Quelli che saranno morti, dopo mille anni, fien quelli che daranno le spese a molti vivi.
De sassi convertiti in calcina, de’ quali si mura le prigioni
Molti, che fien disfatti dal foco, innanzi a questo tempo torranno la libertà a molti omini.
De’ putti che tettano
Molti Franceschi, Domenichi e Benedetta mangeranno quel che da altri altre volte vicinamente è stato mangiato, che staranno molti mesi avanti che possino parlare.
De’ nicchi e chiocciole, che son rebuttati dal mare, che marciscano dentro a lor gusci
O quanti fien quelli che, poi che fien morti, marciranno nelle lor propie case, empiendo le circustante parti piene di fetulente puzzo.
Tutte le cose, che nel verno fien nascoste e sotto la neve, rimarranno scoperte e palese nella state.
Detta per la bugia che non può stare occulta
Delle taccole e stornelli
Quelli che si fideranno abitare appresso di lui, che saranno gran turbe, quasi tutti moriranno di crudele morte. E si vedrà i padri colle madri d’insieme colle sue famiglie esser da crudeli animali divorati e morti.
De’ villani in camicia che lavorano
Verrà tenebre di verso l’oriente le quali con tanto di oscurità tigneranno il cielo che copre l’Italia.
De’ barbieri
Tutti li omini si fuggiranno in Africa.
[Pronostico]
[Metti per ordine e mesi e le cirimonie che s’usano, e così fa del giorno e della notte.
De’ segatori
Saranno molti, che si moveran l’uno contra l’altro, tenendo in mano il tagliente ferro. Questi non si faranno infra loro molto nocimento che di stanchezza, perché quanto l’uno si caccerà inanti, tanto l’altro si ritirerà indirieto. Ma trist’a chi si inframmetterà in mezzo, perché al fine rimarrà tagliato a pezzi.
Il filatoio da seta
Sentirassi le dolenti grida, le alte strida, le rau[ch]e e infiocate voce di quei che fieno con tormento ispogliati e al fine lasciati ignudi e sanza moto: e questo fia causa del motore che tutto volge.
Del mettere e trarre il pan della bocca del forno
Per tutte le città e terre e castelle, ville e case si vedrà per disiderio di mangiare trarre il proprio cibo di bocca l’uno all’altro sanza poter fare difesa alcuna.
Le terre lavorate
Vedrassi voltare la terra sotto sopra, e risguardare li oppositi emisperii e scoprire le spilonche a ferocissimi animali.
Del seminare
Allor in gran parte delli omini, che restaran vivi, gitteran fori de le lor case le serbate vettovaglie in libera presa delli uccelli e animali terrestri, sanza curarsi d’esse in parte alcuna.
Delle piove, che fan ch’e fiumi intorbidati portan vie le terre
Verrà di verso il cielo che trasmuterà gran parte dell’Africa, che si mostra a esso cielo in verso l’Europa, e quella di Europa in verso l’Africa, e quelle delle provincie si mischieranno insieme con gran revoluzione.
De’ legnami che bruciano
Li alberi e albusti delle gran selve si convertiranno in cenere.
Delle fornaci di mattoni e calcina
Al fine la terra si farà rossa per lo infocamento di molti giorni, e le pietre si convertiranno in cenere.
E pesci lessi
Li animali d’acqua moriranno nelle bollenti acque.
L’ulive che caggian de li ulivi e dannoci l’olio che fa lume
Discenderà con furia di verso il cielo chi ci darà notrimento e luce.
Delle civette e gufi con che s’uccella alla pania
Molti periranno di fracassamento di testa, e salterà loro li occhi in gran parte della testa, per causa di animali paurosi usciti dalle tenebre.
Del lino che fa la carta de’ cenci
Sarà riverito e onorato e con referenzia e amore ascoltato li sua precetti, di chi prima fu splezzato, straziato e martorizzato da molte e diverse battiture.
De’ libri che ‘nsegnan precetti
I corpi sanz’anima ci daranno con lor sentenzie precetti utili al ben morire.
De’ battuti e scorreggiati
Li omini si nasconderanno sotto le scorze delle iscorticate erbe, e quivi, gridando, si daran martiri, con battimenti di membra a sé medesimi.
Della lussuria
E s’infurieranno delle cose più belle, a cercare, possedere e operare le parte lor più brutte, dove poi, con danno e penitenzia ritornati nel lor sentimento, n’aran grande ammirazion di se stessi.
Dell’avaro
Molti fien quelli che con ogni studio e sollecitudine seguiranno con furia quella cosa che sempre li ha spaventati, non conoscendo la sua malignità.
Delli omini che quanto più invecchiano più si fanno avari
chè, avendoci a star poco, doverebbon farsi liberali
Vedrassi a quelli che son giudicati di più sperienzia e giudizio, quanto egli hanno men bisogno delle cose, con più avidità cercarle e riservare.
Della fossa
(Dilla in forma di frenesia o farnetico, d’insania di cervello)
Staran molti occupati in esercizio a levar di quella cosa, che tanto cresce, quanto se ne leva e quanto più vi se ne pone, più diminuisce.
Del peso posto sul piumaccio
E mo[l]ti corpi nel vedere da lor levar la testa, si vedrà manifestamente crescere, e, rendendo loro la levata testa, immediate diminuiscan lor grandezza.
Del pigliare de’ pidocchi
E saran molti cacciatori d’animali che quanto più ne piglieranno manco n’aranno; e così, de converso, più n’aran quanto men ne piglieranno.
Dell’attigner l’acqua colle due secchie a una sola corda
E rimarranno occupati molti che quanto più tireranno in giù la cosa, essa più ne sfuggirà in contrario moto.
La salsiccia ch’entra nelle budella
Molti si faran casa delle [bude]lle e abiteranno nelle loro propie.
Le lingue de’ porci e vitelle nelle budella
O cosa spurca, che si vedrà l’uno animale aver la lingua in culo all’altro.
De’ crivelli fatti di pelle di animali
Vedrassi il cibo degli animali passar dentro alle lor pelli per ogni parte salvo che per la bocca e penetrare dall’opposita parte insino alla piana terra.
Delle lanterna
Le feroce corna de’ possenti tori difenderanno la luce notturna dall’impetuoso furor de’ venti.
Delle piume ne’ letti
Li animali volatili sosterran l’omini colle loro propie penne.
Li omini che van sopra li alberi andando in zoccoli
Saran sì grande i fanghi, che li omini andranno sopra li alberi de’ lor paesi.
Della sola delle scarpe che son di bue
E si vedrà in gran parte del paese camminare sopra le pelli delli grand’animali.
Del navicare
Sarà gran venti per li quali le cose orientali si faranno occ[iden]tali e quelle di mezzo dì, in gran parte miste col corso de’ v[en]ti, seguiranno per lunghi paese.
Delle pitture ne’ santi adorati
Parleranno li omini alli omini che non sentiranno; aran gli [occhi] aperti e non vedranno; parleranno a quelli e non fie lor risposto; chiederan grazie a chi arà orecchi e non ode; faran lume a chi è orbo [parleran] a’ sordi con gran [romo]re.
Del sognare
Andranno li omini e non si moveranno, parleranno con chi non si trova, sentiranno chi non parla.
Dell’ombra che si move coll’omo
Vedrassi forme e figure d’omini o d’animali, che seguiranno essi animali e omini, du[v]unche fuggiranno; e tal fia il moto dell’un quant’è dell’altro, ma parrà cosa mirabile delle varie grandezze in che essi si trasmutano.
Delle ombre del sole e dello specchiarsi nell’acqua ‘n un medesimo tempo
Vedrassi molte volte l’uno omo diventare tre, e tutti lo seguano; e spesso l’uno, più certo, l’abbandona.
Delle casse che riservano molti tesori
Troverassi dentro a de’ noci e de li alberi e altre piante tesori grandissimi, i quali lì stanno occulti.
Dello spegnere el lume a chi va [a] letto
Molti, per mandare fori il fiato con troppa prestezza, perderanno il vedere e in brieve tutti e sentimenti.
Delle campanelle de’ muli che stan presso a’ loro orecchi
Sentirassi in molte parte dell’Europa strumenti di varie magnitudine far diverse armonie, con grandissime fatiche di chi più presso l’ode.
Delli asini
Le molte fatiche saran remunerate di fame, di sete, di disagio e di mazzate e di punture.
De soldati a cavallo
Molti saran veduti portare da grandi animali con veloce corso alla ruina della sua vita e prestissima morte. Per l’aria e per la terra saran veduti animali di diversi colori portarne con furore li omini alla distruzione di lor vita.
Delle stelle delli sproni
Per causa delle stelle si vedrà li omini esser velocissimi al pari di qualunche animal veloce.
Il bastone ch’è morto
Il movimento de’ morti farà fuggire con dolore e pianto, con grida molti vivi.
Dell’esca
Con pietra e con ferro si renderà visibile le cose che prima non si vedeano.
De’ boi che si mangiano
Mangeranno e padron delle possessioni e lor propi lavoratori.
Del battere il letto per rifarlo
Verranno li omini in tanta ingratitudine, che chi darà loro albergo sanza alcun prezzo, sarà carico di bastonate in modo che gran parte delle interiora si spiccheranno del loco loro e s’andranno rivoltando per suo corpo.
Delle cose che si mangiano, che prima s’uccidano
Sarà morto da loro il lor nutritore, e fragellato con dispietata morte.
Dello specchiare le mura delle città nell’acqua de’ lor fossi
Vederassi l’alte mura delle gran città sottosopra ne’ loro fossi. [Atl. 370 r.a.]
Dell’acqua che corre torbida e mista con terra, e della polvere e nebbia mista
coll’aria, e del foco misto col suo caldo con ciascuno
Vedrassi tutti li elementi insieme misti con grande revoluzione, transcorrere ora inverso il centro del mondo, ora inverso il cielo, e quando dalle parti meridianali scorreran con furia inverso il freddo settantrione, a[l]cu[n]a volta dall’oriente inverso l’occidente, e così di questo in quell’altro emisperio.
In ogni punto si può fare divisione de’ due emisperi
Li omini tutti scambieranno emisperio immediate.
In ogni punto è divisione da oriente a occidente
Moveransi tutti li animali da oriente a occidente, e così da aquilone a meridio.
Del moto dell’acque, che portano e legnami che son morti
Corpi sanz’anima per sé medesimi si moveranno, e porteran con seco innumerabile generazione di morti, togliendo le ricchezze a’ circunstanti viventi.
Dell’ova, che essendo mangiate, non possan fare e pulcini
O quanti fien quelli ai quali sarà proibito il nascere!
De pesci che si mangiano ovati
Infinita generazione si perderà per la morte delle gravide.
Delli animali che si castrano
A gran parte della spezie masculina, pell’esser tolti loro e testiculi, fia proibito il generare.
Delle bestie che fanno il cacio
Il latte fia tolto ai piccoli figlioli.
Delle sommate fatte delle troie
A gran parte delle femmine latine fia tolto e tagliate lor le tette insieme colla vita.
Del pianto fatto il venerdì sancto
In tutte le parti d’Europa sarà pianto da gran popoli la morte d’un solo omo.
Delle maniche de coltegli fatte di corna di castrone
Nelle corna delli animali si vedrà taglienti ferri, colli quali si torrà la vita a molti della loro spezie.
Della notte, che non si cognosce alcun colore
Verrà a tanto che non si cognoscerà differenzia in fra i colori, anzi si faran tutti di nera qualità.
Delle spade e lance, che per sé mai nociano a nessuno
Chi per sé è mansueto e sanza alcuna offensione, si farà spaventevole e feroce mediante le triste compagnie, e torrà la vita crudelissimamente a molte genti, e più n’ucciderebbe, se corpi sanz’anima, usciti dalle spilonche, non li difendessimo.
Cioè le corazze di ferro
De’ laccioli e trappole
Molti morti si moveran con furia e piglieranno e legheranno e vivi, e serberangli a lor nemici [a] cercar la lor morte e distruzione. [Atl. 370 r.a.]
De’ metalli
Uscirà delle oscure e tenebrose spelonche chi metterà tutta l’umana spezie in grandi affanni, pericoli e morte; a molti seguaci lor dopo molti affanni darà diletto; e chi non fia suo partigiano morrà con istento e calamità. Questo commetterà infiniti tradimenti, questo aumenterà e persuaderà li omini tristi alli assassinamenti e latrocini e le servitù, questo terrà in sospetto i sua partigiani, questo torrà la vita a molti, questo travaglierà li omini infra lor co' molte flalde, inganni e tradimenti. O animal mostruoso, quanto sare’ meglio per li omini che tu tornassi nell’inferno! Per costui rimarran diserte le gran selve delle lor piante, per costui infiniti animali perdan la vita.
Del fuoco
Nascerà di piccol principio chi si farà con prestezza grande. Questo non istimerà alcuna creata cosa, anzi colla sua potenzia quasi il tutto sarà in potenzia di transformare di suo essere in un altro.
De’ navili ch’annegano
Vedrassi grandissimi corpi sanza vita portare con furia moltitudine d’omini alla distruzione di lor vita.
Dello scrivere lettere da un paese a un altro
Parleransi li omini di remotissimi paese l’uno all’altro e risponderansi.
Degli emisperi che sono infiniti e da infinite linie son divisi in modo che sempre
ciascuno omo n’ha una d’esse linie infra l’un piede e l’altro.
Parleransi e toccheransi e abbracceransi li omini, stanti dall’uno all’altro emisperio, e [‘n]tenderansi i loro linguaggi.
De preti che dican messa
Molti fien quelli che, per esercitare la loro arte, si vestiran ricchissimamente; e questo parrà esser fatto secondo l’uso de’ grembiuli.
De’ frati [che] confessano
Le sventurate donne di propia volontà andranno a palesare a li omini tutte le loro lussurie e opere vergognose e segretissime.
Delle chiese e abitazion de’ frati
Assai saranno che lasceranno li esercizi e le fatiche e povertà di vita e di roba, e andranno abitare nelle ricchezze e trionfanti edifizi, mostrando questo esser il mezzo di farsi amico a Dio.
Del vendere il Paradiso
Infinita moltitudine venderanno pubblica e pacificamente cose di grandissimo prezzo, sanza licenza del padrone di quelle, e che mai non furon loro, né in loro potestà, e a questo non provvederà la giustizia umana.
De morti che si vanno a sotterrare
O umane sciocchezze, o vive pazzie! I semplici popoli porteran gran quantità di lumi per far lumi ne’ viaggi a tutti quelli [ch]e integralmente han perso la virtù visiva.
Della dote delle fanciulle
E dove prima la gioventù femminina non si potea difendere dalla lussuria e rapina de’ maschi, né per guardie di parenti, né per fortezza di mura, verrà tempo che bisognerà che padri e parenti d’esse fanciulle paghin di gran prezzi chi voglia dormire con loro, ancora che esse sien ricche, nobili e bellissime. Certo e’ par qui che la natura voglia spegnere la umana spezie, come cosa inutile al mondo e guastatrice di tutte le cose create.
Della crudeltà dell’omo
Vedrassi animali sopra la terra, i quali sempre combatteranno infra loro e con danni gravissimi e spesso morte di ciascuna delle parte. Questi non aran termine nelle loro malignità; per le fiere membra di questi verranno a terra gran parte delli alberi delle gran selve dell’universo; e poi ch’e saran pasciuti, il nutrimento de’ lor desideri sarà di dar morte e affanno e fatiche e paure e fuga a qualunche cosa animata. E per la loro ismisurata superbia questi si vorranno levare inverso il cielo, ma la superchia gravezza delle lor membra gli terrà in basso. Nulla cosa resterà sopra la terra, o sotto la terra e l’acqua, che non sia perseguitata, remossa o guasta; e quella dell’un paese remossa nell’altro; e ‘l corpo di questi si farà sepoltura e transito di tutti i già da lor morti corpi animati.
O mondo, come non t’apri? e precipita nell’alte fessure de’ tua gran balatri e spelonche, e non mostrare più al cielo sì crudele e dispietato monstro.
Del navicare
Vedrassi li alberi delle gran selve di Taurus e di Sinai, Apennino e Talas scorrere per l’aria da oriente a occidente, da aquilone a meridie, e portarne per l’aria gran moltitudine d’omini. O quanti voti, o quanti morti, o quanta separazion d’amici e di parenti, o quanti fien quelli che non rivedranno più le lor provincie, né le lor patrie, e che morran sanza sepoltura, colle loro ossa sparse in diversi siti del mondo!
Dello isgombrare l’Ognisanti
Molti abbandoneranno le propie abitazioni, e porteran con seco tutti e sua valsenti, e andranno abitare in altri paese.
Del dì de’ morti
E quanti fien quelli che piangeranno i lor antichi morti, portando lumi a quelli!
De’ frati che spendendo parole ricevano di gran ricchezze, e danno il Paradiso
Le invisibile monete faran trionfare molti spenditori di quelle.
Degli archi fatti colli corni de’ buoi
Molti fien quelli che per causa delle bovine corna moriranno di dolente morte.
[Divisione della profezia]
[ Prima delle cose degli animali razionali, seconda delli inrazionali, terza delle piante, quarta delle cirimonie, quinta de’ costumi, sesta delli casi ovvero editti ovver quistioni, settima de’ casi che non possono stare in natura, come dire:”di quella cosa quanto più ne levi, più cresce”, e riserva i gran casi inverso il fine e deboli dal principio, e mostra prima e mali e poi le punizioni; ottava delle cose filosofiche.
De’ cristiani
Molti, che tengono la fede del figliolo, e sol fan templi nel nome della madre.
Del cibo stato animato
Gran parte de’ corpi animati passerà pe’ corpi degli altri animali; cioè, le case disabitate passeran in pezzi per le case abitate, dando a quelle un [u]tile, e portando con seco i sua danni.
Quest’è cioè: la vita dell’omo si fa delle cose mangiate, le quali portan con seco la parte dell’omo ch’è morta
Delli omini che dorman nell’asse d’albero
Li omini dormiranno e mangeranno e abiteranno infra li alberi, nati nelle selve e campagne.
Del sognare
Alli omini parrà vedere nel cielo nove ruine, parrà in quelli levarsi a volo e di quello fuggire con paura le fiamme, che di lui discendano, sentiran parlare li animali di qualunche sorte di linguaggio umano, scorreranno immediate colla lor persona in diverse parte del mondo sanza moto, vedranno nelle tenebre grandissimi sprendori. O maraviglia delle umane spezie, qual frenesia t’ha sì condotto? Parlerai cogli animali di qualunche spezie e quelli con teco in linguaggio umano, vedrai cadere di gran altura sanza tuo danno, i torrenti t’accompagneranno …
Delle formiche
Molti popoli fien quelli che nasconderan sé e sua figlioli [e] vettovaglie dentro alle oscure caverne; e lì, nelli lochi tenebrosi, ciberan sé e sua famiglia per molti mesi, sanza altro lume accidentale o naturale.
Dell’ape
E a molti altri saran tolte le munizioni e lor cibi, e crudelmente da gente sanza ragione saranno sommerse o annegate. O giustizia di Dio, perché non ti desti a vedere così malmenare e tua creati?
Delle pecore, vacche, capre e simili
A innumerabili saran tolti e loro piccoli figlioli, e quelli scannati e crudelissimamente squartati.
Delle noci e ulive e ghiande e castagni e simili
Molti figlioli da dispietate bastonate fien tolti delle propie braccia delle lor madri e gittati in terra e poi lacerati
De fanciulli che stanno legati nelle fasce
O città marine, io veggo in voi i vostri cittadini, così femmine come maschi, essere istrettamente dei forti legami colle braccia e gambe esser legati da gente che non intenderanno i vostri linguaggi, e sol vi potrete isfogare li vostri dolori e perduta libertà mediante i lagrimosi pianti e li sospiri e lamentazione infra voi medesimi, chè chi vi lega non v’intenderà, né voi loro intenderete.
Delle gatte che mangiano e topi
A voi, città dell’Africa, si vedrà i vostri nati essere squarciati nelle propie case da crudelissimi e rapaci animali del paese vostro.
Delli asini bastonati
O natura instaccurata, perché ti se’ fatta parziale, facendoti ai tua figli d’alcuni pietosa e benigna madre, ad altri crudelissima e dispietata matrigna? Io veggo i tua figlioli esser dati in altrui servitù sanza mai benefizio alcuno; e in loco di remunerazione de’ fatti benefizi, esser pagati di grandissimi martiri; e spender sempre la lor vita in benefizio del suo malefattore.
Fonte: http://www.parodos.it/scaricare/Aforismileonardo.docx
Autore del testo: Leonardo da Vinci
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