Diritto dei consumatori e del mercato

 

 

 

Diritto dei consumatori e del mercato

 

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Diritto dei consumatori e del mercato

INFORMAZIONE PRE-CONTRATTUALE E  RIMEDI NELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA

Introduzione
Il diritto ha la funzione di tutelare gli interessi più deboli sul mercato, da qui è sorta la convinzione che la debolezza sul mercato si misuri in termini di svantaggio informativo di una parte al confronto con la rendita informativa dell’altra; la ratio, di conseguenza è collegata all’esigenza di porre in essere correttivi alle disparità di posizioni contrattuali dei protagonisti dell’operazione economica al fine di favorire la corretta formazione della volontà contrattuale che un’informazione carente impedirebbe.

 

  • CAPITOLO PRIMO: i termini soggettivi ed oggettivi dell’operazione di intermediazione finanziaria.
  • Risparmiatore e consumatore: due debolezze a confronto.

 

Già da una prima analisi del dato normativo emerge una modulazione diversa degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario finanziario secondo la qualità soggettiva del suo partner: l’operatore qualificato, la controparte qualificata non necessitano, infatti, d’essere tutelati attraverso l’imposizione di obblighi informativi.
In sostanza, se il risparmiatore è disinformato, è debole; la disinformazione, quindi, è ciò che rende strutturalmente debole il consumatore. Dunque, il risparmiatore è consumatore.
Le ragioni per credere che vi sia una assimilazione tra risparmiatore e consumatore non mancano. Se ne cominciò a discutere sul finire degli anni ’80, quando il formante dottrinario e quello giurisprudenziale hanno puntellato l’impalcatura normativa che ha tracciato la strada per ravvisare nella intermediazione finanziaria un settore di mercato omogeneo in cui debbono essere ripristinate alcune regole, come la pienezza del consenso, l’uguaglianza sostanziale delle parti, il principio di autodeterminazione.
Dal punto di vista normativo, dopo la svolta rappresentata dalla L. 17 febbraio 1992, n. 154 sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, i dati recenti più significativi sono due:
1_in primo luogo, il legislatore, attraverso l’introduzione dell’art. 32-bis nel Tuf (testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) ed il riconoscimento della tutela degli interessi collettivi degli investitori, attribuisce alle associazione dei consumatori la legittimazione ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori; trova conferma la necessità di ampliare la nozione di consumatore al fine di racchiudere al suo interno anche l’investitore/risparmiatore che -  agendo per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta -  si rivolge ad un intermediario per la realizzazione di operazioni finanziarie.
2_il secondo indice rilevatore della volontà legislative di assimilare il risparmiatore al consumatore è costituito dalla modifica al codice del consumo, operata con l’art. 9 del d.lgs. 23 ottobre 2007, n.221, che sembrerebbe aver eliminato in via definitiva ogni equivoco attraverso l’introduzione di un’apposita sezione, la IV-bis, dedicata integralmente alla disciplina della commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori.
Tuttavia, recentemente, il Consiglio di Stato, ha affermato che il risparmiatore(cioè l’investitore non professionale), si presenta come una specie del genere consumatore, in quanto destinatario finale di un prodotto standardizzato seppur finanziario, in sostanza un consumatore di servizi finanziari.
Per quanto sia opinabile che il concetto di status si adatti a definire la condizione giuridica del consumatore, non si può negare che il risparmiatore -  a differenza del consumatore -  sia debole nei confronti dell’altra parte esclusivamente in occasione della singola contrattazione, mai indipendentemente da quella. In sostanza, se per il consumatore vale una presunzione assoluta di debolezza che non consente di far prevalere una differente definizione situazionale, viceversa per il risparmiatore assumono rilievo il ruolo e la qualità assunte di volta in volta dalla singola contrattazione; proprio il fatto che il risparmiatore non si identifichi con il consumatore spiega come mai solo quando l’operazione economica coinvolga il risparmiatore sia previsto l’obbligo a carico del partner professionale di acquisire informazioni.
Ad escludere che il risparmiatore ed il consumatore si identifichino, contribuiscono ulteriori considerazioni: il risparmiatore, infatti, è un consumatore un po’ anomalo; egli acquista un bene che non vede, che non è tangibile, un bene immateriale destinato ad appagare l’aspettativa di mettere a profitto il denaro investito. Lo scambio che lo vede protagonista si caratterizza come scambio di un bene presente con un bene futuro, la cui esistenza e consistenza sfugge al controllo del soggetto che attende la futura prestazione. Il risparmiatore aderisce alla contrattazione confidando sulle informazioni resegli dalla controparte professionale.

 

  • L’operatore qualificato.

 

Ai sensi dell’art. 31 del vecchio Reg. Consob, dovevano considerarsi operatori qualificati tanto una serie di imprenditori esercenti attività tipicamente finanziarie quanto le persone fisiche che avessero documentato la concreta e stabile prestazione della loro attività professionale, i quali dovevano provare di possedere la capacità di assumere decisioni di portafoglio e di organizzare attività di mercato; obiettivo della disciplina era dunque quello di escludere l’applicazione della normativa di protezione là dove i rapporti contrattuali fossero tenuti con soggetti esperti.
Subito, risultò chiaro che doveva essere affrontato il problema dell’accertamento delle capacità richieste, affidato dal predetto articolo esclusivamente alla dichiarazione scritta con la quale l’investitore affermava di esserne in possesso. Ma, in tal caso, anche l’investitore più sprovveduto e privo di esperienza, purchè avente veste di società o di persona giuridica, avrebbe potuto avventuratamente auto valutarsi e proclamarsi operatore qualificato, legittimando l’intermediario a disapplicare la normativa predisposta proprio a tutela di chi non è qualificato.
Un efficace correttivo fu ritenuto quello di negare che l’intermediario potesse ritenersi autorizzato, sulla base dell’autodichiarazione dell’investitore, a disapplicare integralmente lo statuto protettivo previsto per gli operatori non qualificati, soprattutto quando alla dichiarazione autoreferenziale non si aggiungesse un solo fatto a sostegno dell’esattezza di quel giudizio; per ovviare a questa situazione si puntò sulla formulazione del predetto art. 31, ove si richiedeva una specifica competenza in materia di operazioni in strumenti finanziari.
Tuttavia, non sono mancati i pronunciamenti altrimenti orientati che hanno escluso che gli intermediari abbiano l’obbligo di verificare l’effettivo possesso della specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari, ove essa sia stata dichiarata dal legale rappresentante di una società; il rilascio di tale dichiarazione sarebbe da intendersi come condizione necessarie e sufficiente al fine di escludere l’applicazione della normativa di protezione.
Va puntualizzato che l’oggetto della dichiarazione è la specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari della società/persona giuridica cui è riferibile la dichiarazione stessa e non della persona fisica che la rappresenta in quel momento; dunque, sussisteranno la competenza e l’esperienza se la società/persona giuridica dichiarante ha già posto in essere ripetutamente operazioni finanziarie di una certa complessità.

L’art. 6 del Tuf autorizza la Consob a definire diversi standard di comportamento degli intermediari proprio in relazione alla qualità ed esperienza professionale dell’investitore; una norma secondaria che, per giustificare l’applicazione di uno statuto protezionistico in favore di operatori non qualificati, istituisse una differenziazione nelle regole di condotta dell’intermediario – fondata non sulla qualità ed esperienza professionale, bensì sul giudizio espresso dallo stesso soggetto, le cui qualità dovrebbero essere giudicate – si porrebbe in contrasto con la norma primaria. Infatti, si verrebbero a creare standard di comportamento degli intermediari che variano sulla base di un criterio diverso da quello previsto dalla legge.
Per completare il ragionamento va precisato che la dichiarazione resa dall’investitore, anche ove non rispondente a verità, non vale a privarlo del diritto di invocare successivamente l’applicazione della normativa di tutela. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha negato che la semplice dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante, con cui la società riconosce di disporre della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari, esoneri l’intermediario dall’obbligo di ulteriori verifiche mobiliari.

 

  • Cliente al dettaglio, cliente professionale, controparte qualificata.

Attualmente gli investitori sono suddivisi in tre categorie distinte, a ciascuna delle quali corrisponde un diverso livello di protezione che si realizza con una applicazione totale, parziale o nulla delle regole di comportamento poste a carico degli intermediari. In altri termini, la qualifica della controparte esonera l’intermediario dall’applicazione di regole di condotta.
Tale tripartizione è effetto del recepimento nel nostro ordinamento della direttiva Mifid, la quale ha disposto la disapplicazione di specifiche regole di tutela e ha indotto il legislatore italiano a passare da un sistema che classificava il cliente in due categorie a quello attuale che si fonda sulla tripartizione.
Secondo l’art. 58 del nuovo Reg. Consob 16190/2007 devono definirsi qualificati innanzitutto i soggetti seguenti: imprese di investimento, banche, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio, fondi pensione, fondazioni bancarie, governi nazionali, banche centrali, organizzazioni pubbliche sovranazionali. 
Diversa è la posizione del cliente professionale che, è colui che possiede l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere le proprie decisioni in materia di investimento e per valutare correttamente i rischi che assume; in tale categoria rientrano le persone fisiche e giuridiche che soddisfano requisiti quali frequenza e dimensione delle operazioni poste in essere, entità del portafoglio e professione svolta.
Per i clienti professionali opera una presunzione generale secondo cui essi sono ritenuti in grado di individuare in via autonoma le informazioni utili per assumere consapevoli scelte di investimento.
La terza categoria è composta dai clienti al dettaglio, ovvero quei soggetti cui l’ordinamento riconosce maggiore bisogno di protezione che si realizza con un articolato ed analitico obbligo di informazione da parte dell’intermediario; si tratta dei risparmiatori e di tutti gli investitori che solo accidentalmente operano nel mercato degli strumenti finanziari. Oltre alle informazioni previste per il cliente professionale, gli intermediari dovranno fornire loro informazioni analitiche sia sull’intermediario che fornisce il servizio, sia in ordine alle modalità di salvaguardia degli strumenti finanziari e delle somme di denaro della clientela.
Con riguardo alle altre regole di condotta, di procede ad una graduazione in considerazione della tipologia del servizio di investimento: in particolare, nel caso del cliente al dettaglio, l’intermediario deve procedere all’acquisizione di tutta una serie di informazioni in ordine alla sua conoscenza ed esperienza, alla sua situazione finanziaria e agli obiettivi di investimento al fine di procedere alle verifiche di adeguatezza ed appropriatezza.
La collocazione dell’investitore in una categoria può avvenire su istanza dell’interessato o su impulso dell’intermediario: ad esempio i clienti professionali possono richiedere un trattamento non professionale, così come le imprese di investimento possono decidere di fornire loro un livello più elevato di protezione.
L’attenuazione della protezione rende necessario, in assenza di un accordo diverso, che l’intermediario informi, prima di qualunque prestazione di servizi, il cliente in merito al fatto che sulla base delle informazione che l’impresa dispone egli verrà considerato un cliente professionale. E’ invece onere del cliente professionale chiedere un livello più elevato di protezione là dove ritenga di non essere in grado di gestire correttamente i rischi assunti.
Anche il c.d. cliente retail può chiedere all’impresa di investimento di beneficiare di un trattamento diverso rispetto a quello che gli spetterebbe in ragione della propria condizione di soggetto non qualificato: si tratta del cliente professionale su richiesta.
C’è da sottolineare come i clienti non professionali possano essere trattati come clienti professionali quando, dopo la valutazione della loro competenza, dell’esperienza e delle conoscenze, l’intermediario ritenga che siano in grado di adottare consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e di comprenderne i rischi.
La procedura attraverso la quale il clienti retail possono rinunciare allo statuto protettivo loro riservato, prevede che gli stessi clienti, attraverso una dichiarazione scritta, manifestino all’impresa di investimento la volontà di essere trattati come clienti professionali, a titolo generale o rispetto ad un particolare servizio o operazione di investimento. Ovviamente l’impresa li renderà informati per iscritto in ordine alle protezioni ed ai diritti di indennizzo che potrebbero perdere; se la volontà rinunciativa resiste i clienti dichiareranno per iscritto, attraverso un documento separato dal contratto, di essere a conoscenza delle conseguenze derivanti dalla rinuncia alla protezione. Il regime esentivo troverà applicazione solo se l’intermediario sarà in grado di accertare effettivamente la sussistenza di due dei seguenti requisiti:

  • Che il cliente abbia svolto operazioni di dimensioni significative sul mercato con una frequenza di 10 operazioni a trimestre nei quattro trimestri precedenti;
  • Che il valore del portafoglio di strumenti finanziari del cliente superi 500.000 euro;
  • Che il cliente lavori o abbia lavorato nel settore finanziario per almeno un anno.

 

  • La struttura dell’operazione di investimento

 

Per quanto riguarda la struttura dell’operazione di investimento, c’è da dire che parte della dottrina ritiene di dover configurare non un unico contratto di mandato seguito da semplici istruzioni, ma un iniziale contratto quadro attraverso il quale le parti programmano future operazioni contrattuali di investimento. Altra parte della dottrina, precisa che la vera e propria operazione negoziale è costituita esclusivamente dal contratto quadro, mentre le singole transazioni su valori mobiliari vanno considerate atti esecutivi di un’operazione negoziale complessa.
Anche le Sezioni Unite della Suprema Corte pongono la distinzione tra il contratto quadro e le singole operazioni: il contratto quadro, cui può darsi il nome di contratto di intermediazione finanziaria, è assimilabile alla figura del mandato dal quale derivano obblighi e diritti reciproci dell’intermediario e del cliente; le successive operazioni che l’intermediario compie per conto del cliente, anche se a loro volta possono consistere in atti di natura negoziale, costituiscono per sempre il momento attuativo del precedente contratto di intermediazione.
Negare alle singole operazioni il connotato di atti di autonomia equivarrebbe a ritenere che il risparmiatore presti il proprio consenso senza essere stato effettivamente informato. Tale soluzione si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza, perché il risparmiatore si vincolerebbe ancor prima di esprimere uno specifico consenso consapevole sulle singole operazioni e sulle loro caratteristiche. È nei singoli contratti di acquisto che si operala scelta negoziale essenziale per la soddisfazione dell’interesse dell’investitore; essi, dunque, non sono uno scontato momento esecutivo, ma un essenziale momento decisionale.
Infine, significativa risulta una recente decisione della Corte d’Appello di Venezia che ribadisce l’autonomia negoziale dei singoli ordini, affermando che la forma ad substantiam per i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento è applicabile non solo al contratto quadro, ma anche ai singoli ordini.

 

  • CAPITOLO SECONDO: la specificità funzionale degli obblighi informativi.
  • Il ruolo dell’informazione della disciplina dell’intermediazione finanziaria.

 

L’informazione non equivale a mera comunicazione, ma identifica l’attività comunicativa funzionale alla conoscenza dei termini dell’operazione economica.
Ma in cosa consiste e come si individua la conoscenza? Si può cominciare dicendo che la conoscenza dovrebbe essere tale da consentire al soggetto che riceve l’informazione di chiarire qualsiasi confusione; l’informazione, quindi, dovrà essere resa in misura idonea a consentire la comprensione da parte del destinatario dell’oggetto della negoziazione in vista della formazione di una corretta volontà contrattuale.
Per garantire che chi acconsente a stipulare un contratto conosca esattamente i termini dell’operazione, la disciplina codicistica fa leva sugli artt. 1337 e 1338 c.c. riguardanti la fase delle trattative, nonché sull’art. 1375 c.c. relativo alla fase esecutiva del contratto.
L’obbligo codicistico di informare implica che le parti si scambino tute le conoscenze finalizzate a rafforzare la consapevolezza delle loro scelte in merito all’assetto contrattuale.
La disciplina dei contratti del consumatore manifestò con chiarezza però che il riferimento agli artt. 1337 e 1338 c.c. era incapace di impedire che la diffusione della contrattazione standardizzata tra professionista e consumatore desse vista allo squilibrio di conoscenza, di forze economiche e di poteri contrattuali. Nella scena attuale, la scelta dei legislatori è stata quella di obbligare il contraente forte a trasferire le sue conoscenze all’altra parte; in sostanza, il correttivo delle asimmetrie informative è costituito dai doveri di informazione.

Tuttavia, non tutta la dottrina è concorde. Difatti, alcuni autori si chiedono se, nell’ambito dei mercati finanziari, l’informazione riesca ad assolvere questo ruolo nei confronti dell’investitore. Il dubbio sorge dal fatto che l’oggetto del contratto tra risparmiatore e l’intermediario è un bene che è sempre meno predeterminato nel suo ammontare; lo scarso grado di conoscenze del risparmiatore non professionale lo conduce a non soffermarsi su dati tecnici, come la lettura del bilancio, del prospetto informativo, rendendolo più suggestionabile da forme di pubblicità palesi di prodotti finanziari.
Nell’ambito dell’obbligo di informare, il fattore fiduciario assume un ruolo incisivo, dato che, consentendo di conoscere la debolezza dell’interlocutore, impone all’intermediario di modulare l’attività informativa in considerazione delle sue effettive qualità. Come si legge in una decisone della giurisprudenza di merito, gli obblighi informativi degli intermediari sono da ritenersi completamente adempiuti solo quando l’investitore abbia pienamente compreso le caratteristiche dell’operazione. Il prestatore di servizi deve tener conto, nel valutare la congruità dell’operazione rispetto al cliente, di tutti quegli aspetti che lo connotano: età, grado d’istruzione, condizione professionale e personale; a conferma di questo dato basti guardare alla disciplina contenuta nel Tuf ove è chiarito il riferimento all’adeguatezza: tale requisito è inserito subito dopo l’obbligo posto a carico dell’intermediario di acquisire le informazioni necessarie dai clienti, ciò implica che l’obbligo di informare non può ritenersi standardizzato, ma dovrà essere proporzionato in base al profilo individuale del cliente-risparmiatore attraverso valutazioni rimesse all’intermediario. Il riflesso di tali considerazioni è che l’informazione adeguata è quella flessibile.

 

  • Il privilegio informativo dell’intermediario.

L’informazione, nel settore dell’intermediazione finanziaria, è l’unico strumento attraverso cui l’investitore può effettuare una valutazione della rispondenza al proprio interesse del prodotto o del servizio finanziario che gli viene proposto. I dati necessari infatti sono in possesso dell’intermediario, il quale di fatto è l’unico in grado di amministrare il rapporto, nelle condizioni di decidere se e come far funzionare il regolamento di interessi, il più interessato e il solo in grado di investire tempo e risorse nell’aggiornamento delle fluttuazioni del mercato.
Per cogliere la peculiare essenza della posizione di privilegio informativo in cui viene a trovarsi l’intermediario basta riflettere sul peso riconosciuto alla comunicazione del rating;
agenzie ad hoc forniscono valutazioni sull’affidabilità  creditizia del debitore che emette un’obbligazione, un titolo di debito, formulando giudizi estremamente sintetici (mediante l’utilizzo di caratteri alfanumerici) frutto di valutazioni assai complesse che si traducono in previsioni di mercato cui attingono tutti gli investitori professionali e non.
Conoscere gli esiti dell’analisi effettuata dalle agenzie di rating è estremamente i portante per chi si accinga ad effettuare un investimento perché orienta verso un prodotto il cui indice di rischio è direttamente connesso con la valutazione espressa nel rating: un rating altamente positivo indica un rischi minimo, un giudizio negativo un rischio più o meno elevato sull’opportunità di effettuare un determinato investimento.

Il rating, quindi, rappresenta un sorta di certificazione di qualità circa le prospettive di solvibilità del debitore; la sua omessa indicazione è idonea a configurare la responsabilità dell’intermediario soprattutto in relazione a titoli non quotati.
Più precisamente per i giudici il rating costituisce sicuramente un’informazione indicativa del tipo di investimento che si è in procinto di effettuare, e la sua mancata comunicazione rappresenta la violazione dei più elementari obblighi informativi.
Nonostante l’affidamento da esso ingenerato, prevale ancora l’idea che il rating non si traduca in un consiglio ad acquistare o a vendere, ma consista in un contributo valutativo che aiuta l’investitore nella scelta; difatti, la responsabilità da prospetto di cui all’art. 2935 c.c. induce ad assegnare al rating  un ruolo diverso da quello del consiglio giuridicamente irrilevante, ruolo che giustifica la responsabilità anche delle agenzie; sarebbe infatti estremamente contraddittorio sanzionare l’intermediario che non fornisca informazioni sul rating e negare la responsabilità dell’agenzia di rating per aver emesso una valutazione inesatta o non corrispondente al vero che, inducendo il risparmiatore ad investire  o a non investire, lo ha esposto ad un perdita economica.
In sostanza le agenzie devono assicurare che l’informazione posta alla base del rating sia di qualità sufficiente a fondarlo; ove così non fosse dovranno astenersi dal rilasciare il giudizio o ritirare quello già emesso. L’obiettivo è quello di garantire un rating di qualità elevata che contribuisca al buon funzionamento del mercato interno e che sia in grado di proteggere i risparmiatori.

 

  • Il come dell’informazione: personalizzazione delle forme e del contenuto informativo.

Una peculiarità dell’informazione precontrattuale nella disciplina dell’intermediazione consiste nel fatto che essa non si pone l’obiettivo di informare il risparmiatore medio, ma mira al soddisfacimento del singolo investitore interessato alla contrattazione attraverso una personalizzazione delle forme e del contenuto comunicativo nell’esplemento dei servizi di investimento.
L’informazione deve tener conto della condizione soggettiva dell’investitore, ma ciò non esclude che l’intermediario possa utilizzare formati standardizzati: questi standard informativi, costituiranno però il punto di partenza  verso un’informazione adeguata dei singoli clienti in modo che questi possano facilmente comprendere e in modo che siano messi nelle condizioni di prendere decisioni in modo consapevole.

  • Nuovi test di adeguatezza ed appropriatezza dell’informazione.

 

L’intera disciplina relativa agli obblighi di informazione gravanti sugli intermediari è stata rivista a seguito del recepimento della direttiva Mifid.
Per cominciare l’art. 21 del d. lgs. 58/1998 prevedeva che i soggetti abilitati dovessero acquisire le informazioni necessarie dai clienti ed operare in modo che essi fossero sempre adeguatamente informati; successivamente l’art. 14 della L. 28 dicembre 2005, n. 262 ha modificato l’art. 21 Tuf, imponendo ai soggetti abilitati di classificare il grado di rischiosità dei prodotti finanziari e delle gestioni di portafogli di investimento e di rispettare il principio dell’adeguatezza tra le operazioni consigliate agli investitori.
L’obiettivo della modifica era elevare il principio di adeguatezza al rango di norma primaria.
Da ultimo la direttiva Mifid distingue la valutazione dell’adeguatezza da quella dell’appropriatezza.
Più nel dettaglio, l’art. 35 della direttiva Mifid, prevede che, sulla scorta delle informazioni ricevute dal cliente e tenuto conto della natura e delle caratteristiche del servizio fornito, gli intermediari valutino che la specifica operazione consigliato o realizzata nel quadro della prestazione del servizio di gestione del portafoglio:

  • Corrisponda agli obiettivi di investimento del cliente;
  • Sia di natura tale per cui il cliente possieda la necessaria esperienza e conoscenza per comprendere i rischi inerenti all’operazione o alla gestione del suo portafoglio.

Ciò vuol dire che informare è non solo determinante, ma anche propedeutico all’obbligo di verificare la conformità dell’operazione al profilo soggettivo del cliente
Nel giudizio di adeguatezza, dunque, diventa essenziale per l’intermediario conoscere la volontà dell’investitore al fine di raffigurarsene l’interesse e tradurlo in concrete e pertinenti scelte di investimento
Il linea generale, il dato che assume maggiore risalto è che la nuova normativa prevede un grado di dettaglio finora sconosciuto che rafforza la convinzione che gli obblighi di informazione abbiano un compito pedagogico, finalizzato ad accrescere la consapevolezza dell’investitore.
In ordine alla valutazione dell’appropriatezza il discorso si riferisce alle ipotesi in cui gli intermediari prestino servizi di investimento diversi dalla consulenza in materia di investimento e dalla gestione di portafogli, soggetti alla regola dell’adeguatezza.
L’intermediario, infatti, non è tenuto a chiedere alcuna informazione in ordine alla situazione finanziaria del cliente, agli obiettivi di investimento e alla propensione al rischio, ma solo in merito alla sua conoscenza ed esperienza nel settore d’investimento rilevante per il tipo di strumento o servizio proposto o chiesto.
Il successivo art. 43 precisa che il giudizio di appropriatezza non si applica nella prestazione dei servizi di esecuzione di ordini per conto dei clienti o di ricezione e trasmissione di ordini.
Per i servizi c.d. esecutivi la Consob ha precisato che il vaglio dell’intermediario(valutazione di appropriatezza) è limitato alla verifica del livello di conoscenza ed esperienza in capo al cliente necessario per comprendere i rischi connessi alla decisione di investimento da assumere.
La differenza tra il giudizio di adeguatezza e quello di appropriatezza può quindi cogliersi nel dato che, nel primo caso, al positivo riscontro dell’appropriatezza, si aggiungono la valutazione della situazione patrimoniale e degli obiettivi di investimento del cliente.
Valutare l’appropriatezza, come l’adeguatezza, consiste in una operazione logico/deduttiva che consente all’impresa di investimento di valutare se gli strumenti finanziari e i servizi di investimento proposti siano o meno adatti al cliente
Nella ipotesi di inadeguatezza (ove è impedita l’erogazione del servizio di consulenza e di gestione del portafoglio), qualora il cliente ritenga di non fornire informazioni o qualora le informazioni non siano sufficienti, gli intermediari – onde esonerarsi da responsabilità – lo avvertono che tale decisione impedirà loro di determinare se il servizio o lo strumento sia appropriato, ma l’operazione potrà essere eseguita. La peculiarità della disciplina è data dalla circostanza che tale avvertenza può essere fornita attraverso un formato standardizzato.
Se invece, possedendo tutti gli elementi di valutazione, il test dovesse concludersi nel senso dell’inappropriatezza l’investitore ha l’obbligo di astenersi dal collocare il prodotto.

La problematica dell’asimmetria informativa si accentua ancor di più nel caso di prodotti opachi, difficilmente comprensibili dagli investitori non qualificati. Va sottolineato che proprio di recente il CESR ha posto in consultazione le sue proposte per distinguere i prodotti finanziari complessi da quelli non complessi; solo questi ultimi potranno essere collocati dagli intermediari in particolari circostanze senza sottoporre gli investitori individuali al test dell’appropriatezza, cioè senza verificare che i loro clienti conoscano quello che stanno acquistando.
Sussiste, tuttavia, la necessità che l’intermediario abbia una conoscenza approfondita delle preferenze della clientela.

L’adeguatezza dell’informazione sta ad esprimere la volontà – da parte del legislatore – di favorire l’educazione del risparmiatore; ed è in tale prospettiva che appare necessario comprendere quando l’informazione possa definirsi inadeguata; c’è da evidenziare come il requisito dell’adeguatezza  non può essere soddisfatto da un sovra eccesso informativo; ciò implica che debbano essere fornite soltanto le informazioni effettivamente utili, eliminando tutto il superfluo, vale a dire ciò che potrebbe distogliere il risparmiatore dalle indicazioni effettivamente rilevanti in ordine alla sua scelta.
In ogni caso l’adeguatezza dell’informazione farà difetto tutte le volte in cui l’intermediario si limiti a segnalare all’investitore in modo generico ed approssimativo la natura dell’investimento.
Di contro, atteso che la conoscenza deve essere una conoscenza effettiva e l’intermediario deve verificare che il cliente abbia compreso le caratteristiche essenziali dell’operazione proposta non solo con riguardo ai relativi costi e rischi patrimoniali ma anche con riferimento alla sua adeguatezza, si deve ritenere adeguata l’informazione e considerare adempiuti gli obblighi informativi solo quando l’investitore abbia pienamente compreso le caratteristiche dell’operazione. Si capisce, dunque, come l’adeguatezza sia un valore relativo e non assoluto, giacché la stessa informazione potrà essere adeguata per Tizio e rivelarsi inadeguata per Caio.

  • La regola della trasparenza.

Oltre che adeguata ed appropriata l’informazione dovrà risultare trasparente. È evidente che l’impiego di locuzioni eccessivamente tecniche potrebbe determinare l’impossibilità per il risparmiatore di accedere alla conoscenza del loro concreto significato, con la conseguenza di rendere incomprensibili i termini esatti dell’operazione.
La trasparenza è connaturale all’informazione, nel senso che il difetto di comprensibilità impedisce all’informazione di raggiungere il suo obiettivo.
L’esigenza di comprensibilità è particolarmente avvertita nell’ambito dell’intermediazione finanziaria dato proprio il tecnicismo della relazione negoziale, la quale presenta alti margini di opacità o di imprevedibilità per i risparmiatori non professionali.
In definitiva, la regola della trasparenza informativa, quale esplicazione del principio di buona fede (come anche per l’appropriatezza e per l’adeguatezza)  si vuole destinata proprio a limitare la discrezionalità dell’intermediario e quindi a limitare l’abuso che egli potrebbe fare dalla sua posizione di privilegio informativo.
La buona fede è richiamata spesso allo scopo di meglio definire il contenuto di alcune regole comportamentali, monitorare e quindi costruire il regolamento contrattuale;
alcuni rischi che possono derivarne sono:

  • Che in questo modo a favore di una parte e nei confronti dell’altra, oltre all’obbligo di prestazione, si creino numerosi e puntuali obblighi accessori, positivi, negativi, di carattere generale o speciale, accomunati dalla discendenza dall’obbligo di comportarsi in buona fede durante le trattative;
  • Che il rispetto di essi esaurisca la necessità di tutela del risparmiatore.

La buona fede infatti ha modo di operare solo dove la condotta dell’agente non sia predeterminata interamente dal legislatore in ordine all’an ed al quomodo, in prativa opera solo a condizione che non vi sia una sola modalità informativa ex ante integralmente definita.
La buona fede, dunque, ha luogo una volta esaurita la valutazione – in termini di liceità- e dopo aver accertato la formale corrispondenza o la non conformità del comportamento dell’una o dell’altra parte ovvero di entrambe alle previsioni di legge. Gli esiti di tale valutazione sono di due tipi:

  • Si accerta la corrispondenza;
  • Si constata la difformità.

Il riscontro della prima eventualità chiude la questione, mentre, nel secondo caso dovrebbe prevalere la valutazione secondo correttezza e buona fede: in questo modo sarà possibile correggere il risultato.
Il fine del ricorso alla correttezza integrativa è quello di estendere il raggio operativo della responsabilità contrattuale fino al limite dell’obbligazione senza prestazione.
L’altro dato da segnalare è che la buona fede viene assunta da una parte della dottrina quale limite alla libertà di uno dei contraenti: ciò farebbe perdere alla buona fede il suo carattere di criterio relazionale, perché ometterebbe di considerare che il comportamento scorretto di uno dei contraenti è tale per la mancata considerazione dell’interesse dell’altro e consentirebbe di veicolare una sorta di monitoraggio del contratto a fini distributivi.
Molti convinti assertori, ritengono che la buona fede abbia assunto il ruolo di norma imperativa, dalla cui violazione far derivare la sanzione della nullità.

 

  • Il formalismo dell’informazione precontrattuale.

 

Altro aspetto di particolare rilevanza della recente regolamentazione Consob è rappresentato dall’accentuazione del rigore formale anche nella fase c.d. precontrattuale.
Particolarmente significativo è l’art. 34, relativo alle modalità ed ai termini dell’informazione, ove è prescritto che le informazioni ai clienti al dettaglio siano fornite su un supporto duraturo o tramite il sito internet dell’intermediario.
Cosa debba intendersi con supporto duraturo è chiarito al successivo art. 36, ove si distingue tra il supporto duraturo non cartaceo e cartaceo; per l’utilizzo del supporto duraturo non cartaceo è necessario che tale modalità di comunicazione risulti appropriata per il contesto in cui si svolge o si svolgerà il rapporto tra intermediario e cliente.
La previsione di un formalismo così accentuato anche nella fase precontrattuale sembra anch’esso funzionale ad una maggiore tutela del cliente-risparmiatore. E’ come se il legislatore, non fidandosi dello spontaneo adempimento del dovere di correttezza, affiancasse l’imposizione formale alla prescrizione contenutistica, integrando la disciplina dell’informazione precontrattuale.

L’informazione deve essere fornita in tempo utile, cioè prima che il risparmiatore sia vincolato da qualsiasi contratto per la prestazione di servizi di investimento o accessori. La previsione di un tempo utile connessa al formalismo nella trasmissione dell’informazione precontrattuale, favorisce la conoscenza del futuro contratto.
In sostanza il formalismo nella fase precontrattuale rappresenta uno strumento per il controllo dell’attività promozionale  dell’intermediario, essendo anche quest’ultima idonea ad indirizzare le scelte e quindi la formazione del processo decisionale del potenziale investitore. Il destinatario dell’informazione dovrebbe vedere soddisfatti l’interesse positivo all’informazione e quello negativo costituito dalla protezione contro forme non veritiere di pubblicità che comprimano o impediscano la libera e consapevole formazione della sua volontà.

  • Obbligo di informazione v. onere di informarsi.

 

Esclusiva dell’intermediazione finanziaria è la stretta correlazione tra l’informazione che il professionista-intermediario deve rendere e l’esigenza di essere messo nella condizione di poterla effettivamente rendere.
Si discute in ordine alla qualificazione giuridica della richiesta delle informazioni: di fatti, più che in un obbligo tecnico-giuridico, pare configurarsi un onere.
La differenza tra onere ed obbligo risiede nella circostanza che con il primo la trasmissione delle informazioni realizza un interesse di cui è titolare lo stesso soggetto datore dell’informazione che sopporta le conseguenze negative derivate dalla sua inosservanza: con l’obbligo, invece, si impone al soggetto che sa di trasmettere all’ignaro i dati di cui dispone per soddisfare l’interesse del destinatario dell’informazione che è anche colui che beneficia della tutela apprestata in caso di inadempimento.
Obbligo di informare e onere di informarsi rispondono alla c.d. logica dei flussi normativi bidirezionali e alla loro interazione reciproca che caratterizzano la disciplina in tema di intermediazione. Il flusso bidirezionale consente all’intermediario di conoscere anche gli obiettivi dell’investitore; in questo modo i motivi dell’investimento cessano di appartenere alla sfera intima del cliente e trovano accesso nel rapporto negoziale, ragion per cui non potrà non tenersene conto in sede di valutazione di responsabilità dell’intermediario di fronte a scelte che dimostrino che egli non ha servito al meglio il cliente, posto che si sono rivelate pregiudizievoli e divergenti rispetto ai suoi obiettivi ed alle sue aspettative.
Al giudice chiamato a rimediare risulterà una discrasia(cattiva mescolanza) tra il rischio dell’operazione risultata svantaggiosa ed il rischio che sarebbe risultato appropriato al profilo dell’investitore.
Già nel vecchio regolamento Consob, uno dei principali obblighi degli intermediari nella prestazione dei servizi di investimento e accessori era proprio quello di astenersi dall’effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate; il recente regolamento Consob, invece, è ancora più esplicito nell’imporre all’intermediario di valutare che la specifica operazione consigliata o realizzata nel quadro della prestazione del servizio di consulenza corrisponda effettivamente agli obiettivi di investimento del cliente e che presenti un profilo di rischio compatibile con i suoi obiettivi.

  • Rifiuto dell’investitore di fornire informazioni.

 

Nel vecchio regolamento Consob, l’art. 28 prevedeva che l’eventuale rifiuto del risparmiatore di fornire le notizie richieste doveva risultare dal contratto o da apposita dichiarazione sottoscritta dall’investitore. Dunque, la banca era legittimata a procedere con il compimento dell’operazione solo dopo aver raccolto per iscritto il rifiuto dell’investitore di fornire le informazioni richieste.
Ciò, tuttavia, esponeva il risparmiatore a tecniche elusive della disciplina, posto che il suo rifiuto si prestava a far ritenere esaurito l’obbligo di diligenza previsto a carico dell’intermediario.
La giurisprudenza aveva comunque fissato alcuni paletti, ritenendo che anche ove l’investitore avesse rifiutato di fornire le informazioni, l’intermediario non fosse esonerato dall’obbligo di valutare l’adeguatezza delle operazioni, dovendo tenere conto di tutte le informazioni in suo possesso, in ossequio ai principi generali di correttezza, diligenza e trasparenza dei comportamenti negoziali.
Per dirla in altri termini, il rifiuto del risparmiatore non può rappresentare una scriminante per l’intermediario, giacché è proprio il suo ruolo a doverlo comunque indurlo a individuare il profilo del cliente: il rifiuto dell’investitore, quindi, accresceva la responsabilità dell’intermediario; da tale rifiuto è stato desunto un orientamento volto alla conservazione del capitale, piuttosto che alla massimizzazione dei rendimenti: il rifiuto del cliente, quindi, deve essere interpretato quale espressione della propensione ad un basso rischio.
Al contrario, la recente regolamentazione Consob, recependo la direttiva Mifid, supera l’incertezza interpretativa contenuta nel regolamento precedente sul rifiuto del cliente ed obbliga l’intermediario ad astenersi dal prestare il servizio di consulenza in materia di investimenti o di gestione del portafoglio tutte le volte in cui non ottenga le informazioni dall’investitore. Nel dubbio, dunque, l’intermediario, per non esporre a pregiudizio il capitale del cliente, dovrà astenersi dal prestare la sua attività, pur in presenza di un rifiuto consapevole del risparmiatore.
Questo forte rafforzamento dell’obbligo bidirezionale di informazione è in linea con il criterio della buona fede.

 

 

 

  • CAPITOLO TERZO: la disomogeneità del quadro rimediale.
  • Violazione degli obblighi di informazione: tra rimedi e tutele.

 

Nell’ambito analizzato, il legislatore non ha previsto i rimedi conseguenti alla violazione di regole comportamentali da parte dell’intermediario.
Essendo la disciplina dell’intermediazione finanziaria votata al raggiungimento di un duplice obiettivo – la tutela del mercato finanziario e la difesa dell’interesse dell’investitore -  le tradizionali tecniche di tutela contrattuali si rivelerebbero incapaci di rispondere a bisogni di tutela così differenti rispetto a quelli su cui poggia il diritto comune che postula una condizione paritaria tra i soggetti e condizioni normali di contrattazione.
Sussistono, tuttavia, i parametri sulla base dei quali si distinguono le regole di responsabilità da regole di validità: le prime si prefiggono di rimuovere il pregiudizio che una parte può subire a causa dei comportamenti non conformi a quelli derivanti dalla legge o dalla correttezza e presuppongono che  al danneggiato dall’altrui violazione non sia dato sottrarsi altrimenti agli effetti dell’atto. Le seconde, al contrario, assicurano che il contratto non contrasti con le norme imperative, l’ordine pubblico ed il buon costume e sia espressione di una volontà delle parti regolarmente formatasi.
Alcune decisioni hanno configurato la nullità virtuale dei contratti stipulati dall’investitore per contrarietà a norme imperative della violazione – da parte dell’intermediario – degli obblighi di informazione; un altro orientamento ha sanzionato la violazione delle regole di informazione con  l’annullamento del contratto per vizio del consenso, per dolo o per errore essenziale; in altre decisioni si è riconosciuta, nell’inosservanza delle regole di comportamento, una violazione del mandato di intermediazione, ravvisando in capo all’intermediario una responsabilità contrattuale precontrattuale, fonte di obbligo risarcitorio nei confronti dell’investitore danneggiato da tale condotta.

  • La violazione della regola dell’informazione e il rimedio della responsabilità precontrattuale.

 

Dalla collocazione dell’obbligo di informazione in fase arretrata rispetto alla decisione in ordine al se stipulare il contratto, una parte consistente di pronunce ha fatto derivare una responsabilità precontrattuale riconducibile a quella codicistica incentrata sull’art. 1337 c.c.
In una recente decisione della Corte d’Appello Milanese viene sottolineato come l’intermediario avvia un accesso facilitato ai dati relativi alle caratteristiche dei titoli che è tenuto a conoscere prima di sconsigliarli o metterli in vendita. Da qui l’obbligo  di fornire al cliente-risparmiatore tutte le notizie utili per aderire consapevolmente all’operazione; in questa prospettiva il collegio introduce una singolare qualificazione degli obblighi d’informazione: contrattuali, dal punto di vista della loro fonte – nel senso che derivano da un contratto tra intermediario e cliente – precontrattuali, dal punto di vista della loro funzione, perché propedeutici alla conclusione di un contratto diverso e successivo.
L’applicazione dei principi contenuti all’art. 1337 c.c. consentirebbe di riequilibrare il contratto attraverso il risarcimento.

Ad avviso dei giudici, l’ambito di rilevanza della responsabilità precontrattuale non deve essere circoscritto alle ipotesi in cui il comportamento non conforme a buona fede abbia impedito la conclusione del contratto o abbia determinato la conclusione di un contratto invalido o inefficace, bensì anche in caso di contratto validamente concluso.
La conclusione di un contratto valido ed efficace, quindi, non rappresenta un limite alla proposizione di un’azione risarcitoria là dove il danno trovi il suo fondamento nella violazione di obblighi relativi alla condotta delle parti nel corso delle trattative e prima della conclusione del contratto.
La violazione della buona fede in contraendo può ravvisarsi:

  • In relazione allo svolgimento delle trattative che non portino alla conclusione del contratto;
  • All’esito di trattativa portata a buon fine, cioè sfociata nella conclusione di un contratto valido ed efficace;
  • A seguito di trattative approdate alla conclusione di un contratto invalido e/o inefficace.

Sulla scorta di tali argomentazioni si giunge a ritenere che la violazione della regola di comportamento consacrata dall’art. 1337 c.c. assume rilievo non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative o di conclusione di un contratto invalido o comunque inefficace, ma anche quando il contratto posto in essere sia valido, benché risulti pregiudizievole per la parte vittima del comportamento non corretto.

Nel settore dell’intermediazione finanziaria è tornato ad essere posto in discussione un argomento che gran parte della dottrina aveva ritenuto ormai pacifico e cioè la disputa se si abbia o meno culpa in contraendo solo nell’ipotesi di negozio invalido oppure anche quando si sia concluso un contratto valido.
I dubbi della dottrina in relazione alla portata dell’art. 1337 c.c. ed in particolare in relazione alla operatività della responsabilità precontrattuale anche in presenza di un contratto invalido, sembrano tuttavia superati nell’ambito dei Principles of European Contract Law, dove si evince che, in ipotesi di successiva conclusione del contratto, cha ha condotto – ma non ha interrotto – le trattative in modo scorretto rimane comunque responsabile delle perdite subite dalla controparte.
La dottrina non ha mancato di sottolineare come si tratti di una scelta inequivocabilmente volta a favore del permanere della responsabilità precontrattuale che dopo la conclusione del contratto.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha confermato che il risparmiatore richieda il risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale nel caso si inosservanza di regole comportamentali dal parte dell’intermediario. Per i giudici la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo anche quando il contratto stipulato, né valido né inefficace, sia risultato pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto.
La recente disciplina dettata in tema di pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori ha fatto notare come alcune pratiche commerciali sono vietate perché inducono il consumatore a prendere una decisone non consapevole, che diversamente non avrebbe preso. Scopo della normativa è quello di intervenire e disciplinare l’atto di consumo nel suo aspetto dinamico o in quella face che metti in contatto il consumatore con il professionista e che sollecita il suoi interesse alla conclusione di una data scelta economica.

Mancando una precisa presa di posizione del legislatore in ordini ai rimedi accessibili al singolo consumatore, è proprio la buona fede di cui all’art. 1337 c.c. che consente di superare le obiezioni sollevate da coloro che asseriscono che la stipulazione di un contratto valido spezza il nesso di casualità con il danno e non comporta responsabilità di una delle parti. Il risparmiatore, quindi, potrebbe legittimamente agire per il risarcimento del danno in quando ha stipulato un contratto a condizioni meno favorevoli di quanto volesse per effetto del comportamento dell’intermediario che non ha adempiuto correttamente ai suo obblighi informativi.
In linea generale va segnalata una tendenza ed estendere l’area di applicazione delle responsabilità precontrattuale sul presupposto che il danno trovi il suo fondamento, non nell’inadempimento di un’obbligazione derivante da contratto ma, nella violazione di obblighi relativi alla condotte delle parti nel corso delle trattative e prima della conclusione del contratto. Il risparmiatore potrà ottenere il risarcimento del danno conseguente all’investimento inopportuno dimostrando che se fosse stato correttamente informato avrebbe impiegato in modo più proficuo le somme investite.
E’ stato altresì aggiunto che il risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale può essere chiesto non solo nell’ipotesi in cui la condotta illecita o sleale di una parte non sia stata tale da determinare l’invalidità del contratto, ma anche nella ipotesi in cui la vittima non intenda avvalersi di tale rimedio o non sia più in grado di farlo a causa della prescrizione dell’azione di annullamento o della convalida del contratto.
Nell’ipotesi in cui l’assetto di interessi del contratto si riveli squilibrato a danno di una delle parti, in ragione della condotta scorretta dell’altra, si può quindi configurare una funzione correttiva e riequilibrativa del risultato del contratto. In quest’ottica il risarcimento non si limiterebbe all’interesse negativo, ma si estenderebbe al pregiudizio connesso alla condotta scorretta; esso, in altri termini, andrebbe rapportato alle condizioni migliori che il contraente avrebbe ottenuto senza la scorrettezza.

  • Il divieto di contrarre e il falso problema della responsabilità precontrattuale.

 

Nel settore dell’intermediazione, l’obbligo precontrattuale di informazione assume una valenza a sé ed è fortemente preordinato all’espressione di un consenso consapevole;
l’attenzione si volge, infatti, verso la verifica dell’adeguatezza e dell’appropriatezza informativa e cioè sulla modulazione dell’obbligo di rendere informazioni adeguate in capo all’intermediario. Quello che, in altri termini, si sta tentando di chiarire è che non ci si trova di fronte ad un contratto sconveniente, ma innanzi ad un contratto che, vigendo una situazione di disinformazione, non avrebbe dovuto essere stipulato.
Nel vecchio regolamento Consob(11522/1998) era espressamente stabilito il divieto per gli intermediari autorizzati di effettuare, consigliare o prestare il servizio di gestione se non dopo aver fornito all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza fosse necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento. La disposizione poneva un vero e proprio in capo all’intermediario, la cui violazione non poteva certamente liquidarsi invocando la responsabilità precontrattuale allargata; nell’ipotesi appena richiamata sussisteva un divieto di contrarre e in carenza di quei presupposti normativi l’intermediario non era legittimato a consigliare e/o effettuare operazioni o prestare il servizio di gestione. Era dunque lo stesso legislatore a collegare il divieto di contrarre alla violazione di specifici obblighi informativi; si tratta quindi di un contratto contrario a disposizione imperativa.

           Contrariamente a che afferma che le norme che impongono doveri di informazione non sono suscettibili di essere tradotte in altrettanti divieti di contrarre, si deve considerare che in questo ambito disciplinare è proprio la normativa a collegare il divieto di contratte all’inadempimento di taluni obblighi informativi.
Alcune regole comportamentali, come ad esempio quelle sull’adeguatezza dell’informazione, non si limitano a porre in capo all’intermediario meri obblighi di informazione, bensì gli imporrebbero obblighi di astensione e forme e contenuti informativi, le cui violazioni investirebbero la fattispecie contrattuale.
Si tratta, in altri termini, di un vero e proprio dovere di non fare. L’obbligo di astensione, ha la funzione di evirare che si verifichino situazioni di pericolo per l’integrità dei mercati quali sono quelle che seguono alla stipulazione di contratti conclusi in situazioni di conflitti di interessi o di contratti inadeguati.
Proprio con riferimento al conflitto di interessi degli intermediari nei confronti dei risparmiatori il rischio  da evitare è che il risultato dell’azione dell’intermediario sia svantaggioso per il cliente.
Tuttavia, quello che occorre considerare è che le regole di condotta a carico degli intermediari sono numerose e presentano caratteristiche diverse.

La lettura dell’art. 1337 c.c. rivelerebbe la propria inadeguatezza nella disciplina della intermediazione finanziaria che si connota proprio per lo squilibrio di conoscenza e consapevolezza tra le parti contrattuali oltre che per l’ovvio squilibrio di forze economiche e di potere contrattuali. La disparità di forza nell’intermediazione finanziaria è più sensibile che nelle relazioni contrattuali comuni e ciò costituisce il portato della presenza di un’asimmetria informativa particolarmente accentuata. Il momento di tutela, di conseguenza, dovrebbe atteggiarsi in maniera differente, perché dovrà portare il cliente-risparmiatore ad esprimere un consenso più meditato e consapevole, per aver acquisito conoscenza esatta della natura, della tipologia e dei rischi dell’operazione.
Nell’art. 39 del nuovo regolamento Consob è previsto che nel caso in cui gli intermediari non ottengano dal cliente le informazioni prescritte nel predetto art., questi debbano astenersi dal prestare servizi. In altre parole, l’intermediario, deve agire solo se conosce il risparmiatore, dovendo valutare che le operazioni da intraprendere siano adeguate al suo profilo. Il diniego di fornire informazioni impedisce all’intermediario di prestare la sua attività.

  • Il rimedio della nullità virtuale del contratto.

 

La possibilità di configurare la nullità virtuale del contratto per contrarietà a norme imperative, nelle ipotesi in cui ci sia stata da parte dell’intermediario la violazione degli obblighi informativi troverebbe il proprio fondamento nell’art. 1418 c.c., che ammette la comminabilità(stabilire una pena) della nullità nelle ipotesi in cui la norma imperativa non preveda espressamente le conseguenze della sua violazione.
Il sistema delle nullità è stato per lungo tempo dominato dal principio della tassatività e dalla tendenza a circoscrivere al minimo indispensabile le nullità.
Tuttavia, la dottrina non ha mancato di sottolineare che il criterio della tassatività delle ipotesi di nullità è troppo rigido. Sulla base di tale premessa, può ritenersi che nelle ipotesi in cui una norma imperativa non preveda – in caso di sua violazione – una specifica sanzione, l’arti 1418 c.c. consente l’integrazione della norma con  la previsione di nullità.
La questione, peraltro, è stata recentemente rimessa alle Sezioni Unite della corte di Cassazione con il compito di stabilire se il comportamento tenuto dall’intermediario finanziario, in violazione delle norme che pongono a suo carico obblighi di informazione nell’interesse dei clienti, dia o meno luogo alla nullità dei contratti di investimento stipulati. Tale scelta è la conseguenza del travagliato percorso giurisprudenziale in ordine all’ammissibilità della c.d. nullità virtuale.
Una decisione della giurisprudenza di merito ha affermato che la violazione, da parte dell’intermediario, delle regolo di informazione stabilite dal Tuf e dal regolamento Consob – essendo poste a tutela dell’ordine pubblico – comporta la nullità del contratto per violazione di norme imperative.
Tale principio è stato avallato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui in presenza di un negozio contrario a norme imperative, la mancanza di un’espressa sanzione di nullità non è rilevante ai fini della nullità dell’atto negoziale in conflitto con il divieto, in quanto vi sopperisce l’art. 1418 c.c., che rappresenta un principio generale rivolto a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione dei precetti imperativi non si accompagni una previsione di nullità.
L’esistenza di interessi di carattere generale rendono inderogabili le regole di comportamento; pertanto, un contratto di investimento concluso senza l’osservanza delle regole di condotta dettate dalla normativa richiamata, deve essere dichiarato nullo, perché contrario all’esigenza di trasparenza dei servizi finanziari che è esigenza di ordine pubblico.
Secondo la recente giurisprudenza, la nullità del contratto si giustifica partendo dall’assunto che tutte queste norme siano di ordine pubblico,o, comunque, siano di carattere imperativo, in quanto poste a tutela di interessi generali e intese a proteggere interessi di rango costituzionale o il risparmio pubblico, il buon funzionamento del mercato, la stabilità del sistema finanziario.
Una parte della giurisprudenza poi ha ritenuto di poter azionare il rimedio della nullità virtuale in maniera selettiva; in particolare, premessa la natura imperativa delle norme contenute nel Tuf, si ritiene che la sanzione della nullità possa essere comminata solo ove la norma violata abbia contenuto sufficientemente specifico, preciso ed individuato; così una sanzione, tanto grave quanto la nullità del rapporto negoziale troverà applicazione solo a fronte di parametri di comportamento sufficientemente precisi.

  • Il divieto di contrarre ed il vizio del consenso.

 

Per espressa previsione normativa gli intermediari autorizzati non possono effettuare o consigliare operazioni o prestare il servizio di investimento se non dopo aver fornito all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento e disinvestimento. Tutto ciò accredita l’idea che l’informazione sia funzionale alla formazione di un consenso consapevole del risparmiatore e, al contempo, che il difetto d’informazione rappresenti un limite alla stipulazione del contratto.
Se l’obiettivo del legislatore è quello di impedire la stipulazione di un contratto in assenza di una specifica informazione, occorre individuare il rimedio che risponde a tale finalità; già in passato la dottrina aveva evidenziato che l’individuazione del tipo di sanzione per la culpa in contraendo non può essere affrontata se prima non si è deciso se sia fondata l’antica distinzione* tra regole di validità e regole di comportamento o di buona fede. Parte della dottrina ritiene che la natura e la funzione delle norme sulla validità inducano ad escludere che nel giudizio di validità possano interferire valutazioni di buona fede.
Il fondamento della distinzione si trova riassunto nel fatto che le regole di validità stabiliscono le condizioni alle quali  l’atto deve corrispondere per essere vincolante per entrambe le parti, mentre le regole di responsabilità sono dirette ad assicurare la correttezza e la moralità delle contrattazioni.
In linea con tale tesi, la contravvenzione alla buona fede obbliga al risarcimento del danno, ma non compromette  la validità dell’atto in quanto le regole di validità sono norme costruite sulla base di un carattere logico-formale: esse operano su di un piano riservato esclusivamente alla valutazione dell’ordinamento che in tal modo esercita, in via diretta e immediata, una funzione di garanzia della certezza.
In sostanza, le regole di validità sono connotate da una formalizzazione, mentre le regole di comportamento – in quanto hanno un contenuto non formalizzabile – fanno venir meno questa connotazione.
Proprio di recente la giurisprudenza ha rimesso in forte discussione questa distinzione; i giudici di legittimità, pure dimostrando una timida apertura verso una lettura evolutiva della predetta distinzione, preferiscono non spingersi oltre, lasciando aperta la questione; ciò si evince dall’affermazione secondo cui: “ove si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell’intermediario sia idonea ad influire sul consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo sostenere che questo consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso non determinano la nullità del contratto, bensì solo la sua annullabilità qualora ricorrano le condizioni(errore, violenza, dolo) previste dagli artt. 1427  ss c.c.”.
Nella disciplina in esame è indubbio che l’informazione sia funzionale a favorire la consapevolezza del risparmiatore; si pensi alla reticenza del professionista in ordine all’elevata rischiosità di un prodotto e/o servizio finanziario che, potendo compromettere integralmente il capitale investito, non sarebbe stato acquistato da un risparmiatore avvertito; si può ipotizzare, dunque, che l’inganno venga a perpetrarsi proprio attraverso la reticenza che ricorre anche tutte le volte in cui l’intermediario si astiene dal fornire informazioni adeguate al profilo del cliente e, quindi, consapevolmente si limita il suo dovere di informazione, atteggiandosi a soggetto che volutamente non dice ciò che dovrebbe. È ovvio che l’intenzionalità implica la piena consapevolezza della situazione in quanto non può escludersi che l’intermediario abbia omesso di informare l’investitore per mera negligenza. In questo caso l’omissione non comporta dolo anche quando induce il risparmiatore in errore facendolo aderire alla contrattazione; non può escludersi che in questa ipotesi possa trovare applicazione la disciplina dell’errore o il rimedio risarcitorio per aver il risparmiatore stipulato il contratto a condizioni diverse da quelle che sarebbero state altrimenti pattuite.
Già in passato la giurisprudenza aveva sottolineato che la reticenza di uno dei contraenti può integrare gli estremi di un comportamento doloso idoneo a viziare la volontà della controparte; nell’intermediazione finanziaria l’obbligo precontrattuale di informazione riveste carattere essenziale per l’emissione di un consenso consapevole, quindi possiamo concludere dicendo che la reticenza di circostanze essenziali è idonea ad invalidare il contratto.
Il dovere di informazione non ha riguardo solo alle condizioni di validità del contratto espressamente menzionate nell’art. 1338 c.c., ma finisce per comprendere tutte le circostanze rilevanti ai fini della sua conclusione.
Anche la giurisprudenza di legittimità ha ribadito che il dolo quale vizio di annullamento del contratto non deve necessariamente consistere nell’inganno posto  in essere con una condotta di raggiro o attraverso la comunicazione di notizie false, ma può ravvisarsi anche quando siano state taciute da uno dei contraenti all’altro, in violazione del principio di buona fede, fatti e circostanze decisive, la cui conoscenza avrebbe indotto l’altra parte a non prestare il proprio consenso. La reticenza, dunque, in presenza di specifici obblighi legali di informazione e di specifiche indicazioni relative al loro esatto adempimento è idonea ad esprimere un comportamento omissivo idoneo a configurare il dolo negoziale.

  • L’annullamento del contratto per errore.

 

Per sanzionare la ricorrenza di un errore essenziale degli investitori è stato usato anche il rimedio dell’annullamento del contratto.
Si tratta di un orientamento che ha trovato conferme in tutte quelle pronunce che hanno annullato per errore il contratto sul presupposto che detto contratto sia stato stipulato con modalità che di fatto non hanno consentito all’investitore di comprenderne le caratteristiche salienti e quindi di assumersi il rischio. Per i giudici del Tribunale di Taranto può parlarsi, in tal caso, di vizio di volontà, essendo l’attrice incorsa in errore essenziale e riconoscibile in ordine alla natura dell’operazione finanziaria posta in essere.
Il ricorso al rimedio invalidante, sul presupposto che il consenso dell’investitore sia inficiato da una sua errata rappresentazione della realtà, richiede che se ne accerti l’essenzialità, vale a dire che l’interprete escluda che l’errore rientri in quell’area di valutazioni difettose e di imprevidenze che ne costituisce un dato ineliminabile nello svolgimento delle attività inerenti alla contrattazione ed al mercato.

  • Gli approcci manutentivi

 

L’approccio di tipo manutentivo tende a salvaguardare l’operazione giuridica, conservando la validità dell’accordo, e a riequilibrare eventualmente l’operazione economica attraverso la responsabilità e il risarcimento.
In questa prospettiva, le regole di responsabilità hanno la meglio sulle regole di validità; si osserva che colpendo con la nullità la violazione dei doveri precontrattuali di informazione, si scavalca un principio che rappresenta un punto fermo nella teoria generale del contratto, vale a dire la distinzione tra regole di validità e regole di comportamento/responsabilità.
Secondo l’opinione delle Sezioni Unite, l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell’art.1418 c.c. è più ampia in quanto vi sono ricomprese anche le norme che direttamente o indirettamente vietano la stipulazione stessa del contratto.
Tuttavia, il legislatore si è astenuto dall’estendere la previsione di nullità alla violazione delle regole di comportamento contrattuale e precontrattuale. Dunque, la tutela del risparmiatore è assicurata dalla previsione di rimedi alternativi: quello risarcitorio o quello risolutorio.
L’art. 67-septies cod. cons. Prevede la nullità del contratto là dove il fornitore violi gli obblighi di informativa precontrattuale, alterando la rappresentazione delle caratteristiche del diritto di recesso del risparmiatore-consumatore; la disposizione, dunque, collega espressamente la nullità del contratto alla violazione di un obbligo di informazione precontrattuale.
Un’altra ipotesi di nullità del contratto, strettamente connessa alla violazione di un obbligo di informazione precontrattuale si riscontra all’art. 52 cod. cons.; il legislatore ha infatti stabilito che, nel caso di contratto concluso a distanza tramite comunicazioni telefoniche, l’identità del professionista e lo scopo commerciale della telefonata devono essere dichiarati in modo inequivocabile all’inizio della conversazione con il consumatore, a pena di nullità del contratto. In questa prospettiva, nelle clausole vessatorie dei contratti dei consumatori, il consenso c’è, ma, viziato dalla disinformazione che ho prodotto significativo squilibrio, è nullo.
La dottrina, quindi, conclude che nel sistema opera il principio per cui un consenso non consapevolmente e liberamente formato giustifica la nullità relativa del contratto.

  • Omessa informazione ed inadempimento del contratto.

 

Un altro orientamento giurisprudenziale applica alle violazioni delle regole di informazione i principi generali in tema di inadempimento. Per i giudici di legittimità, le conseguenze per la violazione dei doveri di informazione dell’intermediario – riguardanti la fase successiva alla stipulazione del contratto di intermediazione, assumono i connotati di un vero e proprio inadempimento contrattuale; ne consegue che l’eventuale violazione dei doveri, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza dei principi generali sull’inadempimento contrattuale, può condurre anche alla risoluzione del contratto di intermediazione finanziaria.
In questa prospettiva il giudice, nell’esaminare i comportamenti tenuti dagli intermediari nelle singole fattispecie dovrà valutare l’importanza dell’inadempimento allegato dall’investitore, sia ai fini della condanna al risarcimento dei danni, sia ai fine della eventuale risoluzione del contratto.
L’inadempimento dell’intermediario, quindi, costituisce vizio funzionale del contratto quadro stipulato a monte e non vizio generico del contratto d’acquisto del singolo prodotto finanziario concluso a valle.
Quando le violazioni commesse risulteranno di gravità tale da compromettere l’equilibrio del rapporto negoziale, l’intermediario sarà chiamato a risponderne.
Resta tuttavia da comprendere quale sia l’inadempimento idoneo – per la sua gravità – a determinare la risoluzione del contratto. C’è da dire però che, in linea generale, è abbastanza evidente come, nella materia in esame, non sia possibile stabilire ex ante quali siano le ipotesi utili a giustificare la risoluzione del contratto attesa la peculiarità di ciascuna specifica operazione; occorrerà, pertanto, che il giudice verifiche di volta in volta la gravità della violazione considerando la peculiarità della contrattazione e la tipologia dell’interlocutore dell’intermediario. In sostanza, nella disciplina dell’intermediazione finanziaria l’importanza dell’inadempimento deve giudicarsi tenendo presente le caratteristiche del caso concreto; solo dopo aver verificato ciò che costituisce adempimento all’interno del concreto assetto di interessi previsto dal contratto potrà stabilirsi la gravità dell’inadempimento.

 

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