Martin Heidegger vita opere biografia riassunto

 

 

 

Martin Heidegger vita opere biografia riassunto

 

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Martin Heidegger:

 

vita:
Martin Heidegger (1889-1976) studia filosofia “classica” presso l'Università di Friburgo, ma l’impronta decisiva per la sua formazione gli viene data dal suo maestro, E. Husserl, dal quale attinge il metodo fenomenoligico e con il quale imposterà la sua opera maggiore “Essere e tempo” (dedicata allo stesso Husserl), che lo classificherà come filosofo dell’esistenza.
Intorno al 1930 l’indagine di Heidegger subisce una svolta decisiva: non riguarderà più l’analisi esistenziale, tesa alla ricerca dell’essere; bensì si trasforma in una ricerca che riconosce all’essere stesso l’iniziativa dello svelamento dell’essere.
La seconda fase del suo pensiero è caratterizzata dalla volontà di sfondare le categorie della metafisica occidentale e trovare una nuova dimensione del pensiero.
Afferma Heidegger “Filosofia e poesia devono incontrarsi”.
Questa seconda fase si esprime con opere come “Che cos’è la metafisica?” e “Lettera sull’umanesimo”.
Nel 1933 (anno dell’ascesa al potere di Hitler) Heidegger diventa rettore dell’università di Friburgo, ciò implica una più o meno implicita adesione al regime, che dopo la fine della guerra lo porterà ad allontanarsi dal mondo accademico.

Il Pensiero Filosofico:
Il pensiero filosofico di Heidegger si suddivide in due fasi segnate da una netta svolta (il kehre), che mantiene però una continuità di fondo legata all’essere.
In “Essere e Tempo” il problema dell’essere viene affrontato a partire dall’esistenza umana.
Tra gli enti, le realtà che sono, l’uomo (il dasein o l’esserci) è l’unico ente in relazione con l’essere e aperto all’essere: quindi la ricerca filosofica del senso dell’essere deve passare necessariamente attraverso un’interrogazione dell’esistenza umana.

Dasein è un termine composto: da = lì
sein = essere

L’uomo è sempre collocato in una situazione che non ha scelto, ma è comunque un ente aperto all’essere: l’uomo può scegliere che cosa diventare, “non come il fiore che rimarrà sempre fiore”. 

“Essere e Tempo” rimane però un’opera incompleta perché cercare il senso dell’essere attraverso l’esserci si rivela impraticabile. Questo percorso rappresenta ciò che Heidegger definisce analitica esistenziale, ossia un’analisi dell’esistenza umana e un’ontologia esistenziale: attraverso l’esistenza umana si ricerca il senso dell’essere.
L’analitica esistenziale viene condotta attraverso un metodo fenomenoligico: si parte dall’esperienza concreta vissuta dal singolo, per cogliere delle strutture essenziali e costitutive dell’umanità in quanto tale. Il punto di arrivo di Heidegger non è l’uomo singolo, ma è l’uomo in quanto tale.

La differenza ontologica:
Vi è una differenza sostanziale tra enti che manifestano l’essere, ma non sono l’essere, e l’essere stesso. L’essere è quello sfondo intelligibile che si nasconde dietro gli enti.
L’essere non è qualcosa altrimenti verrebbe ridotto ad ente; l’essere è rappresentato al niente, ovvero non-ente, nessun ente.
Aver dimenticato la differenza ontologica è la caratteristica della metafisica e della filosofia occidentale. Heidegger si propone di superare la metafisica occidentale, accusandola di aver dimenticato l’essere a favore degli enti, essendo essi qualcosa di ben definito che l’uomo può gestire completamente. L’essere è invece oscuro e non dominabile.
Per esempio, Dio è stato ridotto dalla cultura occidentale al primo anello della catena degli enti, infatti cercando di ridurlo alle nostre categorie (orthotes) è stato trasformato nel primo ente (ontoteologia).

Aletheia: verità come disvelamento (non è mai una chiara manifestazione, ma è un gioco di luce e
ombra). L’essere non si svela completamente, ma in parte rimane oscuro, e questa
caratteristica deve essere mantenuta per evitare che l’essere si riduca ad ente.
Orthotes: verità come corrispondenza ad uno schema razionale.

La filosofia occidentale ha sempre cercato di “catturare” l’essere (begriffen à begriff), proprio perché essendo esso indominabile e sfuggevole, ha cercato di ridurlo a schemi razionali (à dionisiaco di Nietzsche).
Nella logica di aletheia l’uomo non cattura l’essere, ma lo lascia sussistere.

Le categorie dell’esistenza:
Heidegger, nella sua analisi delle strutture dell’esistenza, individua due categorie costitutive fondamentali: gli esistenziali (strutture fondamentali dell’esistenza stessa)
 


  • l’essere nel mondo
  • l’essere con altri                cura

L’essere nel mondo:
Il dasein è gettato nel mondo, che è una totalità di enti utilizzabili.
La critica a Husserl consiste nel fatto che, secondo Heidegger, il dasein non è pura soggettività distaccata, “il puro occhio del mondo”, ma esiste un rapporto di coinvolgimento più profondo con gli altri enti. L’uomo è gettato nell’esperienza e comprende il significato degli enti in base al loro utilizzo pratico.  Il coglie il senso degli enti nella misura in cui li utilizza e li inserisce nel suo progetto.
n.b. Il dasein manifesta il senso delle cose, essendo aperto all’essere, ma non è ciò che dà senso ad esse.

L’essere con gli altri:
Il mondo è la totalità dei significati, in quanto gli enti prendono significato nella misura in cui utilizzati. Il mondo della totalità di significati è un mondo condiviso originariamente con altri. Ogni dasein è in relazione con altri dasein, che hanno diverse aperture all’essere e diversi progetti nel mondo. Il problema consiste nel far convivere pacificamente le diverse aperture dei dasein rispetto all’essere.

La cura:
L’insieme degli esistenziali costituisce la cura, che è insieme un rapporto teoretico e pratico.
Il dasein si prende cura degli enti e ha cura degli altri dasein.
La cura è insieme comprensione degli enti alla luce dell’essere (dimensione teoretica) e progetto (dimensione pratica).
La cura in sostanza è il metodo che il dasein utilizza per entrare in relazione con gli enti o con gli altri dasein, e ciò avviene progettando la propria esistenza. L’uomo può progettare la sua esistenza perché è aperto all’essere e ad infinite possibilità, ma progettare significa comprendere il senso d’essere degli enti. La cura è la cifra sintetica dell’esistenza, ciò che consente al dasein di rapportarsi con ciò che lo circonda.

La cura nasce sempre a partire da una determinata situazione emotiva o tonalità affettiva, perché l’uomo è sempre emotivamente ad affettivamente influenzato. La sua capacità di entrare in relazione con gli enti non è neutrale e l’imparzialità è un’illusione.
L’uomo è gettato nel mondo in una situazione sempre emotiva, che limita la sua prospettiva, ma che gli dà colore. Questo aspetto fa parte dell’ambito esistenzialista che considera l’uomo come un essere concreto carico di affetti.

 

La cura può essere vissuta in modo autentico o in autentico.
L’esistenza è sottoposta ad una duplice scelta:

                 autenticità: il dasein si realizza autenticamente come dasein
 



                 inautenticità: è una forma degradata di autenticità

La seconda scelta è meno originaria rispetto la prima. Heidegger non vuole esprimere nessun giudizio morale (la prima è una buona scelta mentre la seconda no), ma vuole sottolineare come la prima possa realizzare il dasein, mentre la seconda no.

L’esistenza inautentica:
Heidegger descrive l’esistenza inautentica come un’esperienza anonima (quella di tutti e di nessuno), impersonale, conformistica, appiattita sulla dimensione del “si”, ovvero quella dove il “si dice” o “il si fa” domina incontrastato. In essa, tutto è livellato, convenzionale, mediocre, normale.
Nell’esistenza inautentica il dasein non è un individuo unico ed irripetibile, è tutti e nessuno, perché è ciò che sono tutti.
Il dasein decade a livello delle cose; questo degrado è definito deiezione: il dasein si riduce ad uno dei tanti enti presenti, in quanto si spegne la sua apertura all’essere.
Il linguaggio, che per sua natura è la manifestazione dell’essere, diventa, a questo livello, chiacchiera, un puro vociare, dominato dalla curiosità, non per l’essere delle cose ma per la loro apparenza visibile, e dall’equivoco, perché tutto è dato per scontato.

L’esistenza autentica:
L’esistenza autentica coincide con l’essere per la morte, con la decisione anticipatrice della morte.
Quando Heidegger parla di “morte” non intende l’evento conclusivo dell’esistenza, ma intende il morire come mortalità, per sottolineare che l’esistenza umana è finita, che l’essere è esposto alla possibilità del morire.
Heidegger, infatti, definisce la morte come possibilità autentica e autentica possibilità.
Innanzitutto la morte è autentica possibilità perché il dasein vive la propria morte sempre e solo come possibilità, mai come realtà. Infatti, nel momento in cui la morte diventa un fatto reale il dasein non esiste più, si annulla e non la può vivere. Di conseguenza, la morte incide come una possibilità a cui l’esistenza è sospesa.
La morte è però anche la possibilità più autentica del dasein.
Mentre tutte le altre possibilità che si dispiegano al dasein sono possibilità di essere in un modo piuttosto che in un altro, la morte è unica. La morte è l’unica possibilità che sicuramente si realizzerà, è una possibilità intrascendibile, assolutamente certa.
Non riguarda un certo modo di essere, ma riguarda il “ci” dell’esserci, cioè il fatto che il dasein esista oppure no. La possibilità della morte getta una luce negativa su tutte le altre possibilità, le nullifica in quanto sono tutte legate a quest’ultima.

Anticipare la morte non vuol dire suicidarsi ma vivere autenticamente tutte le possibilità dell’esistenza solo come possibilità, nella consapevolezza che tutte queste sono agganciate alla possibilità autentica più estrema che è la morte, la morte.

 
L’angoscia:
Per l’essere che vive per la morte il sentimento emotivo caratteristico è l’angoscia.
L’angoscia è un sentimento metafisico, molto diverso dalla paura, non ha infatti come oggetto qualcosa di determinato ma è generato da quell’abisso oscuro che lascia, nel dasein, la condizione di finitezza e fragilità dell’esistenza.
Nell’esistenza inautentica la morte viene come appiattita del suo valore e vista come un fatto fra tanti altri, che non tocca direttamente la mia esistenza ma è la morte degli altri (“si muore”).
Il dasein ha paura della morte perciò cerca di non parlarne. La paura è la “versione inautentica” dell’angoscia.

Tempo e temporalità:
Esercitare in modo autentico la cura significa anticipare la propria morte, avere coscienza della propria finitezza.
                                               Coincide con l’essere per la morte
             Cura
ll                              Temporalità
progetto
ll
comprensione degli
enti alla luce
dell’essere

Attraverso il concetto di cura si esplicita il concetto di temporalità, che è il senso ontologico della cura. Infatti, la cura autentica è temporalità e la temporalità è il senso d’essere della cura.
Vivere autenticamente la propria cura significa cogliere e vivere la propria esistenza come un tutto, cioè in ogni sua dimensione senza appiattirla al solo presente.
La vita si dispiega in tutte le direzioni, vivendo solo il presente il dasein si riduce a un ente del mondo (deiezione).

Il termine temporalità implica differenti sfumature di possibilità.
Heidegger, sull’esempio di Bergson che distinse il tempo della scienza dal tempo della coscienza,  introduce una distinzione tra tempo e temporalità.

Il tempo è misurabile, ordinabile, ontico (riguarda gli enti), è il tempo dell’orologio.
È concepito come una serie di “ora”:
passato  a non più ora
presente a ora
futuro     a    non ancora ora
Le tre dimensioni sono come tre punti distinti, sono tre dimensioni estrinseche.
Il presente prevale, come ora. Gli enti sono chiusi in se stessi.

La temporalità coincide con la temporalità del dasein. È temporalità esistenziale.
Nella dimensione della temporalità:
futro       a advenire
presente  a essere presente
passato   a    essere stato
La temporalità si orienta a partire dal futuro, perché è la temporalità del dasein, che è un ente progettante e quindi teso verso il futuro (advenire).

 

Nella temporalità il passato non è ciò che non è più, ma si ritrova nel presente così come il futuro.
Pertanto le tre dimensioni della temporalità si coappartengono, non sono l’una senza le altre, e sono legate grazie alla progettualità, ovvero grazie all’apertura all’essere.
Heidegger definisce tali dimensioni come estasi temporali perché “estasi” letteralmente significa “ciò che sta al di fuori”. Infatti, le dimensioni che costituiscono la temporalità estatica hanno senso solo in quanto sono fuori da sé, e sono in relazione alle altre.

Il senso dell’essere:
Temporalità = esistenza autentica = essere per la morte

Il senso dell’esistenza autentica, che coincide con l’essere per la morte, è lo scorrere della temporalità: il tempo, il continuo scorrere, che alla luce dell’essere per la morte va a declinare e a perdersi nel nulla.
Quindi, in ultima analisi, il senso dell’essere si rovescia nel nulla (ottica nichilista).

La svolta: “il secondo Heidegger”:
“Essere e Tempo” è stato interrotto per il “venir meno del linguaggio”.
Heidegger si rende conto che questa ricerca dell’essere a partire dal dasein è impraticabile, poiché questi non fa che nullificare il senso dell’esistenza.
Ma soprattutto percepisce che qualsiasi ricerca e approfondimento sul rapporto essere-tempo (quindi sul senso dell’essere) sarebbe stata gravata da un limite fortissimo.
Infatti, avrebbe dovuto usare le categorie, i termini e il linguaggio della metafisica occidentale, che lui avversa, in quanto ha dimenticato la differenza ontologica e ha ridotto l’essere a un ente manipolabile.
Cerca così una nuova strada di pensiero, che recuperi il senso originario della verità, che sveli la verità come aletheia, e che mantenga il fondo di oscurità in cui l’essere deve essere preservato.

 

Elabora così un pensiero non concettuale, che non si modella su schemi fissi e rigidi: il pensiero rammemorante o poetante.
Con questo, Heidegger si propone di riscoprire la ricchezza di senso dell’essere.
Il linguaggio poetico diventa la “casa” dell’essere, l’ambito originario in cui l’essere si manifesta.
Nella poesia è l’essere che parla.

Il pensiero rammemorante:
Rammemorante a “memoria” = ricordo di ciò che è assente

Il pensiero rammemorante fa memoria dell’essere e non tenta di ridurlo ad un ente presente, ma lo lascia sussistere nella sua assenza, oscurità e differenza rispetto gli enti.
Attraverso un pensiero concettuale l’uomo pretende di diventare il padrone dell’essere (che diventa ente dominabile). Attraverso il pensiero rammemorante, invece, il dasein è il pastore dell’essere, il suo custode in quanto lascia che questo si manifesti senza alcuna pretesa di dominio.
Dunque Heidegger cambia radicalmente il suo pensiero: non è più l’uomo che manifesta il senso dell’essere, ma è l’essere stesso che si rivela all’uomo.

Il pensiero poetante:
Heidegger individua nella poesia, e nel suo linguaggio di immagini e suggestioni, la forma più originaria della manifestazione dell’essere.
I versi della poesia hanno una capacità infinitamente superiore di cogliere l’essere rispetto alla tecnica:
il linguaggio poetico non è la parola dell’uomo sull’essere ma è quella dell’essere sull’uomo stesso.

L’uomo deve abbandonarsi all’essere lasciare che questo si manifesti liberamente senza pretendere di racchiuderlo in schemi totalizzanti.
L’essere viene concepito come un dono: l’essere non “è” ma si “da”.
Propriamente, però non è l’essere a donarsi.
L’essere si dona negli enti: si manifesta in essi e allo stesso tempo si sottrae in quanto non si esaurisce in nessun ente.
La logica dell’abbandono è pertanto profondamente diversa dalla logica della metafisica occidentale.

uomo e essere:
L’essere non è il fondamento delle cose, poiché il fondamento è sempre un ente, e l’essere non lo è.
Heidegger riscopre il rapporto tra uomo e natura come insieme di significati che non si aprono direttamente dall’uomo.
L’uomo accede agli enti, li scopre e li comprende solo in quanto si trova già da sempre inserito in un’originaria apertura di significati, il “mondo”, che non risale direttamente dall’uomo, ma dipende dall’essere stesso, che si rivela manifestandosi attraverso gli enti.
Il mondo è inteso da Heidegger quasi come il grembo materno, ricco di sfondi oscuri, scopribili ma non dominabili;  mentre la metafisica l’ha ridotta a materiale neutro, plasmabile, dove ha introdotto i propri significati.

La fine della metafisica:
Heidegger cerca di mettere in evidenza i limiti della tecnica in quanto dominio degli enti.
Tutti gli squilibri, i problemi che la tecnica ha portato sono la conseguenza della crisi della ragione occidentale, come razionalità calcolante che ha costruito un mondo misurabile, che non si addice alla manifestazione dell’essere.
Per Heidegger era inevitabile che il pensiero occidentale andasse verso il declino, portando avanti contraddizioni e incoerenze, che nonostante tutto hanno aperto la via al rinnovamento.

Articolo di giornale:
L’impianto e la tecnica:
La metafisica Occidentale, che fa tutt’uno con la tecnica, ha ridotto l’essere a un impianto, ossia ad un oggetto funzionante, una struttura attraverso la quale è possibile dominare la natura stessa.
Ma nonostante lo abbia ridotto a ciò, si vede un “lampeggiare improvviso dell’essere” (uomo).

Vi sono tre opinioni sulla tecnica:

  • visione totalmente positiva
  • visione neutrale: il valore della tecnica dipende dalla capacità umana di governarla e orientarla in una direzione piuttosto che in un’altra; dipende dagli scopi.
  • visione totalmente negativa

Heidegger non condivide nessuna delle tre posizioni.
Critica le due posizione estremiste in un senso e nell’altro, ma anche quella neutrale poiché vede la tecnica come uno strumento e non coglie la sua essenza che sta nel fatto di manifestare l’essere (anche se in modo imperfetto).
La logica dell’impianto è una sistematica riduzione delle cose a risorse.
Chiarire il significato degli enti in funzione della propria funzione occulta l’essere.
L’uomo deve dare il proprio contributo aprendo nuove strade per la manifestazione dell’essere.
Anche nell’orizzonte della tecnica, che riduce l’essere ad impianto può lampeggiare improvvisamente e inaspettatamente il senso dell’essere, può diventare evidente ciò che salva (Hölderlin).
n.b.: più volte nei sui scritti Heidegger fa riferimento all’essere come ciò che salva, facendo quindi un indiretto riferimento alla rivelazione cristiana (interpretazione religiosa del pensiero di Heidegger).

L’arte:
L’alternativa alla riduzione dell’essere a impianto, ossia l’alternativa alla tecnica può è essere rappresentata dall’arte (come la poesia) che è in grado di manifestare gli enti nel loro senso d’essere, secondo un’apertura ontologica e non ontica.
L’esempio può essere portato dal commento al quadro di Van Gogh, che rappresenta le scarpe di una contadina (“L’Origine dell’opera d’arte”).
Commentando il quadro, Heidegger fa capire come l’arte possa esprimere e manifestare il senso dell’essere: l’arte è la forma più autentica di pensiero rammemorante.
L’opera d’arte rivela ciò che sono realmente le scarpe: il mezzo attraverso cui si rivela un infinita apertura di significati che rimandano al significato oscuro dell’essere.

 

Fonte: http://digilander.libero.it/alemar85/Autori%20filo/Martin%20Heidegger.doc
Autore non indicato nel documento di origine del testo

 

Il pensiero filosofico di Martin Heidegger in “Essere e tempo”

1.
La meditazione filosofica di Martin Heidegger, tedesco del Baden, nella Foresta Nera, attraversa l’epoca delle Guerre mondiali e quindi la duplice tragedia della Germania, essendo nato nel 1889 e morto nel 1976.
Dopo essere divenuto libero docente presso l'università di Friburgo, divenne assistente di Husserl, il fondatore della corrente filosofica che prende il nome di fenomenologia. Prese allora il via un periodo di grande intesa tra i due filosofi. A Friburgo, Heidegger tenne seminari e corsi sulla filosofia classica e medievale. Lascia Friburgo per andare ad occupare la cattedra di filosofia dell'università di Marburgo. Qui tiene lezioni su Kant, Aristotele, Platone e Cartesio
“Essere e Tempo” fu pubblicato nel 1927.
Nel 1928 fu nominato successore di Husserl alla cattedra di Friburgo.
Nel 1933 Heidegger fu Rettore dell’università di Friburgo e dapprima sostenne il nuovo corso politico della Germania. L’anno dopo, dimessosi dall’incarico di rettore per incompatibilità con il nuovo regime, fu sospettato dalle autorità Naziste e tenuto sotto sorveglianza e censura.
Nel 1945 invece fu il Governo Militare Americano di occupazione a impedirgli di continuare ad insegnare nell’Università e persino di pubblicare.
Egli continuò tuttavia a insegnare “privatamente” all’Università negli anni successivi, pubblicando i suoi corsi e influenzando profondamente tutta la cultura europea e mondiale.
Morì nel 1967 nella cittadina natale, Messkirch nella Foresta Nera.
2.
La filosofia di Heidegger raccoglie indubbiamente alcune domande essenziali legate al clima culturale dell’Europa intorno alla Prima guerra mondiale.
Da un lato si poneva l’esigenza di affrontare il problema della scienza e della tecnica, che incidevano ormai in tutti i sensi nei costumi e nella vita delle popolazioni, e che (1927) avevano mostrato anche la loro terribile potenza distruttiva nel conflitto mondiale.
Si trattava pure, perciò, di impegnarsi nella ricerca di significati più originari, che rivelassero all’uomo la sua dimensione autentica rispetto alla civiltà meccanica.
C’era inoltre il problema di comprendere l’uomo alla luce della sua storicità e temporalità, come categorie più vere della vita, rispetto all’astrattezza di una concezione che non tenga conto dell’esperienza concreta. A questo riguardo era affiorata nella cultura europea intorno alla Guerra mondiale una Kierkegaard Renaissance, cioè una ripresa dell’interesse per il filosofo danese che aveva concepito l’esperienza umana come un’esperienza nella categoria temporale della possibilità.

3.
Heidegger ripropone la domanda fondamentale della filosofia, cioè la domanda sull’essere. La domanda sull’essere si configura così: che senso ha “essere”? Questo significa tentare la comprensione della realtà nel modo più originario e radicale, a partire cioè non da determinate regioni dell’essere già disegnate (come fanno le scienze specifiche, es. la biologia il cui oggetto è il mondo organico), ma dal fondamento stesso d’ogni realtà.
4.
Egli nota come per l'intera ontologia tradizionale del passato l'essere è qualcosa che si dà per scontato che esista, al di là dell'apparenza del mondo, per cui l'essere è una presenza che mai si mostra ma che si intende fondare come qualcosa di necessario in modo da impedire una caduta nel niente degli enti, i quali, secondo una distinzione platonica, sono corruttibili nel mondo fisico mentre sono incorruttibili (una loro parte essenziale) in un mondo metafisico al di là dell'apparenza.
Tutti parliamo comunemente di “esseri”, di “enti”. Sappiamo che in questo modo possiamo riferirci a qualsiasi realtà. Ma cosa vuol dire, alla fine, questo “essere” evocato dalla parola “ente” e che serve a designare qualsiasi cosa? Cos’è precisamente l’essere dell’ente?
5.
Fra tutti gli enti del mondo, è l’uomo l’ente che pone la domanda sull’essere. Heidegger dice che l’uomo pone la domanda ontologica. L’uomo possiede già infatti una comprensione implicita dell’essere dell’ente, e proprio per questo pone la domanda. Ognuno di noi ha già, fin da sempre, una comprensione “media e vaga” dell’ente nel suo essere.
Dunque per porre la domanda sull’essere dell’ente, conviene interrogare, fra gli innumerevoli enti che ci sono, proprio quell’ente che pone la domanda.
6.
Va dunque precisato che:
l’essere è sempre l’essere di un ente. Cercare l’essere vuol dire indagare comunque un ente.
l’ente che pone la domanda sull’essere è l’uomo, poiché l’uomo è già fin dall’inizio aperto all’essere.
Si tratta allora di interrogare l’ente interrogante (cioè l’uomo).
6.
Ma cosa vuol dire interrogare l’ente che interroga (cioè l’uomo)?         
Le varie scienze (antropologia, psicologia, biologia ecc.) considerano l’uomo come un ente tra gli altri. Esse perciò considerano l’uomo (dice Heidegger) in senso ontico, non ontologico. Invece la filosofia considera l’uomo come l’ente ontologico, cioè quello che pone la domanda sull’essere.
7.
Da questo punto di vista, l’uomo non è un che cosa, ma un chi. Cioè: una esistenza.
8.
Cosa vuol dire una “esistenza”? Esistenza deriva da ex-sistere, sporger fuori. L’uomo è nel mondo eppure non è nel mondo come la parte di un tutto, come l’acqua dentro un bicchiere per esempio. L’uomo è nel mondo come apertura ad esso.
Cioè come perenne possibilità.
Esistere significa infatti per Heidegger "ex-sistere", ovvero non essere più "un permanere", ma costantemente andare oltre questo permanere, verso la possibilità aperta, verso la novità degli accadimenti che permettono all'esistenza di mutare nel corso del tempo (esistere è divenire). Esistere, per l'uomo, significa quindi tendere sempre verso una nuova sistemazione della realtà.
L'esistenza è una possibilità di rapporti che l'uomo può determinare, è trascendersi, progettarsi.
Si noti invece come l'essere immutabile della metafisica classica sia invece un in-sistere, ovvero un permanere entro la propria condizione, senza possibilità di mutamento.
9.
Infatti, fra tutti gli enti, l’ente-uomo ha una cosa particolare. Mentre noi pensiamo alle “cose” che incontriamo come a delle presenze oggettive, l’uomo non è mai una semplice presenza. Anzi. L’indagine attenta mostra che l’uomo è temporalità. Perché questo?
6.
L’uomo è nel mondo nella dimensione del progettare. Questo termine non vuol dire che l’uomo necessariamente calcola, programma, prevede. Vuol dire che l’uomo è sempre in azione sul mondo, o meglio che incontra il mondo nella situazione in cui egli si trova, e che è sempre una situazione interessata, influente e condizionante. Non esiste mai per l’uomo un mondo “neutrale” oppure una propria neutralità al mondo. L’uomo è Dasein, esser-ci.
7.
Esserci. L'analitica dell'esserci non è studiare il soggetto invece dell'oggetto, poiché l'esserci è costitutivamente apertura al mondo e comprensione di esso. L'esserci è essere-nel-mondo, rapporto con esso, e l'esserci è la totalità del rapporto, non solo un polo di essa.
8.
Il termine tedesco Da-sein indica proprio il fatto che l’uomo e-siste solo e sempre nel senso di “essere aperto” o anche di “essere l’apertura”. Apertura a che cosa? Alla totalità del possibile (Welt, cioè “mondo” nel senso di totalità del possibile).
8.
Tuttavia il Da-sein è apertura entro una (determinata) situazione.
“Situazione” vuol dire che l’uomo è situato, cioè immesso in un certo contesto particolare in cui si trova ad agire. Ma questo agire è progetto, perché in realtà l’uomo, in ogni situazione, incontra sempre un “mondo”, cioè una possibilità a cui è aperto.
9.
L’uomo è progetto, nel significato di pro-gettare, sporgersi fuori da.
Concepito come progetto nel senso di interesse condizionante gli oggetti che incontra, l’uomo non ha a che fare con “cose” che innanzitutto sono così come sono, nella loro indipendenza e oggettività, ma con mezzi o strumenti del proprio essere proiettato, del proprio sporgersi in avanti e oltre.
10.
Il Mondo a cui il Da-sein si apre non è la somma o l’insieme delle cose semplicemente presenti in esso, o di eventi isolati nello spazio e nel tempo, secondo l’immagine “naturale” delle scienze. La considerazione oggettiva delle cose, cioè l’essere inteso come semplice presenza, proprio delle scienze, consiste in una messa tra parentesi delle caratteristiche del progetto, cioè dell’interesse, dell’emotività ecc.
11.
Dunque l’uomo è situato e insieme aperto nel progetto: questa condizione viene definita da Heidegger con il termine cura. L’uomo ha sempre a che fare con le cose e la “cura” è la situazione di comprensione e di affettività che caratterizza il suo aver a che fare con le cose.
12.
Ma in realtà ciò con cui ha che fare il Da-sein è sempre designato come significatività, perché ha sempre a che fare con cose “a sua disposizione”, con cose cioè che “servono” a qualcosa, come la matita per disegnare o il martello per battere.
Questa condizione dell’uomo, che Heidegger definisce nel progetto situato e nella cura, mette in luce il fatto che
la sua essenza (ciò che l’uomo è) è l’esistenza.
Infatti l’essenza di un ente è data dalla sua definizione. Ma non si può dare, dell’uomo, altra definizione che quella di essere sempre in una situazione, nella dimensione del progetto.
13.
Di qui la ripresa della categoria della possibilità, come modo di essere essenziale dell’uomo. L’uomo è poter-essere. Ma è poter-essere, in rapporto non a qualche compiutezza già assegnatagli (che si tratta per lui di raggiungere o non raggiungere). E’ radicalmente poter-essere, nel senso che il suo essere consiste proprio nel poter-essere.
14.
Poiché l’uomo è ex-sistenza, i modi in cui è aperto al mondo saranno dunque modi esistenziali.
15.
Essi si distinguono in situazione emotiva, comprensione e discorso, che articola i primi due.
16.
L’uomo ha una certa tonalità emotivo-affettiva e comprende. Ebbene, il suo comprendere corrisponde al poter-essere, che è l’apertura in cui l’uomo sempre si trova. L’uomo è originariamente aperto e tale apertura è apertura all’essere. E la tonalità affettiva significa la stessa cosa, l’essere aperto e quindi il trovarsi sempre situato in una particolare condizione emotiva. Per Heidegger anche gli stati emotivi sono il modo di rivelarsi dell’essere. “Situato” e “aperto” coincidono perché esprimono il poter-essere, che non è una libertà originaria indeterminata, ma il trovarsi sempre in una situazione nella forma del progetto.
17.
Heidegger dice anche che l’uomo è gettato nel mondo. Esso è rivelato dalla situazione emotiva e indica insieme la comprensione e il progetto.
Il progetto, quindi, non è paragonabile all’escogitazione di un piano mentale, ma piuttosto alla possibilità non dispiegata davanti ma implicita in una condizione già da sempre data. L’uomo comprende non nel senso di intuire ciò che gli sta davanti come oggetto, ma a partire da una pre-comprensione implicita e originaria che orienta tutto il nostro sapere. Perciò l’uomo parte da una apertura che è la situazione in cui è gettato.
18.
La cura è l’essere del Da-sein umano, che insieme alla significatività del mondo ne svela anche la radicale finitezza esistenziale, cioè il suo essere ogni volta assegnato al mondo e dipendente da esso.In quanto gettato nel mondo, l’uomo è condizionato dalla situazione in cui viene a trovarsi. Perciò è comunque in quella condizione di inautenticità che Heidegger chiama deiezione.
19.
La deiezione (dal lat. deicere, gettar giù) è la condizione per l’uomo è sempre già nel mondo: in altre parole la sua libertà (poter-essere) è comunque situata, non indefinita come se l’uomo fosse libero a partire da una condizione assoluta. L’inautenticità di tale condizione corrisponde al fatto che si è immersi nei condizionamenti culturali del proprio ambiente, nelle opinioni comuni ecc. L’uomo è sempre un individuo nato in un certo luogo, tempo, stato sociale ecc. Perciò il suo poter-essere è compromesso dalla condizione di estraneità a se stesso.
18.
Il senso della cura è quello della temporalità. Non si tratta qui del tempo inteso volgarmente come una successione di istanti o una datazione di eventi, ma dell’unità estatica del passato, presente e futuro che si apre nel progetto. Estatica vuol dire “che si apre”, che trascende.
19.
Il problema dell’essere, visto attraverso il Da-sein cioè l’ente che pone la domanda sull’essere (domanda ontologica), conduce all’orizzonte del tempo.
Il pensiero greco ha compreso l’ente (in generale) come esser-presente, cioè come presenza, a partire dunque dal tempo presente. Tale comprensione si è cristallizzata e irrigidita nel tempo presente, oscurando la cooriginarietà di passato, presente e futuro e il legame tra essere e tempo. Questo sta all’origine della deiezione del Da-sein, che vive in un tempo in autentico, cioè caratterizzato dal si impersonale e dal mondo spersonalizzato della pubblica opinione, della civiltà di massa e dei mass-media.
20.
Nell’inautenticità della deiezione l’uomo comprende se stesso come io-cosificato tra le cose-oggetto, cioè come enti-presenti. L’io-cosificato è un io senza mondo, isolato come soggetto o coscienza caratterizzato dalla chiacchiera quotidiana.
21.
La civiltà della tecnica che domina il mondo contemporaneo è un'estremizzazione del pensiero metafisico classico, in cui vi è un soggetto (l'uomo) che intende dominare, con la sua volontà di potenza sulle cose, degli oggetti che sono altro da sé. L'essere degli enti si identifica allora con il ruolo e la funzione che vengono loro assegnati all'interno del sistema della tecnica.
22.
La tecnica moderna si configura invece come dominio dell'uomo sulle cose, l'uomo crede che l'essere delle cose sia soggetto al suo dominio, in realtà l'uomo non è il padrone dell'essere, l'uomo è tutt'al più il "pastore" dell'essere, ovvero il custode di quella dimensione che rende possibile agli enti di manifestarsi, custoditi nell'esistenza stessa dell'uomo, la quale si manifesta proprio entro l'orizzonte aperto dall'essere. L'essere sopravvive al tentativo di dominio della tecnica perché non è un ente concreto, l'essere è solamente la condizione in cui gli enti si manifestano, e la tecnica può solo occuparsi degli enti concreti (quindi non dell'essere).
23.
Ma in cosa consiste allora l’autenticità della sua condizione? Nella decisione anticipatrice della morte. Perché? La morte non è un fatto estraneo all’esistere, anzi! Essa è la possibilità, fra tutte le altre, più autentica, perché non consiste in una determinazione qualsiasi. La morte è quella possibilità che, accadendo, si annulla davvero e definitivamente come possibilità, e insieme annulla ogni altra possibilità. La morte è la possibilità dell’impossibilità di ogni possibilità, la possibilità dell’impossibilità dell’esistenza. Mentre ogni altra possibilità tende a determinarsi e riaprire la possibilità stessa, la morte no, nega tutte le possibilità: perciò la morte rende ogni progetto della vita, cioè ogni sforzo che facciamo di determinarci e definirci, puramente precario e provvisorio. Perciò la morte illumina il carattere di radicale possibilità dell’esistenza umana, prima e oltre qualsiasi nostra determinazione. La decisione anticipatrice della morte non è certo il suicidio, ma il progettarsi dell’esistenza in questa illuminazione.
22.
La morte è ciò che è proprio in maniera autentica di ciascuno. La decisione anticipatrice della morte apre tutte le altre possibilità in modo autentico, le rende veramente proprie di chi le sceglie e perciò libere.
23.
Per Heidegger (e qui vi si possono leggere forti analogie con Kierkegaard) l'angoscia è la paura che nasce dalla consapevolezza che con la morte tutto si annulla. L'angoscia che deriva quindi dalla consapevolezza della nostra finitezza, oltre ad essere uno stato emotivo indissolubilmente legato all'esistenza autentica è anche un sentimento positivo, necessario a dare significato autentico alla nostra vita (chi vive nell'esistenza inautentica tende invece a dimenticare la morte e ad allontanare l'angoscia).
24.
Heidegger afferma che la nostra vita può svolgersi entro un orizzonte autentico solamente se le nostre scelte sono rapportate alla nostra finitezza. Egli pone la "vita-per-la-morte" come concetto positivo: solo la consapevolezza della nostra finitezza è in grado di produrre quel significato e quell'attenzione per le cose del mondo che non potremmo avere se, perduti nell'eternità, avessimo la consapevolezza di potere goderne in eterno.

 

autore: Deo gratias

Fonte: http://www.istituto-santanna.it/Pages/LiceoScientifico/HEIDEGGER.doc

 

HEIDEGGER

Fu la prima grande figura dell'esistenzialismo contemporaneo. Venne influenzato da Husserl, al quale dedicò la sua opera Essere e Tempo. Fu prima professore, poi rettore nell'Università di Friburgo, ma per breve tempo perché successivamente si tenne lontano dal mondo universitario e condusse una vita appartata in seguito ad aver pronunciato nel 1933 il discorso di apertura dell'anno scolastico, nel quale trasparivano i suoi legami con il nazismo. Nel discorso diceva di essere contento che Hitler fosse stato eletto, però non si sa in realtà il legame che aveva con il regime, visto che dopo la guerra non prese più posizione quando venne intervistato su questo argomento.
La sua opera più importante è appunto Essere e Tempo, che è incompiuta: essa doveva essere completata con una terza sezione chiamata Tempo ed Essere.
A partire dagli anni '30, l'indagine di Heidegger vede una svolta. Egli si allontana dall'indagine esistenzialistica per la determinazione del senso dell'essere in generale.
Lo scopo della filosofia di Heidegger è la costituzione di un'ontologia che arrivi ad una determinazione completa del senso dell'essere. Egli parte dalla domanda: Che cos'è l'essere? Nella quale si possono distinguere 3 cose:
1) ciò che si domanda
2) ciò a cui è domandato
3) ciò che si trova domandando

Ciò che si domanda è l'essere stesso, ciò che si trova domandando è il senso dell'essere, mentre ciò a cui si domanda non può essere che un ente, visto che l'essere è sempre proprio di un ente. Il primo problema dell'ontologia è quello di determinare qual è l'ente che dev'essere interrogato. Heidegger spiega che questo ente è l'uomo stesso, il quale ha un primato ontologico sugli altri enti (ad esempio animali e piante), visto che è lui che viene interrogato, e il quale viene designato da Heidegger con il termine Esserci (o Dasein).
L'analisi del modo d'essere dell'Esserci è dunque essenziale, perché solo interrogandolo si può conoscere cos'è l'essere e trovarne il senso. Il modo d'essere dell'Esserci è l'esistenza e quindi il primo compito del filosofo sarà conoscere le caratteristiche dell'esistenza.
1. La prima caratteristica dell'esistenza è la possibilità di rapportarsi in qualche modo con l'essere;
2. La seconda caratteristica dell'esistenza consiste nella possibilità d'essere. l'esistenza non è una realtà fissa e predeterminata, ma un insieme di possibilità tra le quali l'uomo deve scegliere.
3. L'esistenza è quindi progetto. Mentre le cose sono ciò che sono, ossia delle semplici-presenze, l'uomo è ciò che "ha da essere", cioè ciò che lui progetta e sceglie di essere. L'esistenza va intesa nel senso etimologico del termine ex-sistere, cioè trascendere la realtà in vista della possibilità.
4. Ogni scelta che l'uomo deve fare lo porta a quella che Heidegger chiama comprensione, che può essere di due tipi:
- Esistentiva od ontica: che concerne l'esistenza concreta di ogni singolo uomo;
- Esistenziale od ontologica: che indaga teoricamente sulle strutture fondamentali dell'esistenza, sul senso dell'essere.
Poiché l'esistenza è sempre individuata e singola, cioè non è mai di un uomo in generale, ma sempre mia, tua, sua esistenza, è evidente che l'indagine di Heidegger si fonderà sulla comprensione ontica.
5. La comprensione dell'esistenza deve assumere come metodo quello fenomenologico, che ha come scopo quello di descrivere le strutture esistenziali in modo obbiettivo e imparziale, cioè ha il compito di descrivere le cose come si manifestano, senza aggiunte o alterazioni;
6. L'analisi esistenziale di Heidegger esamina l'uomo nella sua "quotidianità", ossia nelle situazioni in cui l'Esserci si trova "innanzitutto e per lo più".
L'essere-nel-mondo e l'esistenza inautentica: l'uomo è innanzitutto essere-nel-mondo, ossia un prendersi cura delle cose che gli occorrono. Tale cura ha le caratteristiche della trascendenza e del progetto: l'Esserci trascendendo la realtà di fatto come si presenta a prima vista, progetta la realtà attraverso un insieme di strumenti utilizzabili da lui stesso, ad esempio la casa per abitare, la penna per scrivere. Il prendersi cura delle cose significa utilizzarle, cioè subordinarle ai propri scopi e ai propri bisogni e l'esistenza di queste ultime è in relazione all'utilizzazione.
L'essere-nel-mondo è anche essere tra gli altri. Se il rapporto tra l'uomo e le cose è un prendersi cura delle cose, allora il rapporto tra l'uomo e gli altri è un prendersi cura degli altri. Esso può assumere due forme diverse: può significare sottrarre agli altri le loro cure; oppure aiutarli ad essere liberi di prendersi cura di loro. Nel primo caso l'uomo non ci cura tanto di aiutare gli altri, ma piuttosto di procurare a loro le loro cose, nel secondo caso invece l'uomo da agli altri lo strumento con il quale siano in grado di prendersi cura di se stessi. La prima è la forma inautentica ed è un semplice stare insieme, mentre la seconda è la forma autentica e il vero coesistere.
La forma inautentica è il fondamento della vita anonima. Essa è la vita di tutti e di nessuno; è l'esistenza del "Si". Il linguaggio che è per sua stessa natura lo svelamento dell'essere, ciò con cui l'essere si esprime e prende corpo, nell'esistenza anonima diventa la chiacchiera inconsistente. Si fonda sul "si dice" e si fonda sull'espressione: "la cosa sta così perché così si dice". Un'esistenza così vuota cerca di riempirsi attraverso la curiosità, che è il vociferare continuo non di ciò che è, ma di ciò che sembra. E dalla curiosità nasce l'equivoco, che è il terzo contrassegno dell'esistenza anonima, corrisponde nel non sapere neanche più di cosa si sta parlando.
Heidegger non condanna comunque l'esistenza anonima, anche perché gli esistenzialisti non si spingono a pronunciare giudizi; egli dice che essa fa parte della struttura esistenziale dell'uomo, è una delle possibilità tra le quali l'uomo può scegliere.
Alla base di questo poter scegliere però c'è quella che Heidegger chiama deiezione, cioè la caduta dell'essere dell'uomo nel mondo, essa fa parte essenziale dell'essere dell'uomo. Le emozioni che accompagnano la consapevolezza di questa deiezione sono la paura (inautenticità) e l'angoscia (autenticità), l'uomo si sente abbandonato ad essere ciò che è di fatto, cioè conosce la noia, che è l'abbandonarsi agli eventi. Essa nasce dalla precarietà delle scelte, dalla troppa preoccupazione che abbiamo e che alla fine si dimostra vana.
L'esistenza è possibilità, cioè un progettarsi in avanti, ma questo progetto in avanti non fa che cadere all'indietro, su ciò che l'esistenza è di fatto. Visto che l'uomo è libero di progettare la sua vita nel futuro, ma non ha potuto scegliere ad esempio se nascere maschio o femmina.
L'esistenza autentica: finora Heidegger ha concentrato l'attenzione sulla quotidianità e sull'inautenticità, ora considera l'Esserci nella sua totalità e autenticità. Il concetto fondamentale della vita autentica è la morte. La morte per l'uomo non è un termine finale, essa è per l'Esserci la possibilità più certa, più incondizionata e insuperabile. Soltanto nel riconoscere la possibilità della morte, l'uomo ritrova il suo essere autentico e comprende veramente se stesso. L'angoscia è la situazione emotiva che accompagna la consapevolezza della morte, essa colloca l'uomo davanti al nulla. L'uomo però non deve avere paura della morte, anche perché fuggire di fronte alla morte fa parte dell'esistenza anonima e inautentica. L'uomo che vive la vita autentica deve scegliere di vivere per la morte, deve essere-per-la-morte. Questo però non vuol dire che l'uomo deve cercarla con il suicidio e non deve essere neanche un'attesa, perché anche l'attesa mira alla realizzazione. La morte è la certezza alla quale non possiamo sottrarci ed è anche la possibilità che rende impossibili le altre possibilità. L'uomo farà le stesse cose che faceva prima, ma con una nuova consapevolezza. Colui che vive la vita autentica non se la prende per cose inutili, perché ha sempre in mente l'atto conclusivo. Questo lo libera dalla noia, dall'angoscia e dall'anonimato, ossia dalla vita inautentica.
La voce della coscienza: è l'Esserci che comprende la propria nullità:
1. Nel fatto che l'uomo pur essendo fondamento di se stesso, grazie al progetto, non può essere fondamento del proprio fondamento, ossia del proprio essere;
2. Nel fatto che l'uomo nel progettare determinate possibilità, ne esclude e ne nega altre. Questo coincide con un senso di colpa che spinge l'uomo a decidere per il nulla.

Fonte: http://www.scicom.altervista.org/etica/HEIDEGGER.doc
Autore: non indicato nel documento di origine del testo

 

 

Martin Heidegger
1. Vita e opere

 

    L'esponente principale della Filosofia dell'esistenza è Martin Heidegger. Nato a Messkirch nel 1889, studiò teologia e filosofia Nel 1927 esce il lavoro fondamentale di Heidegger Essere e tempo.  Nel 1933 Heidegger, che aveva aderito al nazismo, divenne rettore dell'Università divenne rettore dell'Università di Friburgo e pronunciò il discorso L'autoaffermazione dell'università tedesca. Dalla carica di rettore si dimise poco dopo. Heidegger è morto nel 1976.

2. Dalla Fenomenologia all'Esistenzialismo

    Lo scopo dichiarato di Essere e tempo è quello di una ontologia capace di determinare in maniera adeguata il senso dell'essere. Ma, per raggiungere tale scopo, occorre analizzare chi è colui che si pone la domanda sul senso dell'essere. E se Essere e tempo sirisolve in un'analitica esistenziale, suquell'ente (l'uomo) che si interroga sul senso dell'essere, gli scritti che vanno dal '30 in poi abbandonano l'impostazione originaria: non si tratta più di analizzare quell'ente che cerca vie d'accesso all'essere, ma si punta sull'essere stesso e sulla sua autorivelazione.

3. L'Esserci e l'analitica esistenziale

   Il problema del senso dell'essere pone subito questo interrogativo: «Presso quale  ente deve venir carpito il senso dell'essere?».     Ebbene, prosegue Heidegger, «se il problema dell'essere deve venir esplicitamente posto in tutta la sua trasparenza, allora [ ... ] si rende necessaria la messa in chiaro delle maniere di penetrazione nell'essere, di comprensione e di possesso concettuale del suo senso, nonché la delucidazione della possibilità di una retta scelta dell'ente esemplare e l'indicazione dell'autentica via d'accesso a questo ente. Penetrazione, comprensione, delucidazione, scelta, accesso, sono momenti costitutivi del cercare e nello stesso tempo modi di essere di un determinato ente, e precisamente di quell'enteche, nol che cerchiamo, già siamo ».     Per tutto ciò, «elaborazione del problema dell'essere, viene dunque a significare: rendersi trasparente di un ente, porre il cercante nel suo essere». E in ciò consiste l'analitica esistenziale.     L'uomo è, dunque, l'ente che si pone la domanda sul senso dell'essere. Per questo, una corretta impostazione del problema del senso dell'essere richiede una esplicitazione preliminare di quell'ente che si pone la domanda sul senso dell'essere: e «questo ente che noi stessi già sempre siamo, e che ha, fra le altre possibilità di essere, quella di cercare, noi lo indichiamo col termine Esserci (Dasein)».     L'uomo, considerato nel suo modo di essere, è appunto Da-sein, esser-ci; e il «ci» (da) sta ad indicare il fatto che l'uomo è sempre in una situazione, gettato in essa, e in rapporto attivo nei suoi confronti.     L'Esserci,  cioè l'uomo, non è soltanto quell'ente che pone la domanda sul senso dell'essere, ma è anche quell'ente che non si lascia ridurre alla nozione di essere, accettata dalla filosofia occidentale che identifica l'essere con l'oggettività, ossia, come dice Heidegger, con la semplice presenza. Le cose sono certamente diverse una dall'altra, ma tutte sono oggetti (ob -jecta) posti davanti a me: e in questo loro essere presente  la filosofia occidentale ha visto l'essere.     Ma l'uomo non può ridursi ad un oggetto puro e semplice nel mondo; I'Esserci non è mai una semplice-presenza, giacché esso è proprio quell'ente per cui le cose sono presenti.     Il modo di essere dell'Esserci è l'esistenza: «la "natura", l' "essenza" dell'Esserci consiste nella sua esistenza». E l'essenza dell'esistenza è data dalla possibilità, che non è una vuota possibilità logica né una semplice contingenza empirica. L'essere dell'uomo è sempre una possibilità da attuare, e di conseguenza l'uomo può scegliersi, può cioè conquistarsi o perdersi.

4. L'essere-nel-mondo

    L'uomo è quell'ente che si interroga sul senso dell'essere. L'uomo non può ridursi ad un puro oggetto, cioè ad un semplice esser-presente. Il modo di essere dell'uomo è l'esistenza. L'esistenza è poter-essere. Ma poter-essere vuol dire progettare. Per questo l'esistenza è essenzialmente trascendenza, identificata da Heidegger con l'oltrepassamento. L'uomo è progetto e le cose del «mondo» sono originariamente utensili  in funzione del progettare umano.     Tutto questo ci introduce alla trattazione di quel carattere fondamentale del I'uomo che Heidegger chiama l'essere-nel-mondo.     L'uomo è-nel-mondo. Il mondo è un complesso di strumenti «per» l'uomo,un insieme di utensili, vale a dire di cose da adoperare, alla mano, e non di cose da contemplare come presenti. L'esistenza è poter-essere, progetto, trascendenza verso il mondo: essere-nel-mondo significa, dunque, originariamente fare del mondo il progetto delle azioni e dei possibili atteggia menti dell'uomo.  La trascendenza istituisce il progetto o l'abbozzo di un mondo: essa è un atto di libertà, anzi, per Heidegger, è la libertà stessa. Tuttavia, se è vero che qualsiasi progetto si radica in un atto di libertà, è pur vero che ogni progetto limita immediatamente l'uomo che si ritrova dipendente da bisogni e limitato dall'insieme di quegli utensili che è il mondo. Essere-nel-mondo, quindi, vuol dire per l'uomo prendersi cura  delle cose che occorrono ai suoi progetti, avere a che fare con una realtà-utensile, mezzo per la sua vita e per le sue azioni.L'essere delle cose equivale al loro essere utilizzate dall'uomo.   L'uomo non è pertanto uno spettatore del gran teatro del mondo: l'uomo è nel mondo, coinvolto in esso, nelle sue vicende. E trasformando il mondo, egli forma e trasforma se stesso.  Le cose sono sempre strumenti: se conviene, potranno essere viste come strumenti che soddisfano un piacere estetico; ma, se lo si ritiene utile, potranno venir viste «obiettivamente», cioè scientificamente, sullo sfondo di un progetto totale. L'uomo capisce una cosa quando sa che cosa farsene, come capisce se stesso quando sa che cosa può fare di sé, quando cioè sa che cosa può essere.

5. L'essere-con-gli altri

    Se l'essere-nel-mondo (in der- Welt-sein)  è un esistenziale, anche l'essere-con gli altri (Mit-sein)  è un esistenziale. Non c'è «un soggetto senza mondo», e parimenti non c'è «un io isolato senza gli altri. Essendo l'esistenza costitutivamente apertura, fin dall'origine gli altri io, in quanto tali, sono partecipi dello stesso mondo nel quale io vivo.     D'altro canto, come l'essere-nel-mondo dell'uomo si esprime nel prendersi cura delle cose, così il suo essere-con-gli altri si esprime nell'aver cura degli altri . E l'aver cura degli altri può prendere due direzioni: nella prima si cerca di sottrarre gli altri dalle loro cure, nella seconda li si aiuta ad acquistare la libertà di assumersi le loro cure. Nel primo caso si ha un semplice «essere insieme» e siamo davanti ad una forma inautentica di coesistenza; nel secondo caso, invece, si ha un autentico  «coesistere».

  6. L'essere-per-la morte, esistenza inautentica ed esistenza autentica

    L'esserci c'è e ha da essere; l'uomo cioè si trova sempre in una situazione, e fronteggia questa situazione con il suo progettare. Ma in quanto rivolge la sua « cura» al piano «ontico» o «esistentivo», cioè al piano degli enti nella loro fattualità, l'uomo rimane nell'esistenza inautentica. In questa, l'uomo adopera le cose, le utilizza, e stabilisce rapporti sociali con altri uomini. Ma tutti questi progetti, in una sorta di moto vorticoso, rigettano l'uomo al livello dei fatti. L'utilizzazione delle cose si ritrasforma in fine a se stessa. Il linguaggio allora si trasforma nella chiacchiera dell'esistenza anonima che sottostà all'assioma «la cosa sta così perché così si  dice». Una siffatta esistenza anonima cerca di riempire il vuoto che la caratterizza rincorrendo di continuo il nuovo: essa annega nella curiosità. E, infine, oltre la chiacchiera e la curiosità, la terza caratteristica dell'esistenza inautentica è l'equivoco: l'individualità delle situazioni, in una esistenza divorata dalla chiacchiera e dalla curiosità, svanisce nella nebbia dell'equivoco. L'esistenza inautentica è un'esistenza anonima: è l'esistenza del «si dice»     e del «si  fa».  L'analisi esistenziale rivela che l'esistenza anonima è un costitutivo poter essere  dell'uomo; e alla base di tale poter essere c'è, dice Heidegger, la deiezione, vale a dire la caduta dell'uomo sul piano delle cose del mondo. Senonché, esiste la voce della coscienza che richiama all'esistenza autentica, allorché ci si pone non più sul piano «ontico» o «esistentivo», bensì su quello «ontologico» o « esistenziale» e si cerca il senso dell'essere degli enti, il senso cioè del loro esistere.     La voce della coscienza riporta l'uomo travolto dalla cura davanti a se stesso, richiamandolo alla questione di ciò che egli è nel più profondo e che non può occultare. L'esistenza, come già sappiamo, è poter-essere.
I progetti e le scelte dell'uomo sono, in fondo, tutti equivalenti:  posso dedicare la mia vita al lavoro, allo studio, alla ricchezza o a qualunque altra cosa, ma posso essere uomo sia scegliendo una possibilità sia scegliendo l'altra. E per tale ragione che, considerando come ultima e decisiva una di queste scelte o possibilità, l'uomo si decide per e si disperde in una esi stenza inautentica. Tuttavia, tra le varie possibilità ce n'è una diversa dalle altre a cui l 'uomo non può sfuggire: si tratta della morte.  Difatti, posso decidere di spendere la vita per uno scopo o per un altro, posso scegliere una professione o un'altra, ma non posso non morire. Allorché la morte diventa realtà, l'esistenza non c'è più. Ciò fa capire che, finché c'è l'esistenza, la morte è una possibilità permanente ed es sa è la possibilità che tutte le altre possibilità divengano impossibili.      La voce della coscienza ci richiama, dunque, al senso della morte, e svela la nullità di ogni progetto: dalla prospettiva della morte tutte le situazioni singole appaiono come possibilità che possono diventare impossibili. In questo modo la morte proibisce il fissarci su di una situazione, mostra la nullità di ogni progetto, fonda la storicità dell'esistenza.  L'esistenza autentica, pertanto, è un essere-per-la-morte. E soltanto comprendendo la possibilità della morte come impossibilità dell'esistenza, soltanto assumendo questa possibilità con una decisione anticipatrice, l'uomo ritrova il suo essere autentico.

7. Il coraggio dinanzi all'angoscia

    Il «vivere per la morte» costituisce, pertanto, il senso autentico dell'esistenza. Il «vivere-per-la-morte» ci stacca dall'essere sommersi nei fatti e nelle circostanze.     L'anticipazione della morte (che non significa affatto il realizzarla con il suicidio) dà senso all'essere degli enti, attraverso l'esperienza del loro nulla possibile. Tale esperienza, tuttavia, non si ha ad opera di un atto intellettivo, quanto piuttosto attraverso quello specifico sentimento che è l'angoscia. «L'essere-per la-morte è essenzialmente angoscia». L'angoscia pone l'uomo davanti al nulla, al nulla di senso, cioè al nonsenso dei progetti umani e della stessa esistenza.     Esistere autenticamente implica avere il coraggio di guardare in faccia alla possibilità del proprio non essere, di sentire l'angoscia dell'essere-per-la-morte. L'esistenza autentica, dunque, significa l'accettazione della propria finitezza. E questa l'accettazione cui richiama la voce della coscienza: I'accettazione della propria finitezza e negatività.  L'esistenza inautentica e anonima, invece, ha paura dell'angoscia di fronte alla morte, talché, per sfuggire all'angoscia, l'esistenza anonima si affaccenda con le cose e sprofonda nel regno del si (man): «I'esistenza anonima e banale non ha il coraggio dell'angoscia dinanzi alla morte». E questo si vede già nel fatto che l'esistenza anonima banalizza l'angoscia nella paura.

8.Il tempo

    Dato che l'esistenza è possibilità e progettazione, tra le determinazioni del tempo (passato, presente, futuro) quella fondamentale—scrive Heidegger in Essere e fempo—è il futuro: «Ilprogettarsi-in-avanti- sull'"in-vista-di-se-stesso", progettarsi che si fonda sull'avvenire, è un carattere essenziale della esistenzialità. Il suo senso primario è l'avvenire»Tuttavia, la cura, che anticipa delle possibilità, sorge dal passato e lo implica. E tra passato e futuro c'è quell'affaccendarsi con le cose che è il presente. Queste tre determinazioni del tempo trovano il loro significato nel loro esser « fuori di sé»: il futuro è un protendere, il presente è un essere presso le cose, il passato è un ritornare ad una situazione di fatto per accettarla. E questa la ragione per cui Heidegger chiama i tre momenti del tempo estasi, da intendersi in senso etimologico di «stare fuori».     In ogni caso, le tre determinazioni del tempo mutano, ciascuna, in base al fatto che si tratti di tempo autentico  o di tempo inautentico, dove il tempo autentico è quello dell'esistenza autentica e quello inautentico è tipicizzato dalla preoccupazione per il successo, è l'attenzione alla riuscita; mentre nell'esistenza autentica, che assume la morte come possibilità qualificante dell'esistenza, il futuro è un vivere per la morte che non permette all'uomo di venir travolto nelle possibilità mondane. E se il passato autentico è non l'accettare passivamente la tradizione, ma un affidarci alle possibilità che la tradizione ci offre e rivivere le possibilità del l'uomo che è già stato, il presente autentico è l'istante, in cui l'uomo ripudia il presente inautentico (dove l'uomo è assorbito senza requie nelle cose da fare) e decide il suo destino.     Da questa analisi del tempo derivano, tra altre, alcune conseguenze di rilievo nel pensiero di Heidegger.     1) I significati del tempo usati nel pensiero comune e nella scienza (la databilità e la misura scientifica del tempo) sono tempo inautentico, giacché rimandano all'esistenza gettata tra le cose del mondo.  2) L'esistenza autentica è l'esistenza angosciata che vede l'insignificanza di tutti i progetti e i fini dell'uomo. L'uomo che vive autenticamente seguita a vivere la vita, per così dire, banale del suo tempo e del suo popolo, ma la vive con tutto quel distacco proprio di chi ha avuto, attraverso l'esperienza anticipatrice della morte, la rivelazione del nulla degli umani progetti e della esistenza umana.

9. La metafisica occidentale come «oblio dell'essere»

    Il compito dichiarato di Essere e tempo è quello della determinazione del senso dell'essere. Senonché, questa interrogazione—che si è snodata nell'analitica esistenziale, cioè nell'analisi delle strutture dell'esistenza—ha dato come risultato che il senso dell'essere non si può ottenere attraverso l'interrogazione di un ente. L'analisi dell'esistenza fa vedere che l'esistenza autentica è il nulla di ogni progetto e il nulla della stessa esistenza. L'analisi dell'Esserci, cioè di quel l'ente privilegiato che si pone la domanda del senso dell'essere, non rivela il senso dell'essere, bensì il nulla dell'esistenza.    Queste considerazioni vengono esplicitate da Heidegger nella sua Introduzione alla metafisica (1956) che si presenta come una critica radicale alla metafisica classica. La metafisica classica, da Aristotele a Hegel e allo stesso Nietzsche, ha fatto ciò che l'analitica esistenziale ha mostrato essere impossibile: ha cercato il senso dell'essere indagando gli enti. La metafisica ha identificato l'essere con l'oggettività, cioè con la semplice-presenza degli enti. In questo modo essa non è metafisica ma una «fisica», assorbita dalle cose, che ha obliato l'essere, e che anzi conduce all'oblio di questo oblio. Platone, dice Heidegger, è stato il primo responsabile della degradazione della metafisica a fisica. I primi filosofi (Anassimandro, Parmenide, Eraclito) avevano concepito la verità come un dis-velarsi dell'essere, come testimonierebbe il senso etimologico di alétheia, dove lantháno (velare) è preceduto dall'a privativo. Senonché, Platone ha respinto la verità come «non-nascondimento» dell'essere ed ha capovolto il rapporto tra essere e verità, fondando l'essere sulla verità, nel senso che la verità starebbe nel pensiero che giudica e stabilisce rapporti tra i propri «contenuti» o «idee», e non nell'essere che si svela al pensiero. In tal modo l'essere dovrebbe finitizzarsi e relativizzarsi alla mente umana, anzi al suo linguaggio.

10. Il linguaggio della poesia come linguaggio dell'essere
    E ben vero che siamo noi a «parlare il linguaggio», ma quel patrimonio di parole, di regole logiche, grammaticali e sintattiche che è il linguaggio pone limiti invalicabili a quel che possiamo dire. Il linguaggio dell'uomo può parlare degli enti, non dell'essere. Per questo la rivelazione dell'essere non può essere l'opera di un ente, seppur privilegiato come l'Esserci, ma può aversi soltanto attraverso l'iniziativa dell'essere stesso. Qui sta la «svolta» del pensiero di Heidegger. L'uomo non può svelare il senso dell'essere. Egli ha da essere il pastore dell'essere e non il padrone dell'ente: e la sua dignità «consiste nell'esser chiamato dall'essere stesso a far da guardia alla sua verità». Per questo occorrerà risollevare la filosofia dalla sua deformazione «umanistica» al «mistero» dell'essere, al suo originario disvelarsi. Ma dov'è che avviene questo svelarsi dell'essere? L'essere, dice Heidegger, si svela nel linguaggio, ma non nel linguaggio scientifico proprio degli enti, o nel linguaggio inautentico della chiacchiera, bensì nel linguaggio autentco della poesia. Nella forma aurorale della poesia, la parola ha un carattere «sacrale»: la poesia, lingua originaria, dà nome alle cose e fonda l'essere.     Questa fondazione dell'essere, però, non è opera dell'uomo, bensì un dono dell'essere. Nel linguaggio del poeta non è l'uomo che parla, ma il linguaggio stesso e in questo l'essere. Di conseguenza, il giusto atteggiamento dell'uomo nei confronti dell'essere è quello del silenzio per l'ascolto dell'essere; l'abbandono (Gelassenheit) all'essere è il solo atteggiamento corretto. L'uomo, pertanto, deve rendersi libero per la verità, concepita come svelamento dell'essere. E con ciò, libertà e verità si identificano. E, come la verità, anche la libertà è un dono dell'essere all'uomo, una iniziativa dell'essere.

11. La tecnica e il mondo occidentale

    Sono, dunque, i «pensatori essenziali» (quali Anassimandro, Parmenide, Eraclito, Holderlin) ad essere testimoni o ascoltatori della voce dell'essere, e non la metafisica occidentale. Il padrone dell'ente  non è il pastore dell'essere.   Ma l'uomo occidentale, proprio in forza di quella «fisica» che ha preteso di essere «metafisica», si è trasformato in padrone dell'ente.  La realtà, per Heidegger, è che la tecnica è l'esito scontato di quello sviluppo per cui l'uomo, obliando l'Essere, si è lasciato travolgere dalle cose, rendendo la realtà puro oggetto da dominare e da sfruttare.     E questo atteggiamento, che non si fermerà nemmeno quando arriva—come oggi accade—a minacciare le basi della vita stessa, è un atteggiamento ormai onnivoro; si tratta di una fede, della fede nella tecnica come dominio su tutto.

Tratti essenziali e sviluppi dell'Esistenzialismo

1. Lineamenti generali
1.1. L'esistenza è «poter-essere», cioè «incertezza, rischio e decisione»
    L'Esistenzialismo o Filosofia dell'esistenza  si afferma in Europa appena dopo la prima guerra mondiale, si impone nel periodo tra le due guerre e si sviluppa ancora e si espande sino a diventare una moda soprattutto nei due decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Esprime e porta a consapevolezza la situazione storica di una Europa dilaniata fisicamente e moralmente da due guerre; di una umanità europea che, tra le due guerre, sperimenta in mol te delle sue popolazioni la perdita della libertà con regimi totalitari che, benché di segno opposto, I'attraversano dagli Urali all'Atlantico, dal Baltico alla Sicilia. L'epoca dell'Esistenzialismo è un'epoca di crisi: della crisi di quell'ottimismo romantico che per tutto l'Ottocento e il primo decennio del Novecento «garantiva», in nome della Ragione, dell'Assoluto, dell'Idea o dell'Umanità, il senso della storia, «fondava» valori stabili e «assicurava» un Progresso sicuro e inarrestabile.     L'Idealismo, il Positivismo e il Marxismo sono tutte filosofie ottimistiche che presumono di aver colto il principio della realtà e l'assoluto senso progressivo della storia. L'Esistenzialismo, invece, considera l'uomo come un essere finito, «gettato nel mondo», continuamente lacerato in situazioni problematiche o assurde.  La non identificazione della realtà con la razionalità  si accompagna come elemento caratterizzante ad altri tre punti nodali del pensiero esistenzialista che sono: 1) la centralità dell'esistenza come modo di essere di quell'ente finito che è l'uomo; 2) la trascendenza dell'essere (il mondo e/o Dio) cui l'esistenza si rapporta; 3) la possibilità come modo di essere costitutivo dell'esistenza e quindi come categoria insostituibile nell'analisi dell'esistenza stessa.     L'uomo sarà quello che egli ha deciso di essere. Il suo modo di essere, l'esistenza, è un poter-essere, un uscir fuori—così ha scritto Pietro Chiodi—verso la decisione e l'autoplasmazione, un ex-sistere. L'esistenza è, dunque, un poter-essere e, pertanto, è «incertezza, problematicità, rischio, deci sione, slancio in avanti». Ma: slancio verso che cosa? E proprio qui—dice ancora Chiodi—che cominciano a dividersi le correnti dell'Esistenzialismo, a seconda delle risposte che sono: Dio, il mondo, se stesso, la libertà, il nulla.

1.2. Presupposti remoti e prossimi dell'Esistenzialismo

    Precisati, pur se rapidamente, i preliminari tratti concettuali, occorre fissare ancora alcuni punti:-~     1) L'Esistenzialismo—dalla prospettiva della storia delle idee—si presenta come una delle manifestazioni della grande crisi dell'Hegelismo, manifestazioni che si sono espresse nel pessimismo di Schopenhauer, nell'umanesimo di Feuerbach e nella filosofia di Nietzsche e che, per altro verso, trovano il loro corrispettivo nell'opera letteraria, così intrisa di tanto profonda problematicità umana, di Dostojevskij e di Kafka. 2) Alla radice dell'Esistenzialismo si trova il pensiero di Kierkegaard.  3) Se Kierkegaard è la radice remota dell'Esistenzialismo, la Fenomenologia ne è la radice prossima. L'Esistenzialismo si articola, infatti, in un continuo esercizio di analisi dell'esistenza, e delle relazioni dell'esistenza umana con il mondo delle cose e quello degli uomini.   4) L'analisi dell'esistenza non è stata oggetto soltanto di opere filosofiche, come è il caso dell'analitica esistenziale condotta col metodo fenomenologico da Heidegger in Essere e tempo, ma anche di una vasta opera letteraria (teatro, romanzi) che soprattutto con Sartre, Camus e Simone de Beauvoir ha sottolineato i tratti meno nobili, più tristi e dolorosi delle umane vicende.

I pensatori più rappresentativi dell'Esistenzialismo

I rappresentanti più prestigiosi dell'Esistenzialismo sono Martin Heidegger e Karl Jaspers in Germania; Jean-Paul Sartre, Gabriel Marcel, Maurice Merleau-Ponty e Albert Camus in Francia; Nicola Abbagnano in Italia.

 

Fonte: http://www.adripetra.com/DidatticaDispense/TerzoTr/Filosofia/Heidegger.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Martin Heidegger vita opere biografia riassunto

 

L'Essere secondo Heidegger
La concezione dell’essere proposta da Heidegger riveste una particolare importanza, in quanto essa ha improntato di sé tutto il dibattito su questo tema condotto dalla filosofia del nostro secolo.
Heidegger contrappone la sua concezione metafisica imperniata sull’essere in generale a quella prevalente fondata sulla distinzione tra essere ed ente e si chiede se “è questa distinzione che ha il proprio fondamento nella natura dell’uomo”, come voleva Kant, o se è “la natura dell’uomo che si fonda su questa distinzione”. Infatti, poiché a partire da Cartesio solo la ragione può rappresentarsi una simile distinzione, e, poiché tutta la filosofia precedente, e non solo quella moderna, ha riconosciuto nella razionalità l’essenza dell’uomo, ne discende che questa distinzione metafisica non fa altro che giustificare la “soggettività” dell’uomo[2].
In particolare, per Leibniz, l’unità dell’essere, ovvero la ragion sufficiente dell’essere in generale, può ritrovarsi solo in un principio di identità, che in realtà è ricalcato sulla individuità della sostanza. L’essere sorge già dalla individuità della cosa, perciò per Leibniz essere e vero essere coincidono, ma, nello stesso tempo, proprio perché l’individuità rimanda subito all’essere e alla sostanza, la verità non può che risultare trascendentale. In quanto verità, tale trascendentalità viene colta dalla ragione dell’uomo. In tal modo, si afferma la centralità dell’uomo, in quanto soggettività e in quanto razionalità. A questa ragion sufficiente e a questa trascendentalità Heidegger ne contrappone altre e dice che l’autentica ragion sufficiente è data dalla libertà, non dalla razionalità. Inoltre, il dis-velamento si attua non conoscendo ma stando emotivamente nel mondo e progettandolo, cioè “slanciandosi in avanti”.
L’unità dell’essere è già anticipata dalla costituzione dell’Esserci, il quale “è coinvolto nell’ente in modo tale che, facendone parte, è accordato ad esso”. Ontologicamente questa possibilità dell’Esserci viene assicurata dalla “Cura”, a partire dalla quale si concretizza una prima comprensione dell’essere, completamente diversa, però, dal conoscere teoretico[3].
La “Cura”, infatti, predispone ad una condizione estatica che supera la duplicità di un dentro e di un fuori, o, se si vuole, di un soggetto e di un oggetto, e, pertanto, si può acquisire al di là del “punto di vista della “soggettività” e della “sostanza”, così come sono concepite dal pensiero[4].
Dunque, Heidegger vuole superare l’artificiosa distinzione tra essere ed ente, ma, si badi bene, con ciò non intende occultare la contrapposizione tra essere ed onticità dell’ente. L’unità tra essere ed ente è pensabile solo in quanto l’ente manifesta l’essere, mentre viene esclusa qualsiasi considerazione scientifica dell’ente, il che significa che si nega una piena autonomia all’ente preso singolarmente, dato che questo viene subito situato ambientalmente, o riportato alla totalità dell’ente.
L’ente situato e la totalità dell’ente anticipano e manifestano l’essere in generale. La preclusione dell’autonomia dell’ente particolare, però, pregiudica anche l’autonomia delle singole relazioni tra le cose e le loro strutture determinate, poiché queste ultime hanno senso solo se vengono collocate nella struttura più complessiva della “cura” e della utilizzabilità globale, quali si riscontrano nella temporalità lunga della continuità di vita. La stessa singola emozione ha valore solo se coglie esteticamente questa totalità di enti e di usi, e solo se unifica, di nuovo esteticamente, le temporalità disperse. L’onticità dell’ente, in quanto tale, viene equiparata ad una colpa, alla colpa originaria dell’esser gettati in un mondo di semplici presenze e in una socialità dominata dalla chiacchiera del “Si”. Perciò, l’atteggiamento autentico da assumere nei confronti dell’ente così configurato non può che essere il “rifiuto”. Solo così l’ente rivela la sua vera essenza che è quella del “nulla”, il quale non è assimilabile al “niente”, perché non ignora l’ente ma lo “oltrepassa” come “oggetto”, rendendolo atto a rivelare l’essere[5].
Annullare l’ente onticamente inteso, per valutarne la sua portata esistenziale ed ontologica, questo è il programma di Heidegger. Ora, vedremo che così come si privilegia una particolare dimensione dell’ente, quella totalizzante, a scapito di un’altra, quella della sua identificazione; allo stesso modo, si svaluterà sia la soggettività, sia la socialità, intese nella loro specificità ed autonomia, per prospettare una nuova categoria: quella della ipseità.
L’ipseità rappresenta un “poter-esser-se-Stesso autentico” che si è liberato dall’abbraccio asfissiante del “Si”. L’ipseità, dice Hiedegger, è una trascendenza che oltrepassa qualcosa e si muove 'da’ qualcos’altro'.
A questo proposito, provvisoriamente, il filosofo tedesco ammette la possibilità di utilizzare il termine “soggetto”, ma poi precisa che forse è opportuno evitare tale denominazione, perché, in realtà, con la ipseità non viene superato né l’oggetto soltanto, né la “relazione fra soggetto e oggetto”. Questo non perché Heidegger escluda qualsiasi rapporto tra i due fattori, ma perché questo rapporto è sempre situato in una “visione ambientale preveggente”, che struttura la relazione, intesa in senso stretto, in un contesto più ampio.
Ciò che viene confutato, quindi, è la reciproca posizione autonoma del soggetto e dell’oggetto all’interno di questa struttura più ampia. In particolare, “ciò rispetto a cui” si verifica l’oltrepassamento è costituito dal mondo, perché l’Ipseità deve superare, ad un tempo, il soggetto e l’ente che egli non è, cioè “la natura”.
Lo sradicamento del soggetto è completo proprio perché colpito nel suo fondamento, cioè nella possibilità di riferirsi autonomamente e, quindi, secondo Heidegger, prepotentemente rispetto al mondo.
Ma, inevitabilmente, colpendo “la relazione fra soggetto e oggetto”, si colpisce anche l’autonomia del mondo. Heidegger, a dire il vero, attua sì una distinzione tra uomo e mondo, ma essa non diventa mai un riconoscimento della loro piena autonomia. Anzi, il suo progetto è quello di annullare contestualmente il soggetto ed il mondo, onticamente intesi. Se l’uomo, perciò, vuole veramente “esser-fondamento”, deve attingere al suo fondamento, che è quello della libertà. Per progettare bisogna esser liberi da se stessi e dal mondo. L’Ipseità consiste appunto in questo “agire” su se stessi e sul mondo per oltrepassarli entrambi[6].
Rimettere in discussione, quindi, la distinzione della metafisica moderna fra ente ed essere significa reimpostare radicalmente il tema della soggettività e del suo rapporto col mondo, per negare che già a livello esistenziale possa sussistere una qualsiasi distinzione di ruoli tra soggetto e oggetto.
Questa differenziazione, pertanto, ancor meno potrà sussistere a livello metafisico, o, meglio, essa può presentarsi nella forma di rapporto inscindibile tra uomo e totalità dell’essere prima e dell’ente poi, solo dopo aver scoperto il “fondamento dell’essenza dell’Esserci”, cioè la libertà colta in trascendenza. La trascendenza introduce la differenza, perché “comprendendo l’essere, si rapporta all’ente”[7].
Heidegger, dunque, suggerisce di ripartire dall’unità dell’essere, annullando la sua moltiplicazione fenomenica, ma questo significa voler progettare e progettarsi a partire da una totalità assoluta, che, successivamente, si manifesterà a livello fenomenico come totalità dell’ente storicamente noto. L’uomo, di fatto, non può che smarrirsi di fronte a questo “abisso”, cioè di fronte a questo scarto tra la sua particolarità e la totalità dell’essere prima e dell’ente dopo. La differenziazione post-trascendentale tra essere ed ente riguarda soprattutto due totalità.
Solo a livello esistenziale, prima dell’illuminazione dell’essere, l’uomo si differenzia all’interno dell’ente (qualcosa di ingannevole in tal senso avviene con le pretese della conoscenza teorica). Ma, si badi bene, questa differenziazione non porta mai ad una autonomia, bensì ad una individualità di carattere emotivo determinata dall’angoscia, per cui il progettarsi vorrà dire ritrovare la dimensione trascendente dell’essere unitario oltrepassante.
Come vedremo, tra esistenza e trascendenza si instaura un circolo di rimandi reciproci, che, però, assumono solo un aspetto formale e mai veramente sostanziale, cioè compiutamente progettuale. Verifichiamo queste affermazioni, procedendo con ordine, a partire dal ruolo dell’individuo. Per comodità d’esposizione distingueremo tra individualità e soggettività, anche se Heidegger non ha mai introdotto questa distinzione, e attribuiremo alla individualità quel ruolo positivo, esistenziale, che il filosofo tedesco riconosce esser necessario, mentre conserveremo l’accezione negativa heideggeriana data al termine “soggettività”. Quando, infatti, Heidegger si riferisce ad una “soggettività” che accoglie “l’oggettività” del richiamo, sciogliendo subito il soggetto in questo richiamo esistenziale e trascendentale, non fa altro che distinguere l’individualità dell’Esserci, cioè una singolarità, dalla soggettività classicamente intesa, e lo fa fondandola su una distinzione tra emotività estatica e conoscenza teorica. Perciò, si può anche parlare di centralità dell’uomo ma solo a condizione che venga “posto il problema della sua nullità nell’insieme dell’ente”, dato che “l’estaticità dell’essenza” dell’Esserci è incompatibile con qualsiasi “concezione ‘antropocentrica’”[8].
Heidegger parla anche di colpa originaria dell’uomo, perché, se vi è un colpevole, questo non può ritrovarsi nel mondo e negli oggetti presenti ma solo ed esclusivamente nell’uomo, ed, in particolare, nell’uomo che si assoggetta al “Si”. L’individualità dovrà rompere già a livello esistenziale con questa continuità con il “Si”.
L’essere se stessi significa assumere una cura di sé che fuoriesca dalle soluzioni deiettive in cui il “Si” ci ha gettato. Il “se-stesso”, infatti, “è... per lo più, un se-stesso inautentico, un Si-stesso”.
La comunità degli uomini, d’altronde, non può costituire “il filo conduttore” dell’esistenza umana, dato che essa va riportata entro una “totalità strutturale” più ampia, tale da ricomprendere l’insieme del mondo. Perciò, il richiamo all’angoscia come forma essenziale dell’apertura dell’Esserci non può che essere intesa come richiamo alla individualità del “se-Stesso”. Heidegger, dice a tal proposito, che occorre “semplificare” l’Esserci e non confondere o mettere sullo stesso piano, perciò, l’angoscia con “la volontà, il desiderio, la tendenza e l’impulso”[9].
Nulla da obiettare a questa impostazione metodologica, purché questa semplificazione, preliminarmente necessaria, costituisca il fondamento di una valorizzazione piena delle altre facoltà ed un riconoscimento della loro autonomia. Inoltre, bisognerebbe verificare se a questa semplificazione dell’Esserci non si accompagni una semplificazione delle relazioni con la realtà esterna.
A questo proposito, Heidegger contrappone l’intenzionalità alla consapevolezza di sé, perché “l’esistenza non consiste nell’essere un Selbst, né viene determinata da questo”; invece, “l’intenzionalità risulterà possibile solo sul fondamento della trascendenza”, pur non coincidendo con questa[10].
Perciò, quando Heidegger parla anche di coscienza e di volontà ne circoscrive subito la portata. Infatti, chiedendosi in che senso possiamo parlare di colpa, dice che essa risiede nella “nullità” del progetto esistensivo, il quale esercita la libertà dell’uomo in maniera limitata e limitante, riconducendola alla “scelta di una possibilità” che esclude di per sé tutte le altre. Rispetto a questa colpa, il “voler-aver-coscienza” non si riferisce a colpe particolari, ma alla scelta operata, cioè all’aver scelto aprioristicamente e “senza coscienza” di escludere altre possibilità.
Verso questo peccato non si può che “lasciarsi agire” dal se-Stesso.
Solo in tal modo e solo in tal senso ci possiamo ritenere “responsabili”.
La stessa volontà “non può essere intesa come un volere determinato”, che si contrapponga “ad altri comportamenti umani come la rappresentazione, il giudizio, la gioia”, dato che tutti i comportamenti si radicano nella trascendenza. La volontà è volontà di libertà, la quale soltanto “rende possibile l’imposizione e la sopportazione di un’obbligazione determinata”. Si potrebbe dire che la libertà è la “causa” della responsabilità dell’esistenza storica del Se-stesso, ma, anche qui, bisogna escludere “un’interpretazione particolare” del concetto di causa, per considerarla, invece, nel suo carattere di fondamento. Quindi, non vi è originariamente colpa determinata né colpa cosciente, ma solo una colpa che nasce dal “con-esse(re) con gli Altri sul nullo fondamento del suo nullo progettare”[11].
Noi scegliamo una sola possibilità (tra l’altro tra quelle socialmente già prefigurate) perché la coscienza pubblica si comporta e si è sempre comportata così, e ha, di conseguenza, indotto le singole persone a fare altrettanto. Occorre, perciò, prendere coscienza rispetto a questa mancanza di coscienza, ed il primo atto responsabile in tal senso consiste nel liberarsi dalle costrizioni e dai conformismi del “Si”.
Tuttavia, questa precondizione, che è certamente indispensabile, a mio parere, resta perennemente indeterminata e, perciò, difficilmente efficace. Anche quando sfocia nell’emotività, questa decide di decidersi ma non su che cosa decidere.
Per Heidegger, la “Cura” riguarda l’Esserci nella sua “totalità” e, pertanto, non può riferirsi a una “sintesi” delle diverse facoltà, successiva ad una loro dialettica. La decisione che ne scaturisce, secondo il filosofo tedesco, non è “indeterminata”, ma neanche può esprimersi in un “rappresentarsi cognitivamente una situazione”, dato che si è già “insediati in essa”, ragion per cui si può dire che “in quanto deciso l’Esserci agisce già”, anche se il termine “agire” è inopportuno.
Pertanto, l’affermazione secondo cui “il decidersi è, in primo luogo l’aprente progettamento e la chiara determinazione delle possibilità di volta in volta effettive” e non soltanto come “assunzione passiva di possibilità offerte e raccomandate”, va interpretata in riferimento alla situazione. Questa sopravanza le “opportunità più prossime” offerte al “Si” e apre ad appagatività proprie “delle circostanze nella loro concreta effettività”.
Ma per quanto determinate siano le possibilità che si aprono e per quanto effettive siano le circostanze, in realtà si tratta solo di “accidenti” che “possono accadere” alla decisione. Accadono agendo e stando nella situazione, per cui è vero che esse non sono offerte, nel senso che siamo noi ad aprirci alla situazione e nel senso che tale apertura dipende da una nostra decisione, però sono offerte anche in un altro senso e cioè nel senso che si affacciano di per sé nell’ambito della situazione aperta.
La determinazione della decisione rappresenta, pertanto, un letterale superamento dell’indecisione del “Si” “dominante”. La nostra decisione si chiude là dove si apre e là dove apre, cioè viene illuminata da una situazione che ne porta così a galla tutte le sue potenzialità, ma rispetto alla loro pratica attuazione, alla selezione delle possibilità, alla scelta dei mezzi, alla analisi dei risultati, alle eventuali correzioni di condotta, ai comportamenti da assumere nei confronti degli altri, alla continuità da dare a questi risultati; rispetto a tutto ciò, la decisione rinvia ad un ulteriore agire, che a questo punto non può che essere automatico, escludendo qualsiasi riesame razionale[12].
Cosicchè, l’agire, in primo luogo, fa accadere ed apre alla situazione ed apre la situazione, anche se è questa che in ultima analisi offre le concrete possibilità di agire. E, tuttavia, questo agire fallisce nel suo intento progettuale, perché il vero progetto risiede altrove, nella trascendenza dell’essere e nel suo fondamento.
L’agire, nella sua autenticità, non può che rimandare a questo progetto più autentico e più totale di qualsiasi altro progetto, ancorchè esistenziale. Allo stesso modo, la volontà o la desisione, secondo Heidegger, ad un tempo, discende da un’emotività e predispone ad essa, ma questa a sua volta non si attiva in una volontà determinata, né in una presa di coscienza effettiva della sua progettualità, bensì perviene ad una totalità estatica.
La aporia kantiana tra dover essere ed essere, tra pretesa infinità della conoscenza ed effettiva infinità empirica, su un altro piano, resta ancora irrisolta, perché non si affronta il tema della relazione con l’esteriorità e con la sua autonomia, per cui questa discrasia non può che sfociare in una nuova metafisica, quella del progetto dell’essere, però, così vago e indefinito da rappresentare una sovrastruttura rispetto al mondo.
A questo grado di purezza dell’essere anche il dire può manifestarsi in maniera originaria e contrapporsi alla chiacchiera del “Si”.
Il “Si”, infatti, si appoggia ad una presunta voce della coscienza che avrebbe carattere obbligante ed universale e che giustificherebbe il costituirsi di una “coscienza pubblica”. Rispetto a questa pretesa e a questa obbligatorietà assiomatica, la “Cura” “deve tornare indietro a riprendersi dall’essersi-perduto nel Si”, facendo comprendere all’Esserci la sua colpevolezza. Ciò che riscatta da questa colpevolezza è la decisione[13]. Ma, in concreto, è possibile riscattare gli altri, riscattarsi con gli altri o tramite gli altri, oppure ritrovarsi riscattato insieme ad altri, anch’essi riscattatisi per proprio conto?

La risposta di Heidegger a tal proposito non è sempre chiara. Escluso preliminarmente che ci si possa risollevare tramite gli altri, dato che la decisione “è sempre propria di un singolo Esserci”, ne dovrebbe conseguire che non è possibile nemmeno riscattare gli altri, i quali dovrebbero seguire lo stesso percorso individuale.
Eppure Heidegger dice che “l’Esserci che ha già deciso” può divenire “la coscienza” degli Altri”, e parla anche di un “aver cura degli Altri”.
In tal senso, la decisione non isola proprio per il suo carattere di apertura. Ma più propriamente “l’avente cura degli Altri” è un “con-essere”. Questo “con-essere” comporta da un lato il “divenire libero per il proprio mondo”, dall’altro dà all’Esserci “la possibilità di lasciar “essere” gli Altri che ci-sono-con nel loro poter-essere più proprio”. “Altri”, i quali, a partire da questa loro irriducibilità, potranno costituire il “con-aprire questo poter essere”, ma pur sempre essendo “liberi per la propria Cura”.
Altrove, Heidegger aggiunge che solo trascendendo “il tutto dell’ente” e allontanandoci da esso noi potremo sentire le cose più prossime a noi.
La conquista della trascendenza ritrova, a questo punto, un ritorno nella storia e nella temporalità dell’Esserci e fa sì che ora si possa “rispondere all’appello della coesistenza”[14]. Ci si può ritrovare insieme non perché abbiamo preso tutti esattamente la stessa particolare decisione, ma perché ci siamo orientati tutti verso la trascendenza e verso la libertà, vale a dire abbiamo posto tutti le stesse precondizioni progettuali.
Il “con-essere” di Heidegger ha questo significato e anche qui indica una convivenza di per sé possibile in forza di un medesimo atteggiamento verso il mondo.
Si presuppone così una ricaduta storica automatica, conseguenziale e, per di più, condivisa da tutti coloro che hanno raggiunto lo stesso grado di libertà e la stessa autenticità della decisione. Perciò, si può essere al tempo stessi liberi per la propria cura e con-essere con gli altri avendone cura; ci si cura reciprocamente, non solo perché ci si rafforza reciprocamente, ma anche perché tutti si propongono la stessa cura, pur facendolo a partire da una decisione e da una cura propria. Per quelli che, invece, non possiedono gli stessi mezzi, gli uomini autentici rappresenteranno “la coscienza degli Altri”.
Heidegger, in definitiva, propone la costituzione di un nucleo più rappresentativo e più qualificato che agisca come in un processo di fusione nucleare, in cui i diversi atomi fondendosi producono energia ma subito ritornano alla propria individualità, per poi dare corso ad una nuova fusione, in una catena di reazioni che si susseguono ormai inevitabilmente, ripetutamente, invariabilmente.
La sua idiosincrasia, abbandonata provvisoriamente durante il periodo nazista, per i concetti di popolo e di razza, definiti dal semplice requisito della nazionalità o della stirpe, emergerà con chiarezza più tardi, quando parlerà, a tal proposito, di una sete di dominio e di egoismo, che, sotto i panni del popolo e della razza, non nascondono altro che un “egoismo soggettivo” ed un rafforzamento della “soggettività”[15].
Heidegger vuole individui che, liberamente e singolarmente, si trascendano in una totalità comprendente sia l’umanità che il mondo, non vuole soggetti, ed, in particolare, non vuole soggetti che si distinguano dal mondo per poi assoggettarlo, nè vuole soggetti sociali ed istituzionali che si sostituiscano all’individuo o lo rappresentino. Infatti, solo l’angoscia e l’inclusione nell’Esserci della “possibilità della morte” conducono ad una decisione che supera tutte le altre e le trascende. Si tratta, perciò, di una decisione individuale, in quanto già motivata individualmente. Questo “autodecidersi libero” non può essere determinato “anteriormente”, ma si apre alla “determinabilità”. E, tuttavia, siamo ancora ad una precondizione, dato che, in pratica, “la certezza del decidersi significa mantenersi libero per la propria ripresa possibile e sempre necessaria in linea di fatto”[16].
Perciò, parlando della verità, Heidegger afferma che essa non può essere “soggettiva”, se con ciò si designa “ciò che è nell’arbitrio del soggetto”, ma assume solo carattere esistenziale. Solo perché l’Esserci è si può scoprire la verità, ed essendo l’Esserci può ritrovare la verità che si manifesta. In tal senso, “non siamo noi a presupporre la ‘verità’”, ma è questa, il suo esistere originario, che ci rende possibile il fatto che noi la presupponiamo.
L’uomo, perciò, non può pretendere di rappresentare la verità a priori, di possedere già in sé gli a priori della verità; egli può “auto-presupporsi” solo nel senso di assumere la decisione di aprirsi alla situazione, può presupporre solo questa sua capacità[17].
Da qualsiasi punto di vista si affronti la questione, l’impostazione e l’esito risultano sempre gli stessi: l’uomo deve individualmente trascendersi per poter comprendere l’essere in generale in modo pieno ed autentico.
La stessa comprensione non è di carattere teoretico; non lo è né a livello esistenziale, né tanto meno metafisico. Di conseguenza, anche il progetto non può che avere i connotati della totalità e dell’immediatezza, di una totalità immediata. Il “che cosa” di cui parla il “chi” consiste proprio in una totalità estatica, sia essa situazionale o metafisica.
La “chiamata”, dice Heidegger, si rivolge all’ “Esserci singolo”, e, come tale, non può risolversi in una conoscenza “ideale e universale”. Tuttavia, anche in questa determinatezza singolare, la chiamata “non afferma nulla, non dà alcuna informazione sugli eventi mondani, non ha nulla da dire”. Ma per quanto “non dia nulla”, essa non solo assume un carattere critico ma ha anche un valore “positivo”; questo, però, nel senso che “apre il poter-essere più originario dell’Esserci in quanto esser-colpevole”[18].
Solo armato di questa comprensione di se stesso, l’uomo può porsi positivamente di fronte ad un mondo strutturato come totalità.
Altrimenti, il destino dell’individuo sarebbe segnato da una incomprensione di sé dovuta all’immersione nel Si, la quale gli oscurerebbe l’essere che si manifesta nella totalità dell’ente.
Come si vede, comunque, l’individualità diventa Ipseità solo se si rapporta ad una totalità; l’ipseità consiste nel decidersi di farlo. L’esserci è una totalità e questa condizione, dice Heidegger, “risale a una possibilità ontica dell’Esserci”, dato che in qualche modo traspare già nella “quotidianetà”. Tra quotidianità ed esistenzialità, però, si interpone un atto decisivo. La “decisione anticipatrice”, infatti proviene dal “voler-aver-coscienza” della morte. Cosa deriva, a questo punto, da tale atto decisivo? Heidegger non cessa mai di dirci che un simile atteggiamento non implica “distacco” o “fuga dal mondo” e che l’Esserci non può che vivere nella storia e nel tempo. Ma di questa storia e di questo tempo ci fornisce solo le coordinate essenziali, per così dire, “ideali”. Il loro compito consiste nel condurre all’affrancamento dell’Esserci, portando ad una “decisione dell’ “agire”. L’uomo deve progettare la sua storia e nello stesso tempo deve dimenticare la sua storia attuale, perché, di fronte alle “novità” della chiacchiera del Si, l’Esserci sceglie di “poter-essere isolato”, compiaciuto della sua “gioia imperturbabile”.
Heidegger, il filosofo che con più acume di qualsiasi altro pensatore ha colto i tratti essenziali, le contraddizioni e i temi fondamentali della nostra epoca, suggerisce all’uomo di intuire soltanto le coordinate di massima della sua condizione storica, senza perdersi e disperdersi in analisi e progetti particolareggiati. L’uomo deve comprendere esclusivamente la totalità della sua condizione e la totalità della sua decisione. Di fatti, aprirsi al mondo per l’uomo significa “abbracciare” “oltre all’essere dell’ente che esso stesso è... l’essere dell’ente scoperto dentro il mondo, benché non tematicamente”.
Il progetto, quindi, richiede “un esame”, ma questo avviene “per lo più inesplicatamente” ed il suo contenuto consiste in un “autentico poter-essere-un-tutto”, perché rinvia alla “totalità dell’insieme articolato delle strutture della Cura nell’unità dell’articolazione” che ne risulta (ma risultata per chi? Per tutti? Ne dubito). Perciò, Heidegger afferma che il progetto “non comporta una comprensione precisa di ciò che è progettato”, ma si limita a “procurarsi” “una raffigurazione (immagine) che, anche se non compresa esplicitamente e dettagliatamente, funge da prefigurazione per il tutto dell’ente rivelatesi”, di cui l’Esserci stesso in definitiva fa parte. Il progetto per Heidegger può essere contestualmente trascendente e storico, perché sia la trascendenza che la storia, secondo punti di vista distinti, riguardano entrambi l’ente nella sua totalità[19].
La totalità, per Heidegger, ammette un’articolazione ma non una dialettica, per questo i suoi momenti non possono essere colti autonomamente, prima ancora che distintamente, e neanche possono essere condotti ad una sintesi, che diventerebbe accessibile ad una conoscenza. Al contrario, è possibile solo ad una raffigurazione schematica immediatamente comprensibile. Totalità e mancata coscienza e/o conoscenza si rinviano a vicenda.
E’ probabile che lo stesso filosofo tedesco abbia colto la difficoltà della definizione del progetto così impostato, oltre che della sua concreta realizzabilità. Infatti, riguardo a questo ultimo aspetto, egli precisa che è problematica la stessa affermazione di una prospettiva filosofica nel corso stesso della vita del pensatore che l’ha sostenuta.
Ad una domanda non succede immediatamente una risposta, per cui, per il momento, non resta che ascoltare la voce dell’essere, divenendo la “guardia della verità dell’essere”. Bisogna, perciò, entrare nell’ordine di idee che per “l’uomo storico” si prospetti, relativamente alla pensabilità dell’essere, “l’assenza di necessità come necessità”; condizione, d’altronde, “salutare”, in quanto permette di “prende(re) con sé e reclude(re) la dimensione aperta del sacro”[20].
A mio parere, questo approdo sacro è conseguenziale ed inevitabile rispetto ad una impostazione che ha sempre tenuto di vista la totalità, esistenzialmente articolata ma mai autonoma, e che sin dall’inizio ha mirato ad una totalità assoluta ed indistinta. Nessuna filosofia può sfuggire ad un esito sacrale finchè si costruisce in funzione di una metafisica che non abbia effettiva presa sulla storia.
Heidegger temeva che un’oggettivazione aprioristica delle cose finisse con l’oggettivizzare anche l’uomo; eppure, anche lui è finito col cadere in una nuova oggettivazione dell’uomo, non nello Spirito di un popolo o dello Stato, come voleva Hegel, ma nell’unità dell’essere in generale.
Incidentalmente, si può notare come, su un altro piano, anche lo strutturalismo prospetta una unificazione dell’essere e parla, come l’esistenzialismo di Heidegger, di una raffigurazione, ma questa, in quanto legata al desiderio inconscio, si ricollega ad un immaginario, che è in qualche modo rappresentabile.
La novità introdotta da questo movimento filosofico risiede nel ruolo privilegiato da essa assegnato all’uomo. Questi ha in sé potremmo dire degli a priori, vale a dire la capacità di rappresentare in trascendenza l’unità dell’essere (innanzi tutto nel rapporto immediato tra l’Altro e la madre), così come possiede i processi necessari per concatenare automaticamente i diversi significanti.
Per quanto riguarda l’articolazione dell’ente, questa, pur riconosciuta, resta alienante fino a che l’individuo non abbia, attraverso il desiderio inconscio, riunificato il proprio corpo e superato l’insufficienza della prematurazione specifica della nascita. Solo un individuo completato può ritornare sulla molteplicità dell’ente e riunificarlo sotto l’egida di un desiderio, di per sé proiettato verso l’alterità e di per sé unitario.
Allo stesso modo, il desiderio può stringere in un patto di alleanza il singolo agli altri. Al desiderio, quindi, risale questo potere di riunificazione di se stessi e del mondo, inteso come natura e come società.
Ma, così, lo strutturalismo, rispetto all’esistenzialismo, registra una novità rilevante, dato che è l’unità antropologica e sociale dell’uomo che ricompone in una unità più ampia anche la natura. Il passaggio dalla metafisica (questa unità progettata anticipatamente), alla storia per lo strutturalismo si realizza “effettivamente” nella rappresentazione simbolica operata dal desiderio inconscio.
A mio parere, però, difficilmente, si può sostenere che la rappresentazione simbolica inveri di sé immediatamente e automaticamente la storia del mondo. Per lo strutturalismo, come per l’esistenzialismo, resta, dunque, inevasa l’esigenza della presa d’atto della complessità dell’uomo e della storia, e, perciò, si avversa l’unità conquistata storicamente, attraverso una sintesi dialettica.

 


NOTE
[2] M. Heidegger: Nietzsche, cit.; pp. 731-735.
[3] M. Heidegger: Essere e tempo, cit. Le citazioni sono tratte, nell’ordine, dalle seguenti pp.: 637, 675. 139.
[4] M. Heidegger: Che cos’è la metafisica?, Firenze 1995; p. 75.
[5] Per il riferimento alla “colpa” si veda: Essere e tempo, cit.; p. 425; mentre per la concezione dell’ente come “nulla” si veda: Sentieri interrotti, Firenze 1984; p. 101.
[6] M. Heidegger, Essere e tempo, cit.; pp. 400, 633-641, 677.
[7] Ivi; p. 636.
[8] Ivi; pp. 414, 665.
[9] Per quanto riguarda il riferimento al rapporto Se-stesso/si-stesso, si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 287-288. Sullo stesso argomento, altrove, Heidegger afferma che “la chiamata al Se-stesso ignora il Si” (ivi, p. 407) e che tale richiamo contesta “al Si il suo predominio” (ivi, p. 414). Il riferimento al ruolo dell’angoscia è tratto dalla stessa opera (si veda: p. 288).
[10] Per questo argomento si veda: Che cos’è la metafisica, cit.; p. 77, e: Essere e tempo, cit.; p. 636.
[11] Per il tema della colpa e del “voler aver coscienza” si veda: Essere e tempo, cit., pp. 417 e 427. Per il rapporto tra volontà e libertà si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 666-667.
[12] Per questi argomenti si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 440-444. [13] Ivi; pp. 414 e 425.
[14] Per le questioni relative alla decisione del singolo che apre al “con-essere” si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 439-440. Per i rapporti tra trascendenza e storia si veda: ibidem; pp. 677-678.
[15] M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., pp. 96-97.
[16] M. Heidegger, Essere e tempo; pp. 438 e 452.
[17] Ivi; pp. 343-346.
[18] Ivi; pp. 417, 407, 427.
[19] Per il tema delle possibilità offerte dalla quotidianità e dalla conseguente decisione si veda: Essere e tempo, cit., pp. 454-455. Per il tipo di esame richiesto in ordine al progetto si veda: ivi, p. 473. Per la raffigurazione progettuale si veda: ivi, p. 661.
[20] M. Heidegger, Nietzsche, cit.; pp. 398, 562, 858.

 

 

HEIDEGGER

RIASSUNTO DI ESSERE E TEMPO
Essere e Tempo I
Domanda sull'essere. Heidegger si pone la domanda "cos'è l'essere?". In tal domanda possiamo individuare un cercato (ciò che si domanda), un ricercato (ciò che si trova), e un interrogato (ciò a cui si domanda); il nostro cercato è l'essere, il nostro ricercato è il senso dell'essere, l'interrogato non può che essere un ente, in quanto l'essere è sempre di un ente; questo ente è l'esserci dell'uomo, poiché è costitutivamente apertura all'essere, dunque ne ha sempre una comprensione preconcettuale. Interrogare l'esserci significa studiare le strutture del suo modo d'essere, cioè l'esistenza.
Esistenza. L'esistenza è una possibilità di rapporti che l'uomo può determinare, è trascendersi, progettarsi.
Comprensione ontica ed ontologica. L'uomo posto di fronte alle scelte che deve compiere, ha dapprima una conoscenza ontica del mondo, cioè lo assume come dato, poi però riflettendo si perviene ad una conoscenza ontologica cioè delle strutture dell'esserci che danno un senso al mondo.
Esserci. L'analitica dell'esserci non è studiare il soggetto invece dell'oggetto, poiché l'esserci è costitutivamente apertura al mondo e comprensione di esso. L'esserci è essere-nel-mondo, rapporto con esso, e l'esserci è la totalità del rapporto, non solo un polo di essa.
Mondo. il mondo in cui l'esserci è, per Heidegger, non è né l'insieme degli enti intramondani, né una cornice che li circonda, ma è il campo d'apparizione degli enti che accompagna la comprensione; il mondo è un esistenziale, cioè una struttura dell'esserci, non un ente esso stesso.
Essere-nel-mondo. L'essere dell'esserci è essere-nel-mondo, il che significa prendersi cura degli enti, utilizzarli e maneggiarli, progettare trascendendoli per realizzare un progetto che fa capo all'esserci stesso.
Enti. Gli altri enti dunque hanno il loro essere nella loro utilizzabilità da parte dell'esserci. Fra l'altro, la semplice-presenza degli enti, cioè il fatto di prenderli come dati, è anche essa una forma di utilizzo, utilizzo per il puro conoscere.
Il prendersi cura ha una circospezione, cioè una precomprensione dei rimandi degli enti fra loro: un ente rimanda sempre ad un altro e lo significa in rapporto ad un fine ultimo; tutti questi rimandi fanno capo all'esserci, , il quale ha una precomprensione della totalità dei rimandi, totalità che costituisce il mondo.
Coesistenza. Rispetto agli altri, l'esserci ha cura di essi, e questo può darsi in due modi: o togliere loro le cure, o aiutarli a prendersi cura delle loro cose.
Modi di essere-nel-mondo. L'uomo si trova in una situazione affettiva, nella quale sente di essere-gettato, sente la sua fatticità, ed è una modalità passiva. Poi è nel comprendere, cioè nel progettare; infine è nel parlare.
Esistenza inautentica. Alla base di questa c'è una comprensione ontica, che prende il mondo come dato. È l'esistenza del Si (si dice, si fa), l'esistenza in cui uno è tutti e nessuno, in modo fittizio e convenzionale. Questa esistenza è determinata dalla chiacchiera (il linguaggio che originariamente svela l'essere si banalizza), dalla curiosità (la ricerca del nuovo per l'apparenza visibile), dell'equivoco (non si capisce chi è il "si dice").
Deiezione. La deiezione è quella che permette all'uomo, avendo commerci coi fatti, di ritenersi un fatto, poiché si sente un essere-gettato; la situazione emotiva, che per natura fa sentire il proprio essere gettato, lo fa sentire abbandonato a ciò che è.
Cura e circolarità della Cura. La Cura è la totalità delle strutture dell'esserci, che si prende cura e ha cura. La struttura di questa cura è circolare; infatti mentre da una parte progetta in avanti, nel futuro, dall'altra la situazione emotiva gli fa sentire la propria gettatezza che lo fa tornare indietro.
Essere e Tempo II
Morte. L'esserci è determinato dall'incompiutezza, dalla mancanza. Fra ciò che manca c'è anche la sua fine, la morte. La morte non va concepita in modo epicureo come scomparsa dell'io, né in modo inautentico come fatto. La morte è una possibilità dell'esserci, è la possibilità più propria (concerne l'essere stesso), incondizionata (l'uomo vi si trova davanti da solo), insormontabile (si eliminano tutte le altre possibilità), certa.
Con la anticipazione della morte, l'uomo comprende autenticamente sé stesso, ma ha anche la situazione emotiva dell'angoscia, che lo pone di fronte al nulla della morte, che è possibilità dell'impossibilità di possibilità.
Essere-per-la-morte. La morte non va rifuggita, ma affrontata con la decisone anticipatrice di essa: non è il suicidio o l'attesa (forme di realizzazione che tolgono il carattere di possibilità), ma è tenere presente che questa possibilità c'è sempre: così l'uomo si considera come poter-essere e vede le cose come possibilità, vede la sua possibilità di realizzarsi.
Voce della coscienza. Quello che porta l'uomo alla decisione anticipatrice e all'inizio della vita autentica è la voce della coscienza che lo richiama alla sua nullità. L'esserci è nullità: sia perché è fondamento di sé, ma essendo gettato, è infondato; sia perché nella scelta nullifica altre possibilità; sia perché sarà nullificato dalla morte. L'esserci è il nullo fondamento di un nullificante. Tale nullità non è privazione ma è il nulla assoluto che precede tutto. La voce della coscienza richiama a tale nulla e spinge a sceglierlo, cioè a scegliere la morte, per progettarlo.
Temporalità. La Cura, cioè l'essere dell'esserci, è temporalità. Il progetto è il futuro, l'essere-gettato è il passato e la deiezione è il presente; si parla di essere-avanti-a-sé, di essere-stato e di essere-presso. Questa temporalità dell'essere ha poi originato la temporalità della progettazione, quella ordinaria.
Storia. L'esserci, è storicizzarsi, è determinare mondi storici nel lasso di tempo fra la vita e la morte; è progettare, è tornare indietro alle possibilità ricevute in eredità, e tramandarne di nuove.
Circolarità di vita autentica ed inautentica e differenze con la circolarità della Cura. Un esserci può passare tutta la vita nell'esistenza del Si o percorrere un circolo fra vita autentica ed inautentica. L'esistenza è possibilità, ma le possibilità sono istituite dall'uomo; quindi quando ci si chiede il proprio senso, o lo si cerca nel mondo (valore dell'universo all'interno del quale io mi trovo), o in me stesso come dato (io padrone di me faccio delle scelte perché ho un valore di me intrinseco). L'esserci si sente gettato quando capisce che il mondo non ha senso e nemmeno lui stesso; ma sentendosi gettato, sostituisce un progetto assolto, un valore assoluto, un senso assoluto con un altro di assoluto, ma in questo modo non entra affatto nella vita autentica. Questa circolarità della Cura è ben diversa dalla circolarità di vita autentica-vita inautentica. Essere-per-la-morte non significa sentirsi gettato, ma significa considerare che tutte le scelte non sono assolute ma destinate a essere superate; l'uomo deve scegliere con una riflessione sulla morte, deve pensare che quello che sceglie non va elevato a valore assoluto. Tuttavia, in questa situazione, rischia di rimanere paralizzato, perché nulla assurge ad assoluto; allora cade nell'errore opposto, cioè progettandoti considera il suo progetto come un assoluto, ma ciò è necessario, poiché per fare qualcosa bisogna crederci. In questo modo però si eleva una scelta a valore assoluto, e così ricadi nella vita inautentica.
Il problema della terza sezione di Essere e Tempo
Il rovesciamento. Heidegger, una volta evidenziato che la temporalità era il senso dell'essere dell'esserci, avrebbe dovuto vedere l'essere in quanto tale e la sua temporalità; dopo aver studiato il rapporto dell'esserci con l'essere, avrebbe dovuto studiare il rapporto dell'essere con l'esserci. Quindi non si trattava più di andare dall'ente all'essere come aveva fatto finora e come avevano fatto i metafisici tradizionali, poiché in questo modo l'essere risulta sempre in misura dell'ente. Heidegger doveva andare dall'essere all'ente. Ma, appunto, questo era un processo che la metafisica non aveva mai fatto, e dunque Heidegger non aveva la terminologia adatta al percorso che si riproponeva.
Verità. L'essere per Heidegger è infatti qualcosa che mette in luce gli enti, che ne fa da sfondo. L'essere è verità, ma non come adaequatio rei et intellectus , cioè uguaglianza di essere e verità, fondando l'essere sulla verità; la verità per Heidegger è aletheia , disvelamento, apertura. La verità si disvela, e disvelandosi si apre, cosicché in essa uomo ed enti si possono incontrare. Ma se è disvelamento, c'è anche una parte celata: l'essere stesso, che è niente (= non-ente), implica una parte negata, nascosta. Si capisce perché Heidegger parli di verità chiaroscurale.
Ontologia. Heidegger vuole fare dell'ontologia, cioè vuole esporre il pensiero dell'essere, il pensiero che viene pensato dall'essere, il suo disvelamento. Le strutture esistenziali, riferite prima all'esserci, andranno all'essere. L'esserci ora potrà conoscere ma solo perché è in un mondo che fa capo all'essere e in cui ci sono altri enti illuminati dall'essere; l'esserci deve dunque aprirsi all'essere, abbandonarvisi, e interpretarsi come appartenente all'essere; ma l'essere ha bisogno dell'uomo come termine del suo disvelarsi; l'uomo è il pastore dell'essere, custode della sua verità rivelata.
Critica alla metafisica
Storia. Per Heidegger l'essere, come l'esserci, si storicizza nella forma dell'invio; l'uomo è sempre rinviato ad un mondo storico che ha già una sua comprensione dell'essere. La successione dei mondi è la storia dell'essere; ma tale storia è fatta di epoche, cioè di momenti di sospensione del disvelamento dell'essere. L'essere è evento, poiché si storicizza, e l'evento di questo non-disvelamento, di questo oblio dell'essere nel mondo occidentale è la metafisica.
Metafisica. La storia della metafisica è storia dell'oblio dell'essere. La metafisica e il suo oblio dell'essere è il corrispondente dell'alienazione di Marx, della reificazione di Lukács, cioè è la causa dello scadimento della società occidentale. La metafisica, più in particolare, come oblio, è oblio della differenza ontologica fra essere ed ente; differenza di cui si è tenuto conto, che ha operato, ma mai fatto oggetto di attenzione. Heidegger vuole superare la metafisica tornando alla verità chiaroscurale dell'essere.
Storia della metafisica. Dapprima i metafisici hanno stabilito l'essere come essere oggettivo, poi hanno posto l'uomo al punto massimo, poi hanno reso l'oggettività un prodotto del soggetto, e infine l'uomo è stato elevato ancora più in alto, spezzando ogni legame colla realtà. La metafisica comincia con Platone, il quale nasconde il carattere chiaroscurale della verità e la definisce conformità intelletto-oggetto. Con Cartesio l'essere-vero è certo per il soggetto, poiché il pensiero viene assolutizzato. Hegel riconduce tutto allo Spirito. Nietzsche infine parla di volontà di potenza che esaurisce tutta la realtà; Nietzsche fa metafisica sbagliata (a differenza di Heidegger che fa una metafisica più corretta), poiché in lui non c'è esistenzialismo, non c'è uno scarto fra essere ed esserci, ma la volontà di potenza viene posta come assoluto. Dopo Nietzsche la metafisica non può più espandersi.
Tecnica
La tecnica per Heidegger è il compimento della metafisica, poiché la tecnica ritiene l'uomo capace di utilizzare tutto l'ente, fino in fondo (imposizione). Ma la stessa imposizione è svelamento dell'essere.
Opera d'arte
Un'opera d'arte non è un ente intramondano nella rete dei rimandi, ma ente che dischiude un suo mondo, istituisce un mondo di valori e di significati, che provengono dalla materialità fisica della terra. La terra è il tratto di chiusura implicato in un'apertura, ma è una chiusura che contiene molti altri significati per epoche e culture successive.
Linguaggio
La poesia è un arte molto importante, poiché si avvale della parola, cosa che schiude mondi nuovi. Il linguaggio è la casa dell'essere, perché l'incontro degli enti può avvenire solo col linguaggio. Però non si può parlare del linguaggio: infatti, parlando del linguaggio siamo già in esso, che ci ha preceduto. Esiste una circolarità ermeneutica fra uomo e linguaggio: infatti, usare il linguaggio per parlare di qualcosa significa che già abbiamo una comprensione di quel qualcosa come un mondo, e la comprensione non può avercela fornita che il linguaggio. Tale circolarità si articola come chiamata e ascolto: il linguaggio che pensiamo di usare, in verità viene prima di noi, poiché senza di esso nemmeno possiamo pensare, dunque essere uomini.

 

HEIDEGGER
ESSERE ED ESISTENZA
Il termine essere può essere impiegato in molti significati, nel senso di esistere oppure di essere vero o come copula che collega un soggetto e un predicato. Il problema è se esista un significato primario che consenta di pensarli tutti nella loro unità. Generalmente, quando si usa il termine essere, si privilegia un determinato tempo verbale, il presente, ma si può dire che l'essere si riduca soltanto a ciò che è presente? Il tempo si articola in passato, presente e futuro e si può quindi porre la domanda: il tempo appartiene al senso dell'essere? Nel momento in cui si pone questa domanda l'equivalenza fra essere e essere semplicemente e costantemente presente non è più ovvia. Tale domanda, tuttavia, ad avviso di Heidegger, è stata dimenticata dopo Platone e Aristotele. Solitamente si dice che essere è il concetto più generale di tutti: di qualunque cosa, infatti, si può dire che è. Ma se è il concetto più generale, esso no può essere definito, dal momento che una definizione richiede l'esibizione del genere entro il quale l'oggetto da definire viene distinto mediante una differenza specifica; ma l'essere, essendo il concetto più generale, non può essere incluso in un genere più ampio. Per giungere al concetto di essere occorre allora percorrere un'altra strada. La domanda sull'essere, come ogni domanda, comporta che ci sia qualcosa che viene cercato (in questo caso l'essere) e qualcos'altro che viene interrogato (ossia un ente), ma ciò che è interrogato sul senso dell'essere non può essere un ente qualsiasi tra gli altri. Infatti, perché sia possibile il problema del senso dell'essere occorre che sia possibile la comprensione dell'essere ; quindi deve esserci un ente, al cui modo di essere appartenga la comprensione dell'essere. Tale ente, che detiene pertanto questo primato tra gli altri enti, è quello che Heidegger chiama esserci (Dasein, 'l'essere qui'), come modo di essere proprio dell'uomo. Heidegger usa questo termine in un significato diverso da Jaspers, per il quale esserci indica non solo l'uomo, ma tutte le cose in quanto semplicemente presenti al mondo. Rispetto agli altri enti, l'esserci ha per Heidegger la peculiarità che ' nel suo essere, ne va di questo essere stesso ', ossia il suo essere non è qualcosa di dato stabilmente, ma è sempre in gioco. Ciò significa che l'esserci si rapporta al proprio essere, è aperto ad esso: avendo una comprensione dell'essere, l'esserci non è semplicemente un ente (ossia, nel linguaggio heideggeriano, non è soltanto ontico), ma ha la prerogativa di essere ontologico, ossia di poter condurre un ricerca esplicita sul senso dell'essere, cosa che gli altri enti non sono in grado di fare. Kierkegaard aveva definito esistenza questo rapportarsi all'essere: per Heidegger l'esistenza è l'essere o essenza dell'esserci. Heidegger asserisce che ' l'esserci comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso '. Attraverso l'interrogazione dell'esserci in rapporto al suo essere, si ricercano le strutture fondamentali dell'esistenza: l'indagine che cerca di portare alla luce queste strutture è chiamata da Heidegger analitica esistenziale , antecedente a ogni psicologia, antropologia o biologia. Il metodo da impiegare, secondo Heidegger, deve essere fenomenologico, nel senso già chiarito di ' lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da sé ': si tratta cioè di fare in modo che le strutture dell'esistenza si manifestino alla comprensione propria dell'esserci. Occorrerà, dunque, scegliere modalità di accesso a tali strutture, che consentano all'esserci di mostrarsi da sé, dapprima com'è per lo più, nella sua quotidianità media . L'esserci, come si è visto, è definito dal fatto che per lui ne va sempre del suo essere, cosicchè l'esserci è sempre la sua possibilità, non possiede il suo essere come un proprietà semplicemente presente. Ciò significa che l'esserci può conquistarsi o perdersi: nel primo caso si ha l'esistenza autentica e nel secondo quella inautentica, dove "autentico" e "inautentico" significano letteralmente "appartenente o no a se stesso". Nella quotidianità media, l'esserci si manifesta nel modo dell'inautenticità e quindi, a questo livello, si può pervenire soltanto ad una chiarificazione preparatoria, non ancora ad una risposta circa il senso dell'essere in generale; tuttavia, anche in seno alla quotidianità media e pertanto in maniera inautentica, si manifestano, secondo Heidegger, le strutture dell'esistenza. Infatti, l'esserci si è formato all'interno del modo di comprendere l'essere, che si è consolidato in una tradizione, anche se per lo più questa dimensione storica e tramandata del suo modo di comprendere l'essere resta nascosta all'esserci e non viene tematizzata. Si tratta allora di cogliere l'essere dell'esserci contro la sua tendenza all'inautenticità: l'analitica esistenziale ha, dunque, secondo Heidegger, un carattere violento, in quanto va contro la tendenza dell'esserci nella sua quotidianità a dimenticare o fuggire se stesso. Il primo passo dell'analitica esistenziale consiste nel mostrare qual è la struttura fondamentale dell'esserci nella sua quotidianità media. In questa situazione l'esserci, anziché giungere al possesso di sé, tende a interpretare se stesso a partire dal fatto che per lo più si disperde nella cura del mondo. Per questo aspetto, l'esserci è erede inconsapevole di una tradizione risalente alla metafisica greca, nella quale il senso dell'essere è determinato come ousìa , cioè come sostanza e, quindi, compreso a partire da un determinato modo del tempo, il presente. Ciò significa che il punto di partenza dell' autocomprensione dell'esserci nella sua quotidianità è dato dal mondo, come insieme degli enti semplicemente presenti. L'esserci per lo più tende a comprendere il proprio essere in base agli enti con i quali si rapporta costantemente, ma in tal modo gli rimane nascosto il suo specifico modo di essere. In generale, dunque, l'esserci si configura come essere-nel-mondo , dove essere-nel-mondo significa, più che il semplice trovarsi spazialmente presenti dentro o a contatto con qualcosa, essere presso, abitare, essere familiare con: tutte queste espressioni indicano, secondo Heidegger, modi del prendersi cura (in tedesco Sorge ) del mondo. L'esserci, dunque, non ha un rapporto puramente conoscitivo col mondo, come rapporto tra soggetto e oggetto: su questo punto Heidegger si allontana nettamente da tutte le impostazioni filosofiche, in particolare neokantiane, che avevano assegnato una posizione privilegiata al problema della conoscenza. Il mondo, al quale l'esserci si rapporta nella sua quotidianità media, è chiamato da Heidegger mondo-ambiente: esso è costituito dalle cose intese come utilizzabili, cioè come strumenti, mezzi in vista di qualcos'altro. Questo spiega perché nei confronti del mondo l'esserci abbia non un atteggiamento esclusivamente teoretico, consistente nel vedere e rappresentarsi in maniera puramente disinteressata gli enti che lo popolano, bensì quella che Heidegger chiama visione ambientale preveggente . Questa consiste, infatti, nel prendersi cura pratico delle cose, che, in quanto utilizzabili, si mostrano vicine all'esserci non solo in senso spaziale, ma "a portata di mano" in vista di determinati fini. Quando, invece, l'esserci si limita a osservare e considerare le cose nella loro semplice presenza, si genera l'atteggiamento teoretico, che è dunque soltanto un modo secondario e particolare del prendersi cura del mondo. Il mondo, tuttavia, è costituito non soltanto dalle cose utilizzabili o semplicemente presenti, ma anche da enti che sono tali e quali l'esserci che li comprende, ossia dagli altri uomini, cosicchè l'essere-nel-mondo è anche sempre essere-con (in tedesco mit-sein ) altri. L'esserci ha sempre cura degli altri, anche se di fatto per lo più non se ne cura o crede di poterne fare a meno; anzi per lo più si muove nella soggezione agli altri, non è autenticamente se stesso. Nella quotidianità, infatti, ciascuno è intercambiabile e ciò che domina è il Si ( man ), indeterminato e anonimo, in cui tutte le possibilità si trovano livellate e ricondotte all'uniformità. Nelle pagine che Heidegger dedica a questo tema è avvertibile la critica, diffusa nella Germania del suo tempo, alla massificazione e spersonalizzazione prodotto dalla moderna civiltà tecnica. L'essere autenticamente se stessi equivale, invece, a sottrarsi al dominio del "si" impersonale per aprirsi alle proprio possibilità. Questo avviene nei due modi essenziali dell'esistenza, che Heidegger chiama esistenziali: essi sono il sentirsi situato ( Befindlichkeit ) e il comprendere ( Verstehen ). L'esserci si avverte sempre emotivamente situato nel mondo, gettato in esso, senza che ciò dipenda dalla sua iniziativa. Nel sentirsi un essere-gettato nel mondo , cosa che Heidegger chiama anche effettività, per distinguerla dalla semplice presenza nel mondo, l'esserci incontra se stesso più nella forma della fuga che in quella della ricerca di se stesso. La struttura propria del sentirsi situato viene alla luce nella paura, perché solo l'esserci, per cui ne va del suo essere, può spaventarsi e si sente aperto al rischio. D'altra parte, avvertendosi situato, l'esserci comprende se stesso, anche se tende a reprimere e occultare questa sua comprensione. Questa struttura esistenziale della comprensione è chiamata da Heidegger progetto, nel senso letterale di "gettare avanti"; la comprensione, infatti, progetta l'essere dell'esserci nel suo poter essere, che non è qualcosa di già dato. D'altra parte, progetto non equivale al semplice escogitare piani, perché l'esserci si comprende giò sempre a partire da possibilità date. Quando sviluppa la comprensione, l'esserci giunge all' interpretazione , che consiste nell'appropriarsi di ciò che ha compreso e quindi nell'elaborare el possiblità progettate nella comprensione. Il discorso , a sua volta, è l'articolazione del sentirsi situato e della comprensione. Che carattere assumono nella quotidianità la comprensione, l'interpretazione e il discorso? Heidegger non intende muovere contro la quotidianità e l'esistenza inautentica, a cui essa approda, una critica materialistica; il suo intento è invece di mettere in luce le strutture proprie dell'interpretazione che abitualmente l'esserci dà di sé, entro le quali l'esserci è cresciuto e si è formato e alle quali non può mai definitivamente sottrarsi. La chiacchiera è il modo di essere della comprensione o interpretazione propria dell'esserci nella sua quotidianità, il quale si regola sul si : ' Le cose stanno così perché così si dice '. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza appropriarsi preliminarmente della cosa da comprendere: essa diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto, ma in tal modo l'esserci smarrisce la sua apertura alla possibilità. La tendenza al "vedere", caratteristica della quotidianità, è la curiosità : essa non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, ma soltanto di vedere, è incapace di soffermarsi e cerca continuamente la distrazione e il nuovo sol ocome trampolino per cercare un altro nuovo e così via. In questa situazione sembra che tutto sia compreso, ma non lo è: l' equivoco è la comprensione dell'esserci fondata nel "si", la quale finisce per non sapere neppure a che cosa si riferisca il "si". Nella connessione di chiacchiera, curiosità ed equivoco si rivela il modo fondamentale dell'essere della quotidianità: Heidegger lo chiama la deiezione dell'esserci, ossia lo scadere dell'esserci al livello di un fatto, il suo disperdersi nel mondo e nella dimensione pubblica del "si". Qui l'esserci vive non come autenticamente se stesso, ma come "si" vive ed è nella tranquillizzante presunzione di possedere e raggiungere tutto. In tal modo l'esserci è nell'inautenticità, la quale tuttavia non è uno stato di fatto, com'è presupposto, invece, dalla dottrina cristiana della corruzione della natura umana dovuta al peccato originale, ma è una possibilità. Proprio in quanto l'inautenticità è una possibilità e non un dato di fatto necessario, ne risulta che l'esserci può anche essere autentico.
MARTIN HEIDEGGER E L'ESISTENZIALISMO LAICO (1889-1976)
Premessa
H. si pone sulla scia di Husserl perché esamina l'esistenza dell'uomo, osservando ciò che si rivela immediatamente alla sua coscienza, alla sua vita concreta (i fenomeni), ma si allontana da Husserl perché colloca l'esistenza (temporale e contingente) nel mondo, evitando di ricercare il significato dell'essere nelle essenze universali e necessarie (nelle forme eidetiche). L'ultimo Husserl s'era posto il problema di concretizzare il soggetto trascendentale, ma era finito su posizioni idealistiche. Alla fenomenologia dell'essenza, H. oppone una fenomenologia dell'esistenza o dell'esistente (ontologia fondamentale), la quale però non vuole essere una filosofia esistenziale, in quanto -a suo giudizio- il problema centrale è quello ontologico dell'essere (che coincide col senso dell'uomo o esserci, Dasein).
In questo tentativo di superare la fenomenologia, H. in realtà mira a superare tutta la metafisica razionalistica occidentale, che secondo lui s'è persa nell'oggettività, degradandosi a conoscenza scientifica e tecnica, identificandosi con la logica, offrendo un essere come "semplice presenza" (evidenza), mentre l'esigenza più vera è quella di fondare la filosofia sulla condizione drammatica dell'esistenza, sul modello di Kierkegaard, Nietzsche e Dilthey, le cui opere si erano molto diffuse nella Germania degli anni precedenti la I guerra mondiale.
Non dobbiamo però dimenticare che H. cercò anche di elaborare una risposta filosofica, in chiave borghese-reazionaria, alla crisi del movimento operaio tedesco (vedi la repubblica di Weimar) e alla riuscita della rivoluzione russa.
Biografia
Nasce nel 1889, nel Baden. Nel 1909 s'iscrive all'università di Friburgo, diventando un allievo di Rickert. Nel 1913 si laurea con una tesi sullo Psicologismo (pubblicata a Lipsia nel 1914), che viene contestato dal punto di vista della fenomenologia di Husserl. Lo psicologismo, che si riallaccia a Mill, dominava nella cultura filosofica tedesca post-hegeliana. H. rivendica la validità della logica, contro la pretesa di ridurre le leggi logiche a leggi empiriche sul funzionamento della mente umana: preferisce la logica perché gli offre garanzie di stabilità e immutabilità.
Nel 1915 diventa libero docente all'università di Friburgo con una dissertazione su Duns Scoto. La prolusione invece è sul concetto di Tempo nella storiografia. Nella dissertazione pone il problema della fondazione della validità obiettiva delle categorie nella vita della coscienza, caratterizzata da temporalità e storicità. H. cioè rivendica la necessità di un passaggio oltre la logica, rifiutando di considerare le categorie solo come funzioni del pensiero (nasce la polemica anti-neokantiana).
H. non era ancora avverso a Husserl, perché mentre il neokantismo privilegiava la scienza, nel suo carattere costruttivo e matematizzante (come unica forma di conoscenza valida), per Husserl invece l'atto conoscitivo si risolveva nell'intuizione delle essenze, che non si riduce alla conoscenza scientifica, ma è un incontrare le cose. La fenomenologia appare quindi a H. come un modo per allargare il discorso neokantiano in direzione della storicità, della concretezza.
Nel 1916 Husserl viene chiamato all'università di Friburgo. H. ne diviene assistente. Dal '17 al '23 lavora intensamente col maestro su Kant, Aristotele, Fichte, Mistica medievale, Fenomenologia della religione, Agostino e Neoplatonismo... Dal '23 al '27 è professore a Marburgo: tiene corsi e seminari su Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Cartesio, Droysen, sull'ontologia medievale, sul concetto di Tempo... Nel '27 pubblica la prima e unica parte di Essere e tempo. Rompe con la filosofia di Husserl, ma contrasti ve n'erano stati anche prima, poiché Husserl mal sopportava l'antisemitismo di H. Nel '28 gli succede a Friburgo. Nel '29 pronuncia la prolusione Che cos'è la metafisica? Pubblica anche Kant e il problema della metafisica e L'essenza del fondamento.
Nel '33 è nominato rettore dell'università di Friburgo; aderisce al partito nazista, pronunciando il discorso Autoaffermazione dell'università tedesca (vedi anche l'Appello agli studenti tedeschi), ma l'anno dopo, per dissensi col governo, si dimette a cessa di occuparsi di politica. Pur tenendo regolarmente i corsi accademici, non pubblica quasi nulla fino al 1942. Oggi nessuno sostiene che l'esplicita adesione al nazismo sia stata una casuale sbandata di un impolitico. Fin dagli anni '20 H. aveva manifestato aperte simpatie verso i cd. "resistenti" tedeschi al trattato di Versailles del 1919; non solo, ma egli intendeva anche che il suo pensiero avesse un'espressività pubblica di carattere politico.
H., proprio come il nazismo, criticherà sia il liberalismo che la democrazia, espressioni per lui del moderno soggettivismo, cioè dell'integrale nichilismo: il liberalismo, perché finge la democrazia, tenendo il popolo in una situazione di chiacchiera, curiosità ed equivoco; la democrazia, perché rappresenta il dominio della massa sul pensiero (qui H. ripete Kierkergaard e Nietzsche). Tuttavia egli si distaccò dal nazismo perché non ne condivideva il biologismo razzista (vedi la lettera a Jaspers del 1950).
Naturalmente nella critica della democrazia H. includeva anche quella del socialismo. Come tutti i tedeschi di destra degli anni '20 e '30, chiamava "socialismo" solo la socialdemocrazia della SPD (di Kautsky e Hilferding), mentre chiamava "bolscevichi" tutti i comunisti, compresi quelli tedeschi. In realtà i conflitti interni al comunismo non gli sono mai interessati. Il marxismo, per lui, non era che una forma di soggettivismo esasperato (il collettivismo forzato come sublimazione dell'umanesimo astratto). Sarà nel '47 che tenterà una cauta rivalutazione del marxismo definendolo una teoria dell'alienazione come allontanamento dall'origine (le origini tradite o rovesciate nel loro contrario). Tesi per cui l'ultimo H. affermerà: "Solo un Dio può ancora salvarci!".
Durante il suo rettorato nel '33-'34 chiese alle autorità naziste di revocare, con "destituzione", dall'insegnamento il collega H. Staudinger, chimico di fama internazionale (poi premio Nobel nel 1953), adducendo il suo atteggiamento "pacifista" e "antinazionalista" durante la I guerra mondiale e quindi la sua inaffidabilità per il nazismo. H. si oppose anche a mantenere nell'insegnamento E. Baumgarten, da lui denunciato per i suoi rapporti con alcuni ebrei. Rompe anche con K. Jaspers, i cui rapporti erano stati mantenuti dal '20 al '33.
Il secondo H. inizia con un corso di Introduzione alla metafisica, del '35, pubblicato nel '53. La svolta non è politica, perché sia qui che nel Discorso del '33, H. assegna alla Germania nazista il compito di salvare i valori della tradizione europea dalla barbarie tecnocratica degli USA e dall'ideologia comunista dell'URSS. Ma è di tipo filosofico, in quanto il tema fondamentale diventa quello del nulla, per il quale l'esserci prova solo angoscia. H. cioè mira a trovare un fondamento dell'essere nel nulla. H. comincia a dare della metafisica occidentale un giudizio assolutamente negativo, mentre in Essere e Tempo aveva avuto la pretesa di riformarla. Non dobbiamo però dimenticare che Essere e Tempo -a detta dello stesso H.- era rimasto incompiuto perché la metafisica tradizionale non aveva il linguaggio adatto per concluderlo. Nell'analisi dei concetti di nulla e di angoscia H. dipende in toto da Kierkegaard (già in Essere e tempo s'era capita questa dipendenza). Il pensiero del secondo H. diventa meno organico, appunto perché si presenta come tentativo di superare la metafisica (questa esigenza verrà ripresa da tutta la Scuola di Francoforte). H. si rifiuterà di trovare una definizione esaustiva dell'essere; l'essere anzi risulta indefinibile, in quanto coincide col nulla; per cui il pensiero deve adeguarsi in modo diverso all'essere, non in maniera concettuale, per definizioni, ma in maniera contemplativa, apofatica, mettendosi in ascolto, poiché l'essere si nasconde.
La svolta prosegue nel biennio '35-'36, allorché gli interessi di H. si spostano sul terreno dell'arte , dell'estetica, della poetica e del linguaggio. Tiene una conferenza a Roma su Hölderlin e l'essenza della poesia e due conferenze a Friburgo e Zurigo sull'Origine dell'opera d'arte (che costituisce il nucleo del più ampio saggio pubblicato in Sentieri interrotti).
Dal '36 al '42 tiene una serie di corsi e seminari su Nietzsche, pubblicati nel '61. Nel '42 esce anche La dottrina platonica della verità.
Dal '44 al '51 un divieto delle potenze occupanti in Germania gli impedisce qualunque attività accademica. Nel '52 scrive una lettera al suo fedele amico W. Petzet affermando, appena dopo essere stato reintegrato nell'insegnamento, che era pronto a rinunciarvi se avessero affidato al filosofo K. Löwith (già suo allievo) una cattedra nella Germania occidentale. (Löwith, al tempo del nazismo, era emigrato prima in Giappone, poi negli USA). Jaspers si pronunciò contro la reintegrazione di H.
Pubblica L'essenza della verità nel '43, un libro di saggi su Hölderlin nel '44, la famosa Lettera sull'umanismo nel '47, in cui dichiara di non aver nulla a che fare con l'esistenzialismo francese, e Senteri interrotti nel '50. Sempre nel '50 tiene una conferenza sul Linguaggio. Dal '51 al '58 riprende, dapprima in forma privata, corsi e seminari all'università, su Parmenide, Hegel, Aristotele, Leibniz e sul Linguaggio. Muore nel 1976.
Analisi di ESSERE E TEMPO
Il problema ontologico
In Essere e tempo vi è la critica della metafisica occidentale, da Platone in poi. H. mette in dubbio che tale metafisica abbia mai saputo possedere l'essere. Le risposte ch'essa ha dato alla domanda "che cos'è l'essere?", sono state tre: 1) l'essere è il concetto più generale, trascendente le categorie (Hegel disse "immediato indeterminato"); 2) il concetto di essere è indefinibile, incapace di dualizzarsi per lasciarsi comprendere; 3) l'essere è un concetto evidente.
In realtà, dice H., non si può parlare dell'essere senza parlare immediatamente dell'uomo (esserci) che si pone degli interrogativi sull'essere. L'esserci, nella metafisica classica, si chiede cosa sia l'essere dandone per scontata la presenza. Ciò significa che la realtà dell'essere è a un tempo oscura e desiderata. Chiedersi cos'è l'essere significa, in verità, chiedersi qual è il senso dell'esserci. Il rapporto dell'esserci all'essere è determinato dall'esistenza e l'esistenza è caratterizzata dalla temporalità. Questo rapporto è ontologico: è un rapporto antecedente alla relazione conoscitiva dell'esserci coll'essere, è un rapporto che la metafisica tradizionale ha sempre nascosto. L'ontologia, a differenza della metafisica, è quella scienza che descrive le strutture e i caratteri dell'essere a partire dall'esserci, cioè impedisce di dare una qualunque definizione di essere che non tenga conto dell'esserci. Essa quindi non è che una analitica esistenziale. La metafisica che identifica l'essere con la semplice-presenza non ha senso, poiché l'esserci, che dovrebbe identificarsi con l'essere, non ha le caratteristiche dell'oggettività.
Per compiere tale critica H. s'è servito di Dilthey (con la sua riduzione delle filosofie ad espressività temporali), di Nietzsche (che ha mostrato che il fondamento dell'essere dipende dalla volontà del soggetto), di Kierkegaard (che ha sottratto il soggetto a definizioni astratte).
L'esserci come essere nel mondo
Secondo H. le caratteristiche fondamentali dell'esserci sono le seguenti:
1) l'uomo come progetto. La riproposizione del problema dell'essere si avvale dell'analisi delle maniere (media statistica) in cui i singoli uomini si determinano quotidianamente nel mondo. Si scopre così che l'uomo si determina sempre come poter-essere, in quanto egli fa continuamente delle scelte. Il problema dell'essere è legato all'esistenza e alla categoria della possibilità. L'esistenza non è che un trascendere la realtà per realizzare una nuova possibilità,- cioè noi esistiamo come un continuo tendere verso una diversa sistemazione della realtà. Essere significa progettare. La conseguenza di ciò è che le cose non possono essere considerate come puri oggetti, nel loro essere in sé, indipendentemente da noi e dai nostri interessi. Le cose non sono mai in sé, ma sempre come strumento per l'uomo, che le modifica continuamente, senza astrarle dal contesto cui appartengono. Infatti la totalità degli strumenti è il mondo. La manipolazione delle cose è relativa al modo in cui l'esserci si rapporta al mondo. Le cose dunque esistono non per se stesse ma per l'uomo che le trasforma e le inserisce, come strumenti, in un progetto. Esse dunque vengono all'essere solo in virtù dell'uomo. Il mondo rimane la condizione perché le cose siano, non è la somma delle cose. L'oggettività delle cose dipende dall'esserci, non è in sé. Prima del mondo c'è l'esserci. La strumentalità delle cose è manifesta attraverso il linguaggio e in generale attraverso i segni. Il segno non ha altro uso che quello di rimandare a qualcos'altro. Il rimando del segno è comprensibile attraverso il linguaggio.
Fin qui H. ripercorre strade già battute dall'idealismo tradizionale e dalla fenomenologia. L'unica differenza di rilievo sta nel fatto che mentre per la metafisica tradizionale il soggetto ha anzitutto con la realtà un rapporto conoscitivo (per poterla meglio trasformare), l'esserci di H. invece è un soggetto che apprende anzitutto emotivamente (precomprensione emotiva), nel senso che il rapporto affettivo col mondo è il primo modo d'essere dell'esserci. L'esserci fa già parte del mondo prima ancora di distinguersi da esso attraverso la conoscenza. H. fa qui una distinzione precisa tra comprendere il significato delle cose (che ci è possibile in quanto il significato è in noi) e interpretare il mondo (che è in fondo un'autointerpretazione. L'uomo ha in sé una pre-comprensione originaria che attraverso l'interpretazione gli fa scoprire le cose che sono già in lui. E' il circolo ermeneutico, di derivazione platonica). La situazione affettiva è una specie di pre-comprensione più originaria della comprensione stessa. Le cose, per H., hanno un significato teorico e una valenza emotiva: noia, gioia, paura, disperazione... che non dipendono sempre dal soggetto, ma anche dall'esterno che lo condiziona. Questo condizionamento viene chiamato deiezione o essere-gettato.
2) L'esistenza come progetto gettato. L'esserci che progetta il mondo progetta se stesso. L'esserci è anche un progetto "gettato" (consegnato) sul mondo (cioè progettato in modo da aderire ad una certa strumentazione del mondo già esistente). Questo mondo orientato strumentalmente e linguisticamente assume l'esserci e si sottopone a trasformazione. Proprio perché l'esserci è gettato nel mondo, il suo progetto ha dei limiti invalicabili: l'uomo si trova ad essere senza averlo deciso, è in un mondo che condiziona radicalmente le sue scelte, ha di fronte la prospettiva della morte. Il problema per H. è quello di vedere come tale finitezza può condizionare positivamente l'uomo (cosa che la metafisica tradizionale s'era sempre rifiutata di fare). H. vuole dimostrare che solo perché l'uomo è "finito", chiuso tra la nascita e la morte, può fare la storia.
3) Autenticità e inautenticità dell'esserci. Con la nozione di essere-gettato si apre la tematica esistenzialistica vera e propria. Nel progettare il mondo e se stesso, l'esserci si trova di fronte a delle possibilità equivalenti. Una sola è obbligata: quella della morte. La differenza tra la morte e le altre opzioni di vita è che la morte resta permanentemente una possibilità (quando diventa realtà, l'esserci non c'è più). La morte così rende impossibili per l'esserci le altre possibilità. La possibilità più autentica quindi è quella della morte. Tutte le altre sono inautentiche.
Generalmente però l'esserci rifiuta di mettersi costantemente in rapporto con la morte, e preferisce assolutizzare delle possibilità particolari, cadendo nell'inautenticità (l'esperienza dell'anonimo "SI"). Nel mondo del "SI" (MAN) l'esserci si disperde nella CURA delle cose, per cui si lascia dominare dalla CHIACCHIERA (banalità), dalla CURIOSITA' (oziosa e gratuita), dall'EQUIVOCO (fra ciò che è autentico e non). Le opinioni comuni si condividono appunto perché comuni. L'esserci insomma è deietto.
Viceversa, esistere autenticamente significa assumere come possibilità-base la morte, la quale ha il compito di relativizzare le scelte particolari, di trascenderle continuamente, tanto nessuna di esse potrà realizzarsi secondo il nostro progetto, poiché esso resta condizionato dal passato e dal presente.
In sostanza il nulla di tutte le realizzazioni particolari viene smascherato dall'angoscia che l'esserci prova di fronte alla morte. Chi non prova questa angoscia teme la morte e la fugge, ma così ha un atteggiamento illusorio, poiché la morte non può essere fuggita. L'esserci insomma deve trascendere il particolare, non per rifugiarsi in un ideale astratto, ma per non lasciarsi trascinare dal particolare in un'esistenza inautentica. La metafisica quindi sta proprio ad indicare l'essere-per-la-morte dell'esserci. La realtà dell'uomo sta nel saper scegliere la morte prima che la morte scelga l'uomo. La scelta è per l'autenticità, in quanto se l'uomo non scegliesse, la morte lo coglierebbe di sorpresa. L'uomo non può rinunciare allo stato di colpa (angoscia) che è in lui, può soltanto assumerselo consapevolmente. Il contenuto dell'essere è quindi il nulla (la morte è il nulla); il tempo stesso lo indica, poiché nel tempo tutte le cose, anche quelle progettate, muoiono. La temporalità può essere considerata il senso dell'essere dell'esserci. La storicità dev'essere sostituita con la destinalità. (Che il nulla sia il contenuto dell'essere, verrà detto esplicitamente in Che cos'è la metafisica).
Essere e tempo si conclude con la IIa sez. della Ia parte; la IIIa sez. era intitolata "Tempo ed essere" e doveva essere quella più concreta e propositiva, ma non è mai stata scritta. La IIa parte doveva riguardare l'analisi di Kant, Cartesio e Aristotele. H. disse che l'opera rimase incompiuta per il venire meno del linguaggio, condizionato dalla metafisica tradizionale. La conclusione insomma di Essere e Tempo è che proprio la metafisica impedisce una vera comprensione dell'essere.
Il problema linguistico
Il fallimento di Essere e tempo induce H. ad approfondire il problema del linguaggio: il linguaggio infatti condiziona la possibilità dell'esserci di fare esperienza del mondo e di elaborare i problemi. Nella conferenza sull'Essenza della verità (1930) H. dirà che se è vero che è l'uomo a parlare il linguaggio, è anche vero che il patrimonio di parole di cui disponiamo (incluse le regole grammaticali, sintattiche, logiche) pongono dei limiti invalicabili a ciò che possiamo pensare e dire. Il linguaggio non possiamo modificarlo nella sostanza, ma solo nella forma.
In questo senso l'essere non è né l'esserci, né il mondo, ma una "luce" (avvento illuminante-proteggente) in cui uomini e cose possono incontrarsi e capirsi. L'essere quindi fa apparire le cose, gli enti, la storia, ma senza rivelarsi, anzi nascondendosi. L'ontologia deve avere un atteggiamento apofatico nei confronti dell'essere, altrimenti lo fa coincidere, banalizzandolo, con le cose (essere come semplice-presenza). La dialettica tra ente ed essere va sostituita con la differenza ontologica.
La tradizionale metafisica ha obliato l'essere livellando tutto sul piano dell'oggettività misurabile e organizzabile (di qui il trionfo della tecnica). L'esponente più coerente di questa metafisica -secondo H.- è Nietzsche, che ha fatto dell'essere un valore posto dal soggetto per la propria espansione vitale. L'uomo ha prodotto un essere a sua immagine (in virtù soprattutto della tecnica).
L'ontologia deve invece restare in ascolto dell'essere decodificando il linguaggio con cui esso si esprime (soprattutto nella poesia e nell'arte). Al limite l'esserci deve rimanere in silenzio lasciando che sia solo l'essere a parlare. La verità è rivelazione del nascondimento dell'essere. L'essere che noi conosciamo è solo quello che permette d'essere conosciuto.
Riassunto
Dopo aver pubblicato, nel 1927, Essere e tempo (la sua opera principale), H. si distacca da Husserl, di cui era assistente universitario, e fonda l'ontologismo esistenziale, cioè il tentativo di trovare un senso all'essere (metafisico) a partire dall'esistenza dell'esserci (umano). (Husserl era un fenomenologo, ma i contrasti con H. vertevano anche sull'antisemitismo di quest'ultimo).
Il tentativo, in Essere e tempo, fallirà, poiché H. riuscirà a scrivere solo la prima parte, ove critica quasi tutta la metafisica occidentale, da Platone in poi, sostenendo ch'essa ha sempre parlato dell'essere senza tener conto dell'esserci. Di conseguenza l'essere è diventato un concetto astratto o indefinibile oppure così evidente da risultare ovvio, scontato, mentre in realtà esso è molto problematico.
H. sostiene che non si può rispondere al senso dell'essere se prima non si risponde al senso dell'esserci, la cui esistenza è caratterizzata dalla temporalità, cioè da qualcosa che impedisce di stabilire una qualunque oggettività. Tuttavia, H., al momento di spiegare qual è il senso dell'esserci interrompe il libro, dicendo che il linguaggio era "venuto meno".
Nel '28 H. diventa docente universitario. Nel '33 rettore dell'Università di Friburgo. Aderisce al partito nazista, pretendendo che il suo pensiero abbia una rilevanza pubblica. H. farà espellere dall'Università due docenti pacifisti e antinazionalisti. Egli d'altra parte era convinto che solo la Germania nazista potesse salvare i valori della tradizione europea dalla "barbarie" tecnocratica degli USA e dal bolscevismo dell'URSS. Sennonché l'anno dopo, per dissensi col governo (sul suo progetto di riforma universitaria e anche sul biologismo razzista), si dimette e non si occupa più di politica. Tiene regolarmente i corsi accademici, ma non pubblica nulla fino al 1942. Sempre netto il suo dissenso da liberalismo, democrazia e socialismo.
Nel '35, con Introduzione alla metafisica (pubblicata nel '53), si ha una svolta nel suo pensiero. La metafisica non va "riformata", come in Essere e tempo, ma "superata". L'essere non può essere definito, poiché ogni definizione lo limita. L'essere in un certo senso coincide col nulla, poiché non c'è nulla che possa comprenderlo. Di fronte al nulla l'esserci non può che angosciarsi e attendere in maniera contemplativa che l'essere si sveli spontaneamente. La metafisica non ha davvero alcun senso. Gli interessi filosofici e culturali di H. si spostano verso l'arte, l'estetica, la poetica e il linguaggio. Autori preferiti: Parmenide, Holderlin e Nietzsche.
Dal '44 al '51 un divieto delle potenze occupanti in Germania gli impedisce qualunque attività accademica. Ma nel '52 viene reintegrato.
In Essere e tempo le caratteristiche fondamentali dell'esserci sono le seguenti:
A. L'uomo come progetto, come poter-essere, in quanto fa continuamente delle scelte. Primato della categoria della possibilità. La realtà non è mai oggettiva, perché soggetta a continue modifiche. Le cose esistono solo per l'esserci che le usa (inserendole in un progetto). Prima del mondo c'è l'esserci, che dà significato alle cose.
B. L'esistenza come progetto gettato. L'esserci è costretto a scegliere, perché viene "gettato" (consegnato) sul mondo senza volerlo. Il mondo condiziona radicalmente le sue scelte. Questo limite però garantisce la storicità all'esserci, che è chiuso tra la vita e la morte.
C. L'autenticità dell'esserci. Se l'esserci dovesse pensare solo alla vita, ogni possibilità scelta sarebbe equivalente a un'altra, perché non esiste nella vita un criterio oggettivo che ci dice quando una scelta è migliore di un'altra. L'unica scelta che rende autentico l'esserci, perché esclude tutte le altre, è quella per la morte. Scegliendo per la morte, la possibilità resta possibilità, perché la morte, quando diventa realtà, fa sparire l'esserci. La morte relativizza le scelte particolari, destinate all'insuccesso, poiché il nostro progetto resta sempre condizionato dal passato e dal presente.
D. L'essere per la morte. Di fronte alla morte l'esserci non deve fuggire, altrimenti la morte lo coglierà di sorpresa, ma deve provare angoscia, nella convinzione che il senso della vita sta nella morte che vanifica ogni progetto particolare. Chi fugge cade nel mondo generico del "Sì" e si disperde nella cura delle cose, per cui si lascia dominare dalla chiacchiera (banalità), dalla curiosità (oziosa) e dall'equivoco (circa l'autenticità delle cose).
E. Conclusione: la metafisica, pur avendo sempre avuto come oggetto l'essere, ne impedisce letteralmente la comprensione, perché lo considera al di fuori dell'esserci. Non avendo accettato il presupposto che la temporalità dell'esserci è l'unica dimensione della sua vita, essa non è mai arrivata a capire che l'essere coincide col nulla (Che cos'è la metafisica?).
Il fallimento di Essere e tempo porterà H. ad approfondire il tema del linguaggio (Essenza della verità), nella speranza di poter chiarire meglio il significato (positivo) dell'essere. Tuttavia, H. arriverà solo ad affermare che l'essere è "luce" (avvento illuminante-proteggente). L'ontologia deve restare in ascolto (apofatismo) dell'essere, che si rivela nascondendosi. L'essere che conosciamo è solo quello che permette d'essere conosciuto. Poco prima di morire dirà che solo un "dio" avrebbe potuto salvarci dall'autodistruzione, in quanto né la filosofia né alcun'altra scienza potranno mai modificare il mondo.
Storia della critica
La vera storia della critica heideggeriana comincia solo negli anni '50, quando Essere e tempo non è più l'unica opera cui potersi riferire, com'era successo negli anni '30, allorché di quest'opera, soprattutto in Francia, con Sartre, Marcel, Lavelle, Le Senne, Wahl, Berdjaev..., si evidenziarono i temi esistenzialistici, mettendo in secondo piano quelli ontologici.
Nella Francia degli anni '30 lo studio dell'esistenzialismo di H. rientrava nell'interesse che si era maturato per quello di Kierkegaard e di Jaspers. Essere e tempo veniva valorizzato in termini antropologici e persino religiosi. Quest'interpretazione riduttiva venne messa in crisi dallo stesso H., con la pubblicazione nel '47 della Lettera sull'umanismo, che è un manifesto antiesistenzialistico.
Di H. i francesi avevano colto soprattutto i temi dell'angoscia, della morte, del nulla, della cura e dell'appartenenza al mondo come totalità. Forse l'unico francese che ne recuperò anche l'ontologismo fu Lévinas. Il rifiuto di considerare l'ontologismo non dipese dalla scarsa propensione della filosofia francese per le astrazioni metafisiche, quanto dalla convinzione che negli aspetti esistenziali Essere e tempo offriva più materiale di riflessione, in quanto maggiore era il realismo che non nell'ontologia, che pareva destinata a fondarsi sul nulla e sull'impotenza.
Non solo, ma fu proprio l'interpretazione esistenzialistica di H. ch'ebbe il pregio di mettere in crisi il neokantismo tedesco e il neoidealismo italiano. In Germania l'influsso più positivo dell'esistenzialismo di H. è riscontrabile nella teologia demitizzante di Bultmann.
In Italia H. viene recepito negli anni '50 e '60 sull'onda delle traduzioni di P. Chiodi e della lettura esistenzialistica di N. Abbagnano. Il successo di H. esistenzialista è avvenuto proprio dopo il 1947, anno in cui H. si distaccava dall'esistenzialismo. In Italia l'analitica esistenziale del finito è stata utilizzata contro l'idealismo crociano e gentiliano, e per fondare un'autocoscienza filosofica di tipo laico (più moderata e conformista in Abbagnano, più radicale e antifascista in Chiodi). Il tentativo era quello di creare una sorta di "terza via" tra il neotomismo (e spiritualismo) del cattolicesimo di Pio XII da un lato e il marxismo gramsciano (e storicistico) di Togliatti dall'altro. Quando le traduzioni del IIo H., quello della svolta, fatte da Chiodi, resero insostenibile questa interpretazione, il pensiero esistenziale dell'autosufficienza dell'individuo laico gettato nel mondo, prese atto che H. non serviva più, e lo trasformò in un irrazionalista tardoromantico, nemico della scienza e della tecnica. L'esistenzialismo italiano rimproverà sempre ad H. di aver ceduto troppo alla metafisica e di aver tenuto in scarsa considerazione l'assiologia e lo stesso esistenzialismo. L'ontologia addirittura appariva come una sorta di idealismo hegeliano rovesciato. Cioè, in quanto esistenzialista H. appariva progressivo, poiché rivendicava la finitezza (temporalità) dell'esserci (la sua concretezza storica, solo in virtù della quale ha senso porsi il problema dell'essere), ma in quanto ontologista H. appariva regressivo, perché l'impianto costruttivo che avrebbe dovuto dare fondamento all'essere, restava metafisico, idealistico. Anche Löwith condividerà questa analisi. Per alcuni critici italiani, il carattere negativo e apofatico dell'ontologismo, approdando a una via senza sbocchi (irrazionalismo, nazismo, oppure mistica, mitologia), farà desiderare un ritorno a Husserl.
Una rinascita di Heidegger è avvenuta in Italia nella seconda metà degli anni '70 ad opera di alcuni intellettuali vicini o interni al Pci: Cacciari, Vattimo, Boffa... Costoro hanno letto il IIo H. in chiave nichilistica, post-moderna, antidialettica, differenzialistica, paragonandolo a Nietzsche. Il che rovesciava la lettura laico-razional-esistenziale di Chiodi e Abbagnano. In comune però c'era l'avversione a Hegel e al Marx economista. In verità, nei confronti di H. il giudizio del marxismo, (così come quello della Scuola di Francoforte) è sempre stato pesantemente negativo: Lukács lo definiva un sintomo della crisi del soggettivismo borghese, Adorno invece una sorta di adeguamento alla società massificata, giudicata immodificabile. Non a caso l'uso più produttivo dell'ontologismo è avvenuto in campo teologico-ermeneutico (Gadamer è il principale continuatore di H.), oppure in campo estetico-ermeneutico.
La problematica del Linguaggio è stata ripresa da Wittgenstein che prevede però il silenzio solo sulle questioni metafisiche, come unico atteggiamento ragionevole, mentre l'unico linguaggio valido resta quello scientifico. Anche Derrida affermerà che nella metafisica razionalistica il significante, nell'ambito del segno, è tutto subordinato all'idealità astratta del significato.
Rilievi critici
H. era partito bene quando intuì che il problema dell'essere è in fondo il problema dell'esserci: in questo senso egli eredita la critica dell'idealismo condotta da parte della sinistra hegeliana e soprattutto di Kierkegaard. Si può dire anzi che H. non abbia fatto altro che laicizzare l'esistenzialismo religioso di Kierkegaard, sostituendo al rapporto del singolo con dio il rapporto dell'esserci col mondo.
Tuttavia, l'identità di essere ed esserci, se può essere usata contro la concezione di essere che aveva l'idealismo (in cui l'esserci finiva col perdere la propria identità umana, vinta dalla conservazione dei rapporti esistenti, che erano borghesi o caratterizzati, come in Germania, dal blocco junkers-borghesia), non poteva però essere usata per rifondare una nuova concezione dell'essere, poiché né la sinistra hegeliana né Kierkegaard hanno mai considerato equivalenti i due elementi, ma hanno preferito concedere a uno dei due, l'esserci, il primato assoluto, trasformando l'essere in una sua mera proiezione. Anche H. riproduce il forte soggettivismo (piccolo)borghese della opposizione all'idealismo hegeliano, ma, come Kierkegaard, perde il senso oggettivo della realtà, quel senso che gli avrebbe permesso di capire che le contraddizioni del capitalismo non possono essere superate in maniera individualistica e tanto meno in maniera filosofica.
L'identità quindi di essere ed esserci dal punto di vista dell'esserci può essere utilizzata in un primo momento, per distaccarsi dall'essere astratto, formalizzato e conservatore dell'idealismo hegeliano, ma subito dopo va affermata una nuova identità, in cui vi sia tra i due elementi un rapporto dialettico, in grado di salvaguardare l'autonomia, la specificità di entrambi. Non essendo riuscito a farlo, H. si trova alla fine costretto ad ammettere che il suo esserci è incapace di essere: non solo nel senso che non riesce a conformarsi allo sviluppo del capitalismo monopolistico, ma anche perché non riesce ad opporsi a questo sviluppo. Egli affermò che Essere e tempo rimase incompiuto per il venir meno del linguaggio; in realtà è venuto meno l'esserci, il quale, non sentendosi determinato da un essere alternativo a quello borghese (idealista, hegeliano), non poteva avere un linguaggio adeguato alla problematica dell'essere. Tutto lo sviluppo posteriore a Essere e tempo non fa che girare attorno a questo problema senza mai risolverlo: ecco perché Essere e tempo resta l'opera più significativa. Esso è la testimonianza (più o meno indiretta) che nell'ambito della filosofia borghese una qualunque pretesa di autenticità dell'esserci, che voglia restare in tale ambito, non può che portare all'irrazionalismo (teorico, come appunto in Heidegger, o pratico, come in Kierkegaard e soprattutto in Nietzsche, verso i quali H. ha sempre avvertito una forte attrattiva, specie per il secondo, poiché più coerente e ateistico). Da questo punto di vista Essere e Tempo è, a un tempo, il tentativo e il fallimento del tentativo di superare la crisi dell'identità borghese dal punto di vista borghese. Esso quindi è anche la testimonianza che dopo l'idealismo hegeliano, la filosofia borghese può essere solo una filosofia della crisi e che la crisi di questa filosofia è appunto data dalla crisi della società borghese, che non è riuscita a realizzare gli ideali di democrazia per i quali è nata.
L'esserci di H. non è in grado di vivere per la vita (per la trasformazione della vita), ma solo per la morte. La vita è troppo insignificante per essere vissuta. Nella vita tutte le cose si contraddicono a vicenda, sono soggette al fluire del tempo, si banalizzano. Solo la morte (la possibilità della morte) resta veramente. L'esistenza dell'esserci consiste nel rassegnarsi a questa evidenza, per evitare possibili illusioni su di sé e sulla realtà che vive. La rassegnazione non deve essere superficiale, ma con angoscia, che è l'atteggiamento filosofico di fronte al nulla della vita (o dell'essere). Essere e nulla coincidono dal punto di vista del nulla. Come si può vedere, il concetto di morte viene usato da H. per impedire la vita, anche se nelle sue intenzioni doveva servire solo per impedire le illusioni sulla vita. In realtà, le conseguenze del suo discorso sono disperate: "siccome c'è la morte, nessuna esperienza liberante, se non quella dell'angoscia per la morte, è possibile o merita d'essere vissuta". Questa posizione è chiusa, intellettualistica, aristocratica, pregiudizievole nei confronti di ogni alternativa al sistema dominante. H. è qui un esistenzialista con ambizioni metafisiche (tipicamente tedesche, e quindi idealistiche). Il suo è il modo di vedere l'esistenzialismo dal punto di vista di un tedesco idealista che non può più credere nella metafisica tradizionale, in quanto ne scorge le contraddizioni interne.
Il miglior H. è quello che sostiene che la stessa metafisica impedisce di scorgere la realtà dell'essere. Interessante anche il discorso dell'essere come "luce" e il discorso del silenzio come atteggiamento di ascolto nei confronti dell'essere, ma questo discorso può anche portare a una forma di irrazionalismo mistico.

Guida alla lettura di Heidegger: «Che cos’è metafisica?»
L’essere non è ma accade, è evento
Ermetis – Oggetto di questa lettura è la celebre prolusione tenuta da Heidegger il 29 luglio del 1929 all’Università di Friburgo, la lezione inaugurale con cui egli prendeva possesso della prestigiosa cattedra che era stata di Edmund Husserl.
Com’è costantemente nostra cura, il tempo e il luogo di quell’evento saranno ora analizzati.
Il dibattito filosofico tedesco era in quegli anni pienamente sintonizzato sul grande tema della Crisi, che dominava il palcoscenico culturale della Repubblica di Weimar dall’inizio degli anni Venti. Come un’onda sismica continentale, quel movimento tellurico aveva minato profondamente tutto il sistema delle scienze occidentale, dando luogo a una critica radicale del trionfalismo positivista e all’esigenza di una revisione dei fondamenti stessi del metodo scientifico, cioè dei principi costitutivi della matematica e della fisica.
Apprendista – Ci fu un cambiamento di paradigma, no? Si presentarono certi fenomeni che non potevano più essere spiegati con i vecchi schemi di riferimento, mi pare… cioè con la fisica newtoniana.
Ermetis – La scienza, malgrado alcuni focolai di resistenza sparsi qua e là, aveva da secoli imposto modello epistemologico che pretendeva di dettare l’unico possibile criterio di determinazione della verità. Di fondare la conoscenza oggettiva della realtà.
Secondo apprendista – E quando c’è conoscenza oggettiva, c’è la possibilità di dominare le cose, di averle a disposizione, di agire sulla realtà. È a questo che serve la conoscenza oggettiva.
Ermetis – Ora, quando una dittatura vacilla, quando l’oppressore manifesta debolezza e instabilità, per gli oppressi si aprono vie di fuga e zone di autonomia, brecce attraverso le quali organizzare la propria riscossa. Nella lotta per la libertà si ricostituisce soprattutto la propria dentità. E dunque, tutto il Pensiero che era imprigionato nella gabbia razionalistica dell’epistemologia cartesiana, venendo a crollare i solidi muri in cui era rinchiuso, comincia a correre di qua e di là alla ricerca di se stesso. L’arte e la filosofia si trovano nel vuoto di un nuovo inizio, nella necessità di ripetere se stesse a partire dal loro inizio originario, nella necessità di ritrovare se stesse dopo che per secoli erano state schiacciate sotto un unico modello di pensiero.
Terzo apprendista – Probabilmente questo nell’arte era già successo. Voglio dire: la rivoluzione romantica era poi stata quasi la stessa cosa.
Ermetis – Già, ma faccia caso: era stata la ribellione di una parte subordinata del Pensiero, e per quanto violenta era stata comunque domata e riassorbita. Aveva creato scompiglio, come un esercito spartachista, ma aveva dovuto misurarsi contro la forza ancora impressionante del Potere Centrale, del modello filosofico razionalista. Per dirla in termini filosofici: l’Idealismo fu importante, ma incise più alla fine che all’inizio dell’800, più a lungo termine che nell’immediato.
Quarto apprendista – Intende dire, Maestro, che ogni disciplina dovette cercarsi il proprio punto di riferimento, che era venuto a mancare il modello culturale centrale?
Ermetis – La cosa è più complessa. Stiamo sempre alla filosofia: per essa non si trattò (ma questo vale anche per l’arte) di una semplice restaurazione dei propri principi, di un ritorno all’antico, perché nel frattempo Nietzsche – con il celebre annuncio "Dio è morto" – aveva decretato la morte anche della metafisica, che da Aristotele in poi era stata praticamente il sinonimo di "filosofia". La "nuova" filosofia doveva da capo rispondere alla domanda: "cosa è metafisica?", dopo che essa stessa ne aveva sancito la fine.
Primo apprendista – Mi sembra un po’ un’esagerazione. A me pare che la filosofia sia poi abbastanza sempre la stessa. Nel senso che se ci si domanda "che cos’è la metafisica?", vuol dire che si resta sempre nel suo solito orizzonte, che non ci si muove da una certa logica. Non ci vedo quel gran terremoto che Lei dice.
Quarto apprendista – E cosa dovrebbe chiedersi?
Primo apprendista – Che ne so…cos’è la vita? Che senso ha questo mondo; non quell’altro, ideale ed eterno, a cui fa sempre riferimento. Questa mi pare che sarebbe una svolta! Occupiamoci delle cose, occupiamoci di noi, dei nostri problemi…
Ermetis – La conversazione ha preso una strana piega, ha manifestato una delle sue qualità più sorprendenti. Quello che è stato detto con spirito scettico se non polemico, la parola che è stata gettata in mezzo per interrompere il cammino, diventa invece l’occasione e lo stimolo per un’altra e più incisiva tappa. Per riconoscere la meta accanto a cui camminiamo. Lei ha tutte le ragioni caro amico… non ci sarebbe stato nessun rinnovamento se la filosofia avesse continuato a parlare semplicemente di metafisica, a fare della metafisica. Il fatto è un altro. Il fatto è che qualcuno, in questo caso Heidegger – il nostro "Pastore della Selva nera" – si è chiesto: "che cos’è metafisica?". Cioè ha preso quella parola e l’ha tolta dalla sua scontatezza, l’ha guardata come se la vedesse per la prima volta, l’ha messa in mezzo al discorso chiedendole ragione del suo stesso esistere. Le ha chiesto di manifestarsi. Certo la filosofia non può essere diversa da se stessa. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che mantenga il suo nome, che conservi gelosamente memoria del suo passato, della propria identità. Sempre, quando il desiderio di cambiare, di rinnovarsi, è sincero e profondo, non fa che portare più profondamente che mai verso… se stessi. Nessun cambiamento è più vero di quello che ci fa essere totalmente noi stessi.
Primo apprendista – Perché dice che ho dato un nuovo impulso alla conversazione?
Ermetis – Perché, guarda caso, la filosofia tedesca del primo 900 si pose proprio le domande che dice Lei. Si pose il problema della vita, si pose il problema del "mondo".
Quarto apprendista – Cioè assunse un atteggiamento scientifico e non più metafisico? Non capisco. Non aveva detto che la filosofia si era liberata dal dominio della scienza?
Ermetis – Secondo Lei, in cosa consisteva il cosiddetto "dominio della scienza"?
Quarto apprendista – Nella scelta delle cose di cui occuparsi, evidentemente. La contemplazione di stampo platonico e idealista di fattori speculativi, è l’atteggiamento "metafisico"; la sistemazione metodologica del campo del sapere e dei suoi costituenti oggettivi, diciamo l’alternativa aristotelica, è l’atteggiamento scientifico. Più o meno.
Ermetis – Quindi la scienza si occuperebbe del "Mondo" e la filosofia – diciamo la metafisica – no?
Quarto apprendista – A grandi linee…
Ermetis – Quindi una filosofia che guarda al "Mondo" è una filosofia che fa proprio il modello epistemologico scientifico, dell’oggettività?
Terzo apprendista – E in effetti Cartesio fu prima di tutto un matematico, Kant un cultore della scienza; cioè filosofi razionalisti…
Primo apprendista – "Succubi della scienza…"
Ermetis – Allora, dicendo che le filosofie del Primo 900 si staccarono dal modello scientifico perché portavano il loro sguardo alla vita e al mondo, entriamo in una plateale contraddizione!
Quarto apprendista – Già. Chi è che sta sbagliando?
Quinto apprendista – Dovremmo riflettere sul concetto di scienza. Che cosa intendiamo quando parliamo di scienza?
Ermetis – Proprio così. C’è un modo corrente e semplificato di intendere la "scientificità", e vi è invece quello appropriato e filologicamente fondato; entrambi accomunano una parte dei filosofi e degli scienziati in due schieramenti contrapposti. Mi spiego. Il modello epistemologico del pensare scientificamente è quello che si sviluppa dalla rivoluzione copernicana e attraversa tutta la storia del pensiero occidentale. È il modello cartesiano, newtoniano, kantiano, ed è un’idea di scienza che ha al proprio centro quel principio di evidenza che è proprio delle leggi matematiche. In base a questo modello, il rigore autoreferenziale della matematica diventa l’ideale supremo a cui dovrebbe guardare tutto il pensiero. La matematica è costituita da processi la cui evidenza non ha bisogno di nessuna giustificazione trascendente, così come di nessuna "prova dei fatti". Che 2 + 2 sia uguale a 4 è di per sé evidente ed è fondato esclusivamente su principi il cui fondamento non richiede nessun atto di fede. Cioè non avete bisogno di credere in me, basta applicare certi processi di ragionamento che sono uguali per tutti. Se poi rifiuti questo modo di pensare, sei libero di farlo, ma non potrai mai accusare chi lo pratica di falsità o ignoranza; dovrai "uscire fuori" dal recinto della ragione, abbracciare l’irrazionale e isolarti dalla comunità degli esseri pensanti. In questo senso l’irrazionalità è solitudine, è incomunicabilità.
Quinto apprendista – Questo modo di pensare scientificamente non guarda certo al "Mondo", o alla vita.
Ermetis – È il più puro atto di speculazione intellettuale che si possa immaginare. La matematica è innanzi tutto e per lo più un’astrazione dalle cose "così come sono", una riduzione della realtà a un mondo di pure grandezze. Molta filosofia, fin dal 600, e abbiamo anche detto quale, guardò a questo modello come al proprio supremo ideale razionale, riducendo il proprio interesse ai meccanismi interiori del pensiero, a quei processi razionali che presentano il maggior grado di generalizzazione e astrazione e che sovrintendono non alla vita come tale ma alla pura e semplice conoscenza. Il modello dominante della filosofia occidentale ha ridotto il pensiero – direi l’essere umano – alla pura conoscenza. Tutto il resto, sensibilità, emotività, immaginazione, intuito, poiché non è governato da regole certe ed evidenti, non è niente. Non è pensiero.
Secondo apprendista – Ma Lei diceva che ci sono due modi di fare scienza…
Ermetis – L’altro è il filone aristotelico. Perché, ricordatevi bene, non c’è niente di più platonico di quel pensare che riduce la realtà a puri nessi matematici. Ecco invece Bacone, e un certo aspetto del metodo galileiano, ma soprattutto gli Empiristi e poi i Positivisti. Con questi la matematica ha poco a che fare: conta l’esperienza, il vedere, il fare.
Quarto apprendista – Non è più la scienza pura, ma applicata. Qui il mondo c’è, eccome!
Ermetis – Certo, ma quale mondo? O meglio, quale aspetto del mondo?
Quarto apprendista – Le cose così come sono, le cose che si vedono, la realtà che ci circonda…
Quinto apprendista – Quello che ci sta davanti.
Terzo apprendista – Ho capito! Si discrimina ciò che è "davanti a noi" da ciò che è "dentro di noi". Il primo costituisce il "Mondo" oggettivo, il secondo il mondo (?) soggettivo. Ciò che è oggettivo è scientifico, ciò che è soggettivo non lo è. È così?
Quinto apprendista – Beh, c’è un modo di rendere oggettivo anche quello che abbiamo dentro: pensiamo alla psicologia. Anche l’uomo può diventare oggetto, oggettivo.
Ermetis – Queste categorie, "davanti", "dentro", parlano chiaro, mi sembra. Se per un biologo o un astrofisico guardare il mondo è porsi davanti alle cose, la filosofia come traduce questo atteggiamento? Come fa la filosofia ad essere scientifica in questo senso?
Quinto apprendista – Si pone "davanti al mondo", solo che lo prende tutto insieme, nel suo insieme, e non parcellizzato in diversi settori "naturali". Si occupa della realtà in quanto tale, ma della realtà oggettiva…
Ermetis – Domanda: si può vedere la "realtà nel suo insieme", tutta la realtà "in quanto tale"? Me la può indicare, per favore?
Primo apprendista – Hic Rhodus, hic salta.
Quarto apprendista – È un circolo vizioso, Maestro. Non se ne esce più. La filosofia che matematizza è platonica e perciò quanto di più lontano ci sia dal mondo. Idem per la scienza pura, che quindi non guarda alla vita, al mondo. Adesso mi dice che neppure la filosofia empirista guarda al mondo, almeno non nel modo in cui lo fanno le scienze che prende a modello, cioè la biologia, la medicina. Quindi è vero che in un certo senso la filosofia non ha mai guardato al mondo, alla vita… Ma se è così, come possiamo dire che essa sia stata dominata dal modello epistemologico della scienza?
Ermetis – Possiamo dirlo perché parliamo senza dare peso alle parole che usiamo. Cos’è "mondo", cos’è "vita"? Non è forse il momento di interrogarci su questo? Nel corso della conversazione sono emerse diverse parole con cui pensavate di dire più o meno la stessa cosa: il mondo, le cose, l’oggetto, ciò che ci sta davanti… Ma così facendo, voi vi siete fatti dominare dalle parole, vi siete fatti portare da loro, più che esprimere il vostro pensiero. È ovvio, a rifletterci solo un attimo, che "il mondo" è cosa ben diversa dalle semplici "cose", perché caso mai le "cose" le troviamo "nel mondo"; ed è ben impegnativo affermare che "ogni cosa è un mondo". E poi: le "cose" sono sempre solo "oggetti"? Cosa dico quando dico: "questa cosa mi fa soffrire", o "questa cosa non mi piace"? Ma tuttavia, non è per caso che chi parla veda tra tutte queste parole un qualche nesso, percepisca tra loro qualcosa di comune. Cerchiamo allora di individuare, tra di esse, la più fondamentale, quella che le dice tutte…
Primo apprendista – A questo punto faccia Lei, Maestro, così non perdiamo tempo.
Ermetis – È chiaro che il senso che le abbraccia tutte è racchiuso essenzialmente nell’espressione dello "stare davanti": il mondo, come le cose e gli oggetti, è "ciò che ci sta davanti". Ciò che è presente davanti a noi.
Quinto apprendista – Chiaro. Ma la filosofia? In che senso la filosofia concepisce lo "stare davanti" tipico di ciò che è oggettivo? A che cosa sta davanti la filosofia?
Ermetis – All’essere. A che cos’altro, se no? Ecco come la filosofia, da Platone e Aristotele in poi, si è fatta irretire dall’illusione prospettica dell’oggettività. Dell’essere si dimenticò la natura di origine, o la natura originaria, per ridurlo all’essenza – o fondamento, o permanenza immutabile – di tutto ciò che è "davanti a noi", che è presente. Questo per il primato che i Greci conferivano alla "theoria", cioè all’atteggiamento dell’osservare e del contemplare come fonte della conoscenza.
Secondo apprendista – Forse non tutti… Eraclito per esempio…
Ermetis – Certo, ma questo è un altro discorso.
In sintesi: la "metafisica della presenza" è all’origine dello "spirito oggettivante" del cosiddetto "pensiero scientifico". E anche se si tende a dimenticarlo, tanto che i logici moderni nutrono non di rado un solenne disprezzo per quelle che chiamano "barzellette", è piuttosto evidente quanto affermò Heidegger, che cioè la scienza moderna non è che l’esito estremo e più radicale della metafisica sorta col pensiero greco.
Primo apprendista – Quindi siamo al capovolgimento di quanto si diceva all’inizio: che la scienza si è imposta sulla filosofia…
Ermetis – Non proprio. Quello della scienza è un modo di pensare che ebbe la sua origine storica nella filosofia greca; ma non c’è un unico modo di pensare. Diciamo che il modello "oggettivante", la metafisica della presenza, si impose su altre concezioni dell’essere, mettendo ai margini modelli filosofici alternativi.
Quarto apprendista – E poi venne la crisi. Ma se la filosofia cominciò a occuparsi della vita e del "mondo", come si può dire che sia andata in crisi la metafisica?
Ermetis – È la grande intuizione di Heidegger, così come emerge dalle pagine di Essere e tempo. Più che "occuparsi della vita", egli fece della metafisica – o meglio del problema dell’essere – qualcosa di vivo. E come? Se l’essere si riduce semplicemente a ciò che è presente davanti a noi – all’essenza immutabile delle cose – ebbene, l’essere viene schiacciato su una sola delle tre dimensioni possibili che appartengono al tempo. Se noi diciamo che qualcosa "è presente", necessariamente attribuiamo a questa cosa una qualità temporale, una temporalità che però risulta mutilata. Quello che conta è l’"ora", che è anche il "qui". E il passato? E l’avvenire? Ecco due categorie che non sono imputabili alle cose in quanto oggetti, ma che appartengono esclusivamente alla vita, alla vita in quanto esistenza, in quanto storia. Heidegger restituì all’essere la pienezza del Tempo, che è pienezza di vita, sottraendolo al controllo e al dominio del soggetto, del "pensiero oggettivante", della "ragione".
Quinto apprendista – L’essere non è qualcosa che dominiamo, ma qualcosa in cui ci troviamo?
Ermetis – Forse è più esatto dire: qualcosa da cui veniamo.
Primo apprendista – Però tutto questo è in Essere e tempo. Adesso ci tocca la lettura di Cos’è metafisica? Cos’altro dobbiamo aspettarci?
Ermetis – L’apparizione di un nuovo stile. Il nuovo stile di Heidegger, dal fatidico 1929, è quello di una filosofia dell’evento. La filosofia deve impegnarsi a partire dalla Vita, ma non dalla vita come oggetto, bensì dalla vita come evento, come situazione. E come enuncia Essere e tempo, da una situazione emotiva. Da lì in poi, compito della filosofia è di interrogare quella situazione, di interpretarla.

Heidegger ritiene che da una parte la metafisica faccia parte della “natura dell’uomo”, in quanto essa è “l’accadimento fondamentale dell’esserci”, dall’altra che essa sia costantemente insidiata dall’errore piú radicale.

M. Heidegger, Was ist Metaphysik, [Che cos’è la metafisica] Bonn, 1929, trad. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, pagg. 76-77

La domanda del niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica.
L’esserci umano può comportarsi in rapporto all'ente solo se si tiene immerso nel niente. L'andare oltre l'ente accade nell'essenza dell'esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica. Ciò implica che la metafisica faccia parte della “natura dell'uomo”. Essa non è un settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l'accadimento fondamentale nell'esserci. Essa è l'esserci stesso. E poiché la verità della metafisica dimora in questo fondo abissale, essa è costantemente insidiata da vicino dalla possibilità dell'errore piú radicale. Questa è la ragione per cui non c'è rigore scientifico che eguagli la serietà della metafisica. La filosofia non può mai essere misurata col parametro dell'idea della scienza.

 

Fonte: http://xoomer.virgilio.it/semidiluce/_private/heidegger.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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