Lucrezio De rerum natura

 


 

Lucrezio De rerum natura

 

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Lucrezio De rerum natura

 

 

Tito Lucrezio Caro visse tra il 98 e il 55 a.C., contemporaneo quindi di Cesare e Cicerone. Morì probabilmente suicida a 44 anni. Vittima secondo gli antichi di un filtro d'amore, è stato stroncato più verosimilmente da una forma depressiva della quale, a fasi alterne, aveva sempre sofferto. Della vita di Lucrezio si sa comunque molto poco: l’unica fonte è nella traduzione del “Chronicon di Eusebio” fatta da Girolamo, passibile di “cristianizzazione” delle informazioni.

 

Lucrezio era un convinto seguace della dottrina filosofica dell'epicureismo, capace, secondo lui, di fornire una risposta adeguata alle più importanti domande dell'uomo.

Il suo poema, De rerum natura (La natura delle cose), è un poema epico di intento educativo, scritto in esametri e diviso in sei libri, che si raggruppano in tre coppie. I primi due libri trattano il problema fisico, il terzo ed il quarto del problema psichico, gli ultimi due parlano del problema cosmico-antropologico. Nel De rerum natura viene spiegato il pensiero di Epicuro, al fine di trovarne nuovi seguaci. E’ dedicato al suo benefattore Gaio Memmio, influente aristocratico dell'epoca, scettico in materia, legato alla tradizionale filosofia romana.

Nel corso della trattazione Lucrezio spiega come l'uomo non debba temere la morte e nemmeno l'inferno, falsa proiezione dei dolori terreni; come la conoscenza dei fenomeni fisici e delle leggi della vita possa liberarlo dalla paura degli eventi naturali e dei cambiamenti. Lucrezio intende insegnare ad usare la ragione, attraverso la quale si può raggiungere la voluptas, ossia il piacere, l'equilibrio interiore e l'armonia con ciò che circonda l'uomo.

Secondo la visione del poeta il mondo è tormentato dalla culpa naturae, il difetto della natura, che perseguita l'uomo e rende estremamente difficile la sua vita sulla Terra. Per dare una risposta al male, per combattere lo smarrimento inevitabile di fronte alla potenza della natura e delle sue espressioni, l'uomo ha iniziato a rifugiarsi nella religione.

Andando contro il pensiero di Epicuro (“la poesia non è adatta all’insegnamento morale e filosofico: ci vuole la prosa”), Lucrezio scrive in versi da lui definiti “dolce miele”, che rendono più facile accettare un messaggio spesso difficile. Non si rivolge quindi necessariamente ad un élite di studiosi, ma al dibattito culturale del suo tempo, usando comunque un lessico ricercato.

 


libro I – versi 1-43 – INNO A VENERE

 

L’inno a Venere (richiesta di assistenza) cerca di attrarre il lettore con le sue lusinghe di un proemio non troppo dissimile dai moduli consueti, anche se comporta una lieve infrazione alla dottrina epicurea. Epicuro infatti sosteneva che gli dei erano distaccati dagli uomini, vivevano nell’intermundia senza curarsi di cio’ che accadeva sulla Terra.

Il testo vuole essere uno strumento educativo per un pubblico specificatamente romano, del quale Lucrezio vuole assicurarsi dall’inizio il coinvolgimento emotivo e l’attenzione non ostile.

Lucrezio sceglie Venere perchè incarna i valori positivi del mondo naturale: fertilità, vitalità, ma soprattutto piacere (voluptas).

 

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare
navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis:
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque
tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit
flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet
diffuso lumine caelum.
nam simul ac
species patefactast verna diei
et
reserata viget genitabilis aura favoni,
aëriae primum volucris
te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
inde
ferae pecudes persultant pabula laeta
et
rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam
dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo
scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
effice ut interea fera
moenera militiai
per maria ac terras
omnis sopita quiescant;
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reiicit aeterno devictus vulnere amoris,
atque ita suspiciens tereti cervice reposta
pascit
amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus
ore.
hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circum fusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem;
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.

O progenitrice degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dei,

Venere fecondatrice, che sotto le trascorrenti costellazioni del cielo,

che riempi di te il mare che regge le navi, le terre che producono messi,

grazie a te ogni specie di essere vivente

viene concepita e vede appena nata la luce del sole:

te, dea, te fuggono i venti, te le nuvole del cielo

e il tuo arrivare, a te la terra illustre fa sbocciare

soavi fiori, a te sorridono le distese del mare

e il cielo rasserenato risplende di luce diffusa.

Infatti non appena si e’ dischiusa, l’aspetto del giorno primaverile

e disserrata prende vigore il soffio vivificatore dello Zefiro.

O dea, dapprima gli alati uccelli annunciano te ed il tuo

avvicinarti, colpiti nel cuore dalla tua potenza;

poi gli armenti imbaldanziti saltellano per i pascoli rigogliosi

e passano a nuoto i fiumi vorticosi: cosi’, presi dal tuo fascino,

ti seguono bramosamente laddove tu ti disponi a condurli;

infine attraverso i mari ed i monti, i fiumi rapidi,

le frondute dimore degli uccelli e le pianure verdeggianti,

incutendo a tutti attraverso i petti un blando amore,

e fai si che attraverso i secoli di specie in specie generati si propaghino.

Giacche’ governi da sola le cose della natura

e nulla approda senza di te alle celesti distese della luce

ne’ alcunche’ di lieto e di amabile accade,

desidero che tu sia mia alleata nello scrivere questi versi,

che io mi accingo a comporre sulle cose della natura

per il nostro Memmiade, che tu, o dea, hai voluto eccellesse

in ogni circostanza dotato di tutte le virtu’.

E per questo, o dea, dai il fascino eterno alle parole,

e fai si che frattanto gli aspri travagli della guerra

e per tutte le terre riposino calmati.

Infatti tu sola puoi con pace serena aiutare i mortali,

dacche’ Marte potente nelle armi regge gli aspri travagli

della guerra, che spesso si rifugia nel tuo grembo

vinto dall’eterna ferita d’amore,

e cosi’ contemplandoti con il collo rovesciato all’indietro

sazia i suoi occhi avidi d’amore stando a bocca aperta, o dea,

ed il respiro di lui che sta supino pende dalle tue labbra.

Mentre lui, o dea, giace sul tuo corpo santo

tu, avvolgendolo dall’alto, effondi dalla bocca soavi parole

chiedendo, o gloriosa, la placida pace per i Romani;

E infatti noi in un iniquo tempo per la patria non possiamo fare cio’

con la necessaria serenita’, ne’ la chiara fama di Memmio

in tali frangenti puo’ venir meno alla salvezza comune.

Aeneadum gen. sincopato (aeneades)

divom gen. arcaico (divorum)

alma da alo (nutrire)

labentia signa rende l’efficacia del trascorrere lento degli astri nel cielo

navigerum da gero (portare) – neolog.

frugiferentis da fero (produrre) – neolog., agg. con forma participiale

concelebras celebra il vigore di venere

animatum gen. in um, poco usato

te anafora, esaltazione della dea

suavis riferito a flores

daedala illustre, dal Greco “ornare in vario modo”

diffuso lumine abl. di causa

patefactast = patefacta est

reserata da sera, sere, spranga che chiude le porte

verna (ipallage) riferito a species oppure anche a diei

favoni da faveo, favorire

ferae pecudes se ferae e’ attributo “gli armenti imbaldanziti; se uniti per asindeto (senza cong.) “le fiere e gli animali domestici”

persultant iterativo (raff.) del passivo

rapidos stessa radice di rapio, “tradire”

quae quoniam nesso relativo

dias in luminis oras ispirazione dagli Annales di Ennio (239-169)

scribendis versibus dativo di fine

moenera per munera

militiai per militia

omnis per omnes

tereti cervice reposta ablativo assoluto con valore temporale

amore abl. di causa

inhians anche anelando, estasiato

atque...ore descrizione ispirata ad un’antica scultura vista a Roma, “morte in braccio a Venere”

 

 

 

libro I – versi 62-101 – RELIGIO E IFIGENIA

 

Questo primo elogio di Epicuro proclama il fatto storico della grandiosa e drammatica liberazione dalla religio che il filosofo ha offerto agli uomini. Questi viene presentato alla pari dell’eroe: è forte, coraggioso, astuto e dotato della virtus.

La sconfitta della religio è data dalla scoperta che la natura sottostà a leggi precise e non ai capricci degli dei.

La religio ha portato gli uomini ad attribuire agli dei assurde volontà, che li hanno fatti diventare vittime (Ifigenia) o carnefici (Agamennone).

 

Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub
religione,
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum
Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra;
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
inritat animi virtutem, effringere ut arta
naturae primus portarum claustra cupiret.
ergo
vivida vis animi pervicit et extra
processit longe
flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri,
quid nequeat, finita potestas denique cuique
qua nam sit ratione atque
alte terminus haerens.
quare religio pedibus subiecta vicissim
opteritur, nos exaequat victoria caelo.
    Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris. quod contra saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai
turparunt sanguine foede
ductores Danaum delecti, prima virorum.
cui simul infula virgineos circum data comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et
maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter
ferrum celare ministros
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem;
nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras
deductast, non ut sollemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,

sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur.
tantum religio potuit suadere malorum.

Quando l’umanita’ giaceva turpemente prostrata davanti agli occhi

di tutti, schiacciata sotto il peso gravoso della superstizione religiosa,
che mostrava il capo dalle regioni del cielo,
con il suo terribile aspetto incombendo dall'alto sui mortali,
per la prima volta un greco, un uomo, un mortale osò levare

contro di lei gli occhi, e per primo oso’ resistere.
Né le favole intorno agli dèi, né i fulmini, né il cielo
col minaccioso rimbombo lo trattennero: anzi gli accesero ancora di più
il fiero valore dell'animo, cosi’ che volle, per primo,
infrangere la serrata prigione delle porte della natura.

Così il vivido vigore dell'animo prevalse, ed egli

s'inoltrò lontano, di là dalle fiammeggianti mura del mondo,
e il tutto immenso percorse con la mente e col cuore.
Da là, vittorioso, riporta a noi che cosa possa nascere,
che cosa non possa, infine in qual modo ciascuna cosa
abbia un potere finito e un termine, profondamente confitto.
Percio’ la religione calpestata sotto i piedi e’ a sua volta

schiacciata, la vittoria ci eguaglia al cielo.
Questo, a tale proposito, io temo: che per caso tu creda
d'essere iniziato ai fondamenti d'una dottrina empia e d'entrare
nella via della scelleratezza. Mentre spesso fu essa, piuttosto,

la religione, a generare azioni scellerate ed empie.

Così in Aulide l'altare della vergine Trivia
macchiarono turpemente, col sangue d'Ifianassa,
gli eletti condottieri dei Danai, gli eroi degli uomini.
Appena la benda avvolta attorno alla bella chioma di vergine
le scese lungo le guance in due liste uguali,
appena si accorse che il padre stava mesto dinanzi all'altare,
e accanto a lui i sacerdoti celavano il ferro,
e il popolo effondeva lacrime alla sua vista,
muta di terrore, piegate le ginocchia, crollava a terra.
Né alla misera poteva giovare in quel momento
l'aver dato per prima al re il nome di padre.
Infatti, sollevata dalle mani dei guerrieri, tremante fu portata

all'altare, non perché, compiuto il rito solenne,
potesse essere accompagnata al celebre suono dell’imeneo,

ma perché pura impuramente, nel tempo stesso delle nozze,
cadesse vittima mesta immolata per mano del padre,
affinche’ fosse data una partenza felice e favorevole alla flotta.
A tali misfatti poté indurre la religione.

religione posizione di rilievo in fondo al verso

 

 

 

Graius homo perifrasi

contra-contra epifora

irritat forma sincopata di irritavit

vivida vis alliterazione di “vi”

flammantia moenia mundi metafora

illud...vereor forma di trapasso molto usata da lucrezio

alte terminus haerens metafora presa dalla vita quotidiana (terminus = pietra di confine terriera)

impia-rationis-elementa ipallage turparunt forma sincopata di turpaverunt

ductores Danaum delecti allitterazione di “d”

maestum-parentem iperbato

ferrum sineddoche (sta a significare il pugnale)

muta metu allitterazione di “m”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

casta inceste ossimoro/antitesi

hostia-maesta iperbato

tantum-malorum iperbato

 

 

libro II – versi 1-19 – L’ATARASSIA

 

Il proemio del libro II è un inno alla saggezza, all’ideale epicureo dell’atarassia, ossia alla capacità di chi è interiormente sereno e non è toccato dalle vicende del mondo esterno). Lucrezio opera una imposrtante distinzione tra i piaceri necessari e quelli superflui.

Il saggio sa vedere le cose, a differenza della massa disorientata e cieca, che tende unicamente a fuggire il dolore.

 

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.

suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa
tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentes, o pectora caeca!
qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?

È’ dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque,
guardare dalla terra la grande fatica di un altro;
non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere,
ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.
Dolce è anche contemplare grandi contese di guerra
apprestate nei campi senza che tu partecipi al pericolo.
Ma nulla è più piacevole che star saldo sulle serene regioni
elevate, ben fortificate dalla dottrina dei sapienti,
donde tu possa volgere lo sguardo laggiù, verso gli altri,
e vederli errare qua e là e cercare, andando alla ventura,
la via della vita, gareggiare d'ingegno, rivaleggiare di nobiltà,
sforzarsi notte e giorno con ininterrotta fatica
per assurgere a piu’ alta ricchezza e impadronirsi del potere.
O misere menti degli uomini, o animi ciechi!
In che tenebre di vita e tra quanto grandi pericoli
si consuma questa esistenza, quale che sia! E come non vedere
che nient'altro la natura latrando reclama, se non che il dolore
sia rimosso e sia assente dal corpo, e nella mente essa goda
di un senso giocondo, libera da affanno e timore?

mari ablativo di stato in luogo (senza “in”)

turbantibus...ventis ablativo assoluto con valore temporale

non...  sed... proposizioni causali

tua sine anastrofe

videre vedere in profondita’

despicere de (movimento dall’altro verso) + specio (senso di superiorita’)

libro II – versi 352-356 – LA GIOVENCA ED IL VITELLO PERDUTO

 

Lucrezio esprime la singolarità degli esseri viventi attraverso l’episodio della giovenca e del vitello. Oltre alla polemica contro la superstizione religiosa è importante anche il dolore della madre per il figlio, che

diventa un inno al valore dell’individuo, alla grandezza irripetibile ed insostituibile di ogni singolo essere vivente.

 

Nam saepe ante deum vitulus delubra decora
turicremas propter mactatus concidit aras
sanguinis expirans calidum
de pectore flumen;
at mater viridis saltus orbata peragrans
novit
humi pedibus vestigia pressa bisulcis,
omnia convisens oculis loca, si queat usquam
conspicere amissum fetum, completque
querellis
frondiferum nemus adsistens et crebra revisit
ad stabulum desiderio perfixa iuvenci,
nec tenerae salices atque herbae rore vigentes
fluminaque ulla queunt summis labentia ripis
oblectare animum subitamque avertere curam,
nec vitulorum aliae species per pabula laeta
derivare queunt animum curaque levare;
usque adeo quiddam proprium notumque requirit.

Così, spesso davanti agli splendidi templi degli dèi un vitello
cade immolato presso gli altari su cui brucia l'incenso,
esalando dal petto un caldo fiume di sangue.
E la madre orbata, vagando per verdi pascoli,
cerca sul terreno le orme impresse dai piedi bisulchi,
fruga con gli occhi ogni luogo, per vedere se possa
in qualche parte scorgere la creatura che ha perduta; e riempie
di lamenti il bosco frondoso, sostando; e sovente ritorna
alla stalla, trafitta dal rimpianto del giovenco;
e i teneri salici e le erbe rinverdite dalla rugiada
e quelle sue acque, scorrenti a fior delle rive, non possono
dar diletto al suo animo e sviare l'affanno che l'ha presa,
né la vista di altri vitelli per i pascoli in rigoglio
può distrarre il suo animo e alleviarne l'affanno:
tanto essa ricerca qualcosa che è sua propria e che le è nota.

deum sincopata di deorum

turicre-propter anastrofe

de pectore ablativo di provenienza

at congiunzione non avversativa

viridis per virides

peragrans participio con valore temporale

humi complemento locativo

querellis ablativo strumentale

 

 

libro III – versi 1-30 – ELOGIO AD EPICURO

 

Il prologo del III libro è un vero e proprio inno al maestro, cui il discepolo si rivolge con epiteti altrimenti usati per le divinità. Qui Epicuro diventa il tremite della vera pietas, che consiste nel contemplare

le sedi degli dei e nell’essere liberi dal timore della morte, grazie alla religione della ragione che ha fatto capire all’uomo la verità delle cose.

 

E tenebris tantis tam clarum extollere lumen
qui primus potuisti inlustrans commoda vitae,
te sequor, o Graiae gentis decus, inque tuis nunc
ficta pedum pono pressis vestigia signis,
non ita certandi cupidus quam
propter amorem
quod te imitari aveo; quid enim contendat hirundo
cycnis, aut quid nam tremulis facere artubus haedi
consimile in cursu possint et fortis equi vis?
tu, pater, es rerum inventor, tu patria nobis
suppeditas praecepta, tuisque ex, inclute, chartis,
floriferis ut apes in saltibus omnia libant,
omnia nos itidem depascimur aurea dicta,
aurea, perpetua semper dignissima vita.
nam simul ac ratio tua coepit vociferari
naturam rerum divina mente coorta
diffugiunt animi terrores, moenia mundi
discedunt. totum video per inane geri res.
apparet divum numen sedesque quietae,
quas neque concutiunt venti nec nubila nimbis
aspergunt neque nix acri concreta pruina
cana cadens violat semper[que] innubilus aether
integit et large diffuso lumine ridet:
omnia suppeditat porro natura neque ulla
res animi pacem delibat tempore in ullo.
at contra nusquam apparent Acherusia templa,
nec tellus obstat quin omnia dispiciantur,
sub pedibus quae cumque infra per inane geruntur.
his ibi me rebus quaedam divina voluptas
percipit atque horror, quod sic natura tua vi
tam manifesta patens ex omni parte retecta est.

O tu, che in mezzo a tenebre così profonde potesti
levare una luce tanto fulgida, illuminando le gioie della vita,
per primo seguo te, o gloria del popolo greco, e nelle orme
da te tracciate ora pongo ben salde le impronte dei miei piedi,
non tanto perché io voglia gareggiare con te, quanto perché desidero
imitarti per amore. Come potrebbe infatti contendere la rondine
coi cigni? O come potrebbero mai i capretti dalle zampe

malferme emulare nella corsa l'impeto di un forte cavallo?
Tu, padre, sei scopritore del vero; tu ci prodighi

paterni precetti, e, come le api nei pascoli fioriti
suggono per ogni dove, così noi nei tuoi scritti,
o glorioso, ci pasciamo di tutti gli aurei detti,
aurei, sempre degnissimi di vita perpetua.
Infatti, appena la tua dottrina comincia a svelare a gran voce
la natura quale è sorta dalla tua mente divina,
fuggon via i terrori dell'animo, le mura del mondo
si disserrano, vedo le cose svolgersi attraverso tutto il vuoto.
Appaiono la potenza degli dèi e le sedi quiete,
che né venti scuotono, né nuvole cospargono
di piogge, né neve vìola, condensata da gelo acuto,
candida cadendo; ‹ma› un etere sempre senza nubi
le ricopre, e ride di luce largamente diffusa.
E tutto fornisce la natura, né alcuna
cosa in alcun tempo intacca la pace dell'animo.
Ma per contro in nessun luogo appaiono le regioni acherontee,
né la terra impedisce che si discerna tutto quanto
si svolge sotto i miei piedi, laggiù, attraverso il vuoto.
Per queste cose mi prende allora un certo divino piacere
e un brivido, perché così per la potenza della tua mente la natura,
tanto manifestamente dischiudendosi, in ogni parte è stata rivelata.

allitterazione di t

tenebris sta per ignoranza

 

 

propter amorem complemento di causa

quod rafforzativo

cycnis simbolo dell’ispirazione poetica

tremulis ablativo di qualita’

 

 

 

 

 

 

 

libro III – versi 1053-1075 – LA NOIA E LA MORTE

 

Dopo aver considerato che l’uomo teme terribilmente la morte, Lucrezio parla della noia, del tedium vitae, una macigno malefico che affligge l’uomo. Sebbene questi tenti inutilmente di evaderla, la noia è interna all’uomo, è un’angoscia esistenziale che lo tortura senza che ne capisca la ragione.

Secondo Lucrezio l’unico rimedio alla noia consiste nell’indagine razionale della natura, perchè solo chiarendo a noi stessi il nostro essere ed il nostro rapporto con il mondo che ci circonda, potremo raggioungere l’atarassia ed essere immuni dalle angoscie della vita e della morte.

 

 

Si possent homines, proinde ac sentire videntur
pondus inesse
animo, quod se gravitate fatiget,
e quibus id fiat causis
quoque noscere et unde
tanta mali tam quam moles in pectore constet,
haut ita vitam agerent, ut nunc plerumque
videmus
quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper,
commutare locum, quasi onus deponere possit.
exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse
domi quem pertaesumst, subitoque <revertit>,
quippe foris
nihilo melius qui sentiat esse.
currit agens mannos ad villam praecipitanter
auxilium
tectis quasi ferre ardentibus instans;
oscitat extemplo,
tetigit cum limina villae,
aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit,
aut etiam properans urbem petit atque revisit.
hoc
se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,
effugere haut potis est: ingratius haeret et odit
propterea, morbi quia causam non tenet aeger;
quam bene si videat, iam rebus quisque relictis
naturam primum studeat cognoscere rerum,
temporis aeterni quoniam, non unius horae,
ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis
aetas, post mortem quae restat cumque manenda.

Se gli uomini potessero, così come è evidente che sentono di avere

un peso in fondo all'animo, che con il suo gravare li affatica,

anche conoscere da quali cause ciò provenga e perché
un così grande macigno, per così dire, di male alberghi nel loro animo,
non condurrebbero così la loro vita, come per lo più li vediamo ora:
ognuno non sa che cosa voglia per sè e cerca sempre
di mutar luogo, quasi potesse deporre il suo peso.
Esce spesso fuori dal sontuoso palazzo colui
che lo stare in casa ha tediato, e subito ‹ritorna›,
poiché sente che fuori non si sta per niente meglio.
Corre alla villa, sferzando i puledri, precipitosamente,
come se avesse fretta di prestare soccorso alla casa in fiamme;
sbadiglia immediatamente, appena ha toccato la soglia della villa,

o greve si sprofonda nel sonno e cerca l'oblio,
o anche parte in fretta e furia per la città e torna a vederla.
Così ciascuno fugge sé stesso, ma, a quel suo 'io', naturalmente,
come accade, non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato,
e lo odia, perché è malato e non comprende la causa del male;
se la scorgesse bene, ciascuno, lasciata ormai ogni altra cosa,
mirerebbe prima di tutto a conoscere la natura delle cose,
giacché è in questione non la condizione di un'ora sola,
ma quella del tempo senza fine, in cui i mortali devono aspettarsi
che si trovi tutta l'età che resta dopo la morte, qualunque essa sia.

Si ... videmus periodo ipotetico della realtà

sentire – noscere forte differenza tra i significati

animo ablativo, stato in luogo

gravitate ablativo strumentale

quoque congiunzione, sottolinea la necessità di conoscere la propria angoscia

exit enfatico a inizio frase

foras avverbio antico da fore, forarum (la porta)

domi locativo

nihilo abl. arcaico di misura

currit enfatico a inizio frase

praecipitanter  neologismo, usato solo qui in tutta la letteratura latina

tectis sineddoche (per casa)

tetigit cum iperbato

se ironia (fuggire se stessi)

 

libro V – versi 195-234 – IL MONDO E L’UOMO

 

Questo passo è il canto dell’Universo, considerato il risultato di una combinazione di atomi destinato a morire, privo di Provvidenza divina.

Lucrezio considera la natura crudele, matrigna più che madre dell’uomo. All’uomo la terra, riarsa dalla torrida “lampada” del Sole o coperta da nevi e ghiacci, è negata: gli rimane solo una piccola parte perchè la coltivi e ne tragga il suo sostentamento. Ma quando da poche zolle l’uomo ottiene frutti e messi, basta un soffio della potenza naturale per

distruggere tutto.

La natura, matrigna anche con gli animali, li ha creati negativi rispetto al genere umano: essi sono predatori o vettori di malattie.  Lucrezio volge lo sguardo al figlio dell’uomo, un naufrago sbattuto dalle onde su di un lido sconosciuto ed inospitale.

Il poeta si fa interprete del dolore del mondo e della solitudine dell’uomo, abbandonando timidamente l’atarassia.

 

Quod <si> iam rerum ignorem primordia quae sint,
hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim
confirmare aliisque ex rebus reddere multis,
nequaquam nobis divinitus esse paratam
naturam rerum: tanta stat praedita culpa.
principio quantum caeli tegit impetus ingens,
inde avidam partem montes silvaeque ferarum
possedere, tenent rupes vastaeque paludes
et mare, quod late terrarum distinet oras.
inde duas porro prope partis fervidus ardor
adsiduusque geli casus mortalibus aufert.
quod super est arvi, tamen id natura sua vi
sentibus obducat, ni vis humana resistat
vitai causa valido consueta bidenti
ingemere et terram pressis proscindere aratris.
si non fecundas vertentes vomere glebas
terraique solum subigentes cimus ad ortus.
sponte sua nequeant liquidas existere in auras.
et tamen inter dum magno quaesita labore
cum iam per terras frondent atque omnia florent,
aut nimiis torret fervoribus aetherius sol
aut subiti peremunt imbris gelidaeque pruine,

flabraque ventorum violento turbine vexant.
praeterea genus horriferum natura ferarum
humanae genti infestum terraque marique
cur alit atque auget? cur anni tempora morbos
adportant? quare mors inmatura vagatur?

tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis
navita, nudus humi iacet infans indigus omni
vitali auxilio, cum primum in luminis oras
nixibus ex alvo matris natura profudit
,
vagituque locum lugubri complet, ut aequumst
cui tantum in vita restet transire malorum.
at variae crescunt pecudes armenta feraeque
nec crepitacillis opus est nec cuiquam adhibendast
almae nutricis blanda atque infracta loquella
nec varias quaerunt vestes pro tempore caeli,
denique non armis opus est, non moenibus altis,
qui sua tutentur, quando omnibus omnia large
tellus ipsa parit naturaque daedala rerum.

E quand'anche ignorassi quali siano i primi elementi delle cose,
questo tuttavia oserei affermare in base agli stessi fenomeni
del cielo e comprovare in forza di molte altre cose:
che la natura del mondo non è stata per nulla disposta
dal volere divino per noi: di così grande difetto essa è dotata.
In primo luogo, di quanto copre l'ampia distesa del cielo,
una grande parte è occupata da monti e selve
dominio di belve, la posseggono rupi e deserte paludi
e il mare che vastamente disgiunge le rive delle terre.
Inoltre, quasi due terzi il bruciante calore
e l'assiduo cadere del gelo li tolgono ai mortali.
Ciò che resta di terra coltivabile, la natura con la propria forza
lo coprirebbe tuttavia di rovi, se non le resistesse la forza dell'uomo,
per i bisogni della vita avvezzo a gemere sul robusto
bidente e a solcare la terra cacciandovi a fondo l'aratro.
Se, rivoltando col vomere le glebe feconde e domando
il suolo della terra, non le stimolassimo al nascere,
spontaneamente le piante non potrebbero sorgere nell'aria pura;
e nondimeno, talora, procurate con grande fatica,
quando già per i campi frondeggiano e tutte fioriscono,
o le brucia con eccessivi calori l'etereo sole
o le distruggono improvvise piogge e gelide brine,

e le devasta con violento turbine il soffiare dei venti.
E poi, la razza orrenda delle fiere, nemica
del genere umano, perché la natura in terra e in mare
la alimenta e la accresce? Perché le stagioni apportano
malattie? Perché la morte prematura s'aggira qua e là?
E inoltre, il bimbo, come un navigante gettato sulla riva
da onde furiose, giace a terra nudo, incapace di parlare,
bisognoso d'ogni aiuto per vivere, appena la natura lo fa uscire
con sforzi fuori dal ventre della madre alle rive della luce,
e riempie il luogo di un lugubre vagito, come è giusto
per uno che nella vita dovrà passare per tanti mali.
Ma crescono i vari animali domestici, gli armenti e le fiere,
né c'è bisogno di sonaglini, per nessuno occorre
la carezzevole e balbettante voce dell'amorevole nutrice,
né essi richiedono vesti diverse secondo le stagioni;
infine, non hanno bisogno di armi, né di alte mura,
per proteggere i propri averi, giacché per tutti tutto
largamente producono la terra stessa e la natura artefice.

Quod si formula di trapasso (dopo aver cantato Epicuro il poeta afferma che il mondo, poichè formato da atomi, è destinato a morire

Quod ... sint proposizione interrogativa indiretta

ausim forma arcaica di perfetto congiuntivo (da audeo)

nequaquam avv. per congiunzione, molto forte

nobis dativo di interesse

inde moto da luogo

possedere forma sincopata di possederunt

partis sta per partes

ni sta per nisi

vitai genitivo arcaico, sta per vite

terrai genitivo arcaico, sta per terre

solum pleonasmo (ripetizione inutile, rafforzativo)

magno labore ablativo strumentale

 

 

 

 

 

ventorum violento vexant allitterazione di v

serie di interrogative per introdurre il discorso sul figlio dell’uomo

humi locativo

infans composto da in (negativo) + for, faris, fatus sum, fari (parlare) = incapace di parlare

cum ... profundit proposizione temporale

vagitu lugubri ablativo strumentale

crepitacillis neologismo, sta per crepitaculum (vezzeggiativo)

almae dativo d’agente, da alo (nutrire)

 

 

libro VI – versi 1138-1181 – LA PESTE DI ATENE

 

In questo passo Lucrezio si allontana dal suo obiettivo: condurre l’uomo all’atarassia affrancandolo dai timori della superstizione religiosa e della morte, guardando il mondo con uno spirito gioioso.

Lucrezio, nel narrare la peste di Atene del 430 a.C. che scoppia durante l’ultima fase della guerra del Peloponneso, offre uno spettacolo desolante, dove l’umanità perde ogni valore, annientata dalla malattia.

Il poeta attraverso una descrizione particolareggiata dei sintomi fisici e

degli effetti nefasti a livello morale, vede nell’epidemia un totale crollo della moralità. Nel passo cè una drammatica atmosfera di disperazione, tanto per il forte ed amaro realismo quanto per il lessico eccezionale, coniato o scelto.  Sorprende una chiusura del poema così tetra, perchè fa pensare ad un cambiamento dell’atteggiamento di Lucrezio dinnanzi alla sua vita, così provata, lasciando aperta la possibilità che la morte prematura dell’autore abbia negato una revisione.

 

Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus
finibus in Cecropis funestos reddidit agros
vastavitque vias, exhausit civibus urbem.

nam penitus veniens Aegypti finibus ortus,
aeëra permensus multum camposque natantis,
incubuit tandem populo Pandionis omni.
inde catervatim morbo mortique dabantur.
principio caput incensum fervore gerebant
et duplicis oculos suffusa luce rubentes.
sudabant etiam fauces intrinsecus atrae
sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat
atque animi interpres manabat lingua cruore
debilitata malis, motu gravis, aspera tactu.
inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum
morbida vis in cor maestum confluxerat aegris,
omnia tum vero vitai claustra lababant.
spiritus ore foras taetrum volvebat odorem,
rancida quo perolent proiecta cadavera ritu.
atque animi prorsum [tum] vires totius, omne
languebat corpus leti iam limine in ipso.
intolerabilibusque malis erat anxius angor
adsidue comes et gemitu commixta querella,
singultusque frequens noctem per saepe diemque
corripere adsidue nervos et membra coactans
dissoluebat eos, defessos ante, fatigans.
nec nimio cuiquam posses ardore tueri
corporis in summo summam fervescere partem,
sed potius tepidum manibus proponere tactum
et simul ulceribus quasi inustis omne rubere
corpus, ut est per membra sacer dum diditur ignis.
intima pars hominum vero flagrabat ad ossa,
flagrabat stomacho flamma ut fornacibus intus.
nil adeo posses cuiquam leve tenveque membris
vertere in utilitatem, at ventum et frigora semper.
in fluvios partim gelidos ardentia morbo

membra dabant nudum iacientes corpus in undas.
multi praecipites nymphis putealibus alte
inciderunt ipso venientes ore patente:
insedabiliter sitis arida corpora mersans
aequabat multum parvis umoribus imbrem.
nec requies erat ulla mali: defessa iacebant
corpora. mussabat tacito medicina timore,
quippe patentia cum totiens ardentia morbis
lumina versarent oculorum expertia somno.

Tale causa di malattie e mortifero flusso, un tempo,
nel paese di Cecrope, rese funerei i campi
e spopolò le strade, svuotò di cittadini la città.

Venendo infatti dal fondo della terra d'Egitto, ove era nato,
dopo aver percorso molta aria e distese fluttuanti,
piombò alfine su tutto il popolo di Pandione.
In conseguenza di ciò, a mucchi eran preda della malattia e della morte.
Dapprima avevano il capo ardente per il calore
ed ambedue gli occhi arrossati per una luce diffusa.
La gola, inoltre, nell'interno nera, sudava sangue,
e occluso dalle ulcere la laringe si serrava,
e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di sangue,
infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.
Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia
aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto
dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.
Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,
simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.
Poi le forze dell'animo intero ‹e› tutto il corpo
languivano, già sul limitare stesso della morte.
E agli intollerabili mali erano assidui compagni
un'ansiosa angoscia e un lamentarsi commisto con sospiri.
E un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno
a contrarre assiduamente i nervi e le membra, li struggeva
aggiungendo travaglio a quello che già prima li aveva spossati.
Né avresti notato che per troppo ardore in alcuno
bruciasse alla superficie del corpo la parte più esterna,
ma questa piuttosto offriva alle mani un tiepido contatto,
e insieme tutto il corpo era rosso d'ulcere quasi impresse a fuoco,
come accade quando per le membra si diffonde il fuoco sacro.
Ma la parte più interna in quegli uomini ardeva fino alle ossa,
nello stomaco ardeva una fiamma, come dentro fornaci.
Sicché non c'era cosa, benché lieve e tenue, con cui potessi giovare
alle membra di alcuno, ma vento e frescura cercavano sempre.
Alcuni immergevano nei gelidi fiumi le membra ardenti

per la malattia, gettando dentro le onde il corpo nudo.
Molti caddero a capofitto nelle acque di pozzi profondi,
mentre accorrevano protendendo la bocca spalancata.
La sete che li riardeva inestinguibilmente e faceva immergere
i corpi, rendeva pari a poche gocce molta acqua.
E il male non dava requie: i corpi giacevano
stremati. La medicina balbettava in un muto sgomento,
mentre quelli tante volte rotavano gli occhi spalancati,
ardenti per la malattia, privi di sonno.

Cecropis il fondatore di Atene (sta per Attica)

quandam si riferisce alla peste del 430 a.c. di cui parla Tucidide

civibus ablativo di privazione

natantis sta per natantes

Pandionis leggendario re dell’Attica (sta per Atene)

soffusa luce ablativo di causa

sudabant e sanguine enfatici ad inizio frase

ulceribus ablativo strumentale

vocis via metafora ardita ma efficace

tactu ablativo di limitazione

principio...inde... climax

complerat sta per compleverat

vero vitai allitterazione (molto efficace)

vitai genitivo arcaico

querella molto usato da lucrezio

noctem per anastrofe (sta per “per noctem”)

coactans intensivo da cogo

ulceribus complemento di causa

intima pars avversativo, in contrapposizione con summam partem

stomacho stato in luogo (senza in)

in...undas ripreso dalla narrazione di Tucidide

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

praecipites a capofitto, prae + cipites (testa all’ingiù)

insediabiliter avverbio lungo per rallentare, neologismo, usato solo qui, in (negazione) + sedo (placare)

medicina sta per medici

somno ablativo di privazione

 

 

Fonte: http://www.madchild.it/ingciv/Appunti/Liceo/latino/lucrezio%20-%20de%20rerum%20natura.doc

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