Mercato del lavoro in Italia

 

 

 

Mercato del lavoro in Italia

 

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Mercato del lavoro in Italia

 

NATURA E STRUTTURA DEL Mercato del lavoro in Italia cap1

 

Mercato del lavoro: termine con cui si indicano i meccanismi che regolano l’incontro tra i posti vacanti e le persone in cerca di lavoro.

Nessuna classica regola di mercato si verifica pienamente; perché il mercato dl lavoro è differente da tutti gli altri mercati perchè:

  • il lavoro non è una qualsiasi merce anonima
  • chi vende (lavoratore) e chi compra (datore) non sono ad un livello di parità
  • il prezzo (salario) non ha funzione equilibrante tre domanda e offerta
  • non tutti i soggetti seguono criteri razionali

L’OIL, organizzazione internazionale del lavoro (1944) dichiara che il lavoro non è una merce e impone retribuzioni eque e sufficienti per un decoroso tenore di vita.

 

  • Il lavoro non è merce anonima ma con la prestazione è inclusa l’intera personalità del lavoratore

 

  • Tra imprese e lavoratori vi è un rapporto di forza asimmetrico : i lavoratori che possiedono solo la capacità di lavorare sono “obbligati” a farlo per sopravvivenza; gli imprenditori possono ridurre la loro dipendenza dal lavoratore aumentando l’uso di macchinari. Questa asimmetria è riequilibrata dallo stato e dai sindacati che regolano il lavoro, e assicurano sussidi alla disoccupazione per consentire al lavoratore di resistenza all’assenza di salario; senza così essere completamente dipendente dal datore.

 

  • Teoria del salario di efficienza: non sono solo lo stato e i sindacati ad alzare i salari oltre all’equilibrio tra domanda e offerta; ma spesso le imprese pagano maggiormente per procurarsi i lavoratori migliori e per incentivarli ad un buon lavoro; all’impresa non conviene esporre i propri lavoratori alla concorrenza dei disoccupati, per ridurre i salari, perché possono così danneggiare la produttività.

E’ inoltre interesse del disoccupato non fare concorrenza all’occupato offrendosi a salari bassi.

Domanda e offerta di lavoro dipendono da diversi o fattori non solo dal salario:

La domanda di lavoro dipende per maggioranza dal livello di produzione che le imprese vogliono raggiungere. Spesso la domanda di lavoro rimane costante anche con salari bassi.

L’offerta di lavoro può essere costante anche con l’aumento dei salari, qnd si supera un certo livello di reddito l’aumento di guadagno può essere poco rilevante rispetto alla possibilità di tempo libero.

 

  • L’uomo ha razionalità limitata : nella ricerca di lavoro non può conoscere e qnd valutare tutte le alternative e quindi non può sapere le conseguenze delle sue sceltew

 

La posizione lavorativa crea identità sociale; quindi il lavoro è una scelta cruciale per la vita e influisce su parecchie scelte future.

Il Mercato del lavoro in Italia è il luogo in cui si formano le classi sociali: costituisce il meccanismo centrale della distribuzione sociale: distribuisce redditi, funzioni lavorative e posizioni sociali.

 

 

OCCUPATO: chi svolge un lavoro che produce reddito

L’occupazione: da reddito

                         produce beni o servizi

                         da il riconoscimento sociale e personale

Evoluzione economica : ha portato all’espansione dell’ economia formale, cioè l’economia del lavoro svolto ai fini di guadagno monetario a scapito dell’ economia sostanziale finalizzata alla produzione di beni e servizi non destinati allo scambio; inoltre vengono sempre più esteriorizzate alcune attività prima svolte in casa.

Economia comunitaria: non si produce nulla per vendere sul mercato, ma per soddisfare le esigenze del gruppo sociale di appartenenza.

 

DISOCCUPATO: chi non è occupato ed è in cerca di lavoro salariato, avendo bisogno di procurarsi un reddito, ed è disponibile ad accettare un lavoro alle condizioni esistenti; lo stato di disoccupazione è identificabile in parte con la registrazione agli uffici di collocamento.

La disoccupazione può essere considerata un indicatore di:

- disponibilità a rispondere alla domanda di lavoro

- squilibrio tra domanda e offerta di lavoro

- mancato utilizzo del potenziale delle risorse umane

- disagio del lavoratore: mancato reddito e frustrazione

- tensione sistema socio-politico

- tensione nel sistema di relazioni industriali ed economico

 

INATTIVO: chi non ha occupazione, non svolge attività di ricerca per diverse cause:

- età scolare

- anzianità

- in età attiva (15 -64): studenti, casalinghe, prepensionati,

 

I confini tra la condizione di occupato, disoccupato e inattivo sono molto labili; periodi di occupazione si alternano a periodi di inattività o disoccupazione.

Esistono situazioni ambigue; figure che si collocano a cavallo di due condizioni:

- disoccupato che in attesa di trovare lavoro si attiva con lavori in nero,

- lavoratori in cassa integrazione: sono ancora dipendenti dall’azienda ma effettivamente inattivi, se aspettano un rientro un azienda;  o disoccupati se cercano un'altra occupazione.

 

RILEVAZIONI STATISTICHE:

  • INDAGINE SULLE FORZE LAVORO: strumento principale per raccogliere informazioni su occupati, disoccupati e inattivi attraverso un’ intervistatore.

Una o più volte l’anno ad un campione di famiglie viene fatto autocompilare un questionario standardizzato per i paesi dell’UE.

Spesso il comportamento dichiarato non coincide con la realtà; ci sono occupati che nn si dichiarano tali e disoccupati che non si dichiarano in cerca di lavoro.

La classificazione della popolazione italiana secondo l’indagine sulle forze di lavoro:

  • OCCUPATI: suddivisi in

-  occupati dichiarati

- coloro che hanno effettuato almeno un’ora di lavoro nella settimana precedente, dichiarandosi studenti, casalinghe, disoccupati.

  • DISOCCUPATI: suddivisi in

- hanno perso un precedente posto di lavoro

- in cerca della prima occupazione

- inattivi che nonostante dichiarandosi tali hanno successivamente sostenuto di cercare lavoro

  • NON FORZE DI LAVORO - POPOLAZIONE INATTIVA: suddivisi in

- popolazione in età non attiva: inferiore a 15 e superiore a 64

- popolazione non attiva nonostante in età attiva: Casalinghe – Studenti – Inabili - Ritirati dal lavoro

OCCUPATI + DISOCCUPATI (qnd persone in cerca di lavoro) = FORZA LAVORO

N.B. il campione di famiglie è tratto dalle anagrafi comunali sono qnd esclusi i senza dimora e buona parte degli immigrati

 

  • CENSIMENTO DELLA POPLAZIONE: a differenza che nell’indagine sulle forze lavoro, il censimento prevede che il questionario sia compilato direttamente dall’intervistato; e vengono prese in considerazione non solo un campione di famiglie ma l’intera collettività.

Qnd il censimento è l’unico strumento in grado di compiere un’ esaustiva analisi del marcato del lavoro. Limite del censimento : avviene ogni 10 anni

Differenze sostanziali tra dati dell’indagine campionaria e censimento dello stesso periodo: con l’assenza della figura dell’intervistatore: molti occupati precari si sono dichiarati disoccupati. Differenze molto maggiori nel mezzogiorno.

 

  • In alcuni paesi dell’unione europea si misura la disoccupazione sulla base delle persone registrate agli uffici di collocamento.

In Italia ciò non è possibile perché il divario tra iscritti agli uffici collocamento e le persone dichiaratesi nei censimenti in cerca di lavoro è sproporzionato: gli iscritti sono più del doppio delle persone in cerca di lavoro.

La propensione ad iscriversi è più alta nel Mezzogiorno, la motivazione: speranza di accedere a provvedimenti assistenziali, attesa di una chiamata per lavoro in enti pubblici.

 

  • DATI SUGLI AVVIAMENTI AL LAVORO: si può ricostruire la dinamica delle assunzioni per caratteristiche dei posti di lavoro e del lavoratore. Utili per l’analisi approfondita del mercato del lavoro a livello locale.

 

Occupazione disoccupazione e inattività sono stocks: quantità misurate in un determinato istante = forniscono una rappresentazione statica del lavoro.

Gli stocks tra loro sono collegati da una rete di flussi.

Può accadere che aumentino sia gli occupati che i disoccupati; poiché diminuiscono gli inattivi.

Il ruolo più variabile è quello delle donne che passano spesso dai tre diversi stati.

 

PRINCIPALI INDICI: per analizzare la struttura e l’evoluzione del Mercato del lavoro in Italia.

TASSO DI ATTIVITA’: rapporto fra forze di lavoro e popolazione totale (tasso lordo)o solo in età lavorativa (tasso netto). Misura la capacità lavorativa di una popolazione. 

I tassi di attività possono essere specifici, per genere, classi di età etc..

 

TASSO DI DISOCCUPAZIONE: rapporto tra le persone in cerca di occupazione e le forze lavoro: indica quanti non trovano lavoro su cento che lo cercano.

 

TASSO DI OCCUPAZIONE: rapporto tra occupati e popolazione totale o in età attiva: indicatore del livello della domanda di lavoro e del benessere economico della nazione.

 

PARTECIPAZIONE AL LAVORO DELLE DONNE cap2

La crescita dei tassi di attività femminile decolla negli anni settanta; prosegue negli anni ottanta per poi rallentare negli anni novanta.

Le differenze nei tassi di attività tra paesi ad alta partecipazione femminile (Svezia\ Danimarca) e paesi a bassa partecipazione(Grecia \ Italia) dipendono essenzialmente da quelli delle donne adulte 25-49

CURVE DEI TASSI DI ATTIVITA’: strumento per studiare la partecipazione al lavoro delle donne.

Curva con andamento a M: partecipazione femminile discontinua legata al ciclo di vita familiare della donna; presenza elevata fino ai 25 seguita da fase di inattività dovuta al matrimonio e\o nascita figli; verso i 35-40 anni qnd i figli sono cresciuti ritornano in parte sul mercato del lavoro.

 

Curva a L rovesciata: presenza femminile di breve durata in età giovanile (fino 24) seguita dall’uscita del mercato in età matrimoniale

 

Curva a campana: si afferma in alcuni paesi europei; curva simile a quella maschile; partecipazione femminile costante dai 25 fino ai 45-50 per declinare solo con il pensionamento.

Caratterizza dai primi anni ‘80 i paesi scandinavi, la Danimarca, Germania, Gran Bretagna e Francia.

 

La netta ripresa della presenza femminile nel Mercato del lavoro in Italia italiano iniziata nei primi anni ’70 ed accentuatasi nella seconda metà degli anni ’90 è dominata dalla crescita dell’occupazione di quella stessa fascia di donne che ne avevano segnato la caduta negli anni ‘50 e ’60 e cioè quelle donne adulte e in età matura. Ma negli anni ’50 e ’60 le donne adulte occupate erano per lo più coadiuvanti agricole inserite in imprese familiari. Ora invece si tratta sempre più di un lavoro privo di quei legami familiari che lo rendevano più flessibile e conciliabile con la tradizionale divisione dei ruoli in seno alla famiglia.

La situazione italiana ha ormai assunto un modello a campana, sia pure a livelli ancora parecchio inferiori a quelli dei paesi dell’Europa settentrionale, sono ridotte le differenze per le ventenni e le trentenni ma sono ancora cospicue per le quarantenni e le cinquantenni dovute per lo più ad un effetto generazionale cioè al ritardo con cui è iniziata in Italia la crescita della partecipazione femminile al lavoro e sono destinate a ridursi.

Ormai nelle regioni centro-settentrionali la figura della giovane che si dichiara casalinga è quasi scomparsa.

 

Differenze regionali in Italia:

regioni centro settentrionali: la figura della casalinga è molto diminuita; la crescita dei tassi di attività delle donne è stata straordinaria fino agli anni ‘90 dove subisce rallentamento.

Bene Emilia Romagna e Lombardia

Mezzogiorno: il tasso di attività è inferiore di molto (20 punti) rispetto alle percentuali europee. Le casalinghe sono la metà delle donne adulte. Alti tassi di disoccupazione femminile. Sfasamento tra attività e occupazione

Capacità delle donne italiane di resistere nella difficile ricerca di lavoro anche in età matura.

 

PART TIME: ha facilitato la diffusione dell’occupazione femminile

Alla diffusione del part time molti paesi devono  parte della crescita dell’occupazione femminile ma non in Italia dove, caso quasi unico, l’occupazione femminile è a lungo aumentata in modo considerevole senza un parallelo incremento del part time che comincia a crescere soltanto negli anni ’90.

Un’analisi comparativa della diffusione del lavoro a tempo parziale non è facile, poiché il part-time non è una categoria omogenea nei paesi occidentali.

Un primo indice è il numero di ore lavorate dalle part-timer.

Le ancor poche part timer italiane sono tra quelle con gli orari più lunghi: 22-23 ore la settimana contro una media europea inferiore alle 20 ore. Peraltro in Italia l’orario medio delle lavoratrici a tempo pieno è tra i più bassi: meno di 38 ore, contro una media europea di 40.

Nettissima è la differenza nei livelli di precarietà. Nei paesi europei in cui il part time è più diffuso i rapporti di lavoro sono quasi sempre permanenti.

Rilevanti sono le differenze tra i paesi europei quanto a status giuridico e contrattuale.

Ad un estremo stanno la Gran Bretagna e la Germania, dove sino a qualche anno fa molte lavoratrici a tempo parziale erano escluse da alcune prestazioni previdenziali e assicurative poiché la loro retribuzione mensile o il loro orario settimanale non raggiungevano una certa soglia. All’estremo opposto vi sono Svezia e Danimarca, dove la maggioranza delle part timer lavora nel settore pubblico. In Italia la legislazione del lavoro prevede completa parità di trattamento tra occupazioni a tempo pieno e parziale.

In Europa in media un terzo del part time comporta lavoro serale, notturno, nei weekend o a turni non depone certo a suo favore,soprattutto quando si tratta di imprese che utilizzano il part time  per assicurarsi un basso costo del lavoro.

Invece quando si tratta di lavoro a tempo parziale sorto per occupare persone che altrimenti rimarrebbero inoccupate, sono solitamente lavori pagati giustamente, stabile non con orari disagiati.

Finlandia e Portogallo sono i due soli paesi europei dove una forte integrazione femminile nel mercato del lavoro è avvenuta senza part-time e prima dello sviluppo del welfare state. La posizione anomala del Portogallo si può attribuire all’ancor elevata presenza dell’impresa familiare in agricoltura, ai bassi livelli di reddito, che impongono di integrare quello del capofamiglia e alla sopravvivenza della famiglia allargata. Quella della Finlandia ad un’antica situazione di parità tra i generi e alla concentrazione femminile nel settore pubblico, che però, contrariamente agli altri paesi nordici è poco organizzato con lavori a tempo parziale.

Negli anni ’70 e ’80 in tutti gli altri paesi avanzati l’aumento dell’occupazione a tempo parziale è stato largamente superiore a quello dell’occupazione a tempo pieno.

Soltanto a fine anni ’80 nell’Unione Europea la tendenza si inverte e l’occupazione femminile a tempo pieno cresce in misura maggiore di quella a tempo parziale.

Le nuove occupate a tempo parziale sono per lo più donne sposate, in particolare con figli a carico. Poiché nel frattempo l’occupazione maschile, quasi tutta full time, si è ridotta, la crescita dell’occupazione complessiva, apparentemente cospicua, in realtà si è tradotta quasi per intero in una sostituzione di posti di lavoro pieni maschili con mezzi posti femminili molto meno garantiti e pagati. Qnd il  volume di occupazione cioè di posti di lavoro equivalenti al full time l’aumento dell’occupazione si è trasformato in una riduzione.

In Italia, l’unico paese in cui la forte crescita dell’occupazione femminile negli anni ’70 e ’80 era avvenuta senza una parallela crescita del part time, la situazione cambia nettamente dal 1993. Dal 1993 al 2003 la percentuale di part timer tra le occupate alle dipendenze cresce dall’11 al 22 % e in misura molto maggiore cresce il part time permanente.

L’aumento è forte soprattutto nelle regioni settentrionali, ma interessa anche quelle meridionali, grazie in larga misura alla crescente diffusione di supermercati e grandi magazzini, dove l’occupazione è quasi tutta femminile a tempo parziale. Ciononostante l’Italia resta ancora un paese a bassa diffusione del part time.

Settori in cui il part time è più diffuso, in tutti i paesi europei le quote più elevate sono raggiunte nella grande distribuzione commerciale, alberghi e ristoranti e servizi sociali e alla persona, settore bancario e assicurativo.

Solo in Germania e Italia si rileva una discreta presenza nell’industria manifatturiera. In Italia il part time è quasi assente nel settore pubblico.

In tutti i paesi europei la proporzione delle donne occupate part time diminuisce al crescere del livello di istruzione.

In tutti i paesi risulta che il lavoro a tempo parziale è molto più diffuso nelle attività manuali non qualificate e tra le addette ai servizi personali e alle vendite, mentre è poco presente nelle mansioni manuali qualificate o specializzate, nelle professioni intellettuali e tecniche e soprattutto in quelle dirigenziali e imprenditoriali.

Solo in Italia le differenze tra i livelli professionali non sono rilevanti.

I rapporti part time rispondano per lo più alle esigenze delle donne di conciliare impegni di lavoro e familiari, mentre nel Mezzogiorno essi sono prevalentemente imposti dalle imprese.

Naturalmente l’orientamento al part time è decisamente minore tra le giovani in cerca di primo lavoro, ma molto maggiore tra chi si dichiara casalinga.

Molte differenze nazionali e l’andamento del part time si comprendono ricorrendo alla distinzione di Hakim tra due popolazioni di donne:

  • le emancipate, orientate ad un lavoro full time che le renda indipendenti, disdegnano il tempo parziale
  • grateful slaves che considerano il lavoro retribuito secondario rispetto al loro principale investimento affettivo nella famiglia, alla ricerca di un orario ridotto per avere tempo da dedicare alle cure familiari.

Inoltre, considerando che un elevato livello di istruzione è un importante fattore di emancipazione per le donne si comprende anche perché in tutti i paesi il lavoro part time sia molto più diffuso tra le donne meno istruite.

La domanda di lavoro costruisce delle occupazioni a tempo parziale espressamente rivolte all’offerta di lavoro femminile. Ciò provoca quella segregazione in posti di lavoro da donne, poco qualificati e senza prospettive di carriera che sembra costituire lo scotto pagato in molti paesi per la crescita dell’occupazione femminile.

 

La doppia presenza:

La riluttanza dei maschi ad accettare un’equa divisione del lavoro in famiglia è una costante in tutti i paesi, le madri occupate a tempo pieno dedicano alla cura dei figli e ad altri lavori familiari il doppio del tempo dei padri; lavoro familiare è ancora molto mal diviso. Il tempo dedicato al lavoro familiare dalle donne occupate resta cospicuo anche se la donna è impegnata in un’attività retributiva. Più del 50% delle donne occupate con figli piccoli lavora complessivamente oltre 60 ore la settimana tra lavoro familiare e retribuito, mentre i mariti che lavorano oltre 60 ore sono poco più del 21%.

Occorre innanzitutto guardare al ruolo delle provvidenze sociali fornite dallo Stato, la disponibilità di asili nido incide in modo cruciale sui tassi di occupazione delle donne. Si vede come il welfare state di tipo socialdemocratico possa favorire l’occupazione femminile grazie ad un processo di defamilizzazione, cioè di trasferimento dei servizi per sopperire ai più gravi carichi familiari dalla famiglia alla collettività; questo processo agisce anche dal lato della domanda di lavoro.

Ma in Italia vi è un regime conservatore di welfare state che considera gli interventi pubblici soltanto sussidiari alla famiglia. Per contro nei paesi nordici il sistema di assistenza ai bambini è stato costruito per favorire la partecipazione al lavoro delle donne e le donne sono trattate dalla sicurezza sociale come individui e non come spose.

Lo Stato in Italia più che fornire servizi alle famiglie, trasferisce loro redditi monetari sotto forma di sussidi che aumentano il reddito familiare ma scaricano una gran quantità di lavoro di cura sulla famiglia e sulla donna.

Il fenomeno delle colf e delle badanti immigrate è esplicitamente collegato al diffondersi della doppia presenza delle donne nel lavoro per la famiglia e per il mercato.

Per le donne italiane si tratta essenzialmente di lavori a ore e quello di baby sitter costituisce uno dei classici lavoretti delle studentesse o delle giovani in attesa di una vera prima occupazione, mentre tra le immigrate prevalgono la tradizionale figura della domestica che vive in famiglia o la nuova dell’assistente domiciliare alla persone anziane.

L’altra soluzione è quella di ridurre gli impegni familiari e quindi di fare meno figli. Questa via è stata seguita da molte giovani italiane, l’Italia è il paese dove il tasso di natalità è diminuito più rapidamente e ha raggiunto il livello più basso (poco più di 1,1 figlio per donna alla fine degli anni ’90).

La riduzione dei tassi di natalità è una tendenza storica in tutti i paesi sviluppati, ma in Italia presenta una maggiore velocità.

La relazione tra numero dei figli e livelli di attività risulta nettissima in tutti i paesi. Si possono cogliere tre diversi modelli.

  • In Germania e Gran Bretagna la riduzione dei tassi di occupazione è graduale man mano che aumentano i carichi familiari.
  • In Francia, Portogallo, Belgio e Grecia avere figli piccoli ha un impatto ridotto, poiché solo per il terzo figlio la partecipazione della madre crolla; qusto rispecchia l’ottimo livello di servizi per l’infanzia in Belgio e Francia, il carattere arretrato della società portoghese e di quella greca.
  • In Olanda, Irlanda, Spagna e Italia la caduta del tasso di attività avviene già con il primo figlio, ciò rispecchia il pessimo livello dei servizi per l’infanzia in Olanda, Irlanda, Spagna e ovviamente Italia

Il tasso di attività delle donne diplomate o laureate non soltanto è molto più alto di quelle non istruite, ma è anche poco influenzato dai carichi familiari.

Relazione negativa tra occupazione femminile e natalità risulta evidente.

Aumentare l’occupazione delle donne senza ridurne la fertilità è importante sia per soddisfare le loro esigenze personali, sia per rispondere ai bisogni del sistema economico poiché agire sui valori non è semplice resta aperta la strada di mutare il sistema di welfare e l’organizzazione del lavoro.

 

L’istruzione tra investimento ed emancipazione

Una forte crescita dell’istruzione superiore ha interessato le nuove generazioni dalla fine degli anni ’60.

Negli anni ’90 si ha una netta ripresa dei livelli di istruzione delle nuove generazioni: nel 2003 più del 65% ha un’istruzione superiore tra i giovani dai 20 ai 24 anni.

Il ricambio generazionale tra gli occupati fa si che vanno in pensione i poco istruiti ed entrano diplomati e laureati.

La crescita dell’istruzione superiore è stata di gran lunga maggiore tra le giovani donne rispetto ai maschi. L’impatto sull’offerta di lavoro è immediato, poiché il tasso di attività femminile cresce nettamente al crescere dei livelli di istruzione.

È stato il forte aumento della scolarità delle donne a determinare la grande crescita della loro presenza sul Mercato del lavoro in Italia.

Due perciò sono le questioni da spiegare: perché le donne più istruite sono anche più attive e perché la scolarità femminile è cresciuta molto più di quella maschile.

Due teorie opposte:

  • Per gli economisti il diverso comportamento delle donne si spiega con la teoria del capitale umano. L’elevata scolarità spingerebbe le donne non solo a cercare un’occupazione da giovani, ma anche a conservarla in età adulta e a cercarne un’altra qualora la perdano, perché l’istruzione viene vista come un investimento costoso.
  • Alla scuola può essere attribuita una funzione emancipatrice dalla condizione di casalinga. Secondo questo approccio più sociologico, le donne trovano nella scuola nuovi valori e nuovi modelli di riferimento per cui non sopportano più l’idea di passare dalla sudditanza verso i genitori a quella verso un marito. Più alto è il livello di istruzione, maggiore è il nuovo desiderio di autonomia personale. Il lavoro diventa l’unico mezzo per realizzare questa aspirazione.

Queste spiegazioni possono coesistere

L’attaccamento al lavoro è certamente maggiore quando l’occupazione è più piacevole e gratificante come di regola accade quando è più qualificata.

 

La femminilizzazione della domanda di lavoro

L’occupazione femminile non appare più confinata nei settori in declino ma si inserisce in quelli in crescita e tra i nuovi occupati le donne sono molto più istruite dei maschi.

Le giovani donne restano ancora più a lungo dei coetanei maschi in attesa del primo lavoro, ma la loro stabilità occupazionale in età adulta non è molto inferiore a quella dei maschi.

L’aumento dell’occupazione si concentra nel terziario.

Anche la crescita relativa della presenza femminile nel settore industriale si spiega con la sua terziarizzazione cioè il forte aumento degli impiegati.

All’inizio degli anni ’70 la curva dei tassi di occupazione per età nel terziario già presentava l’andamento a campana mentre il settore industriale presentava la vecchia forma a L rovesciata.

Negli anni ’80 la presenza delle donne adulte aumenta anche nell’industria e la curva dei tassi di occupazione per età nel terziario accentua la sua forma a campana.

Fattori di domanda e di offerta si sono reciprocamente sostenuti nel favorire la presenza delle donne nel mercato del lavoro.

La nuova occupazione femminile nel terziario si deve al comparto del commercio, turismo e ristorazione, cospicuo è il contributo delle assicurazioni e del credito, della pubblica amministrazione e negli altri servizi.

Negli anni ’90 praticamente tutta la nuova domanda di lavoro che si rivolge alle donne viene dal terziario.

Gran parte dei servizi sociali e personali non sono altro che la professionalizzazione di attività che venivano svolte un tempo all’interno della famiglia.

Nel 2000 Nell’UE oltre il 40% dell’occupazione femminile si concentra nei servizi alle famiglie dove le donne sfiorano il 67% dell’occupazione.

La domanda di lavoro femminile aumenterà per l’invecchiamento della popolazione, che accrescerà la domanda di servizi sanitari e assistenziali anch’essi ad alta occupazione femminile.

Le donne sono tradizionalmente ricercate per attività di vendita o che implicano relazioni personali oppure per lavori che richiedono pazienza.

Nel pubblico impiego cui si accede per concorso su titoli ed esami la presenza delle donne ha ormai superato il 50% dell’occupazione totale. Nel Mezzogiorno è abbastanza comune vedere nelle scuole insegnanti donne e bidelli maschi e la stessa cosa in ospedale. In tutti i paesi europei il settore pubblico è quello in cui sono stati realizzati i maggiori progressi per quanto riguarda la tutela della maternità e i permessi per motivi di famiglia.

 

Più occupate, ma più segregate ?

La femminilizzazione delle professioni in sviluppo ha favorito l’ingresso delle donne nel Mercato del lavoro in Italia ma il rovescio della medaglia è la segregazione cioè la concentrazione delle donne in settori od occupazioni dove sono dominanti e per contro la loro esclusione da quelli maschili.

I livelli di segregazione per genere rimangono stabili in tutti i paesi sviluppati.

  • segregazione verticale: concerne la posizione di uomini e donne nei livelli gerarchici di una professione
  • segregazione orizzontale: misura la concentrazione in professioni e settori differenti.

Strano paradosso: i paesi all’avanguardia per l’inserimento delle donne presentano i più elevati indici di segregazione, mentre i valori più bassi si ritrovano in Grecia e Italia, che si contendono il primato dei paesi sviluppati con minore occupazione femminile.

In Italia le donne risultano relativamente più presenti in occupazioni di prestigio quali quelle professionali, contrariamente a quanto accade in altri paesi più segregati.

Poiché in quasi tutti i paesi la crescita dell’occupazione femminile è avvenuta proprio grazie al lavoro a tempo parziale, si confermerebbe per altra via che la segregazione costituisce il contrappasso della più elevata partecipazione al lavoro delle donne. La Svezia, il paese con più elevato tasso di occupazione femminile è anche quello più segregato.

La segregazione occupazionale è più elevata per le donne con figli rispetto a quelle senza.

La segregazione è molto più elevata per le donne meno istruite: sono più soggette a stereotipi di genere e incontrano maggiori difficoltà ad entrare in attività tradizionalmente predominate da maschi.

Poiché sia il lavoro a tempo parziale sia l’occupazione delle donne poco istruite stanno crescendo si può avanzare l’ipotesi che in Italia la segregazione occupazionale è destinata a crescere.

Nell’UE le donne sono sovrarappresentate tra gli impiegati esecutivi, gli addetti ai servizi alla vendita e tra le occupazioni elementari in misura minore; per contro sono sottorappresentate in tutte le attività manuali legate alla produzione industriale e nel livello più alto del lavoro intellettuale, quello direttivo.

I progressi di carriera delle donne sono minori ma ciò potrebbe dipendere dalla loro minore anzianità di lavoro. La percentuale di donne diminuisce progressivamente al salire dei livelli gerarchici dipende in larga misura dal fatto che si tratta di strutture burocratiche in cui l’anzianità di servizio è una componente essenziale della carriera. La retribuzione delle donne è in media inferiore a quella dei maschi di oltre il 9%.

Qualora poi la donna scelga il part time corre un oggettivo rischio di emarginazione professionale.

Sembra che le imprese tendano a non investire nella carriera anche delle donne senza responsabilità familiari nel timore che possano averle in futuro.

 

 

 

CAP 3 I MODELLI DI DISOCCUPAZIONE IN EUROPA

 

Perché qualcuno è più disoccupato di un altro?

Negli anni ’80 le differenze tra i tassi di disoccupazione sono spiegate da sei fattori tra cui prevalgono quelli d’ordine politico o istituzionale( sussidi, inflazione politica per il lavoro…).

Si parla di “sistemi nazionali di occupazione

D’altro canto il grado in cui le diverse fasce dell’offerta di lavoro sono esposte alla disoccupazione è spesso spiegato con ipotesi economiche:

  • la teoria del capitale umano, adottata per spiegare il più elevato rischio di disoccupazione dei meno istruiti
  • l’approccio della segmentazione, per cui sarebbero le strategie delle imprese a concentrare la disoccupazione su alcuni gruppi di lavoratori.

Verso la fine degli anni ’80 le differenze nei livelli di disoccupazione tra i vari paesi europei erano relativamente modeste; il tasso di disoccupazione totale oscillava in una fascia di tre punti percentuali intorno alla media UE.

Negli anni ’90 si può parlare di una tendenza alla convergenza: su 14 paesi dell’UE 9 sono compresi in una fascia centrale con un tasso di disoccupazione dal 5 al 10% che esclude da un lato solo Spagna con tassi oltre l’11% e dall’altro Austria, Danimarca, e Irlanda con tassi di poco inferiori al 5% e l’Olanda con tassi inferiori al 3%.

Le caratteristiche che si possono usare per definire i gruppi di persone in cerca di lavoro sono:

  • del genere
  • dell’età
  • della posizione sul Mercato del lavoro in Italia.

Per mettere in luce i modelli di disoccupazione sono state usate due dimensioni:

    • tassi di disoccupazione specifici delle diverse fasce (donne, giovani, adulti ,vecchi) della forza lavoro. Questi tassi misurano la vulnerabilità alla disoccupazione, cioè quale probabilità hanno di entrare e restare nello stato di ricerca di lavoro. Dal loro confronto si delineano i differenti modi in cui la disoccupazione colpisce una popolazione.
    • analizzando la distribuzione delle persone in cerca di lavoro secondo le loro caratteristiche personali.

 

La discriminazione di genere

Le donne sono più disoccupate degli uomini in tutti i paesi europei tranne che in Svezia e Gran Bretagna

I paesi europei si differenziano tra loro in misura molto maggiore per il grado di discriminazione verso la disoccupazione femminile che non per il loro livello di disoccupazione totale.

La discriminazione di genere risulta collegata alla capacità di un paese di creare posti di lavoro.

La posizione di relativo svantaggio per le donne si aggrava nei paesi che hanno una scarsa capacità di creare occupazione. L’Italia costituisce con Spagna e Grecia un gruppo in cui ad un basso tasso di occupazione totale si accompagna un’elevata discriminazione di genere.

La discriminazione di genere è > dove è < la presenza della donna nel mercato del lavoro.

L’influenza che le norme sociali e gli stili di vita esercitano sulle caratteristiche della disoccupazione è visibile analizzando il fatto che il maggior tasso di disoccupazione femminile è più alto in quei paesi in cui si sostiene ancora che gli uomini abbiano maggior diritto/dovere al lavoro.

 

La discriminazione per età

Ancora più che per genere il tasso di disoccupazione varia per età

Si possono identificare tre modelli stilizzati:

  • ben rappresentato dall’Italia. Per i maschi il tasso di disoccupazione raggiunge livelli altissimi per i giovani, scende rapidamente sino ad un minimo per i quarantenni e non aumenta quasi per gli anziani.
  • modello tedesco. Non esiste più uno specifico problema di disoccupazione giovanile, poiché il tasso di disoccupazione è praticamente identico per i giovani e gli adulti sino ai 54 anni. La stabilità di questo modello, che ha resistito a radicali mutamenti nel Mercato del lavoro in Italia, si spiega con un fattore istituzionale. Infatti, il diffuso sistema di formazione duale che alterna scuola e lavoro consente anche di classificare come occupati molti giovani che studiano.
  • modello rappresentato dalla Gran Bretagna:un tasso di disoccupazione per i giovani appena doppio di quello degli adulti e invece relativamente elevato per i maschi anziani. Un andamento molto simile a quello inglese si ritrova in Francia e in Svezia.

I giovani sono molto più vulnerabili alla disoccupazione nei paesi mediterranei (Italia e Spagna oltre che in Finlandia) per contro in Italia e Grecia gli adulti, soprattutto se maschi sono molto meno colpiti dalla disoccupazione.

Ma perché il grado in cui la disoccupazione colpisce i giovani più degli adulti varia tanto tra i paesi europei?

Risulta importante la capacità di un paese di creare posti di lavoro.

Esiste una discreta relazione negativa tra l’indice di discriminazione e il tasso totale di occupazione; dove i posti di lavoro sono una risorsa meno scarsa, i giovani sono relativamente meno esclusi dall’accedervi rispetto agli adulti.

 

Quanto alla penalizzazione degli anziani non appare connessa a nessuno dei consueti indicatori del Mercato del lavoro in Italia. Il paese europeo che più penalizza gli anziani è la Germania ma si tratta per lo più di lavoratori in via di prepensionamento.

La fascia tra i 55 e i 59 anni sta diventando quella critica poiché le possibilità di pensionamento anticipato si sono ormai molto ridotte ovunque, mentre si è avviato un processo di ringiovanimento nella domanda di forza lavoro.

Questo secondo aspetto della discriminazione per età può essere compreso solo nell’ambito delle politiche pensionistiche nazionali.

Due situazioni estreme:

Italia si è a lungo seguita una politica di bassa età di ritiro dal lavoro, accentuata da cospicui prepensionamenti nei settori in crisi

Gran Bretagna l’età di pensionamento è alta (65 anni) e il livello delle pensioni pubbliche molto basso; data l’alta età di pensionamento risultano più anziani disoccupati e Italia nasconde  forme di disoccupazione nascosta o occupazione sommersa.

 

La diversa struttura della disoccupazione

Diverse strutture della disoccupazione.

In sintesi possiamo suddividere i paesi europei in tre grandi gruppi:

  • in Spagna, Grecia e Italia le persone in cerca di lavoro sono per lo più giovani e donne
  • in Belgio, Francia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Finlandia e Gran Bretagna la disoccupazione è per lo più adulta ma 4/10 persone in cerca di lavoro sono giovani
  • in Danimarca, Germania, Austria e Svezia la presenza degli adulti disoccupati è dominante con una quota elevata di anziani

I giovani sono per lo più persone in cerca di prima occupazione e gli adulti sono disoccupati che hanno perso un lavoro mentre tra le donne molte sono classificate tra le altre persone in cerca di lavoro con meno intensità di ricerca.

Sino a metà anni ’80 la disoccupazione giovanile coincideva ancora con la situazione di ricerca del primo lavoro. Poi l’enorme diffusione di contratti temporanei ha rotto tale coincidenza.

 

Disoccupazione e famiglia

I maschi sposati sono meno colpiti dalla disoccupazione di quelli che vivono da soli.

La minor vulnerabilità dei capifamiglia è caratteristica di tutti i paesi d’Europa, ma il grado in cui essi sono colpiti dalla disoccupazione  varia da paese a paese.

Considerando il tasso di disoccupazione totale, i tassi di disoccupazione dei capifamiglia risultano particolarmente bassi rispetto a quelli dei figli e dei coniugi. Ovviamente a capifamiglia meno colpiti dalla disoccupazione corrispondono figli più colpiti.

In Italia neppure il 2% dei capifamiglia è in cerca di lavoro contro più di ¼ dei giovani che vivono con i genitori.

Per comprendere appieno tali differenze occorre tenere presente l’età di uscita dei giovani dalla famiglia di origine che è molto diversa nei paesi europei.

È possibile distinguere i paesi europei in tre gruppi:

- in Grecia, Spagna e Italia la maggioranza delle persone in cerca di lavoro è costituita da figli che vivono con i genitori

- in Gran Bretagna e Germania ben il 53/54% dei disoccupati sono capifamiglia

- in Francia, Belgio, Austria e Olanda la percentuale dei capifamiglia è minore perché è importante quella dei coniugi

L’impatto della disoccupazione di lunga durata ha l’effetto di accentuare le differenze.

La presenza di capifamiglia è importante anche tra le sole persone in cerca di primo lavoro, poiché in questi paesi si esce spesso dalla famiglia prima ancora di avere trovato un lavoro.

Ciò è molto raro invece in Italia e negli altri paesi mediterranei dove quasi non esistono giovani soli, e quindi capifamiglia, in cerca di primo lavoro.

Queste differenze dipendono in larga misura dai modelli di vita familiare.

I giovani in cerca di prima occupazione, nei paesi mediterranei, risultano vivere in famiglia dove trovano un sostegno nei redditi dei capifamiglia relativamente poco disoccupati.

Nei paesi dell’Europa centro-settentrionale la gran maggioranza delle persone in cerca di lavoro è composta da maschi adulti e disoccupati dopo aver perso un lavoro sono in prevalenza assistiti da buone indennità di disoccupazione.

In Italia prevalgono le situazioni in cui il capofamiglia occupato o pensionato mantiene a lungo figli inattivi o in cerca di lavoro. Invece nei paesi dell’Europa centro-settentrionale dove minore è la disoccupazione giovanile i pochi figli con più di 15 anni che vivono ancora in famiglia sono molto più spesso occupati come il proprio capofamiglia.

Abbastanza equamente diffusa risulta la situazione in cui il figlio occupato sostiene un capofamiglia disoccupato o pensionato.

 

Il rischio di diventare disoccupato: quale Mercato del lavoro in Italia è più rigido ?

In tutti i paesi europei il rischio di perdere il lavoro risulta più elevato per le donne e per i giovani. L’Italia è il paese dove maggiore è il divario tra giovani e adulti.

La quota di occupati alla ricerca di un altro lavoro è sempre maggiore in tutti i paesi per le donne e per i giovani.

Dall’analisi del rischio di diventare disoccupati da metà anni ’90 si è passati a quella della flessibilità dei mercati del lavoro.

Questo cambiamento riflette un passaggio storico dal sistema fordista, che premia la stabilità, a quello dell’appropriatezza dove domina la capacità di essere flessibili per far fronte all’incertezza.

Dal confronto tra gli Stati Uniti e l’Europa è nata la teoria dell’eurosclerosi che attribuisce alla rigidità dei mercati del lavoro la causa della scarsa crescita occupazione dell’Europa.

A questa interpretazione sono state opposte tre critiche:

  • la prima pone il confronto Europa/Usa in un quadro storico di più lungo periodo ricordando che negli anni ’60 e ’70 era l’Europa che registrava i maggiori successi per quanto riguarda i livelli di disoccupazione e la capacità di creare occupazione.
  • La seconda è che i paesi europei sono molto differenti tra loro e negli anni ’80 e ’90 per quanto riguarda l’occupazione alcuni hanno conseguito successi pienamente comparabili con quelli degli Usa. La situazione storica degli Usa è unica a livello internazionale e non può costituire un utile termine di paragone per nessun paese europeo.
  • La terza critica sostiene che In Europa il numero degli occupati è aumentato poco ma tra gli occupati è aumentata la proporzione dei lavoratori ad elevata produttività e retribuzione.

Negli Usa è molto cresciuto il numero dei lavoratori a bassa produttività e retribuzione. Non esiste un risultato in assoluto migliore dell’altro, ma si confrontano due modelli alternativi , ognuno con aspetti positivi e negativi: da un lato, bassa disoccupazione, forti differenziali retributivi, vasta platea di lavoratori a bassa produttività e retribuzione, bassa tassazione e scarsi servizi sociali;dall’altro, alta disoccupazione ben assistita, ristretti differenziali retributivi, elevata proporzione di lavoratori molto produttivi e ben remunerati, ma anche molto tassati, diffusi servizi sociali.

 

Classificare i paesi secondo il grado di protezione dell’occupazione che fornisce un importante contributo all’analisi delle differenze tra i modelli di disoccupazione in Europa.

La protezione dell’occupazione dipendente si riferisce alle procedure che regolano sia le assunzioni sia i licenziamenti cioè l’insieme di norme giuridiche e contrattuali che disciplinano i lavori a tempo determinato, le agenzie di lavoro interinale, i licenziamenti individuali, l’indennità di licenziamento, i periodi di preavviso.

Negli anni ’90 l’OCSE ha elaborato un indice di protezione dell’occupazione che vedeva in testa alla graduatoria per la minore protezione degli occupati gli Usa, la Gran Bretagna, il Canada e l’Irlanda. L’Italia figurava agli ultimi posti.

Nel valutare l’effettiva rigidità di un mercato del lavoro bisogna considerare a quanta parte dell’occupazione si applicano davvero le regole giuridiche e contrattuali, poiché le piccole imprese sono in alcuni paesi escluse di diritto da tali regole; in Italia, paese ancora popolato da piccole imprese l’alta regolamentazione riguarda prevalentementre il settore pubblico, e le imprese di grande dimensioni

In Italia nonostante una presunta altissima protezione, la mobilità del lavoro cioè la probabilità di perderlo e di ritrovarlo, era in linea con quella di altri paesi considerati molto più flessibili.

Il turnover dei posti di lavoro (la somma dei posti di lavoro creati e distrutti in un anno) è in linea con quello degli altri paesi europei.

La mobilità è minore nelle grandi imprese, nelle regioni del Nord-Ovest e del Centro, per i lavoratori meno giovani e per gli impiegati, si può senza dubbio concludere che lo stereotipo  di un Mercato del lavoro in Italia italiano ingessato dalla legislazione e dalla contrattazione sindacale non corrisponde alla realtà.

L’Italia è il paese con la durata media dell’occupazione più lunga e durate di poco inferiori presentano paesi ad alta protezione dell’occupazione.

Com’è possibile che un’alta mobilità del lavoro conviva in Italia con un debole rischio per gli occupati di diventare disoccupati?

In Italia è molto più difficile diventare disoccupati, ma quando si è entrati nello stato di disoccupazione è altrettanto difficile uscirne. Ciò indica una forte divisione tra gli occupati e le persone in cerca di lavoro.

La compresenza di un’alta probabilità di perdere il lavoro con un basso rischio per gli occupati di entrare in disoccupazione si può spiegare solo con un cospicuo movimento da lavoro a lavoro senza transitare dalla condizione di disoccupato.

In Italia il caso di gran lunga più frequente è il passaggio da un’azienda all’altra senza transitare dallo stato di disoccupazione. Ciò è stato spiegato con l’esistenza di un lungo periodo di preavviso prima del licenziamento che consente al lavoratore di trovarsi un altro posto già prima di lasciare l’azienda oppure con la presenza di una larga fascia di lavoratori che sanno di essere in una condizione instabile, i quali si dimettono appena trovano un’occasione che sembri più sicura.

Il tasso di cessazioni del rapporto di lavoro si riduce in misura significativa al crescere delle dimensioni di impresa.

Inoltre, una ricerca comparata condotta ha messo in luce che il rischio di entrare in disoccupazione diminuisce significativamente all’aumentare delle dimensioni di impresa sia in Italia e Svezia, dove esiste una soglia dimensionale per la protezione dell’occupazione, sia in Olanda e Gran Bretagna, dove non esiste.

I motivi della diversa mobilità non sono quindi legati alle soglie di protezione

ma sono invece di tipo economico e organizzativo: le imprese più grandi usano più impiegati, che sono più stabili, hanno maggiori possibilità di spostare lavoratori da un posto all’altro e di assicurare percorsi di carriera.

L’affermazione che la disoccupazione europea o italiana è alta perché il Mercato del lavoro in Italia europeo o italiana è troppo rigido trova scarso fondamento sul piano empirico..

 

Welfare state e mancanza di lavoro: i sussidi di disoccupazione

In Europa chi rimane senza lavoro riceve quasi sempre un sussidio, destinato a sostenerne il reddito.

SUSSIDI ASSICURATIVI: costituiscono una forma di risarcimento del danno subito per la rottura del rapporto di lavoro; legati per ammontare e durata ai contributi versati in passato dal lavoratore; prescindono dalle condizioni economiche. L’indennità di disoccupazione di tipo assicurativo è proporzionale all’ultimo salario, benché a volte si riduca a scalare man mano che la durata della disoccupazione si prolunga.

 

SUSSIDI ASSISTENZIALI: finanziati dal sistema fiscale sono previsti per chi si trovi in stato di bisogno e sono di regola concessi a tempo indefinito cioè finché perdura lo stato di bisogno. Le varie forme di reddito minimo intervengono quando scadono i termini dell’indennità assicurativa e il disoccupato non ha ancora ritrovato un lavoro.

Per valutare la generosità dei sistemi di protezione del reddito in caso di disoccupazione se ne considerano due dimensioni:

  • il tasso di rimpiazzo cioè il rapporto tra l’ammontare del sussidio e il salario
  • la durata

In Italia e in Grecia non esistono sussidi di tipo assistenziale mentre in Portogallo e in Spagna anche questi sussidi sono a termine, sia pure con qualche eccezione.

 

Caso italiano: nel 1991 venne istituita per i lavoratori espulsi dai processi di ristrutturazione delle grandi imprese un’indennità di mobilità per un periodo variabile dai 12 ai 36 mesi che può trasformarsi in prepensionamento se over 55

Dall’inizio degli anni ’90 si è creato i lavori socialmente utili mediante l’impiego a tempo determinato di soggetti svantaggiati.

Oltre al sistema di protezione del reddito meno generoso, l’Italia ha anche il minor tasso di copertura: su 100 persone in cerca di lavoro meno di 20 dichiarano di ricevere un’indennità o un sussidio mentre la media europea per i disoccupati in senso stretto supera l’80%.

Considerando la quota di persone in cerca di lavoro che dichiara di percepire un’indennità o un sussidio, i paesi europei si possono classificare in tre gruppi:

  • Belgio, Danimarca, Germania, Irlanda, Austria, Finlandia e Svezia assicurano una protezione a quasi tutti i disoccupati che hanno perso un lavoro e alcuni anche a chi è privo di esperienze lavorative
  • All’estremo opposto stanno i paesi dell’ Europa meridionale, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia con un tasso di copertura non superiore al 25%
  • In posizione intermedia vi sono Francia, Gran Bretagna e Olanda con un grado di copertura che va dal 40 al 50%.

Gli economisti si sono dedicati a studiare gli effetti dei sussidi di disoccupazione sul funzionamento del Mercato del lavoro in Italia.

Disponendo di un reddito i disoccupati possono eseguire una più mirata ricerca di un nuovo lavoro e non sono costretti ad accettare il primo lavoro che trovano, sprecando il loro patrimonio di conoscenze ed esperienze. Ma allungando la durata della disoccupazione ne aumenta anche il volume. Una maggior generosità delle indennità prolunga la durata della ricerca e vi è una forte relazione tra durata dei sussidi e percentuale di disoccupazione.

Non bisogna dimenticare come una più lunga durata delle indennità può avere l’effetto di far preservare nello stato di ricerca donne che altrimenti da tempo si sarebbero ritirate nell’inattività. Una minore generosità avrebbe sì l’effetto di ridurre la disoccupazione,  in diminuirebbe la permanenza sul mercato del lavoro delle fasce deboli; che da disoccupati passerebbero a inattivi.

Alcuni paesi dell’Europa centro-settentrionale offrono ai disoccupati di lunga durata stages o lavori temporanei il cui rifiuto comporta la perdita di ogni beneficio.

il grado di copertura varia secondo la durata della disoccupazione, il genere, l’età e la posizione nella famiglia delle persone in cerca di lavoro. Le differenze sono significative:

  • le donne percepiscono sussidi di disoccupazione molto meno frequentemente degli uomini
  • la relazione tra il grado di copertura e la durata della disoccupazione assume una forma a U rovesciata
  • i meno protetti sono i giovani sino ai 24 anni e per contro i più protetti sono gli ultracinquantenni
  • quando in famiglia vi è un altro disoccupato, la probabilità di percepire un’indennità è un poco inferiore, soprattutto per gli uomini.

Chi è alla ricerca di lavoro appena da qualche mese risulta meno protetto.

I più giovani hanno minori probabilità di percepire benefici soprattutto perché molti sono in cerca di primo lavoro e non hanno diritto alle indennità di tipo assicurativo.

Il relativo privilegio dei capifamiglia maschi, situazione è tipica dei paesi mediterranei.

Benché i livelli di generosità e di copertura siano diversi, i risultati dei vari sistemi nazionali di protezione sociale non divergono.

I più protetti da indennità sono adulti e anziani soprattutto maschi.

Il paese più divergente è l’Italia. Due sono le particolarità più rilevanti dell’Italia: la differenza nel grado di protezione è molto bassa sia tra maschi e femmine, sia tra capifamiglia e moglie.

Di fronte alla disoccupazione la situazione italiana si presenta fortemente segmentata:

  • tra una fascia protetta di coloro che escono da imprese medio-grandi e riescono ad accedere alla cassa integrazione prima e alle liste di mobilità
  • fascia di disoccupati per i quali le garanzie di reddito sono di basso livello e di breve durata.
  • l’esclusione da ogni protezione della massa dei giovani in cerca di primo lavoro
  • diffusione assistenziale delle indennità per gli stagionali che non ha riscontro in nessun altro paese europeo.

 

Dalle macrorelazioni ai processi sociali

Dall’analisi dei diversi aspetti che la disoccupazione assume si possono definire a grandi linee quattro modelli:

  • nei 4 paesi mediterranei la disoccupazione è da inserimento poiché si concentra sui giovani mentre ben poco vulnerabili sono i maschi adulti e capifamiglia.
  • In Gran Bretagna sembra prevalere ancora la classica disoccupazione industriale dei maschi adulti già occupati e con responsabilità familiari mentre le donne sono addirittura meno disoccupate.
  • In Germania, Danimarca, Svezia e Austria la vulnerabilità della disoccupazione è abbastanza equidistribuita tra le diverse fasce dell’offerta di lavoro.
  • Francia, Belgio e Olanda hanno una struttura della disoccupazione particolarmente discriminante verso le donne adulte, sposate che hanno perso un lavoro.

 

La scarsità dei posti di lavoro disponibili comporta una selettività della domanda che tende a privilegiare i maschi adulti a scapito di donne e giovani è stato spiegato in due modi.

    • La domanda tende a preferire l’offerta di lavoro a più elevata produttività costituita dai maschi in età centrale
    •  Offe da una spiegazione più sociologica per cui il sistema economico e politico trova meno traumatico scaricare la disoccupazione sulle donne e sui giovani poiché le donne e i giovani possono fondare la propria identità sociale anche al di fuori del Mercato del lavoro in Italia e quindi subire l’esclusione dall’occupazione senza provocare conflitti o tensioni.

A queste spiegazioni se ne può aggiungere un’altra che bada alla loro posizione in seno alla famiglia, per cui i maschi adulti sono di regola dei capifamiglia, mentre le donne adulte sono per lo più mogli e i giovani figli che vivono in famiglia.

In Italia la scarsa capacità di creare occupazione e l’infimo sostegno pubblico comportano un’altissima disoccupazione giovanile, ma i maschi adulti e i capifamiglia sono prossimi al pieno impiego; mentre in Germania l’abbondanza della risorsa occupazione e la generosità del sostegno pubblico hanno annullato ogni discriminazione verso i giovani, ma il livello di disoccupazione dei maschi adulti e dei capifamiglia è superiore a quello italiano.

La penalizzazione dei giovani e delle donne a favore dei capifamiglia maschi adulti è maggiore quanto minore è il livello di occupazione.

 

Quali fattori congiurano nel rendere i giovani meno occupabili degli adulti?

Gli economisti attribuiscono la minore occupabilità dei giovani al fatto che le imprese non hanno convenienza ad assumerli quando i differenziali salariali per età non sono sufficienti a compensare la loro minore produttività.

L’aspetto più intrigante di questa ipotesi è che si da per scontata una minore produttività dei giovani rispetto agli adulti anche quando i giovani sono mediamente molto più istruiti.

Occorre perciò capire perché si sia affermato lo stereotipo del giovane meno produttivo.

Innanzitutto sono importanti le caratteristiche della domanda di lavoro:

- se prevale il requisito dell’esperienza, i giovani sono svantaggiati. Tale requisito è importante nei sistemi produttivi con una scarsa innovazione tecnologica. Sarà dunque un’economia poco dinamica quella che preferirà lavoratori in età matura.

Le piccole imprese tendono a dare molta più importanza all’esperienza piuttosto che alla formazione di base perché hanno scarse possibilità di addestrare i nuovi assunti.

- Le imprese a gestione più tradizionale danno spesso molta importanza anche a qualità del lavoratore come l’affidabilità e la piena disponibilità. Per chi ha famiglia a carico perdere il posto comporta più rischi che non per un giovane, che può contare sul sostegno dei genitori. Questa condizione lo predispone ad erogare la propria prestazione lavorativa con minori resistenze e ad assoggettarsi più facilmente al controllo sociale all’interno dell’organizzazione produttiva.

- Ormai c’è la consapevolezza che la scuola non sia più in grado di assicurare un adeguato sbocco lavorativo e ciò avvia un circolo vizioso che alimenta la penalizzazione dei giovani avvantaggiando agli occhi delle imprese lo stereotipo dell’adulto posato e affidabile.

- Il privilegio dei maschi adulti e capifamiglia è sostenuto anche dal sindacato e dall’opinione pubblica.

- i giovani non si adattano a lavori inferiori alle attese, ma restano anche a lungo in attesa del posto cui ritengono di aver diritto finché le loro aspettative hanno successo o si ridimensionano.In questo caso la maggiore vulnerabilità alla disoccupazione di molti giovani sarebbe causata dalla loro resistenza a declassare le proprie aspettative lavorative.

 

  • I paesi in cui maggiore è la discriminazione verso i giovani sono quelli dell’Europa meridionale che sono caratterizzati sia dalla lunga convivenza dei figli con i genitori, sia dalla scarsa generosità degli schemi di protezione del reddito.
  • I paesi in cui la discriminazione verso i giovani è minore sono la Germania, l’Austria e i paesi nordici dove i giovani escono presto dalla famiglia e i sussidi di disoccupazione sono abbastanza generosi e universalistici.

Per i paesi europei esiste una netta relazione positiva tra tasso di disoccupazione e percentuale di convivenza con i genitori.

Un forte familismo comporta una scarsa partecipazione delle donne e giovani ancora in famiglia al lavoro retribuito e quindi bassi livelli di occupazione totale ma poche occasioni di lavoro da un lato generano scarse risorse per finanziare il welfare state, dall’altro impongono che sia assicurata un’elevata sicurezza occupazionale al maschio adulto.

 

CAP. 4: IL MODELLO ITALIANO

La struttura della disoccupazione nelle due Italie

  • Dopo Spagna e Grecia, l’Italia è il paese dove è più forte la discriminazione di genere e la disoccupazione femminile non raggiunge i livelli più elevati solo per l’ancor scarsa partecipazione femminile.

È netto il primato per la discriminazione per età: tra i maschi, a tassi di disoccupazione altissimi per i giovani, rispetto a tassi di disoccupazione bassi per gli uomini adulti.

Così tra le persone in cerca di lavoro l’Italia presenta la minore quota di adulti e la maggiore di giovani.

In Italia tra le persone in cerca di lavoro neppure 1/5 è un capofamiglia contro ½ in Germania e Gran Bretagna.

  • Quella italiana è anche una disoccupazione da inserimento perché colpisce per lo più il momento dell’ingresso nel Mercato del lavoro in Italia.
  • L’Italia è il paese con la più alta quota di disoccupazione di lunga durata visto che

oltre il 60% è alla ricerca di lavoro da oltre 12 mesi. I più colpiti sono i giovani, le donne e le persone in cerca di prima occupazione, che non sempre corrispondono con i giovani in quanto aumentando il tasso di scolarizzazione si sposta la ricerca del primo lavoro in una fase adulta.

  • I sussidi di disoccupazione italiani sono di gran lunga i meno generosi di Europa e

in Italia le persone prive di lavoro possono contare quasi solo sul sostegno economico della propria famiglia.

  • L’Italia è il paese europeo in cui le differenze territoriali sono le più forti a causa dello storico dualismo Nord-Sud riesploso dalla metà degli anni ’80.

Da 25 anni in Italia sono andati consolidandosi due mercati del lavoro tra loco poco comunicanti: quello del Centro-Nord, non lontano dal pieno impiego e quello del Mezzogiorno dove la disoccupazione è di massa.

L’analisi comparata ha messo in luce come la struttura della disoccupazione sia connessa alla capacità di un sistema economico di creare occupazione;nel Mezzogiorno la capacità di creare lavoro è molto scarsa;quindi è alto il tasso di disoccupazione; inoltre visto che le donne e i giovani sono più discriminati nelle regioni in cui è maggiore il tasso di disoccupazione e minore quello di occupazione, nel mezzogiorno la discriminazione verso le donne e ancor più verso i giovani raggiungono livelli eccezionali.

Mentre nelle regioni centro-settentrionali la discriminazione di genere ha attraversato soltanto una congiuntura sfavorevole a metà anni ’80, in quelle meridionali ha continuato a crescere sino all’inizio degli anni ’90 e poi si è assestata sull’alto livello raggiunto.

Un fenomeno ancor più negativo è l’ulteriore aumento del tasso di disoccupazione delle persone adulte, in particolare dei maschi nel sud.

Se una moderata discriminazione verso i giovani e le donne ha consentito all’Italia centro-settentrionale di raggiungere il pieno impiego per i maschi adulti,al contrario nel Mezzogiorno la discriminazione non è riuscita a conservare un buon livello occupazionale nei maschi adulti.

Nel Mezzogiorno la disoccupazione colpisce i maschi adulti e la situazione per i giovani è drammatica. Per le donne siamo a livello di esclusione dal mercato del lavoro.

Nel Centro-Nord la riduzione della disoccupazione per i giovani nel trovare un’occupazione, è dovuto a un aumento di lavori a termine spesso però precari.

Si assiste ad un forte invecchiamento delle persone in cerca di prima occupazione. Si conferma che l’aumento del tasso di disoccupazione delle persone adulte è dovuto anche a un ulteriore slittamento dell’età di accesso al primo lavoro.

 

La disoccupazione giovanile è anche intellettuale?

In Italia la disoccupazione è stata qualificata come intellettuale (oltre che come giovanile), in quanto tra le persone in cerca di lavoro vi sono molti più laureati e diplomati che in passato. La crescente presenza di istruiti tra chi cerca lavoro è ovvia se si considera che in grande maggioranza le persone in cerca di lavoro sono giovani e che le generazioni  dagli anni ’50 hanno raggiunto sempre più alti livelli di scolarità.

Si è dimostrato che migliori condizioni economiche della famiglia non riducono il tempo di ricerca del lavoro dei figli, ma anzi ne consentono il prolungamento secondo la strategia dell’attesa del posto buono.

Da qualche anno il fenomeno della disoccupazione intellettuale si è molto ridotto nel Centro-Nord ma resta importante nel Mezzogiorno.

Nei primi anni ’70 si afferma l’ipotesi della scuola come area di parcheggio per giovani in attesa di lavoro. La scuola avrebbe svolto la funzione latente di assorbire con il prolungamento degli studi la forza lavoro eccedente ma l’accresciuta scolarità è stata causa di un aumento dell’offerta di lavoro qualificata senza un aumento altrettanto cospicuo della domanda di posti qualificati. = eccesso e spreco di forza lavoro istruita.

Questo spreco può assumere due forme opposte:

  • spiazzamento dei giovani meno istruiti da parte dei più scolarizzati,. I meno istruiti non resterebbero esclusi a causa del deficit formativo ma per la concorrenza dei più istruiti, disposti ad accettare anche attività lavorative per cui sono sovrascolarizzati.
  • gli eventuali squilibri lavorativi sono percepiti come declassamento sociale oltre che come dequalificazione professionale;qnd un eccesso di forza lavoro istruita, gli istruiti non entrano in concorrenza con i meno secolarizzati, ma restano disoccupati. = disoccupazione intellettuale

La relazione tra i livelli di istruzioni e le diverse soglie di accettabilità sociale dei posti di lavoro, varia nel tempo. Si assiste ad un progressivo slittamento verso l’alto nei livelli di reclutamento per posizioni lavorative che rimangono sostanzialmente uguali.

Per uno stesso tipo di lavoro si richiedono alle nuove leve titoli di studio superiori a quelli richiesti alla generazione precedente.

La specificità intellettuale della disoccupazione è stata esaltata, si tende a sottostimare il tasso di disoccupazione dei meno secolarizzati e per contro a sovrastimare quello di diplomati e laureati. Per vedere se la più alta scolarità costituisce davvero una difficoltà aggiuntiva, occorre considerare i giovani ad un’uguale distanza dal momento di uscita dal sistema formativo. Lo scarso vantaggio dei giovani istruiti rimane un fenomeno unico anche in Europa poiché persino nei paesi come la Francia, in cui lo status sociale dell’occupazione ha grande rilievo, la disoccupazione si concentra sui giovani meno istruiti.

Le medie nazionali nascondono realtà molto diverse.

 

Solo un piccolo vantaggio comparato per i giovani istruiti italiani

Poiché i sistemi educativi in Europa sono molto diversi, la classificazione in tre livelli delle persone in cerca di lavoro è approssimativa.

Tra paesi a bassa istruzione vi è l’Italia.

Nel triennio ’92-’94 in Italia non vi era per i giovani una disoccupazione intellettuale in senso specifico, poiché il rischio di restare alla ricerca di lavoro all’uscita dal sistema educativo decresceva al crescere del livello di istruzione, tuttavia il vantaggio dei giovani istruiti italiani rispetto ai non istruiti è nettamente inferiore a quello di cui godono i giovani istruiti in Francia e Gran Bretagna.

Nel 2001 in tutti i paesi il il forte aumento dell’occupazione ha avvantaggiato in maggior misura i giovani più istruiti. Il rischio di essere in cerca di lavoro decresce al crescere del livello di istruzione in tutti i paesi. Ma in Italia il vantaggio comparato degli istruiti è più ridotto rispetto a quanto accade in Gran Bretagna e Francia.

 

In Italia si suole imputare la connotazione intellettuale della disoccupazione giovanile all’elevata rigidità dell’offerta: i giovani istruiti non accettano occasioni di lavoro inferiori alle loro aspettative e quindi non spiazzano i meno istruiti nella ricerca del lavoro..

Considerando sia i tassi di scolarità dei giovani sia la distribuzione degli occupati per livello di istruzione, si verifica una relazione apparentemente paradossale:gli istruiti hanno un maggiore vantaggio proprio nei paesi in cui maggiore è la loro presenza. In questo caso sembra non funzionare la regola economica per cui più un bene è scarso, maggiori vantaggio ne trae chi lo possiede. Sembra che i pochi istruiti italiani e spagnoli siano meno avvantaggiati sul Mercato del lavoro in Italia dei molti istruiti francesi o britannici.

l’Italia presenta un’occupazione più orientata verso le basse qualifiche e meno verso quelle alte. Perciò i giovani istruiti italiani risultano troppi in termini economici se devono confrontarsi con occasioni di lavoro prevalentemente  poco qualificate. In Italia permane un elevato grado di sovraeducazione degli occupati. Risulta che da una generazione all’altra sono stati soprattutto i sempre più numerosi giovani istruiti a vedere peggiorare la propria situazione nella fase di ingresso nel Mercato del lavoro in Italia.

 

Istruzione, posizione professionale e rischio di disoccupazione in età adulta

Superata la difficile fase dell’ingresso nel Mercato del lavoro in Italia, l’istruzione più elevata costituisce poi un vantaggio per conservare il lavoro in età adulta.

Dunque la notevole crescita della disoccupazione maschile adulta nel Mezzogiorno si deve tutta o quasi ai meno protetti dal titolo di studio.

Gli adulti secolarizzati che perdono il lavoro sono molto pochi.

Tra i disoccupati con una precedente esperienza lavorativa la probabilità di uscire dalla disoccupazione è maggiore soltanto per chi ha una qualifica professionale o un diploma di scuola tecnica, mentre i laureati non sono affatto avvantaggiati. In Gran Bretagna l’istruzione superiore invece influisce positivamente anche sulla probabilità di ritrovare un lavoro.

L’Italia è il paese in cui maggiore è la disuguaglianza di accesso alle posizioni di lavoro più qualificate in base al livello di istruzione: a professioni intellettuali accedono quasi il 90% dei laureati, poco più del 35%dei diplomati e appena il 5% di coloro con basso livello di istruzione.

I giovani istruiti italiani sono sì scarsamente favoriti nella fase di ingresso nel Mercato del lavoro in Italia e da adulti sono anche un po’ meno protetti dalla disoccupazione rispetto ai lavoratori istruiti degli altri paesi europei, ma in compenso hanno probabilità molto più elevate di accedere a professioni intellettuali, nonostante queste siano abbastanza poche. A queste maggiori disuguaglianze nell’accesso alle professioni più qualificate corrisponde una scarsa mobilità ascendente.

Raggiungere un livello di istruzione superiore garantisce una maggiore sicurezza occupazionale :i tassi di disoccupazione delle occupazioni ad elevata qualificazione siano nettamente inferiori a quelli delle occupazioni dequalificate.

Le occupazioni meno esposte alla disoccupazione sono i dirigenti e gli imprenditori, i medici, gli insegnanti e le professioni intermedie amministrative e commerciali mentre quelle più a rischio di disoccupazione sono i braccianti agricoli, i manovali, gli addetti ai servizi sanitari e alle famiglie e il personale non qualificato nelle vendite.

 

La disoccupazione di lunga durata e il rischio di perdere il lavoro

L’Italia è il paese europeo dove più elevata è la disoccupazione di lunga durata.

La quota di disoccupati di lungo periodo può restare costante solo se il flusso di uscita dalla disoccupazione è uguale a quello in entrata.

Il classico effetto ad uncino per cui al diminuire del tasso di disoccupazione la quota delle persone in cerca di lavoro da oltre 12 mesi rimane costante, compare in Italia nel 1990.

circolo vizioso della disoccupazione per cui la probabilità di trovare o ritrovare un lavoro si riduce man mano che si allunga la durata della ricerca perchè:

  • progressivo degrado delle capacità lavorative e di iniziativa dei disoccupati, causato dalla prolungata inattività e dallo scoraggiamento.
  • più lunga è la disoccupazione, meno frequenti sono le relazioni sociali con lavoratori occupati che possono inserirci in situazioni lavorative
  • intreccio con il lavoro nero può contribuire a questo processo, per cui l’esclusione dal lavoro regolare rischia di avvitarsi senza fine.

All’ipotesi dell’isteresi, per cui le probabilità di uscire dalla disoccupazione si ridurrebbero con il prolungarsi del periodo di inattività, si contrappone quella dell’eterogeneità dell’offerta di lavoro, per cui alcune fasce deboli sarebbero meno occupabili e quindi destinate a restare più a lungo in cerca di occupazione.

I lavoratori deboli una volta entrati nello stato di disoccupazione sarebbero destinati a restarvi sempre più a lungo, poiché il loro grado di appetibilità per le imprese continuerebbe a peggiorare. D’altronde se costoro accettassero occupazioni precarie, l’esito sarebbe simile poiché non solo la durata della disoccupazione ma anche la frequente instabilità occupazionale aumenta le probabilità di restare senza lavoro.

Dal 1977 il volume delle persone in cerca di lavoro da più di 12 mesi è aumentato in misura di gran lunga maggiore che non l’intera area della disoccupazione. Quasi tutto l’aumento della disoccupazione si deve a quello della disoccupazione di lunga durata.

Il tasso di disoccupazione può essere scomposto nelle due dimensioni che lo costituiscono: il flusso di entrata nello stato di ricerca e la durata della ricerca.

La durata media della disoccupazione presenta una tendenza crescente e diminuisce soltanto dal 2002. il tasso di entrata invece rimane quasi stabile e dalla fine degli anni ’80 prende persino a declinare.

le differenze nei tassi di disoccupazione tra maschi e femmine e tra i giovani e adulti si devono quasi soltanto ai tassi di entrata e poco o nulla alla durata. Il tasso di entrata nello stato di ricerca di lavoro dei giovani è 2-3 volte quello totale e il tasso delle donne è almeno il doppio di quello dei maschi. Al contrario per la durata media di ricerca tra maschi e femmine gli scarti sono minimi mentre tra i giovani e adulti le posizioni tendono addirittura ad invertirsi.

 

In Italia è particolarmente bassa la probabilità di perdere il lavoro e restare nell’anno successivo alla ricerca di una nuova occupazione.

L’aumento della precarietà occupazione dei giovani risulta maggiore nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord.

Per i giovani la precarietà può non comportare disoccupazione. I giovani sono soggetti ad una maggiore instabilità occupazionale rispetto agli adulti. Va detto però che buona parte dell’elevata instabilità dei giovani è dovuta a mobilità volontaria.

Non pochi giovani cambiano lavoro per migliorare e questo è sempre il caso di chi lascia occupazioni a fini formativi.

 

La lunga attesa del posto tra lavoretti e sostegno familiare

Ad un prolungato soggiorno nella scuola si aggiunge un lungo periodo di ricerca della prima occupazione: per le nuove generazioni l’ingresso a tempo pieno nel mondo del lavoro avviene in età molto più avanzata. Anche se in realtà il lavoro entra nella vita di molti giovani ben prima di quanto risulti dalle indagini sulle forze di lavoro perché sono trascurate le situazioni miste. Ma un tratto accomuna i lavoretti che precedono l’accesso ad un’occupazione vera e propria: quello di essere visti come secondari rispetto alla condizione principale di studente o di persone in cerca di lavoro.

 

Innanzitutto il lavoro minorile non è scomparso in Italia poiché tuttora si stima che da 400 a 500 mila minori lavorino durante le vacanze estive o addirittura tutto l’anno. Il lavoro minorile è presente tanto nelle regioni meridionali povere quanto in quelle ricche del Nord-Est.

Poiché quasi tutti i minori lavorano aiutando i genitori o parenti e la gran maggioranza ha un padre che ha anch’egli cominciato a lavorare molto presto, si può parlare di una subcultura del lavoro minorile, dove povertà materiale e povertà culturale si combinano in varia misura.

Nel Centro-Nord i minori che lavorano frequentano regolarmente la scuola, nel Mezzogiorno è frequente l’abbandono precoce, ma in entrambi i casi l’esperienza scolastica viene vissuta in modo molto negativo. I miraggi della società dei consumi e la convinzione che la scuola non serva a nulla hanno un ruolo importante, anche nelle aree più povere. Le attività più frequenti sono nel commercio, nell’artigianato e nei servizi. Nel Centro-Nord i minori hanno la prospettiva di continuare l’attività dell’impresa familiare invece nelle città meridionali i minori che trovano facilmente un lavoro ben presto devono lasciarlo per la concorrenza dei giovanissimi della generazione successiva e allora rischiano di entrare in una lunga fase di inoccupabilità.

 

Le attività lavorative sono diffuse tra gli studenti delle medie superiori: molte ricerche stimano che gli studenti lavoratori siano dal 20% al 50%.

Il lavoro degli studenti è meno diffuso nel Mezzogiorno e nelle aree a più elevata disoccupazione, dove sul mercato dei lavori saltuari è maggiore la concorrenza dei giovani che hanno già finito gli studi. Negli istituti tecnici si lavora molto più che nei licei e ciò può essere considerato un indice del ruolo svolto dall’appartenenza sociale.

Invece se si escludono i ceti superiori, la posizione sociale della famiglia discrimina assai poco gli studenti universitari che lavorano da quelli che non lavorano. Maggiore rilievo ha la facoltà: la percentuale di studenti con attività lavorative è molto elevata in quelle umanistiche e socioeconomiche.

Ovviamente si tratta di spezzoni di lavoro, attività saltuarie, precarie, irregolari e a tempo parziale o concentrate nella stagione estiva.

Tuttavia il diffuso intreccio informale tra scuola e lavoro non favorisce l’inserimento lavorativo all’uscita dal sistema formativo. Per tutti si prospetta una lunga attesa del posto di lavoro e per molti giovani la ricerca del primo impiego si accompagna ad attività lavoratrice abbastanza simili per contenuto e modalità a quelle svolte da studenti.

Tra il conseguimento del titolo di studio e l’accesso alla prima occupazione: i giovani alternano spezzoni di lavoro occasionale o stagionale a periodi di vera e propria disoccupazione.

Il lavoro dei giovani in cerca di primo impiego è meno diffuso nelle regioni meridionali dove molti giovani maschi con titoli di studio elevati e giovani donne a bassa istruzione sono disoccupati puri. L’esclusione anche dai lavori informali e precari può essere attribuita per i primi a carenza di opportunità, per le seconde invece soprattutto a vincoli culturali e familiari, gli stessi che spiegano il loro basso tasso di attività.

Per i giovani poco secolarizzati nel Mezzogiorno prevalgono le occasioni di lavoro occasionale nei servizi privati. Più rare sono le attività artigiane. Maggiori difficoltà incontrano i diplomati e i laureati perché nelle città meridionali sono meno diffusi i lavori precari non manuali: dalla collaborazione in studi professionali ad attività di segreteria o amministrative.

Relativamente migliore è la situazione del Mercato del lavoro in Italia precario e occasionale per i giovani centro-settentrionali sia per la maggiore diffusione di attività terziarie In particolare per le donne e i più scolarizzati, comincia a essere non trascurabile la presenza di lavori saltuari regolari, cioè di contratti a tempo determinato. Il livello di qualificazione resta abbastanza basso.

La fase delle molteplici esperienze di lavoro, anche povere e/o non coerenti, è stata nobilitata dall’ipotesi secondo cui i giovani trarrebbero vantaggio dall’acquisire maggiori informazioni sul funzionamento del Mercato del lavoro in Italia e dall’inserirsi in più vaste reti di relazioni sociali.

Se vi è una buona contiguità l’avere acquisito conoscenze personali e capacità relazionali attraverso esperienze saltuarie può essere di grande utilità.

In tale situazione i lavori precari svolgono solo la funzione di consentire una più lunga attesa del posto, poiché riducono il peso economico del giovane sulla famiglia e allo stesso tempo gli permettono quei consumi nel tempo libero che ormai omologano la condizione giovanile.

Che l’orientamento al posto pubblico o parapubblico abbia un ruolo centrale nei comportamenti di ricerca dei giovani meridionali è comprensibile perché questo settore è l’unico che assicuri garanzie di stabilità.

Nel Mezzogiorno i giovani hanno notevole selettività per le aspettative occupazionali a lungo termine.

Tutte le indagini sui giovani hanno rilevato uno sfasamento tra il lavoro desiderato e il lavoro qualsiasi.

La debole pressione di molti giovani perchè il rapporto di lavoro sia messo in regola viene spesso spiegato con lo scarso interesse per gli aspetti previdenziali, ma può dipendere anche dal non volere che il proprio libretto di lavoro sia sporcato da una mansione di basso livello.

Si rileva come nel Mezzogiorno la disoccupazione giovanile si spieghi in larga misura con le peculiari strategie di solidarietà intergenerazionale, per cui i genitori sono disposti a compiere grandi sacrifici affinché i figli posano accedere a posizioni lavorative congrue con il titolo di studio raggiunto, a costo di lunghi periodi di attesa.

Le origini sociali dei giovani incidono profondamente sui percorsi e sui tempi di ricerca.

  • Quelli più a rischio di una luna attesa sono proprio i giovani che hanno conseguito un titolo di scuola superiore grazie ai grandi sacrifici di famiglie con scarse risorse e scarse conoscenze.

Nelle grandi città meridionali la famiglia, la parentela allargata e il vicinato sostengono i disoccupati sia con aiuti monetari e non monetari, sia svolgendo la funzione di canali per accedere ad occasioni di lavoro precarie e irregolari.

Recenti analisi comparate mostrano che la disoccupazione provoca la rottura delle relazioni con i familiari e gli amici solo in una minoranza dei paesi europei. Tra questi non c’è l’Italia, dove anzi la relazione si inverte: i senza lavoro di lungo periodo hanno più relazioni familiari di coloro che hanno un’occupazione stabile.

Il ruolo più importante di sostegno del reddito dei disoccupati meridionali fu svolto dalle pensioni di invalidità, elargite con esplicito riguardo alla situazione del Mercato del lavoro in Italia locale.

I disoccupati a causa della grave debolezza delle loro relazioni sociali sarebbero per lo più esclusi dalla possibilità di accedere al mercato del lavoro sommerso, dominato dai doppiolavoristi.

Peraltro svegliarsi ogni mattina con l’assillo di guadagnare qualcosa per la sopravvivenza non agevola certo la ricerca di un lavoro stabile e rischia di far precipitare il disoccupato nel circolo vizioso delle attività sempre più precarie, dequalificate e irregolari.

 

Una disoccupazione socialmente grave, ma non economicamente seria?

L’analisi delle caratteristiche della disoccupazione italiana consente di affrontare la questione del suo impatto sulla società. L’ultima stagione di grande disoccupazione in Italia (negli anni ’50) consente un confronto: allora bastò un livello di disoccupazione ben inferiore per provocare una diffusa insicurezza, vaste aree di povertà e tensioni sociali.

Dal punto di vista sociale la situazione attuale appare molto grave, poiché milioni di persone non riescono ad ottenere uno stato cui aspirano. Ma l’indubbio disagio poggia su un sistema economico relativamente ricco, con un vistoso consumo privato e un incisivo intervento redistributivo dello Stato. La disoccupazione contemporanea inoltre non colpisce più figure cruciali come i capifamiglia quindi gli effetti economici della disoccupazione sono attutiti dai processi di aggiustamento interni alle famiglie.

La povertà sembra separarsi dalla disoccupazione e trovare altre cause: soprattutto l’età avanzata e le cattive condizioni di salute.

Solo una fascia molto ridotta di disoccupati è povera, la maggior parte è in condizione non professionale (anziani, casalinghe, minori).

Tra la disoccupazione e la povertà rimane una forte connessione a livello territoriale: nel Mezzogiorno che rappresenta  il 36 % della popolazione italiana si concentra il 60% della povertà e il 45% della disoccupazione.

Un alto tasso di disoccupazione significa un alto numero di nuclei familiari con un solo basso reddito.

Nel Mezzogiorno cresce la presenza tra i disoccupati di maschi adulti, è evidente che questo cambiamento nella composizione della disoccupazione italiana ne aumenta la connessione con la povertà.

La percentuale di disoccupati sotto la linea della povertà è tra le più alte in Europa.

CAP.5 : COME SI CERCA E SI TROVA LAVORO

Molti canali di ricerca

Dai disoccupati ci si attende che cerchino attivamente lavoro, perché questo è il comportamento che li distingue dagli inattivi. Perché i comportamenti di ricerca meritino di essere studiati, occorre che si assuma una posizione aperta sulla definizione del concetto di disoccupazione e si riconosca anche ai disoccupati una logica dell’attore sociale.

Possiamo considerare 5 dimensioni della ricerca di lavoro:

  • intensità cioè la frequenza con cui si compiono le azioni di ricerca
  • estensione cioè chi si concentra su una azione di ricerca e chi su tutte
  • natura dei metodi scelti
  • durata
  • grado di flessibilità

il fattore decisivo che spiega la diversa estensione della ricerca è il livello di istruzione. I più istruiti riescono a usare un più elevato numero di metodi di ricerca.

Ma l’estensione dei metodi di ricerca dipende anche dalla struttura delle opportunità di lavoro a disposizione di chi è in cerca di occupazione.

L’apparente minor attivismo dei disoccupati meridionali si deve al loro minore ricorso alle diverse azioni di ricerca volte a trovare lavoro nel settore privato mentre addirittura maggiore è il ricorso ai canali di ricerca rivolti all’area del pubblico impiego, quali concorsi e collocamento.

Il ricorso negli ultimi anni ai centri pubblici per l’impiego (ex uffici di collocamento) si è dimezzato mentre è cresciuto il ricorso ad agenzie private tra le quali sono incluse le agenzie di lavoro interinale.

Rispetto agli anni ’80 nettamente inferiore è la partecipazione ai concorsi pubblici.

Quanto agli altri metodi di ricerca resta stabile il ricorso a parenti, conoscenti e amici.

Le inserzioni sui giornali sono aumentate tra gli anni ’80 e ’90. Successivamente il ricorso ai giornali è diminuito.

Le segnalazioni a datori di lavoro tramite relazioni personali sono usate con la stessa frequenza ovunque.

Le donne ricorrono di più ai canali formali pubblici e privati mentre gli uomini più quelli informali.

I giovani e le persone in cerca di prima occupazione preferiscono i giornali e i concorsi pubblici perché sono più istruiti. Mentre chi ha già avuto esperienze di lavoro ricorre alla visita dei possibili datori di lavoro e ai centri pubblici per l’impiego.

Le tipologie dei canali di ricerca sono divisi in: regolazione istituzionale/pubblica (uffici di collocamento, concorsi), quella anonima di mercato (giornali, inserzioni) e quella comunitaria fondata su relazioni personali.

Dai modelli di probabilità risulta che nei paesi europei si cerca lavoro in modo molto diverso:

  • germania, olanda, gran Bretagna utilizzano la ricerca formale e organizzata
  • francia, belgio, Irlanda utilizzano la ricerca formale e informale
  • spagna, Portogallo, italia prevale un mix di metodi informali e organizzati

 

La via più efficace: le reti sociali

Il canale meno efficace è il collocamento con l’8%.

La via più efficace sono le reti sociali.

Un confronto con ricerche condotte in Gran Bretagna e Usa rivela che la scarsa efficacia dei servizi pubblici per l’impiego non è una peculiarità italiana, mentre lo è l’elevata efficacia delle reti informali.

I canali possono essere il contatto diretto con i datori di lavoro o le segnalazioni da parte di amici.

La distinzione tra questi due canali è sottile: le segnalazioni di amici sono più importanti per la ricerca del primo impiego (38%).

1/3 dei laureati trova impiego grazie al contatto con l’impresa.

Il primato delle relazioni personali in Italia si deve anche alla prevalenza delle piccole imprese, poiché tutte le ricerche condotte negli altri paesi hanno mostrato una relazione inversa tra dimensioni di impresa e ricorso ai contatti personali per il reclutamento.

L’aspetto più delicato delle relazioni informali come canale che favorisce l’incontro tra domanda e offerta di lavoro è quello del rapporto di fiducia tra le persone inserite nella rete, che si trasferirebbe dagli ambiti extraeconomici in cui è sorto alle relazioni di lavoro.

Sono i legami deboli i più efficaci per trovar lavoro dal momento che non investono alcuna relazione fiduciaria ma costituiscono solo un canale in cui circolano informazioni più velocemente rispetto alle altre.

I presupposti della forza dei legami deboli concerne lo status delle persone coinvolte che possono essere anche di ambienti diversi e la necessità solo di generiche informazioni perché domanda e offerta di lavoro si incontrino.

Ai servizi pubblici spetta comunque il ruolo di:

  • rendere trasparente il Mercato del lavoro in Italia raccogliendo e diffondendo senza costi informazioni sui posti di lavoro vacanti e sui lavoratori in cerca di occupazione.
  • Porre attenzione alla collocazione dei soggetti meno occupabili
  • Creare politiche attive del lavoro a livello locale

 

Cercare lavoro via Internet

Un crescente numero di imprese e di lavoratori utilizza internet per cercare un posto di lavoro o persone da reclutare.

In realtà le azioni di ricerca tendono rapidamente a concentrarsi sui siti delle organizzazioni di intermediazione.

La gratuità e la facilità di accesso a internet hanno provocato un’esplosione delle informazioni utili per far incontrare domanda e offerta di lavoro.

Comunque chi usa internet normalmente utilizza anche gli altri canali di ricerca.

Cercare lavoro via internet per i lavoratori ha praticamente costo zero e per le imprese è molto meno costoso del ricorso ai metodi tradizionali di reclutamento.

Lungi dal soppiantare le relazioni personali come più efficace via per trovare lavoro, il ricorso alla rete virtuale è esso stesso profondamente condizionato da fattori sociali.

 

 

Fonte: http://www.scienzeturismo.it/wp-content/uploads/2008/03/libro-1.doc

Sito web da visitare: http://www.scienzeturismo.it

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