Cesare Pavese opere e biografia
Cesare Pavese opere e biografia
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Cesare Pavese (1908-1950)
- “la luna e i falò” è pubblicato postumo nel 1950
- Torinese, anche lui è morto suicida, perché si era innamorato di una giornalista americana che non ricambiava
- Fu giornalista, traduttore, conoscitore della cultura nord americana
- Non fu antifascista militante
- Fu mandato in Calabria per qualche periodo
- “Lavorare stanca” (’46) è una raccolta di poesie, con versi liberi, che non hanno nulla di sperimantelistico
“La luna e i falò”
romanzo particolare, non è solo il racconto cronologico degli anni della guerra e del dopoguerra, ma è soprattutto il racconto in prima persona di Anguilla, trovatello nato e cresciuto nelle Langhe, racconto della fanciullezza alla “Gaminella”, in cui lavorava, e degli anni precedenti alla guerra, in cui era emigrato negli U.S.A. Il racconto viene effettuato appena dopo la fine della guerra: Anguilla torna al paese, ha fatto fortuna lavorando nel campo dei trasporti, dopo l’esperienza americana.
C’è quindi un ritorno alle origini,ritrova Nuto, amico d’infanzia, attraverso il quale apprende i fatti del periodo della guerra e della resistenza (probabilmente Nuto era stato partigiano).
La struttura narrativa è completamente libera e disarticolata.
Affronta diversi temi che Pavese trasforma in “immagini-mito”,cioè immagini emblematiche che l’autore mitizza trasformandole in miti assoluti, come le colline(simbolo dei luoghi natii), i falò, simbolo di rigenerazione e rinascita.
Il romanzo è anche simbolo del Piemonte degli anni ‘40
TEMI:
- Ritorno alle origini, ad una terra in cui ci si sente a casa, a cui si è legati
- Tema dell’emigrazione, provocata dalla miseria o dalla smania di dimostrare di essere qualcuno, descrizione di un luogo desiderato come l’America, ma Anguilla smitizza questo Paese, in realtà arido, senza storia, in cui si è soli, in cui nessuno si sente a casa ed è difficile costruirsi una vita; lui è poi costretto a rimpatriare, deluso.
- Descrizione della realtà sociale dell’Italia del Nord, realtà di miseria nelle campagne , descritta attraverso Cinto, un ragazzo denutrito e rachitico, nel quale Anguilla vede un po’ se stesso; Cinto è il figlio del Valino( quest’ultimo si suiciderà e distruggerà la cascina, Cinto sarà poi preso da Nuto.
- Descrizione della Resistenza attraverso Nuto, ma il giudizio è sospeso, non chiaro
- Delusione per le vicende politiche del dopoguerra, attraverso Nuto; Anguilla è molto più scettico e disincantato: la politica non può porre rimedio al dopoguerra
- Il tempo scorre, specialmente quello della natura, con i suoi cicli di morte e rinascita, tempo naturale, attraverso l’immagine dei falò che apre e chiude il romanzo.
http://firemusic.altervista.org/appunti/lett/18-pavese-levi-calvino.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Cesare Pavese opere e biografia
La vita di Cesare Pavese
Cesare Pavese nacque il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, nella cascina di San Sebastiano Belbo, dove la famiglia Pavese possedeva alcune terre. Bisogna sottolineare che la famiglia Pavese qui passava solamente estate, mentre il resto dell’anno solevano passare a Torino. Il padre, Eugenio era cancelliere presso il tribunale della città, la madre si chiamava Consolina Mesturini e proveniva da Casale Monferrato. Cesare aveva anche una sorella Maria, più grande di sei anni. Cesare era accudito da Vittoria Scaglione, figlia di un falegname di Santo Stefano, che i Pavese si erano portata a Torino proprio per questo. La famiglia Pavese tornava a Santo Stefano ogni estate e durante questo periodo Maria e Cesare passavano il tempo insieme con i ragazzi Scaglione. Cesare poteva curiosare nella bottega di falegname, sotto la guida di Pinolo Scaglione, a cui rimase poi sempre legato. In La luna e i falò possiamo trovare chiara ispirazione da Pinolo nella persona di Nuto.
La morte del suo padre, avvenuta nel 1914 a Torino per un cancro al cervello, fu per Cesare un avvenimento doloroso. La sorella Maria s’era ammalata di tifo nello stesso anno e la famiglia così restò a Santo Stefano Belbo, dove Cesare fu iscritto e frequentò la prima elementare nella scuola del paese. Nella orfanezza di Cesare forse possiamo trovare un motivo per l’infanzia di Anguilla – bastardo in La luna e i falò. Nel 1916 la madre vendette la cascina e le terre di Santo Stefano Belbo. Cesare compì le elementari presso un istituto privato a Torino e poi frequentò un ginnasio inferiore dei gesuiti. Pinolo Scaglione in questo periodo diventò l’ospite dei Pavese e l’amicizia fra lui, un giovane falegname, e Cesare si rinnovò. Cesare riprese l’abitudine di ritornare regolarmente a Santo Stefano Belbo, dove frequentava volentieri l’amico Pinolo. Cesare continuò a studiare a Torino, al ginnasio superiore “Cavour”, dove incontrò Mario Sturani, di cui diventò grande amico. Sturani era per Cesare il compagno “delle prime scoperte di un mondo popolare tra città e campagna.”
Quando poi continua con gli studi al liceo “M. D’Azeglio”, incontra Augusto Monti, professore di italiano e latino. L’ambiente antifascista del liceo e l’insegnamento di Monti furono decisivi nell’orientamento di Pavese e per la sua decisione di studiare la letteratura. Al liceo trova anche certi amici, Tullio Pinelli, Giuseppe Vaudagna, Remo Ghiacchero. Uno dei compagni di classe, Elio Baraldi, si uccise con una rivoltellata. Cesare Pavese, colpito dal suo suicidio, anche tentò di suicidarsi, ma non ci riuscì. Il suicidio diventa anche un tema di una delle prime sue poesie nel periodo al liceo, quando già legge classici latini, autori italiani, Shakespeare ecc.
Ottenuta la “maturità” nel 1926, Pavese s’iscrive alla Facoltà di Lettere dell’università di Torino. In questo periodo comincia il suo grande interesse per gli scrittori americani, prepara la tesi di laurea sul poeta americano Walt Whitman. Ma nello stesso tempo legge anche altri autori americani, su Sinclair Lewis scrive il primo saggio e dello stesso Lewis fa la sua prima traduzione dall’inglese. L’amicizia con Augusto Monti continua anche negli anni universitari, si incontrano insieme con altri giovani letterati, per es. Massimo Mila o Leone Ginzburg. Pavese anche dedica la sua poesia I mari del Sud a questo professore-amico, Augusto Monti. Ginzburg e Mila diventano in questi anni amici molto vicini a Pavese, anche se lui non ne condivide il forte impegno politico. A questo tempo appartiene anche il suo innamoramento per la soubrette Milly. Oltre le poesie e racconti, in cui Pavese sfogava le sue frustrazioni amorose, scrive anche Il crepuscolo di Dio. Nel 1930 Cesare Pavese si laurea con una tesi su Whitman.
Dopo la fine degli studi gli era morta la madre. Pavese continua con traduzioni, per esempio di Melville, Anderson, Joyce e Dos Passos. Mentre vengono le sue prime traduzioni pubblicate e scrive i saggi, insegna anche nelle scuole pubbliche e ai corsi serali e diventa direttore responsabile della rivista “La Cultura” e così inizia la collaborazione con la casa editrice Einaudi.
Nel maggio 1935 Pavese viene arrestato. La polizia trovò delle lettere di Altiero Spinelli e di altri antifascisti indirizzate a Pavese. Queste lettere aveva accettato che fossero spedite a lui, per far piacere alla donna amata, Tina, “la donna dalla voce rauca”, comunista clandestina. Dopo alcuni mesi di progionia a Torino e a Roma, viene interrogato e viene a conoscenza dell’accusa. Dopo il processo viene riconosciuto colpevole e condannato a tre anni di confino nel paese di Brancaleone Calabro. Qui comincia scrivere Il mestiere di vivere, che verrà pubblicato postumo.
Pavese ottiene una riduzione della pena alla fine del 1935 e torna a Torino, dove scopre che Tina lo ha lasciato per sposare un altro. Nel 1936 esce nelle edizioni di “Solaria” Lavorare stanca. Il dolore dell’abbandono da Tina ha un grande impatto sulla sua vita e l’opera. Ricomincia a scrivere Il mestiere di vivere iniziando con la nota del 10 aprile 1936, dove possiamo leggere:
“Così si spiega la mia vita attuale da suicida. E so che per sempre sono condannato a pensare al suicidio davanti a ogni imbarazzo o dolore. è questo che mi atterrisce: il mio principio è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi carezza la sensibilità. ... Via l’estetica, via le pose, via il genio, via tutte le balle, ho mai fatto qualcosa io nella vita che non fosse da fesso? Da fesso nel senso più banale e irrimediabile, da uomo che non sa vivere, che non è cresciuto moralmente, che è vano, che si sorregge col puntello del suicido, ma non lo commette.”
Cesare Pavese in questi anni di depressione profonda scrive il suo primo racconto Terra d’esilio e inizia a lavorare stabilmente per Einaudi. Continua con le traduzioni, ma si dedica anche a scrivere l’opera propria: Il carcere, un racconto autobiografico sull’esperienza di confino, il racconto La bella estate e La spiaggia. Nel 1941 pubblica Paesi tuoi, un romanzo del dissidio fra città e campagna e sui miti del sangue della terra contadina. Il romanzo suscitò grande interesse. Pavese in questo periodo anche inizia la sua amicizia con Fernanda Pivano, la quale poi rifiutò di sposarlo.
Nel 1943 viene mandato a Roma da Einaudi e poi è richiamato alle armi, ma subito inviato in congedo per l’asma. Dopo il bombardamento di Roma torna a Torino. Quando Torino venne occupata dai tedeschi, molti dei suoi amici si già preparavano alla lotta clandestina, invece lui si rifugiò a Serralunga nel Monferrato, presso la sorella Maria e nel convitto dei padri somaschi a Casale Monferrato. Un segno profondo resta in Pavese della sua non partecipazione alla resistenza. Questa esperienza descriverà nel racconto La casa in collina, ma si riflette anche in La luna e i falò.
Subito dopo la liberazione Pavese ritorna a Torino e riprende il lavoro a Einaudi, collabora anche con l’Unità e si iscrive al PCI. Poi di nuovo è inviato a Roma per dirigere la filiale della Einaudi. Qui Pavese incontra il suo vecchio amico Tullio Pinelli ma anche la giovane Bianca Garufi, con cui ha una nuova esperienza d’amore che si riflette nel poemetto La terra e la morte e nei Dialoghi con Leucò. Con la Garufi Pavese cominciò a scrivere il romanzo a quattro mani Fuoco grande che rimane incompiuto. Dopo l’estate passata a Milano rientra a Torino dove stende Il compagno e finisce i Dialoghi con Leucò. Pavese termina nel 1948 anche La casa in collina, uno dei racconti più riusciti, e Il diavolo sulle colline. Nello stesso anno esce Prima che il gallo canti, che riunisce due racconti resistenziali e per cui Pavese ottiene il premio Salento. L’anno successivo completa con Tra donne sole la trilogia La bella estate (La bella estate, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole).
Finita la trilogia, Cesare Pavese va a passare una settimana a Santo Stefano Belbo in compagnia di Pinolo Scaglione e poi ci si reca spesso per studiarvi situazioni, luoghi, personaggi del romanzo La luna e i falò. Di nuovo, questo Pinolo già adulto entra in La luna e i falò come Nuto adulto dopo il ritorno di Anguilla dall’America. Conosce e si innamora di Constance Dowling, un’attrice americana, per cui scrive nel 1950 le poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Lei ritorna in America e Pavese riceve per La bella estate il premio Strega. La luna e i falò è pubblicato nell’aprile 1950. Alla fine dell’agosto Cesare Pavese si suicida ingerendo una ventina di bustine del sonnifero in una stanza dell’albergo Roma a Torino per motivi della crisi di valori, dell’amore deluso e incapacità di amare, della delusione della politica, uno sconforto totale.
http://is.muni.cz/th/135976/ff_b/FenoglioPavese.doc
Autore del testo: Bc. Vojtěch Trmač
Cesare Pavese
Nasce a Santo Stefano Belbo (Cuneo) nel 1908 da una famiglia originaria di quei luoghi, le Langhe, tanto cari allo stesso scrittore. Studia a Torino, dove si laurea con una tesi su Walt Whitman, divenendo un esperto di letteratura angloamericana. Nella città piemontese comincia a frequentare gli ambienti della casa editrice Einaudi, intorno alla quale si erano radunati molti antifascisti. In quel periodo comincia anche l'attività di traduttore di scrittori inglesi e americani classici e contemporanei, tra i quali Daniel Defoe, Charles Dickens, Herman Melville, Sherwood Anderson, Gertrude Stein, John Steinbeck e Ernest Hemingway.
Nel 1935 viene condannato al confino a Brancaleone Calabro; qui inizia a scrivere una specie di diario, che sarà pubblicato postumo, nel 1952, con il titolo "Il mestiere di vivere". Torna a Torino l'anno seguente e durante la guerra si nasconde in casa della sorella Maria, sulle colline del Monferrato. Anche da questa esperienza nasce uno dei suoi libri migliori, "La casa in collina" (1948).
Nell'ambito della poesia esordisce nel 1936 con "Lavorare stanca". Dopo questa pubblicazione, seguono altre produzioni in prosa, come il romanzo "Paesi tuoi "(1941) e i racconti lunghi e politicamente impegnati come "Il carcere" (1938-39), "La casa in collina" e "La spiaggia" (1941), seguiti dai racconti di "Feria d'agosto" (1946), il romanzo "Il compagno" (1947) e "La bella estate" (1949). Nel 1947 escono "I Dialoghi con Leucò", ma la consacrazione definitiva avviene con "La luna e i falò" nel 1950. Nell'Agosto del 1950, in un albergo di Torino, Pavese si toglie la vita oppresso da una grave forma di depressione che lo aveva accompagnato in quasi tutta la sua esistenza, cedendo a quello che aveva chiamato il "vizio assurdo". Dopo la sua morte viene pubblicata un'altra raccolta poetica, "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" (1951).
Da "Lavorare stanca": Lavorare stanca
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
”Così questo paese,
dove non sono nato,
ho creduto per molto tempo
che fosse tutto il mondo.
Adesso che il mondo l’ho visto davvero
e so che è fatto di tanti piccoli paesi,
non so se da ragazzo
mi sbagliavo poi di molto”
"Un paese ci vuole,
non fosse che per il gusto di andarsene via.
Un paese vuol dire non essere soli,
sapere che nella gente,
nelle piante,
nella terra
c'è qualcosa di tuo,
che anche quando non ci sei
resta ad aspettarti". (prosa da “La luna e i falò” . (capitolo I, p. 9).
Esterno
"Quel ragazzo scomparso al mattino non torna.
Ha lasciato la pala ancor fredda, all'uncino - era l'alba -
nessuno ha voluto seguirlo: si è buttato su certe colline.
Un ragazzo dell'età che comincia a staccare bestemmie
non sa fare discorsi. Nessuno
ha voluto seguirlo. Era un'alba bruciata di febbraio, ogni
tronco colore del sangue aggrumato. Nessuno sentiva
nell'aria
il tepore più duro.
Il mattino è trascorso
e la fabbrica libera ogni operaio.
Nel bel sole qualcuno - il lavoro riprende
fra mezz'ora - si stende a mangiare affamato. Ma c'è un
umido dolce che morde nel sangue e alla terra dà brividi
verdi. Si fuma
e si vede che il cielo è sereno e lontano le colline son
viola. Varrebbe la pena
di restarsene lunghi per terra nel sole.
Ma buon conto si mangia. Chissà se ha mangiato quel
ragazzo testardo? Dice un secco operaio,
che, va bene, la schiena si rompe al lavoro,
ma mangiare si mangia. Si fuma persino.
L'uomo è come una bestia, che vorrebbe far niente. Son le bestie
che sentono il tempo, e il ragazzo l'ha sentito all'alba. E ci sono
dei cani
che finiscono marci in un fosso. La terra prende tutto. Chi sa
se il ragazzo finisce dentro un fosso affamato? E' scappato
nell'alba senza fare discorsi, con quattro bestemmie, alto il
naso nell'aria.
Ci pensano tutti
aspettando il lavoro, come un gregge svogliato.".
Un ragazzo dunque, un giovane operaio di una fabbrica da cui fugge in una fredda mattina di febbraio. Fugge perché nell'aria ha sentito qualcosa che nessun altro poteva sentire ed è corso a sdraiarsi sulle colline. Aveva sentito l'arrivo della primavera. "Nessuno voleva seguirlo.". Gli ultimi versi di questa poesia, fan capire che i compagni della fabbrica, nonostante le parole dure, sentono che quel ragazzo ha fatto qualcosa che non sarà facilmente accantonabile; ora avvertono dentro una pena nuova, un sentimento inquieto che non conoscevano. Anche in questa poesia, come nella precedente, Pavese tiene ben evidenziato il titolo della raccolta originale, appunto Lavorare stanca, in quanto nella prima poesia, I mari del sud, vi è un sordo lamento, quasi una eco lontana che narra la tristezza e la depressione nel vedere il sole sorgere all'alba quando il lavoro è già iniziato da tempo e, nella seconda poesia, Esterno, con tono pesante, ma finemente sarcastico, facendo notare che il lavoro in fabbrica rompe sì la schiena, ma permette di mangiare e "addirittura" di fumare. Due tipi di stanchezza dunque: una di tipo fisico, accentuata maggiormente; l'altra una fatica mentale, l'arrugginirsi dei sentimenti verso la natura ed una rassegnazione alla propria condizione attuale, di stampo quasi leopardiano: "... e il naufragar m'è dolce in questo mar.".
http://www.mlbianchi.altervista.org/antologia_900.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
ANALISI DEL TESTO
TIPOLOGIA Cesare Pavese, La luna e i Falò
C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire "Ecco cos'ero prima di nascere". Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c'è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l'ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant'anni fa c'erano dei dannati che per vedere uno scudo d'argento si caricavano un bastardo dell'ospedale, oltre ai figli che avevano già. C'era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po' cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella - due stanze e una stalla -, la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell'inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. Da quell'inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi.
Adesso sapevo ch'eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell'ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall'orecchio della nostra capra come le ragazze.
Cesare PAVESE è nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, piccolo centro del Piemonte meridionale nella zona collinare delle Langhe ed è morto a Torino nel 1950. Ha esordito come poeta e traduttore di romanzi americani, per poi affermarsi come narratore. Il brano è tratto dal romanzo La luna e i falò, pubblicato nel 1950. La vicenda è raccontata in prima persona dal protagonista, Anguilla, un trovatello allevato da poveri contadini delle Langhe, il quale, dopo aver fatto fortuna in America, ritorna alle colline della propria infanzia.
1. Comprensione complessiva
Dopo una prima lettura, riassumi il contenuto informativo del testo in non più di dieci righe.
2. Analisi e interpretazione del testo
2.1 "C'è una ragione...". Individua nel testo la ragione del ritorno del protagonista.
2.2 I paesi e i luoghi della propria infanzia sono indicati dal protagonista con i loro nomi propri e con insistenza. Spiegane il senso e la ragione.
2.3 Spiega il significato delle espressioni "non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra, né delle ossa" e chiarisci il senso della ricerca di se stesso "prima di nascere".
2.4 La parola "carne" ritorna nel testo tre volte. Spiega il significato di questa parola e della sua iterazione.
2.5 Spiega come poter conciliare l'affermazione "tutte le carni sono buone e si equivalgono" con il desiderio che uno ha "di farsi terra e paese" per durare oltre l'esistenza individuale ed effimera.
2.6 La parola "bastardo" ricorre con insistenza. Spiegane il significato in riferimento alla situazione specifica in cui il termine viene di volta in volta collocato.
3. Interpretazione complessiva e approfondimenti
Sulla base dell'analisi condotta, proponi una tua interpretazione complessiva del brano ed approfondiscila collegando questa pagina iniziale di La luna e i falò con altre prose o poesie di Pavese eventualmente lette. In mancanza di questa lettura, confrontala con testi di altri scrittori contemporanei o non, nei quali ricorre lo stesso tema del ritorno alle origini. Puoi anche riferirti alla situazione storico-politica dell'epoca o ad altri aspetti o componenti culturali di tua conoscenza.
Fonte: http://www.liceistefanini.it/archimede/simulazioni/documenti/1/A_2001.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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