Dante Alighieri vita opere biografia
Dante Alighieri vita opere biografia
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Dante Alighieri
Nato a Firenze nel 1265, da famiglia di piccola nobiltà; si sposa nel 1293 e ha 3-4 figli (Iacopo, Pietro, Antonia e, forse, Giovanna). Nel 1274 incontra per la prima volta Beatrice Portinari, sposata con Simone de’ Bardi e morta nel 1290. Nel 1295 si iscrive alla Corporazione dei medici e degli speziali; dopo alcune funzioni pubbliche viene condannato all’esilio nel 1301; soggiorna in diverse città (Verona, Treviso, poi a Ravenna). Muore nel 1321. Dopo la ricezione delle sue opere ritrattato in manoscritti e in affreschi, anche prime trasposizioni figurative delle sue opere. Tutte le citazioni dall’edizione: Opere di Dante Alighieri. A cura di Fredi Chiappelli. Milano: Mursia 41967.
Vita nuova: Opera in prosa e versi, di datazione controversa – probabilmente 1292-94, alcune poesie già 1283-91; il libro contiene 25 sonetti, 4 canzoni, una stanza e una ballata; queste poesie sono collegate da un racconto-commento in prosa di 42 capitoli che indicano le circostanze in cui le rime sono nate e i motivi della loro ispirazione. Il titolo allude non soltanto all’inizio di una nuova stagione nella vita del poeta (vita nuova = giovinezza), ma anche ad un rinnovamento spirituale causato dall’esperienza dell’amore. I primi dieci capitoli rievocano i primi rapporti con la ragazza adorata: Un ragazzo di nove anni incontra una ragazza che è appena entrata nel nono, poi la rivede nove anni dopo (vestita di bianco e in compagnia di altre donne), e prova il violento trasporto spirituale dell’incontro, che si esprime nel simbolo raffinato del saluto. Il numero di nove ha un valore simbolico e sacro, ritorna nove volte nel testo: la radice del nove è il tre, cioè la Trinità.
Con l’espediente di una visione enigmatica apparsa in un sogno, Dante descrive se stesso e la giovinetta amata in preda a una forza misteriosa e prepotente: II/1
La vera consapevolezza di questo grande avvenimento interiore, designato col nome di Amore, sarà però conquistata solo dopo anni di errori e di sofferenze: in un primo periodo, lungo nel tempo benché narrato brevemente, il giovane è agitato da falsi amori per altre donne, rappresentati simbolicamente nel motivo dei vari travestimenti di Amore. Salvato da questi traviamenti, il poeta canta poi le lodi della sua donna nella prima delle grandi canzoni: II/2
Esaltando la sua bellezza tramite le qualità morali e la funzione salvifica, secondo i precetti del Dolce Stil Nuovo, il poeta descrive la donna adorata come una creatura divina: II/3
Precipitato in una crisi dolorosa, il giovane si trova di fronte a due impegni: il primo, di carattere immediato e pratico, è quello di riconquistare il favore di Beatrice; l’altro, più intimo e importante, è di capire la vera essenza di questo amore la cui profondità comincia appena a rivelarglisi attraverso il dolore. Ora il sentimento d’amore, prima luminoso se pur tormentato, è diventato oscuro e problematico. Dante si avvia a idealizzarlo, e a cercare la felicità nell’atto creativo, scrivendo di questo suo amore. Vi arriva; e il romanzo traversa un lungo periodo di quietitudine nell’ammirazione di Beatrice e nella creazione poetica; ma lo scrittore vuol dare il senso della provvisorietà della felicità terrestre; e inserisce, fra queste pagine serene, episodi che hanno il valore di un tocco funebre: la morte del padre di Beatrice, la sua propria malattia, il presentimento della perdita della donna. Con una citazione del lamento di Geremia e una serie di considerazioni sul numero nove che accompagna la sua vita, il poeta descrive il mondo rimasto vuoto dopo la morte di Beatrice: II/4
Tuttavia, dopo aver trascorso circa tre anni, Dante s’innamora di una ragazza che, guardandolo dalla finestra, ha pietà del suo dolore. Allora, nella sua immaginazione rivede Beatrice nelle stesse vesti in cui l’aveva incontrata la prima volta, e descrive Firenze come una città vedova che i pellegrini che si recano ai luoghi santi, attraversano come la valle delle lagrime della Bibbia: II/5
Pur essendo controverso il significato del testo, l’interpretazione recente punta soprattutto sul suo carattere mistico che si manifesta anche nell’ultima frase: II/6
Rime:
La raccolta comprende 80 componimenti di cui almeno 54 sono considerati autentici dalla critica; pervenuti in modo sparso attraverso vari manoscritti insieme a diversi testi di altri poeti, mai riuniti da Dante stesso in una struttura coerente; prima edizione critica nel 1921.
Scritte in momenti diversi della vita, le composizioni seguono uno sviluppo cronologico dall’imitazione della tradizione provenzale fino al Dolce Stil Nuovo. Dante descrive l’amore come smarrimento della coscienza, rimandando a certi testi della Vita Nuova. Nel sonetto seguente si discute sull’identità di una donna prostrata dal dolore sentimentale: II/7
La potenza d’Amore emana dalla bellezza cosmica della fanciulla pargoletta e colpisce l’animo del poeta, portandolo alle soglie della morte per la mancata corrispondenza amorosa da parte della ragazza: II/8
In questa ballata si avverte ancora la speranza che qualcosa possa mutare nella dura e insensibile natura della donna, considerata la sua giovane età, speranza che si trasformerà poi nell’amara certezza di un rifiuto senza scampo. Di fronte a queste delusioni della realtà non rimane che la possibilità della sublimazione poetica e del simbolismo metafisico.
Nella ballata seguente il poeta anticipa il motivo allegorico della donna gentile = Filosofia che si ritrovano nel Convivio: II/9
Convivio:
Opera in volgare, composta di prose e di rime, nata negli anni immediatamente successivi all’esilio (1304-7). Nel primo capitolo del trattato descrizione della struttura concepita: 14 trattati in prosa in forma di commento e interpretazione allegorica di altrettante canzoni – rimasta incompiuta, soltanto 4 trattati.
Primo trattato: ragione dell’opera – giustificazione dell’uso del volgare nel commento invece del latino; volgare presentato come strumento indispensabile della nuova cultura; concezione dell’unità etnica e linguistica d’Italia e coscienza di una nobile missione civile.
Secondo trattato: Dante espone anzitutto la dottrina dei quattro sensi secondo cui le scritture si possono intendere (v. lettera a Can Grande) – letterale, allegorico, morale e anagogico.
Terzo trattato: cantando le lodi della nuova donna, la filosofia, il poeta formula un inno alla mente umana e alla nobiltà della natura.
Quarto trattato: nella prima parte, l’autore confuta alcune errate definizioni della nobiltà, cioè che la nobiltà derivi dalle ricchezze e dall’antichità dei natali; nella seconda parte spiega poi che cosa veramente sia la nobiltà – un seme generatore di virtù e di bene, e quindi di felicità, inviato da Dio. Di conseguenza, la nobiltà appartiene all’individuo singolare, e non alla stirpe.
De vulgari eloquentia:
Trattato in latino, scritto intorno agli anni 1303-5, concepito in 4 libri, ma rimasto incompiuto al 14° capitolo del secondo libro. È il primo trattato in cui viene affrontato esplicitamente il problema di una lingua unitaria della penisola. Questo testo si troverà al centro della famosa polemica linguistica del ‘500, divenendo la base argomentativa di Giangiorgio Trissino (modello della lingua cortigiana della valle padana) in opposizione a Pietro Bembo (modello toscano delle Tre Corone).
Il primo libro si apre con una storia mitologica del linguaggio, dato da Dio agli uomini e diviso poi in più lingue in seguito alla condanna della torre di Babele. In Europa tre idiomi si sono divisi in molti volgari: la lingua d’oc, la lingua d’oïl e la lingua del sì; differenza tra idioma classico e volgare: II/10 (nella traduzione di Trissino, con la sua riforma ortografica)
I dialetti principali della penisola italiana sono 14, divisibili ancora in varietà. Si mette alla ricerca della più bella varietà: II/11
Presenta alcuni dialetti come quello sardo (II/12) e quello toscano (II/13), però il volgare illustre di cui è andato in cerca non si trova in nessuna città d’Italia perché è il tipo ideale, al di sopra di ogni parlata regionale: II/14
Il secondo libro può essere considerato un trattato di retorica e di storia della poesia volgare. Il linguaggio illustre deve essere usato sia in prosa che in poesia, ma in poesia solo dai poeti eccellenti per cantare le armi, l’amore e la rettitudine. Dante rievoca i tre generi di stile da usare in poesia: lo stile alto e sublime per i temi tragici, lo stile comico e mezzano e lo stile elegiaco degli infelici.
La discussione sulla lingua letteraria che nella tradizione italiana si chiamerà questione della lingua, riapparirà durante gli ultimi anni di Dante nelle
Ecloghe:
Questi due poemi in latino, pubblicati per la prima volta a Firenze nel 1719 fanno parte di una corrispondenza poetica di Dante con il grammatico bolognese Giovanni del Virgilio. Questi gli rimproverava di scrivere in volgare e lo esortava ripetutamente a scegliere la lingua dei dotti, il latino, per la sua poesia di contenuto serio (cioè p.es. la Commedia). Dante replica con una prima ecloga di 68 esametri d’imitazione virgiliana: sotto lo stile allusivo della poesia pastorale si nasconde una polemica sulla funzione dell’intellettuale e i suoi rapporti con la lingua. Nella seconda ecloga (97 esametri) Dante si concentra invece su una difesa dell’otium letterario contro le preoccupazioni di un accademico come Giovanni.
Monarchia:
Datazione molto controversa; opera in latino, in tre libri. Nel primo, Dante dimostra la necessità della monarchia universale; ma questa non può costituirsi per mezzo di un solo uomo, bensì di tutta l’umanità, il che non è possibile se non nella pace universale. Solo il monarca potrà essere il giudice supremo che dirima contrasti tra i principi, che possa esercitare perfettamente la giustizia perché tutto possedendo è esente di cupidità e ispirato dal massimo amore verso gli uomini. Solo sotto il monarca unico l’uomo può essere veramente libero, padrone di sé, perché il monarca tutela la piena libertà del cittadino, mentre le oligarchie assoggettano gli uomini.
Nel secondo libro, per dimostrare che questa monarchia universale apparteneva di diritto al popolo romano, Dante lo dichiara il più nobile, sia per la sua origine da Enea, sia per le virtù individuali e collettive.
Nel terzo libro definisce l’imperatore e il papa come le due guide date da Dio agli uomini per condurli, l’uno alla felicità terrena, l’altro alla felicità celeste.
Epistole:
13 conservate; scritte in latino tra il 1304 e il 1319 nel periodo dell’esilio. La prima lettera del 1304 Al cardinale Niccolò da Prato, scritta a nome di tutti gli esuli fiorentini, è un proclama di pace e di libertà nell’interesse della patria. Nelle tre epistole composte tra l’ottobre del 1310 e l’aprile del 1311, Dante rivolge un appello a tutti i potenti d’Italia a sottomettersi all’imperatore tedesco Arrigo VII perché si ristabilisca così la pace. L’epistola 11 (1314), indirizzata ai cardinali italiani, è un’esortazione ai prelati perché eleggano un pontefice che riporti a Roma la sede del papato e riconduca la Chiesa alla sua missione più profonda che è quella del rinnovamento evangelico. L’ultima epistola, indirizzata al suo protettore Can Grande della Scala, signore di Verona, esprime l’intenzione di Dante di dedicare a questi il Paradiso. Si risolve poi in un’ampia introduzione esegetica sull’intera Commedia, riprendendo argomenti del secondo trattato del Convivio: II/15-18
Nel suo Ottimo Commentare della Divina Commedia (verso la metà del ‘300) Andrea Lancia tenta di giustificare questa forma di analisi minuziosa del testo letterario con il risultante beneficio estetico e morale: II/19
Commedia:
Date di composizione: inizio dell’Inferno 1304-6, conclusione verso 1309; Purgatorio iniziato poco dopo e terminato verso il 1313; Paradiso iniziato probabilmente nel 1316 e concluso pochi giorni prima della morte, nel 1321. L’aggettivo Divina che accompagna il titolo è un’apposizione tardiva dovuta a Ludovico Dolce che curò l’edizione veneziana del 1555. La prima edizione a stampa è quella di Giovanni Neumeister di Magonza, Foligno 1472.
L’opera è divisa in tre cantiche (Inf., Purg., Par.) di 33 canti ciascuna, più uno che costituisce un proemio generale = totale complessivo di 100 canti; in terzine (endecasillabi, ababcbcdc…).
Inferno:
Il poeta immagina di trovarsi smarrito, senza sapere come, in una selva oscura, all’età di 35 anni, il venerdì santo del 1300: II/20 (Inf. I.1-6)
Tre fiere gli impediscono il cammino, una lonza, un leone e una lupa, quest’ultima specialmente lo costringe a ritornare: II/21 (Inf. I.49-54)
Allora gli appare una figura umana alla quale chiede aiuto – l’ombra di Virgilio: II/22 (Inf. I.64-75)
Dante rivela il suo affetto per il grande poeta latino e lo supplica di salvarlo. Virgilio si offre come guida per condurlo attraverso l’Inferno e il Purgatorio dopo di che un’anima più degna lo guiderà nel regno dei beati il quale a lui pagano è vietato. Gli fa vedere la porta: II/23 (Inf. III.1-9)
Valicata questa porta, i due poeti si trovano nell’Antinferno dove vedono gli ignavi, quelli che in vita non hanno fatto né bene né male e non hanno lasciato di sé alcun ricordo nel mondo; Dante crede di riconoscere papa Celestino V (colui che fece per viltà il gran rifiuto). Sulla barca di Caronte passano poi l’Acheronte; durante il passaggio, Dante perde i sensi e cade come colpito da un sonno improvviso. Al suo risveglio si trova al di là dell’Acheronte, nel 1° cerchio dell’Inferno.
Il regno della dannazione si estende verso il centro della terra, sotto Gerusalemme, in 9 cerchi concentrici che vanno restringendosi dall’alto in basso, a forma di imbuto (illustrazioni di un’edizione del 1506), e in essi i dannati sono distribuiti in modo che le pene, in relazione alle colpe, sono tanto più gravi quanto più si scende. Spiega Virgilio la teoria aristotelica della triplice ripartizione dei peccati: per incontinenza, per violenza o bestialità, e per malizia. La pena sofferta dai dannati che stabilisce sempre una relazione tra il castigo e il peccato, o per analogia o per contrasto, appare come una materializzazione della colpa per cui i dannati si trovano materialmente in una situazione analoga o contrastante a quella morale in cui si trovarono in vita.
Nel 1° cerchio, nel Limbo, stanno le anime di coloro che non peccarono, ma morirono o non battezzati (come i bambini morti immediatamente dopo la nascita) o prima dell’avvento di Cristo (eroi e filosofi dell’antichità pagana). Un nobile castello, riservato agli spiriti eccellenti, è la dimora di Virgilio stesso a cui fanno festa 4 poeti: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Dante ci scopre anche gli eroi di Troia e di Roma, i grandi filosofi e scienziati, dal mitico Orfeo ad Averroè musulmano. Nel 2° cerchio, alla cui entrata siede Minosse, fra i lussuriosi si trovano le ombre di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini: la donna parla dell’amore colpevole e fatale che condusse lei e Paolo alla tragica morte per opera del marito di lei, fratello di lui. Narrando come avvenne che i due amanti si rivelarono a vicenda la loro passione, Francesca rievoca la scena della lettura del romanzo di Lancilotto e Ginevra: II/24 (Inf. V.127-138)
3° cerchio: golosi (guardia: Cerbero); 4° cerchio: avari e prodighi (guardia: Pluto); 5° cerchio: la palude Stige dove stanno immersi nel fango gli iracondi. Mentre i due poeti attraversano la palude sulla barca del nocchiero Flegiàs, l’anima di Filippo Argenti, in risposta ad alcune parole sprezzanti di Dante, afferra l’orlo della barca per trascinarlo giù, ma viene respinto da Virgilio (Eugène Delacroix: Dante et Virgile aux Enfers, 1822). Sulla torre della città di Dite appaiono poi le tre furie infernali (Megera, Aletto e Tesifone). Nel 6° cerchio sono puniti gli eresiarchi, gli eretici e gli epicurei che non credettero nell’immortalità dell’anima.
Il 7° cerchio, quello dei violenti, è diviso in tre gironi: il primo è un fiume di sangue bollente, il Flegetonte, dove si trovano i violenti contro la vita e le sostanze del prossimo (i tiranni come Alessandro Magno, Attila e Ezzelino da Romano). Nel secondo girone, quello dei violenti contro se stessi e i propri beni, Dante scopre la selva dei suicidi (anime rinchiuse nei tronchi degli alberi). Nel terzo girone, quello dei violenti contro Dio, natura e arte, si trovano i bestemmiatori.
Virgilio spiega allora l’origine dei fiumi infernali che si formano con le lagrime goccianti dalla statua del Veglio di Creta, simbolo dell’umanità e della sua progressiva corruzione: II/25 (Inf. XIV.106-114)
I due poeti proseguono poi sino all’estremità del girone dove il fiume precipita nel 8° cerchio nel quale saranno calati dal mostro Gerione, simbolo della frode. In 10 bolge (Malebolge, = valli circolari concentriche) si trovano i seduttori di donne, gli adulatori, i simoniaci (che hanno fatto commercio con cose sacre), gli indovini, i barattieri (che hanno approfittato di cariche pubbliche a loro vantaggio privato), gli ipocriti, i ladri, gli ingannatori. È qui che Dante incontra Ulisse che si mette a raccontare il suo ultimo viaggio: II/26 (Inf. XXVI.106-142)
Così, Ulisse è perito davanti alla montagna del Purgatorio alla quale nessun uomo vivente può approdare.
Nelle Malebolge seguenti si trovano ancora gli scismatici (= seminatori di discordie religiose, p.es. Maometto), poi i falsari di metalli, di monete e di parole. I due poeti arrivano poi al pozzo dei Giganti di cui uno, Anteo, li depone sul fondo, nella pianura gelata del Cocito dove sono puniti i traditori in 4 regioni: Caina per i traditori dei parenti, Antenora per i traditori della patria fra cui il più conosciuto è il conte Ugolino della Gherardesca: mangiando la testa del suo falso amico, l’arcivescovo Ruggieri, il conte racconta la sua fine, rinchiuso insieme ai 4 figli nella torre della fame, in Pisa, nel 1289: II/27 (Inf. XXXIII, 37-75; Johann Heinrich Füssli)
Seguono la regione Tolomea per i traditori degli ospiti, e la Giudecca per i traditori dei benefattori. I dannati di questo cerchio sono confitti nel ghiaccio. Scoprono poi Lucifero, mostruoso, con 6 ali e 3 facce, una rossa, una gialla e una nera. Nelle tre bocche maciulla coi denti Giuda, Bruto e Cassio, traditori di Cristo e di Cesare, cioè delle supreme autorità. Per un cammino buio e malagevole, attraverso le gambe di Lucifero, i due poeti risalgono finché riescono a riveder le stelle.
Purgatorio:
La seconda cantica inizia con l’invocazione delle Muse: II/28 (Purg. I.1-12)
Il luogo dove Dante e Virgilio sono giunti è un’isola in mezzo all’Oceano, nell’emisfero australe, sulla quale si innalza la montagna del Purgatorio. Custode della montagna è Catone Uticense, famoso filosofo stoico romano. Giungono poi alle pendici del monte dove comincia l’Antipurgatorio dove si trovano in diversi balzi tutti quelli che tardarono a pentirsi prima della morte. Ascoltano la triste elegia di Pia dei Tolomei, una donna senese misteriosamente uccisa da suo marito nel castello della Pietra: II/29 (Purg. V.130-136)
I due poeti si trovano poi davanti alla porta del Purgatorio, custodita da un angelo il quale, con la punta della sua spada, incide sulla fronte di Dante sette P, segni dei peccati di cui dovrà purificarsi. Infatti, il Purgatorio si divide in 7 cornici o gironi in ciascuno dei quali si espia uno dei 7 peccati mortali. Nel 1° girone, quello dei superbi Dante ammira gli esempi di umiltà scolpiti nella roccia della parete, prima di tutto la scena dell’Annunciazione alla Vergine: II/30 (Purg. X.34-45)
Seguono altre sculture sul pavimento, esempi di superbia punita. Nel 2° girone sono puniti gli invidiosi che hanno gli occhi cuciti con fili di ferro. Seguono gli iracondi, gli accidiosi, gli avari e prodighi, i golosi. Nel 7° girone, quello dei lussuriosi, Stazio, poeta dell’Antichità, espone la teoria della generazione dell’uomo, dell’infusione dell’anima in esso, e della formazione dei corpi fittizi dopo la morte. Il mattino seguente, dopo un sogno preannunziatore di Dante degli incontri imminenti, Virgilio dichiara finito il suo ufficio di guida, avendo ormai il suo alunno, dopo la purificazione dai peccati, conquistato la libertà del pensiero. Allora, Dante si addentra da solo nella foresta che occupa la vetta della montagna del Purgatorio e che costituisce il Paradiso terrestre. Qui, il poeta incontra una donna chiamata Matelda che lo conduce verso un carro trionfale tirato da un grifone sul quale appare Beatrice velata. Travolto dalle emozioni e dai ricordi, Dante perde i sensi. Matelda lo immerge nel Letè, fiume dell’oblio, per dare pace alla sua mente. Libero del ricordo delle sue umane colpe, si avvia verso l’ultimo regno.
Paradiso:
È il regno della luce che simboleggia la grazia divina: II/31 (Par. I.1-9)
9 cieli concentrici, mobili e luminosi, distribuiti nello spazio secondo la concezione tolemaica e tutti compresi entro l’Empireo immobile, costituiscono il regno dell’eterna beatitudine. Con un’altra invocazione delle Muse, il poeta invita il suo lettore a seguirlo nel suo viaggio incredibile: II/32 (Par. II.1-18; accenno al viaggio degli Argonauti e Giasone trasformato in contadino – Ovidio: Metamorfosi)
Dante sale allora con Beatrice al cielo della Luna, e poi, di cielo in cielo, sino all’Empireo, dove dimorano, con gli angeli, le anime dei beati. Queste appaiono prima come pallide ombre evanescenti per trasformarsi progressivamente in un ardore risplendente di carità quanto più sono vicine a Dio. Nei singoli cieli si rispecchiano questi diversi gradi di beatitudine negli occhi di Beatrice la cui bellezza diviene, salendo, sempre più luminosa e ridente. Incontrano S. Bernardo da Chiaravalle (fondatore dei Cistercensi) che diventa l’ultima guida di Dante e lo presenta alla Vergine per la cui intercessione è fatto degno di levare lo sguardo a Dio che gli appare in una visione piena di luce.
Il lavoro esegetico consacrato al poema di Dante inizia immediatamente con i primi commenti del ‘300. La ricezione si trasforma poi in un fenomeno continentale: p.es. durante il concilio di Costanza (1414-18) Giovanni Bertoldi da Serravalle recita agli ospiti tedeschi e inglesi la Commedia nella sua versione in latino. Innumerevoli le edizioni, traduzioni (soprattutto durante l’800) e interpretazioni, anche le trasposizioni in arti figurative (Sandro Botticelli, William Blake, Gustave Doré, Auguste Rodin…).
Fonte: http://homepage.univie.ac.at/alfred.noe/300/300-2.doc
Autore: Alfred Noe
Dante Alighieri
Scrittore e poeta nato a Firenze tra il 20 maggio e il 21 giugno del 1265 e morto a Ravenna il 14 settembre 1321.
Nato in una famiglia di modeste condizioni economiche appartenente alla piccola nobiltà guelfa, ha comunque l’opportunità, in gioventù, di frequentare la vita elegante e cortese di Firenze e di condurre studi severi.
Inizialmente avviato allo studio della “grammatica”, ha come insegnante di arte retorica Brunetto Latini, modello di intellettuale consapevole del valore politico e civile dell’impegno culturale.
Quasi da autodidatta avviene, invece, la sua formazione poetica per la quale è decisiva l’amicizia con Guido Cavalcanti e successivamente quella con altri due “stilnovisti”: Lapo Gianni e Cino da Pistoia.
Compone rime per Beatrice Portinari, conosciuta nel 1274, alla maniera degli stilnovisti: questi poeti si propongono, ricollegandosi al tema della “donna angelicata” tipico della scuola siciliana, di scrivere seguendo ciò che Amore gli “ditta dentro”.
Alcuni studiosi sottolineano come sotto lo schermo della semplice poesia d’amore lo stilnovo tendesse ad esaltare l’ascesa al potere della borghesia fiorentina che ambiva a sostituire l’aristocrazia come guida della città: in tal senso si spiega l’esaltazione che i poeti facevano della nobiltà d’animo da loro considerata più importante della nobiltà di nascita. Nel 1285 sposa Gemma Donati da cui avrà tre o quattro figli (Iacopo, Pietro, Antonia e forse Giovanni).
Nel 1290 la morte di Beatrice, che in precedenza si era sposata con Simone de’ Bardi, lo getta in una cupa disperazione che sfocia in una crisi religiosa. Sono anni in cui approfondisce gli studi filosofici e teologici e matura quell’amore per la verità e la giustizia che caratterizzerà tutta la sua vita futura.
Tra il 1292 ed il 1293 lavora alla “Vita nuova”: raccolta di rime collegate tra loro da parti in prosa che narra l’esperienza mistica e terrena dell’amore di Dante per Beatrice, iniziando con il primo incontro di Dante con l'amata, avvenuto quando il poeta aveva solo nove anni, e giungendo, dopo avvisaglie e premonizioni, alla morte di Beatrice. L’opera conclude con l’autore che, dopo essere stato tentato dall’idea di tradire il ricordo di Beatrice sostituendolo con una donna giovane e viva, rivede l’amata in una visione e decide di non scrivere più di lei fino a quando non sarà in grado di dire “di lei quello che mai non fue detto di alcuna”.
Dal 1295 Dante partecipa attivamente alla vita politica fiorentina avviando una brillante carriera che nel 1300 lo vede arrivare alla suprema magistratura comunale con la nomina a priore.
Inviato a Roma insieme ad altri due ambasciatori per tentare di far desistere dai suoi propositi bellicosi Bonifacio VIII che aveva inviato a Firenze le truppe di Carlo di Valois, fratello del re di Francia, Dante si ritrova condannato all’esilio in contumacia.
Impossibilitato a rientrare a Firenze, ormai sotto il dominio dei guelfi neri, fazione opposta a quella dei bianchi nelle cui fila militava, il padre della lingua italiana è costretto ad errare per l’Italia.
Tra il 1304 ed il 1307 vede la luce un’importante opera in volgare “Il convivio”, ambizioso progetto di carattere divulgativo con cui l’autore intende parlare di questioni culturali a chi, distratto dalle cure della vita pratica, non aveva potuto dedicarsi agli studi. Il tentativo di indicare ai lettori la via per giungere all’umana perfezione attraverso la divulgazione della filosofia, del culto della ragione, della sapienza e della giustizia, prevedeva la stesura di quindici trattati di cui però lo scrittore fiorentino realizza solo i primi quattro. Contemporaneamente alla stesura del Convivio si dedica al “De vulgari eloquentia”. Il trattato, scritto in latino e incompleto, con il quale affronta la questione della lingua esaltando le qualità del volgare, lingua naturale che si impara istintivamente sin dalla tenera età, che l’autore ritiene debba avere tre caratteristiche fondamentali, cioè essere “cardinale”, “aulico” e “curiale”.
Di difficile datazione è invece il trattato “La Monarchia” scritto in latino e diviso in tre libri in cui Dante afferma come tanto l’autorità papale quanto quella imperiale discendano direttamente da Dio e asserisce che l’Imperatore e il Papa, occupandosi di due sfere differenti della vita, debbano guidare il popolo separatamente ma in maniera complementare ed armonica.Altrettanto complesso è il problema di datazione di quello che è il capolavoro di Dante e forse uno dei capolavori assoluti della letteratura mondiale: la "Divina Commedia". L’ipotesi più accreditata vuole che abbia iniziato a lavorarvi approssimativamente tra il 1304-1305 ed il 1306-1307, tesi avallata anche dal fatto che le opere che stava scrivendo in quel periodo, “il Convivio” ed il “De vulgari eloquentia” sono state lasciate incompiute.
Il racconto del viaggio di Dante sviluppato attraverso le tre cantiche “Inferno”, “Purgatorio”, “Paradiso”, ognuna composta di trentatré canti più un Proemio dell'Inferno, ha una struttura estremamente complessa che comporta l’adozione di tre livelli interpretativi: allegorico, simbolico e figurale. Con la descrizione del proprio percorso attraverso i tre regni ultraterreni, Dante intende celebrare la tendenza dell’anima umana, condannata dal peccato originale alla vita terrena, a salire verso Dio.
Il resoconto del suo viaggio all’Inferno, al Purgatorio e al Paradiso, effettuato in compagnia di Virgilio e di Beatrice, è anche occasione per il poeta fiorentino di prendersi la sua rivincita su quanti lo avevano costretto ad una vita errabonda: attribuendosi la facoltà di giudicare l’agire umano, che di solito spetta solo al Padre Eterno, divide suoi contemporanei e i personaggi del passato in dannati, penitenti e beati dando un giudizio inappellabile sul loro operato terreno.
L’importanza della "Divina Commedia" per la creazione e lo sviluppo di una lingua volgare in Italia (opera a cui hanno dato un importante contribuito anche Boccaccio e Petrarca) dimostra la considerazione di cui il capolavoro godeva presso i contemporanei (all’epoca ad esempio Boccaccio commentò diciassette canti dell’inferno per conto del comune di Firenze) e l’importanza che ha ancora oggi per l’insegnamento dell’italiano nella penisola e nel mondo.
Nel 1321, ormai stabilitosi a Ravenna, Dante Alighieri muore improvvisamente al ritorno da un’ambasceria a Venezia.
Divina Commedia
- La Commedia è un poema didattico-allegorico che ha per soggetto lo stato delle anime dopo la morte e per fine la felicità degli uomini. Il poema descrive la storia di un viaggio che Dante compie a 35 anni attraverso i tre regni dell'aldilà (secondo la concezione medievale), sotto la guida di Virgilio (Inferno e Purgatorio), Beatrice (Paradiso) e s. Bernardo (Empireo). La data d'inizio di questo viaggio - che dura la settimana di pasqua - è la notte del 7 aprile 1300, l'anno del primo Giubileo della storia, indetto da papa Bonifacio VIII.
- Il poema si compone di tre Cantiche (Inferno-Purgatorio-Paradiso), articolate in 100 canti: 33 canti per ogni Cantica, più uno che funge da introduzione all’intero poema (il I canto dell’Inferno, che è composto quindi da 34 canti).
- La forma metrica è la terzina di endecasillabi a rime incatenate, inventata da Dante o della terzina del sonetto italiano.
- Nell’opera è evidente la ricerca della simmetria, per lo più fondata sui numeri 3 (simbolo della Trinità) e 10 (numero perfetto). Tre sono le cantiche; ognuna ha 33 canti, più un canto introduttivo nell’Inferno, per un totale complessivo di 100. Tre le diverse categorie di anime che popolano i regni (nell’Inferno prima incontinenti, violenti, fraudolenti; nel secondo regno coloro che diressero il loro amore al male, amarono poco il bene, amarono troppo i beni terreni; nel Paradiso gli spiriti saeculares, activi e contemplantes). Simmetrica è la partizione interna dei regni: l’inferno ha 9 cerchi e un vestibolo, l’Antinferno (=10); il Purgatorio 9 parti (spiaggia, Antipurgatorio, 7 cornici) più il Paradiso terrestre (=10); Il Paradiso 9 cieli più l’Empireo (=10). Tutte e tre le cantiche si chiudono con la parola "stelle".
Cosmologia dantesca
- L’immagine che del cosmo (l’universo) avevano gli uomini del medioevo non era basata, come quella che ne abbiamo oggi, su un modello autonomo in cui la descrizione fisica risulti separata da un’interpretazione di tipo metafisico o teologico.
Dante riprende dalla cultura del suo tempo la concezione geocentrica (= Terra al centro del cosmo) dell'universo, cioè la cosmologia aristotelico-tolemaica, che sarà considerata valida fino a Copernico e a Galileo.
Il sistema cosmologico della Divina Commedia è dunque fondato sul modello dell’astronomo e geografo egiziano Tolomeo (II sec. d.C.), secondo il quale la Terra è al centro dell’universo e 7 pianeti (erano considerati tali anche la Luna e il Sole) le girano attorno.
Questo modello era stato associato alla fisica e alla metafisica di Aristotele (filosofo greco del IV sec. a.C.), a loro volta conciliate alla visione cristiana del mondo da S. Tommaso d’Aquino (teologo del XIII sec.).
- La Terra è circondata da 10 cieli concentrici, di cui quello esterno (Empireo) è immobile, perché sede di Dio, mentre gli altri 9 ruotano ognuno secondo un proprio moto. Di questi 9 cieli, 7 contengono i pianeti (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), uno le stelle fisse e l'ultimo (Primo mobile) dà inizio al movimento universale.
- La Terra è divisa in due emisferi, quello delle terre emerse (abitato dagli uomini; qui, sottoterra, è posto l’Inferno) e quello delle acque (disabitato; qui, al centro dell’oceano, posta su un’isola, si innalza la montagna del Purgatorio e del Paradiso terrestre). Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, secondo Dante la parte alta della Terra era quella dove si stendeva l’oceano, mentre la parte bassa era quella delle terre emerse; l’emisfero abitato è dunque quello meridionale, il disabitato quello settentrionale.
- L'emisfero delle terre emerse ha per confini il Gange a oriente, le Colonne d'Ercole (lo stretto di Gibilterra) a occidente. Al centro c'è Gerusalemme. Al di sotto di Gerusalemme è posto l'Inferno, che ha forma di un cono rovesciato, un ciclopico imbuto circolare, che via via si restringe e i cui enormi gradini sono i 9 cerchi degli inferi.
- L’origine della montagna del Purgatorio è attribuita alla “fuga” delle terre nell’emisfero meridionale (in origine la terra si trovava infatti nell’emisfero settentrionale, vedi Inf. 34 canto) per la caduta di Satana-Lucifero, cacciato dal Paradiso. Nel Purgatorio le anime degli uomini subiscono pene temporanee che le purificano. La vetta di questo monte altissimo, sottratta ad ogni fenomeno naturale, costituisce il paradiso terrestre, già sede delle prime creature umane: si tratta di una meravigliosa foresta con al centro l'albero della scienza del bene e del male. Anche il Purgatorio ha la forma regolare di una scalinata circolare, che si slancia verso l'alto per 7 ripiani sempre più stretti, detti cornici o balze.
- Nel Paradiso la vera e propria sede dei beati, ossia l’Empireo, è il decimo dei cieli che ruotano introno alla Terra. Qui i beati siedono nella candida rosa, nella contemplazione eterna di Dio. Tuttavia Dante nel suo viaggio ha la speciale possibilità di incontrare le anime beate nei cieli inferiori del cosmo, disposte nel cielo (della Luna, di Mercurio, di Venere, ecc.) di cui più sentirono gli influssi in vita. Nell’Empireo Dante giunge infine alla meta ultima del suo viaggio, la visione di Dio.
L’ordinamento morale dei tre regni
Nell'Inferno Dante impiega, nella classificazione delle colpe e la distribuzione dei dannati,
l'Etica nicomachea e la Retorica di Aristotele con i loro commenti medievali, ma
contemporaneamente si avvale di s. Tommaso per quel che riguarda il cerchio degli eretici, dei
Mythologiarum libri di Fulgenzio Planciade e del De Officiis di Cicerone per le partizioni della
malizia e della frode.
Le anime dannate sono dunque distribuite, seguendo lo schema classificatorio di Aristotele,
secondo la loro tendenza al male (incontinenza e malizia) e il modo con il quale hanno peccato
(la malizia distinta in violenza - a sua volta tripartita, in base all'oggetto sul quale si esercita, il
prossimo, se stessi, Dio e in frode, analogamente bipartita, nei riguardi di chi non si fida e di
chi si fida), in costante correlazione di colpe e pene via via più gravi a mano a mano che i nove
cerchi digradanti stringendosi verso Lucifero si allontanano da Dio anche fisicamente. Così
dopo gl'ignavi che dimorano nel vestibolo, il primo cerchio dell'Inferno è formato dal Limbo,
popolato dagl'infanti morti senza battesimo e dai pagani giusti vissuti prima della rivelazione
cristiana; seguono i quattro cerchi degl'incontinenti (lussuriosi, golosi, avari e prodighi,
iracondi e accidiosi), nei quali la passione ha travolto i confini della ragione. Dopo il sesto
cerchio, con il quale inizia il basso Inferno e nel quale sono puniti gli epicurei, trovano posto
nel settimo, suddiviso in tre gironi concentrici variamente abitati (nel primo i violenti contro il
prossimo sono distinti in tiranni e omicidi, nel secondo i violenti contro se stessi in suicidi e
scialacquatori, nel terzo i violenti contro Dio in bestemmiatori, sodomiti e usurai), coloro che
peccarono usando violenza. I fraudolenti contro chi non si fida occupano l'ottavo cerchio,
ripartiti, secondo la natura della frode, nelle dieci bolge concentriche di cui esso si compone
(seduttori e mezzani, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, mali consiglieri,
seminatori di scismi e discordie, e infine falsari: di metalli, di persona, di moneta e di parola);
nell'ultimo cerchio sono confitti nel gelo di Cocito i traditori - dei parenti, della patria, degli
ospiti, dei benefattori - che in Lucifero, traditore di Dio, il quale morde Giuda, traditore di
Cristo, e Bruto e Cassio, traditori dell'Impero, trovano il principio primo della loro malvagità.
Mutano con la natura delle pene i criteri morali che reggono il disegno del Purgatorio, il
mondo dell'espiazione. La ripartizione delle anime è governata da criteri aristotelico-tomistici
(ricavati da Ugo da San Vittore e dal commento di s. Tommaso all'Etica di Aristotele) applicati
ai sette peccati capitali nell'ordine stabilito dai Moralia di s. Gregorio Magno (e seguito da molti
altri scrittori cristiani).
Nella parte bassa del monte, l’Antipurgatorio, devono sostare per un certo tempo, prima di
accedere alla purgazione, le anime degli uomini pentitisi solo in fin di vita, e precisamente: i
morti scomunicati, i pigri, i morti violentemente e i principi negligenti.
Nel Purgatorio vero e proprio il principio ordinatore delle colpe si fonda sul concetto di amore,
che può essere fonte di virtù o di vizio.
L'amore diretto al male del prossimo dispone nelle prime tre cornici i superbi, gli invidiosi e gli
iracondi; tra questi e quelli che hanno amato oltre il debito i beni terreni (avari, golosi e
lussuriosi) e che occupano le ultime tre balze, s'interpongono nella quarta cornice gli accidiosi,
colpevoli di aver coltivato soltanto tiepidamente l'amore vero, quello divino.
In tal modo la tradizionale categoria dei sette peccati capitali è agganciata a leggi morali che
ordinano le colpe, a differenza dell'Inferno, dalle più alle meno gravi.
Anche la raffigurazione del Paradiso riposa su dati della tradizione religiosa e scientifica
giudaico-cristiana, complicata da apporti arabi e, tramite questi, greci, giunti a Dante
attraverso versioni latine, e arricchita dai trattati cosmogonici del Medioevo, come sappiamo
dalle citazioni e dalle conoscenze astronomiche e astrologiche del Convivio.
Nel Paradiso Dante immagina che i beati, dimoranti tutti nell'Empireo, più o meno prossimi a
Dio secondo il grado della loro beatitudine, gli vengano a mano a mano incontro nei cieli, da
quello della Luna a quello di Saturno, per offrirgli l'immagine concreta della loro beatitudine,
caratterizzata dagl'influssi esercitati sulla terra e sugli uomini dalle sfere celesti.
L'espediente sottolinea la natura del tutto simbolica della distribuzione delle anime, voluta da
Dante (che forse anche per questo tace i criteri generali della partizione) per ragioni di
analogia simmetrica con gli altri due mondi e di convenienza gerarchica, ben rispondente al
progressivo aumento della felicità di cielo in cielo; e permette inoltre di tradurre in immagini
più sensibili e varie l'unitario e astratto mondo del gaudio eterno.
Perciò non sono mancate le discussioni degl'interpreti intorno ai fondamenti morali
dell'ordinamento fittizio, esplicito nelle partizioni specifiche (nel cielo della Luna sono allogati
gli spiriti che mancarono ai voti monastici, in quello di Mercurio quelli che operarono per la
gloria terrena, nella sfera di Venere le anime disposte naturalmente all'amore che trasferirono
gli affetti dalla terra a Dio, in quella del Sole i sapienti, in Marte i combattenti per la fede
cristiana, in Giove i principi giusti, in Saturno gli spiriti contemplativi), non nelle coordinate
generali che le reggono (nel cielo delle Stelle fisse compaiono Adamo e gli apostoli, nel Primo
Mobile le gerarchie angeliche).
Del resto il Paradiso vero e proprio, quello della candida rosa ossia il decimo cielo (l’Empireo),
risulta diviso in modo ancor più sfuggente, secondo generiche linee di demarcazione, che non
rinviano immediatamente e necessariamente a dei precisi criteri morali.
Si tratta in verità di una topografia libera e polivalente, in contrasto con la precisa suddivisione
degli altri regni, e in armonia all'infinita varietà del bene che informa il Paradiso.
Fonte: http://www.mlbianchi.altervista.org/dante_alighieri.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Dante Alighieri vita opere biografia
DANTE ALIGHIERI
Dante Alighieri nasce a Firenze nel 1265 in una famiglia della piccola nobiltà fiorentina. Il suo primo e più importante maestro di arte e di vita è Brunetto Latini, che in questi anni ha una notevole influenza sulla vita politica e civile di Firenze. Dante cresce in un ambiente "cortese" ed elegante, impara da solo l’arte della poesia e stringe amicizia con alcuni dei poeti più importanti della scuola stilnovistica: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia, condividendo con loro un ideale di cultura aristocratica e di poesia raffinata.
Ancora giovanissimo conosce Beatrice (figura femminile centrale nell’opera del nostro poeta), a cui Dante è legato da un amore profondo e sublimato dalla spiritualità stilnovistica. Beatrice muore nel 1290, e questa data segna per Dante un momento di crisi: l’amore per la giovane donna si trasforma assumendo un valore sempre più finalizzato all’impegno morale, alla ricerca filosofica, alla passione per la verità e la giustizia che infine portano Dante (a partire dal 1295) ad entrare attivamente e coscientemente nella vita politica della sua città.
La sua carriera politica raggiunge l’apice nel 1300 quando Dante, guelfo di parte bianca, viene eletto priore (la carica più importante del comune fiorentino): il poeta è un politico moderato, tuttavia convinto sostenitore dell’autonomia della città di Firenze, che deve essere libera dalle ingerenze del potere del Papa . L’anno successivo, il papa Bonifacio VIII decide di inviare a Firenze Carlo di Valois, fratello del re di Francia, con l’intenzione nascosta di eliminare i guelfi bianchi dalla scena politica; Dante e altri due ambasciatori si recano dal Papa per convincerlo a evitare l’intervento francese, ma è ormai troppo tardi ! Dante è già partito da Firenze quando Carlo di Valois entra nella città e sostiene il potere dei guelfi neri: il poeta non ritornerà mai più nella sua città natale, è condannato ingiustamente all’esilio.
Per Dante l’esilio rappresenta un momento di sofferenza e di dolore e al tempo stesso uno stimolo per la sua produzione letteraria e poetica: lontano da Firenze può vedere in modo più nitido la corruzione, l’egoismo, l’odio che governano la vita politica, civile e morale dei suoi contemporanei. La denuncia e il tentativo di indirizzare di nuovo l’uomo verso la retta via sono per lui l’ispirazione di una nuova poesia che prende forma nella Divina Commedia
Negli anni dell’esilio, Dante viaggia per l’Italia centrale e settentrionale, chiede ospitalità alle varie corti (va a Forlì, a Verona, in Lunigiana dai signori Malaspina) continua a sostenere le sue idee politiche nella figura dell’imperatore Arrigo VII, possibile portatore di pace nella nostra penisola (1310); ma di nuovo la speranza svanisce con la morte improvvisa dell’imperatore nel 1313. Negli ultimi anni visita la corte di Can Grande della Scala, a Verona, e di Guido Novello Da Polenta, a Ravenna (1318). Muore a Ravenna nel 1321.
Fonte: http://www.sunfire.altervista.org/Materie/Julia/Italiano/Letteratura/Biografia%20di%20Dante.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Dante Alighieri – Vita e opere
Poeta italiano (Firenze 1265-Ravenna 1321). Nacque da Alighiero di Bellincione e da Bella in una famiglia di piccola nobiltà cittadina (il trisavolo Cacciaguida, cavaliere di Corrado II, era morto nella crociata del 1147) non fornita di larghe risorse. Perduta nell'infanzia la madre, promesso dal 1277 a Gemma Donati (il matrimonio avvenne intorno al 1285), visse adolescenza e giovinezza nelle occupazioni consuete ai giovani del suo ambiente: studi grammaticali e retorici, amicizie letterarie, incontri con personaggi affermati della cultura del tempo. Primo fra questi il guelfo Brunetto Latini, massimo esponente della cultura retorico-enciclopedica del Duecento, al quale era dovuta la divulgazione in Firenze dell'enciclopedismo francese. Altra componente culturale del tempo, la cosiddetta scuola poetica "siciliana", e poi dei rimatori siculo-toscani, fra cui ebbe grande spicco la personalità artistica di Guittone d'Arezzo: letture di questo tipo influenzarono il primo momento poetico di Dante e lo disposero al fondamentale incontro (1283) con un altro poeta, già affermato e maggiore d'età, Guido Cavalcanti, definito nella Vita nuova "primo amico". In questi anni l'esperienza letteraria e la vita stessa del poeta ricevettero un'impronta originale e incancellabile dall'incontro con Beatrice Portinari: momento vitale, il cui significato è chiarito dalla Vita nuova. La morte della donna amata (1290) e la ricerca di un conforto al proprio dolore avviarono Dante a una più profonda meditazione e a più ampi studi di filosofia cui seguì ben presto (1295) la partecipazione alla vita pubblica. Egli aveva già servito il Comune (1289) combattendo a Campaldino (contro Arezzo) e a Caprona (contro Pisa); ma, nella guelfa Firenze divisa in parte nera (capeggiata dai potenti Donati e sostenuta dal papa) e parte bianca (guidata dai Cerchi, più moderati e fautori d'una politica autonoma), Dante, aderendo spontaneamente ai Bianchi e opponendosi all'ingerenza di Bonifacio VIII nella vita cittadina, primeggiò tra i responsabili della politica fiorentina. Ambasciatore del Comune a San Gemignano e priore nel 1300, venne inviato in ambasceria presso il papa nel 1301, quando Carlo di Valois (ufficialmente paciere tra le parti, ma occulto sostenitore dei Donati) si avvicinava a Firenze. Con l'entrata di Carlo in città i Neri conquistarono il potere: nel 1302, accusato di baratteria, Dante venne condannato prima all'esilio e poi alla morte. Bandito, egli fu tra i firmatari, a San Godenzo, del patto con gli Ubaldini per muovere guerra a Firenze; cercò quindi aiuti per i fuorusciti a Forlì e a Verona e sperò infine, inutilmente, nella pacificazione delle parti tentata nel 1304 dal cardinale Niccolò da Prato. Staccatosi dai compagni, Dante non partecipò a un tentativo armato contro Firenze (La Lastra, luglio 1304) e cominciò le solitarie peregrinazioni per ogni parte d'Italia. Tra il 1304 e il 1306 fu a Bologna: lì prese a comporre il De vulgari eloquentia e il Convivio, che segnano l'ulteriore allargarsi e approfondirsi di interessi culturali e civili. Dopo un soggiorno in Lunigiana presso i Malaspina (1306), Dante fu a Lucca (1308), indi in Casentino. In quello stesso anno l'elezione di Enrico di Lussemburgo a imperatore fece rinascere le speranze dell'esule, convinto che il disinteresse dei passati imperatori e la prolungata vacanza dell'impero fossero cause determinanti del disordine politico e morale d'Italia e d'Europa e che la venuta in Italia di Enrico VII avrebbe riportato l'ordine e la pace. Ma la morte di Enrico (1313), dopo che la sua missione era stata avversata, oltre che da Firenze, dalla curia papale e dal re di Napoli, troncò ogni sogno di pacificazione; e Dante, intorno al 1316, riparò a Verona, presso Cangrande della Scala, e più tardi a Ravenna, presso Guido da Polenta: qui egli compì la Commedia (v. Divina Commedia) e qui lo raggiunse la morte, il 14 settembre 1321.
Pensiero Politico & Filosofico
Nel 1316, inviando a Cangrande il I canto del Paradiso, Dante indicava nel "morale negotium sive ethica" il "genere" filosofico cui andava ascritta la Commedia: su eguale metro sono da commisurare le altre opere d'argomento conoscitivo e politico, cioè il Convivio, la Monarchia, le Epistole politiche. La moralità come ricerca del proprio essere da parte dell'individuo e del gruppo sociale si sviluppa, nel pensiero dell'esule fiorentino, come filosofia della pratica e della storia: muovendo dall'esigenza d'autonomia cittadina e dai conflitti di parte, Dante approda a una concezione unitaria e globale della storia e della politica. La base speculativa della posizione dantesca è eclettica, ma identificabile nelle sue componenti fondamentali: il pensiero di Aristotele (mediato attraverso Alberto Magno e San Tommaso); l'eredità classica e postclassica, filtrata attraverso l'esegesi medievale (innanzitutto Virgilio, quindi Cicerone, Seneca, Boezio); la tradizione biblica e le diverse correnti del pensiero religioso cristiano; la conoscenza, parziale, del neoplatonismo; infine, l'influsso dei contemporanei centri di cultura francesi. Dante accetta la struttura gerarchica e finalistica della società umana del pensiero aristotelico-tomista, ma sviluppa e applica in modo autonomo la teoria dei due fini, naturale e soprannaturale, dell'uomo, giungendo a una valutazione indipendente dell'etica e della metafisica, concepite come provvidenzialmente ordinate ai due fini in modo autonomo. Tale posizione è chiarita nel Convivio (1304-07, la prosa; anteriori di circa un decennio le liriche commentate), opera in volgare di contenuto enciclopedico-didascalico, progettata in 15 trattati (ma interrotta al IV) e contenente nel primo, proemiale, l'esposta lode del volgare. Illustrando nel II la lettera e l'allegoria della canzone Voi ch'intendendo, Dante identifica la "donna gentile" dei versi con la filosofia, "bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo" (cioè di Dio) e fonte di spirituale amore; sulla stessa traccia si muove il III trattato, a commento di Amor che nella mente, che della filosofia canta le lodi in chiave stilnovistica. Infine, abbandonata la veste al legorica con la terza canzone (Le dolci rime), Dante può ordire nel IV trattato un commento esclusivamente e apertamente didattico, che gli consente di introdurre il tema politico: contro la definizione di nobiltà come bene ereditario data da Federico II, non solo è ribadito il concetto stilnovistico di nobiltà legato alla "virtù" individuale, ma si afferma l'autonomia dell'autorità filosofica (in particolare di Aristotele) di fronte a quella imperiale, e il dominio di quest'ultima sulla terra tutta, giustificandone la provvidenziale universalità e romanità. È questo il tema della Monarchia, opera latina in 3 libri, che compendia organicamente il pensiero politico dantesco e ne espone analiticamente i punti. Particolarmente importante è il libro III, dove l'autore entra nel vivo della polemica contemporanea contro i decretalisti, sostenitori della supremazia papale nei confronti del potere politico (ierocrazia): egli confuta l'asserita dipendenza dell'imperatore dal pontefice e dichiara illegittima la donazione di Costantino, riaffermando l'indipendenza dei due poteri e la loro autonoma e diretta provenienza divina. Il contenuto della Monarchia, la sua ampiezza teoretica, la sua acutezza metodologica, i toni biblici e ispirati dello stile si riallacciano da un lato alle Epistole politiche, dall'altro alla Commedia. Le une rispecchiano i primi tempi dell'esilio (Epistola I, in nome della parte bianca, per la pacificazione tentata dal cardinale Niccolò da Prato), le successive speranze legate all'elezione imperiale di Enrico VII (Epistole V, VI, VII, 1310-11, ai signori d'Italia, agli scellerati Fiorentini, a Enrico, per caldeggiare e sostenere la sua discesa in Italia), le speranze ultime di ravvedimento della Chiesa e dei suoi ministri (Epistola XI, 1314, ai cardinali italiani) in un crescendo continuo dagli interessi cittadini all'impegno ecumenico, politico e spirituale; la Commedia, ponendo via via l'accento - non solo nei cosiddetti canti "politici" - sulla città, sui regni, sull'impero, richiama l'umanità tutta, nei capi, nei popoli, negli individui, al riconoscimento dei propri compiti e al rispetto dei propri limiti, mentre asserisce vigorosamente la mutua indipendenza delle sfere d'azione religiosa e politica, sociale e metafisica.
Il Problema della lingua e dello stile
All'opera critica e poetica di Dante va il merito di aver dato al volgare italiano dignità di lingua d'arte. Se nella Vita nuova si limita a giustificare l'uso del volgare sul piano della prassi poetica dei rimatori d'amore, nel Convivio Dante avvia un discorso più generale sulla lingua italiana, riconoscendole, nel trattato introduttivo, quei tratti di amabilità, ricchezza, proprietà, bontà che fino ad allora erano attribuiti solo al latino (e al francese). Il tipo stesso di prosa volgare usato nel Convivio (dal periodare complesso e alto, modellato su quello latino-scolastico) e il contenuto delle liriche commentate nell'opera si distaccano dall'operetta giovanile (e Dante stesso ne è cosciente), come si conviene alla diversa esperienza dell'autore, maturata dall'esilio, e alla materia trattata, frutto di studi filosofici e di impegno civile e politico. Il volgare sarà quindi "sole nuovo", che illuminerà sulla via della conoscenza coloro cui "lo sole usato", cioè il latino, "non luce". È il riconoscimento della validità ideale e pratica dell'italiano come lingua di scienza e d'arte. Lo svolgimento puntuale, teorico e applicativo insieme, di questa tesi è contenuto nel De vulgari eloquentia (1304-05), opera latina progettata in 4 libri, ma interrotta al cap. XIV del II libro. Dalle affermazioni dell'autore, che porta a esempio se stesso come poeta della virtù, appare chiaro che la lingua di cui egli tratta è quella d'arte: in particolare, è la lingua, e lo stile, dello stesso Dante, nella sua più alta produzione lirica di ispirazione etica. In questo senso il trattato sulla lingua si riallaccia al Convivio, alle grandi canzoni in esso commentate (concreta applicazione della teoria), a tutta la ricerca stilistica di Dante, aperta dalla Vita nuova e dalle Rime e riassunta e conclusa dalla Commedia. In essa la lingua vive, nello stesso tempo, come mezzo di comunicazione e come creazione artistica di volta in volta innovata, come il "sole nuovo" di cui l'autore aveva sentito la necessità concettuale ed etico-politica e come realizzazione di ben precise scelte stilistiche.
Critica: L’ 800 e il ‘900
Con l'Ottocento Dante diviene vessillo per gli ideali patriottici, oltre che soggetto egregio per gli studi romantici. Ugo Foscolo (Discorso sul testo... della Commedia di Dante, 1825; La Commedia di Dante Alighieri illustrata da Ugo Foscolo, 1827), prendendo le mosse dall'interpretazione vichiana, apre il secolo con una voce originale, richiamandosi all'analisi storica e testuale (criterio filologico), valendosi di rigorosa argomentazione e capacità sintetica (criterio storico-filosofico), e infine ponendo il poeta al di sopra del creatore di allegorie. Giuseppe Mazzini (Prefazione a La Commedia di Dante Alighieri illustrata da Ugo Foscolo, 1842; Scritti letterari di un italiano vivente, 1847) segue la traccia foscoliana, mettendo in rilievo la figura umana del poeta e la sua missione entro la nazione e la storia. Pur dando la preferenza all'indagine psicologistica e al rapporto poeta-ambiente, non si allontana molto da questo schema Niccolò Tommaseo nel suo commento al poema, mentre alla visione romantica della vita e della storia si riallaccia il rinato interesse per la biografia dantesca, testimoniato da Il Veltro allegorico di Dante di C. Troya e dalla Vita di C. Balbo. Nella prima metà del secolo, col rifiorire della questione della lingua, si ravviva l'indagine sulle teorie del De vulgari eloquentia (G. Perticari, Dell'amor patrio di Dante) e procede lo studio linguistico-lessicale e interpretativo della Commedia (V. Monti nella Proposta; commenti di G. Biagioli, P. Costa, B. Bianchi; più tardi, edizioni e illustrazioni di tutte le opere a cura di P. Fraticelli e G. B. Giuliani). Massimo esponente della critica dantesca romantica è F. De Sanctis, le cui pagine ancor vive e avvincenti delle Lezioni e saggi su Dante (1842-73) e della Storia della letteratura italiana (1870-71) sono fondamentali anche per l'interpretazione moderna: il nucleo del poema è individuato nel motivo universale e interiore (Dante come voce della società umana) e in quello etico-politico; il criterio di lettura è l'emozione, la consonanza patetica tra lettore e testo, senza sovrapposizioni culturali; la poeticità dell'opera è nell'elemento umano, presente più nell'Inferno che nelle altre cantiche (di qui la tendenza a isolare episodi e figure piuttosto che a rilevare l'unità dell'invenzione dantesca). L'ultimo trentennio dell'Ottocento, con l'indagine positivista sui manoscritti della Commedia e delle opere minori, con gli studi storici sui documenti, e linguistici sulle opere di Dante e dei contemporanei, apre la strada alla ricerca critica modernamente intesa. G. Carducci, A. D'Ancona, I. Del Lungo, P. Rajna, F. D'Ovidio, F. Torraca, M. Barbi, E. G. Parodi appartengono a questa scuola "storica" che insieme all'esperienza crociana segnerà di sé il dantismo del secolo seguente. G. Carducci, in particolare, si volge prima alle trascurate Rime (Delle Rime di Dante, in Dante e il suo secolo, 1865), indi all'opera complessiva (Della varia fortuna di Dante, Dante e l'età che fu sua, 1866-67, L'opera di Dante, 1888), dando per la prima volta un quadro dell'autore nella critica e nel costume del Trecento, indicando i rapporti con l'età successiva, dimostrandosi valido storico e insieme sensibile interprete. Dal canto loro gli altri studiosi, valendosi anche dei contributi della critica dantesca straniera (ricordiamo i nomi di C. Witte, E. Moore, P. Toynbee), avviano quelle sistematiche ricerche filologiche e documentarie che porteranno all'edizione critica del De vulgari eloquentia (1896, a cura di P. Rajna) e della Vita Nuova (1907, 19322, a cura di M. Barbi), nonché all'edizione di tutte le Opere curata dalla Società Dantesca Italiana (1921). Di contro alla corrente storico-positivista, G. Pascoli elabora un'interpretazione del tutto soggettiva della Commedia e di Dante: mosso dalla sua vocazione alla visione mistica e simbolica dei fatti, alla rappresentazione dell'"inconoscibile" che anima il mondo, egli con Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900), La mirabile visione (1902) offre un'esegesi unitaria in sé, ma fondata su basi eterogenee, e destinata a rimanere in gran parte isolata. L'opera di B. Croce segna, invece, un punto d'arrivo e di partenza per la moderna critica dantesca. Prese le mosse non tanto dal presupposto desanctisiano del rapporto emotivo tra lettore e testo, quanto da una categoria teoretica ben precisa (l'arte come intuizione lirica ed espressione), egli assume come criterio di valutazione dell'opera d'arte l'impressione estetica e la metodica distinzione tra "poesia" e "non poesia". Perciò nella Commedia la "struttura" è contrapposta alla "poesia", il "romanzo teologico" all'"elemento lirico": frutto di ragione, e quindi non poetico, il primo; di intuizione lirica, e perciò tutto poetico, il secondo. Il saggio La poesia di Dante (1921) e tutta la riflessione crociana sull'arte hanno rappresentato una tappa obbligata per il critico del Novecento, influendo (in quanto precedente accettato o polemicamente respinto) sulle diverse correnti del campo letterario - e quindi anche del dantismo - del nostro secolo. Tra gli studiosi d'ascendenza crociana è A. Momigliano (commento alla Divina Commedia, 1945-47), il cui saggio sul Paesaggio nella Divina Commedia (1932) propone come criterio d'unità il motivo paesistico, sensibilmente analizzato; con lui ricordiamo anche F. Maggini, Luigi Russo e Carlo Grabher. Entro la tendenza storicizzante postcrociana, che mira a colmare lo iato tra "poesia" e "non poesia" e a considerare l'opera d'arte un divenire piuttosto che un fatto, incontriamo l'opera di N. Sapegno (commento alla Divina Commedia, 1957; Dante Alighieri, in "Storia della letteratura italiana", volume II, 1965), il quale si propone di dare un'interpretazione unitaria dell'autore e delle sue opere, fondendo le componenti linguistica, poetica, storico-culturale; e, ancora, G. Getto, che con il concetto di "poesia dell'intelligenza" presenta una rivalutazione del Paradiso dantesco (Aspetti della poesia di Dante, 19662). La cultura letteraria contemporanea, che mutua da quella scientifica rigorosità di procedimento e specializzazione di oggetti, trova ancora in Dante un campo di ricerca fecondo, soprattutto per ciò che è dell'individuazione delle fonti, per lo studio dei testi, per la retta interpretazione del mondo dantesco e delle sue forme, sia nei confronti del pensiero filosofico e religioso (B. Nardi e G. Busnelli) e politico (F. Ercole, A. Solmi, ancora Nardi), sia in rapporto alla lingua e allo stile (A. Schiaffini, B. Terracini, C. Segre, M. Fubini) e alla ricerca filologica (G. Contini, F. Mazzoni, G. Petrocchi, A. Pagliaro). Entro questa tendenza e nell'ambito di una tradizione ormai secolare, anche le culture straniere forniscono filoni esegetici particolarmente interessanti, quali l'interpretazione "figurale" di E. Auerbach, quella simbolico-teologica di Ch. S. Singleton, quella linguistica di L. Spitzer.
La Bibliografia
N. Zingarelli, La vita, i tempi e le opere di Dante, Milano, 1944; M. Apollonio, Dante. Storia della Commedia, Milano, 1952; M. Barbi, Dante. Vita, opere, fortuna, Firenze 1952; U. Cosmo, Guida a Dante, (a cura di B. Maier), Firenze, 1962; M. Barbi, Problemi di critica dantesca, Firenze, 1965; idem, Studi sul canzoniere di Dante, Firenze, 1965; M. Casella, Introduzione alle opere di Dante, Milano, 1965; F. Maggini, Introduzione allo studio di Dante, Pisa, 1965; B. Nardi, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli, 1966; E. Paratore, Tradizione e struttura in Dante, Firenze, 1968; C. S. Singleton, Saggio sulla "Vita Nuova", Bologna, 1968; P. De Robertis, Il libro della Vita Nuova, Firenze, 1970; A. Vallone, Studi su Dante. Dal '300 all'età romantica, Ravenna, 1970; N. Mineo, Dante, Bari, 1971; A. Vallone, Dante, Milano, 1971; A. Comollo, Il dissenso religioso in Dante, Firenze, 1990.
Opere Giovanili e Le Rime
Carattere di franca esercitazione, soprattutto linguistica e metrica, hanno due componimenti letterari attribuiti a Dante in forza dello stile, il Detto d'amore* e il Fiore, nati nell'ambito dell'ideale lezione di Brunetto Latini. Il Detto, poemetto mutilo in distici di settenari a rima baciata, è rielaborazione giovanile di una parte del Roman de la Rose. Più tardo, ben più spigliato, di maggior respiro, il Fiore, "corona" di 232 sonetti, parafrasa e riassume con abilità le parti narrative del Roman stesso, omettendone le digressioni dottrinali, ma non gli spunti polemici. La prima opera di incontestata paternità e di contenuto assolutamente originale è la Vita nuova (ca. 1293), che raccoglie 31 liriche in una cornice di prosa, a celebrazione dell'amore del poeta per Beatrice, ed è non solo il primo romanzo autobiografico della nostra letteratura, ma anche il manifesto della personalissima concezione che, pur entro lo stilnovo, Dante ebbe del l'amore e della poesia a esso ispirata. Narrando il primo e il secondo incontro con Beatrice, gli effetti miracolosi del suo saluto e la sofferenza per la perdita di esso, l'interiorizzarsi del proprio sentimento, il presentimento della morte dell'amata e l'angoscia per la sua scomparsa; rievocando la ricerca di conforto nell'amore di una "gentile donna" e l'interiore lotta che ne consegue, fino al vittorioso prevalere del pensiero di Beatrice e del proposito di dire di lei "quello che mai non fue detto d'alcuna", Dante pone le basi del futuro primo nucleo della Commedia. Nello stesso tempo supera i modi e i contenuti dello stilnovo, elaborando un suo proprio concetto d'amore, non più soltanto frutto di nobiltà spirituale e fonte di rinnovamento interiore, ma sentimento assoluto che trova in se stesso la propria ricompensa e apre all'uomo la conoscenza (analogica) del Divino, tramite la contemplazione della perfezione e della bellezza dell'amata. Per il carattere particolare che la Vita nuova assume nell'itinerario umano e poetico di Dante, vi è compresa solo una parte delle liriche composte nel decennio 1283-93. Nelle altre Rime* (la produzione si conclude intorno al 1308), a un momento sicilianeggiante e guittoniano, improntato a un provenzalismo di maniera, succedono le testimonianze dell'adesione dantesca allo stilnovismo, prima generico e di scuola, poi scopertamente cavalcantiano, indi aderente ai moduli del grande maestro, il Guinizzelli. Di altri stimoli è esempio la "tenzone" con Forese Donati (ca. 1293-96), realistica nelle forme e pungente nel contenuto: essa, cadute le ipotesi di apocrifità, rimane come prova di genere e di linguaggio, notevole in sé e per la futura utilizzazione nella Commedia. Le contemporanee canzoni allegoriche e dottrinali (tra cui le tre poi commentate nel Convivio), pur movendo ancora dalla tematica stilnovistica e guinizzelliana (con ascendenze guittoniane), mostrano un nuovo Dante, fatto poeta di virtù e di scienza, mentre nelle rime ricche ed equivoche delle "petrose" (modellate, con evidenti prestiti tecnici e tematici, sul trobar clus del provenzale Arnault Daniel) un'alta ricerca d'arte e di stile innesca il tema di una bruciante passione non corrisposta. Alle canzoni allegoriche e dottrinali si riallacciano molte delle composizioni dell'esilio (tra cui la canzone sulla giustizia Tre donne), testimoni d'un pieno possesso dello stile e di vigoroso impegno morale e civile. Ma non scompaiono del tutto gli antichi temi: riprende la corrispondenza poetica con Cino da Pistoia (già precedente all'esilio), ritorna, con la canzone "montanina", la rappresentazione dell'amore dispotico in toni stilnovistici; quest'ultimo esperimento chiude (se si trascurano numerose Rime di dubbia attribuzione) il ciclo lirico dell'Alighieri, fondamentale non solo per la comprensione della personalità dell'autore (teso a sperimentare e a svolgere originalmente le forme e i contenuti poetici più diversi), ma anche per il futuro svolgimento della lirica italiana.
Vita Nova
“Vita Nova” letteralmente significa “vita rinnovata dall’amore. E’ il primo esempio di romanzo autobiografico d’amore scritto in volgare. Fu composta nel 1293-1294 ed è la prima e unica opera non composta in esilio.
Strutturalmente è un prosimetro, cioè composto da parti in prosa e parti in versi. Le parti in prosa si dividono in parti narrative e parti esegetiche: le parti narrative spiegano come è nato il componimento, mentre quelle esegetiche, la sua struttura.
E’composto da 42 capitoli, in cui si articolano 31 testi poetici, 25 sonetti, 5 canzoni e 1 ballata. Lo stile dominate è quello elegiaco.
La Vita Nova è un componimento interamente dedicato a Beatrice. Beatrice è la musa di Dante, rappresentata come una creatura angelica e lodata secondo tutti i criteri stilnovistici.
Si narra l’amore di Dante verso costei, riportando tutte le tipologie stilnovistiche, ovvero a)amore per lode disinteressata, b)amore provato solo da cor gentile, c) trinomio saluto-salute-salvezza.
La morte di Beatrice rappresenta il compimento dell’amore di Dante che si perfeziona e la stessa diventa l’anello di congiunzione fra Dio e l’uomo. Quindi Beatrice si incarna nella figura di donna-angelo e l’amore di Dante verso Beatrice diventa l’amore che L’uomo prova verso Dio.
Dante conclude la Vita Nova dicendo che non avrebbe mai più parlato di Beatrice finchè non fosse riuscito a dire qualcosa che nessun uomo avesse mai detto alla propria donna, cosi anticipa l’incontro di Beatrice e Dante nel Paradiso e il loro viaggio attraverso il regno dei Cieli.
Convivio
“Convivio” , letteralmente, significa “banchetto”. E’ il primo esempio di prosa saggistica scritta in volgare. Dante voleva scrivere 15 libri ma non ci riuscì anche perché era troppo impegnato nella stesura della Divina Commedia. Dante vuole allestire un banchetto in cui vuole spezzare, metaforicamente, il pane della conoscenza anche agli esclusi. Egli intende mettersi a capo di una classe sociale i cui componenti avessero in comune la nobiltà d’animo e un amore disinteressato per la cultura, cioè dalla cultura non traggono nessun tipo di guadagno e ricchezza.
Il convivio tratta del volgare ma anche di temi filosofici ect…
Inoltre tratta dei 4 sensi secondo i quali devono essere interpretate le scritture:
1. SENSO LETTERALE, cioè il senso alla lettera;
2. SENSO MORALE, cioè il principio morale;
3. SENSO ALLEGORICO cioè il significato nascosto. L’allegoria si divide in allegoria dei poeti e in quella dei teologici. Nell’analisi di miti, fiabe, racconti i poeti non tengono conto di fatti realmente accaduti a differenza dei teologici;
4. SENSO ANAGOGICO cioè un senso che va oltre quello morale e prefigura l’aldilà;
De Vulgari Eloquentia
Trattato linguistico, di stilistica e critica letteraria iniziato nel 1304, ma interrotto nel 1305.
E’ un elogio in latino del volgare e Dante nell’opera continua a riferirsi a quella classe sociale che trae guadagno dalla cultura, gia interpellata nel Convivio.
Dante è alla ricerca del volgare letterario, ovvero un volgare che avesse quattro caratteristiche principali:
1. ILLUSTRE, cioè chi parla deve dare lustro al volgare e il volgare da importanza a chi lo parla.
2. AULICO cioè elevato, di stile.
3. CURIALE cioè, se in Italia ci fosse una Curia Papale, esso deve essere parlato lì, comunque in luoghi formali.
4. CARDINALE cioè deve rappresentare il cardine attorno al quale girano gli altri volgari.
Comincia la sua ricerca dalla Torre di Babele, da cui si dice tutti i linguaggi si diversificarono. Analizza tre lingue: il Greco, il Germanico e una lingua diversificata in lingua d’Oc, d’Oil e lingua volgare del Sì. Prende in considerazione l’ultima lingua e specialmente quella volgare del Sì. La divide in 14 dialetti, anche perché non si può parlare di volgari, perchè in Italia non c’è una lingua ufficiale. Ritrova un volgare quanto più letterario in quello della lirica siculo-toscana e in quello dello Stil Novo.
Dante inoltre indica i tre temi fondamentali della letteratura provenzale italiana:
-amore (provenzale Arnaldo D’Agnello, italiana Cino da Pistoia)
-rettitudine (provenzale Gerard De Bornel, italiana Dante)
-prodezza d’arme (provenzale Bertrant De Bou)
E i tre stili:
-tragico: CANZONE
-elegiaco: SONETTI
-comico: BALLATA
Il De Vulgari Eloquentia fu pubblicato da Trissino nel 1529 con la Questione Della Lingua.
Divina Commedia
La Divina Commedia è un poema didascalico, allegorico scritto in terzine di endecasillabi legate da una rima incatenata (ABABCBCDC…). E’ composta da tre cantiche suddivise complessivamente in cento canti: la prima cantica (Inferno) comprende 34 canti, le altre due 33 ciascuno. Il primo canto dell'Inferno viene considerato un prologo a tutta l'opera: in questo modo si ha un canto iniziale più 33 canti per ciascuna cantica. La lunghezza di ogni canto va da un minimo di 115 versi ad un massimo di 160. Importantissima quindi la numerologia: 100 canti che rappresentano i 7 peccati capitali e le arti del Trivio e del Quadrivio. Tre cantiche, dove tre è il numero perfetto, che rappresenta la Trinità.
E’ la “summa” del sapere medievale perché in esso sono contenute tutte le informazioni relative alle scoperte del tempo, in tutti i campi. Il poema, pur continuando i modi caratteristici della letteratura e dello stile medievali (ispirazione religiosa, fine morale, linguaggio e stile basati sulla percezione visiva e immediata delle cose), tende a una rappresentazione ampia e drammatica della realtà, ben lontana dalla spiritualità tipica del Medioevo, tesa a cristallizzare la visione del reale. Forse il titolo originale dell'opera è Comedìa: infatti è così che Dante stesso chiama la sua opera (Inferno XXI, 1-3), inoltre il nome di Commedia appare usato nell'Epistola XIII, indirizzata a Cangrande della Scala, a cui il poeta dedica il Paradiso. In essa, comunque, vengono addotti due motivi per spiegare il titolo conferito: un motivo di carattere letterario, secondo cui per commedìa era usanza definire un genere letterario che da un inizio difficoltoso per il protagonista si concludeva con un lieto fine; e un motivo di carattere stilistico, giacché la parola commedìa indicava opere scritte in un basso linguaggio, Dante scrive infatti in lingua volgare. Più che un atto di modestia da parte dell'autore, egli scelse questo nome probabilmente per via del "lieto fine" della parabola del viaggio ultraterreno, da un inizio drammatico (l'Inferno) al più bello dei finali: la visione di Dio nel Paradiso (anche perché in Grecia la commedia è una rappresentazione teatrale a lieto fine). Il termine “commedia” deriva inoltre dal greco “comicus”, cioè stile comico, basso, ma non si intende ciò, anzi, ma un pluristilismo e plurilinguismo (usa diversi stili a seconda del luogo in cui si trova: Inferno, bestemmia e dice parolaccie; Paradiso, linguaggio aulico). Il titolo Divina Commedia è stato per la prima volta usato da Giovanni Boccaccio, più di 70 anni dopo dell'anno di ambientazione del testo (1300), nel 1373 nella sua biografia dantesca Trattatello in laude di Dante, ma non divenne d'uso comune fino a che fu adottato da Ludovico Dolce nella sua edizione a stampa del poema nel 1554.
Il racconto della Divina Commedia è in prima persona: Dante narra di un viaggio che finge di aver compiuto. La narrazione inizia dal punto in cui Dante si smarrisce in una "selva oscura", metafora del peccato e del male: egli tenta di uscirne e di salire su un colle illuminato dal sole, ma ne viene impedito da tre belve feroci che lo ricacciano indietro. Gli si fa incontro però l'anima del grande poeta Virgilio, il quale si dice inviato da Beatrice, la donna amata da Dante (morta da alcuni anni, nel 1290), per condurlo al bene attraverso un altro cammino: egli dovrà visitare i tre regni soprannaturali, l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Dante acconsente e viene guidato da Virgilio attraverso l'Inferno e il Purgatorio; quindi gli si fa incontro Beatrice, che lo guida nella visita del Paradiso. In questi tre regni Dante osserva le punizioni e i premi riservati ai defunti, e incontra numerosissimi personaggi famosi del passato (sia reali che mitologici) e della sua epoca. Questo viaggio non lo intraprende da solo, ma è accompagnato da due figure: Virgilio e Beatrice. Costoro hanno un ruolo importantissimo nel poema: il primo rappresenta la ragione umana e la filosofia, la seconda, invece, la grazia divina. Non conosciamo con esattezza in che periodo Dante scrisse ciascuna delle cantiche del suo capolavoro e gli studiosi hanno formulato ipotesi anche contrastanti in base a prove e indizi talvolta discordanti. In linea di massima la critica odierna colloca:
• L'inizio della stesura dell' Inferno nel biennio 1304-1305 oppure in quello 1306-1307, in ogni caso dopo l'esilio (1302). Salvo l'eccezione del riferimento al papato di Clemente V (1305-1314), spesso indicato come un possibile ritocco post-conclusione, non vi si trovano accenni a fatti successi dopo il 1309. Al 1317 risale la prima menzione in un documento (un registro di atti bolognese, con una terzina dell'Inferno copiata sulla copertina), mentre i manoscritti più antichi che ci sono pervenuti risalgono al 1330 circa, una decina di anni dopo la morte di Dante.
• La scrittura del Purgatorio secondo alcuni si accavallò con l'ultima parte dell'Inferno e in ogni caso non contiene riferimenti a fatti accaduti dopo il 1313. Tracce della sua diffusione si riscontrano già nel 1315-1316.
• Il Paradiso viene collocato da 1316 al 1321, data della morte del poeta.
Il viaggio inizia il venerdì santo del 1300 e dura più o meno una settimana. La stesura, invece, cominciò circa nel 1304, in esilio. Il tempo della storia e quello del racconto non coincidono. La fonte principale è l’ “Eneide” di Virgilio, in cui, nel sesto libro di Enea, si narra di un viaggio nel regno degli inferi. Un’altra fonte è l’ “Odissea” di Omero, però Dante non conosce il greco. Poi “Itinerarium Mentis in Deum”e alcune leggende narranti viaggi, pellegrinaggi immaginari, imprese di navigazione, ebbero grande eco.
Divina Commedia – Approfondimenti & Appunti
Scheda Informativa
* Titolo: si presume che il titolo “commedia” sia quello scelto originariamente da Dante, avendo come prova scritta una lettera scritta da Dante a Cangrande della Scala in cui dice di aver terminato la sua opera “commedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita ma non per costumi”. L’aggettivo divina è stato aggiunto successivamente da G. Boccaccio, che la definisci così sia per i contenuti, sia per le competenze.
* Struttura opera: l’opera si compone di 100 canti strutturati secondo un rigoroso ordine logico. Questi 100 canti si dividono in 3 cantiche: Paradiso (33 canti), Purgatorio (33 canti), Inferno (33 canti + 1 d’introduzione). L’opera conta 14.233 endecasillabi raggruppati in terzine a rima incatenata.
* Contenuti: la D.C. è un’enciclopedia del sapere dell’epoca, contiene così molte vicende e molti saperi del 300.
* Argomenti: la D.C. è il racconto di un viaggio, compiuto da Dante all’età di 35 anni nel 1300 che incominciò o l’8 aprile o il 25 marzo e durò 1 settimana, intrapreso nella dimensione ultraterrena, dove Dante è l’unico vivo in mezzo alle anime. Questo viaggio ha un significato metaforico e rappresenta il cammino dell’interna umanità, di cui Dante si sente l’eletto da dio, il profeta, dal peccato verso la verità e la salvezza. Tre personaggi hanno preceduto Dante compiendo un viaggio nell’aldilà:
1. Enea: Enea era sceso nell’oltretomba per incontrare il padre, Anchise, che gli rivela il compito datogli da Dio, ovvero fondare Roma da cui avrà origine l’impero romano e il cristianesimo.
2. Ulisse: scende nell’Ade.
3. S. Paolo: racconta di un viaggio in paradiso dove ebbe l’incarico di rivelare il progetto di Dio.
Anche Dante, come S. Paolo e Enea, ha la possibilità di andare e tornare dall’aldilà, venendo a conoscenza dei progetti di Dio e della verità che in seguito doveva rivelare all’umanità.
All’interno della divina commedia, non c’è differenza tra leggenda e storia, tra fisica e religione, quindi Dante non racconta attraverso una metafora ma, avendo vissuto in persona questo viaggio, ne fa un riassunto a posteriori. Diversamente dai racconti classici il narratore l’autore e il protagonista coincidono: la narrazione è in 1° persona enfatizzando così il racconto stesso.
* Concezione figurale: l’opera è considerata pluristilistica, plurilinguistica ed allegorica. L’allegoria della D.C. è stata studiata da uno studioso tedesco, Auerbach che ha elaborato la definizione di concezione figurale. Esistono due tipi di allegoria: quella poetica (si annuncia un evento immaginario attraverso un evento immaginario, quindi sia il significato che il significante sono immaginari) e quella teologica (si annuncia un fatto che si realizzerà attraverso un evento storico oggettivo: significante storico, significato oggettivo). Dante segue l’allegoria religiosa però annuncia fatti che si sono già adempiuti, mediante altri fatti storici, oggettivi: sia il significante che il significato sono fatti oggettivi.
* Peccato filosofico: Dante, dopo la morte di Beatrice nel 1290, si dedica agli studi filosofici, cadendo nel peccato. La filosofia infatti è una forma di superbia (antico peccato dell’hubris): si esalta la ragione per trovare la verità, senza l’aiuto di Dio. La verità infatti è raggiungibile solo mediante Dio, ovvero con la teologia.
* Cosmologia: Dante basa la sua cosmologia sulla teoria tolemaica, assunta da tutto il medioevo, che vede la terra immobile al centro dell’universo. Per Dante la terra si divide in due emisferi: quello settentrionale, abitato dagli uomini, e quello meridionale completamente occupato dalle acque. Alcuni angeli ribelli, capeggiati da lucifero, vennero lanciati dal cielo e la terra, inorridita da loro, si aprì, formando una voragine a forma di cono tronco. La terra di “scarto” divenne nell’emisfero boreale (ricoperto d’acqua), nel punto opposto a Gerusalemme, il monte del purgatorio. Inferno e purgatorio hanno quindi una forma analoga e speculare. All’interno della voragine infernale sono collocati in ordine crescente i peccatori, secondo la gravità del peccato. I peccati sono scanditi secondo “l’Etica”di Aristotele che prevede 3 tipi di peccati:
1. Per incontinenza: 2-5 cerchio, lussuriosi, golosi, avari, prodighi, iracondi
2. Per violenza: 7 cerchio (diviso in 3 gironi) contro il prossimo, contro se stessi, contro Dio.
3. Per fraudolenza: 8 cerchio: chi usa l’intelligenza per ingannare coloro che non si fidano di lui; 9 cerchio: chi usa l’intelligenza per ingannare chi si fida di lui: famigliari, patria, amici. Al centro della terra, al termine dell’inferno, vi è Lucifero, un mostro enorme con ali di pipistrello e con 3 facce, conficcato con la testa in giù. Ognuna delle 3 bocche mangia i 3 più grandi peccatori: Bruto, Cassio (che uccisero Giulo Cesare, simbolo dell’impero) e Giuda (che uccise Gesù, simbolo del cristianesimo). I peccatori sono collocati nel girone corrispondente al peccato più grave che hanno commesso. Sono giudicati da Minosse (rappresentato mostruosamente): davanti a lui le anime confessano i peccati. Minasse gli avvolge nella coda tante volte quante è il numero del girone dove devono andare. All’interno dell’inferno vi è una organizzazione divina. La pena ricevuta è morale (assenza di Dio) e fisica, e dipende dalle norme del contrappasso (sopportare il contrario). Questo può essere per analogia (si subisce una pena equivalente al peccato commesso) o per antitesi (si subisce la pena opposta). Sono esclusi dai peccatori gli ignavi, ovvero coloro che non si sono mai schierati: essi risiedono nell’antinferno. Ogni individuo è colto nella sua specificità: ogni anima è colta nella sua essenza, in modo da rendere ogni individuo unico.
Figura di Virgilio In Dante
Virgilio, il principe dei poeti latini vissuto nel I sec. a.C., costituì per Dante il più grande esempio nel regno dell’arte e del sapere.
Per comporre la sua Comedia Dante si ispirò certamente all’Eneide virgiliana, avendola studiata a lungo e con grande amore. Essa, infatti, gli fornì molti elementi di ispirazione,non solo per quanto riguarda la struttura esteriore, la figurazione di luoghi e di esseri mitologici,ma anche per l’idea di rappresentare la vita nel regno dei morti, strumento che viene usato da Virgilio per l’esaltazione di Roma e del suo impero, mentre da Dante per esprimere in forma d’arte tutto il suo mondo politico, morale e religioso.
Virgilio è stato considerato da quasi tutti gli antichi critici e commentatori come l’allegoria della ragione umana e naturale che porta al giusto ordine terreno cioè, secondo le idee di Dante, alla monarchia universale. Gli interpreti moderni, invece,si sono opposti a questa interpretazione, come ci dice il critico E.Auerbach, e hanno messo in risalto l’aspetto politico, umano, personale della figura di Virgilio, senza tuttavia riuscire a negare il suo significato. Agli occhi di Dante il Virgilio storico è contemporaneamente poeta e guida. Il Virgilio storico è rappresentato dall’abitante del Limbo che per desiderio di Beatrice si assume il compito di guidare Dante.Come egli un tempo, da romano e da poeta, aveva fatto discendere Enea per consiglio divino nell’oltretomba, affinchè egli conoscesse il destino del mondo romano, così ora è chiamato dalle potenze celesti ad una funzione di guida non meno fondamentale, perchè non ci sono dubbi che Dante giudicasse la sua missione tanto importante quanto quella di Enea: egli si sentiva chiamato per annunciare al mondo l’ordinamento giusto, che gli viene rivelato durante il suo cammino, e, da parte sua, Virgilio dovrà mostrargli e spiegargli il vero ordinamento terreno, le cui leggi saranno eseguite nell’aldilà, ma non fino alle soglie della salvezza, cioè fino al paradiso, non potendo egli godere della visione di Dio in quanto è morto senza conoscerlo, quindi da infedele.
Non c’è da stupirsi del fatto che Dante, credente, abbia scelto come guida un pagano e abbia affiancato l’Eneide alla Bibbia tra i modelli principali della sua ispirazione,infatti, la concezione dantesca della storia è assai diversa da quella moderna: la storia è considerata da Dante come la realizzazione di un disegno divino per cui tutti i fatti storici, anche quelli in realtà precedenti o estranei alla nascita di Gesù, vengono inseriti all’interno della concezione cristiana. Questo fenomeno prende il nome di sincretismo.
Dante dimenticò ben presto il simbolo che incarnava, e fece di lui il dolcissimo padre e l’amico ideale che ognuno desidererebbe avere con sè nella vita.
Riassunto Dei Canti
Ecco un riassunto dei canti della Divina Commedia…
Inferno
Canto I
Dante si smarrisce nell' oscura selva dei suoi errori e peccati. Quando spera di poter salire sulla cima di un colle e rivedere la luce del sole, il cammino gli è sbarrato da tre fiere, simboleggianti lussuria, superbia ed avarizia, ed è costretto a retrocedere. Gli appare Virgilio, il suo modello di poeta, che lo invita a seguire un'altra strada: occorre attraversare il regno degli inferi, e poi il Purgatorio. Poi Dante potrà ascendere al Paradiso, dove Virgilio, non essendo stato battezzato, dovrà lasciarlo ad un' altra guida.
Canto II
Virgilio rassicura Dante, e gli racconta di essere stato inviato sulla terra da Beatrice, che lo ha pregato di soccorrere il suo amico in grave pericolo. Beatrice a sua volta era stata mandata dalla Vergine (la Grazia preveniente) e da Lucia (la Grazia illuminante). Virgilio e Dante si addentrano nella selva.
Canto III
I due poeti arrivano alla porta dell'inferno, dove una scritta invita ad abbandonare ogni speranza a chi sta per entrare. Nel vestibolo stanno gli ignavi, tra cui papa Celestino V, e gli angeli rimasti neutrali quando Lucifero si ribellò. Sulla riva dell'Acheronte, Caronte, che traghetta le anime dei dannati, non vuole fare passare un vivo, ma Virgilio gli intima di non andare oltre la volontà del cielo. Subito dopo si avverte una scossa di terremoto e Dante sviene.
Canto IV
Dante si risveglia nel Limbo, dove stanno i non battezzati privi di colpe. Virgilio lo conduce ad un castello luminoso, al cui interno lo salutano Orazio, Ovidio e Lucano. In un prato verde all'interno delle mura sono radunati gli "spiriti magni", tra cui Enea, Ettore, Cesare, Aristotele, Platone e Cicerone. I poeti si allontanano dal Limbo nell'oscurità.
Canto V
All' entrata del secondo cerchio Minosse assegna ai peccatori il luogo in cui sconteranno la loro pena. Al suo interno gli spiriti dei lussuriosi sono trascinati da una tempesta incessante. Paolo e Francesca, amanti infelici uccisi dal marito di lei, raccontano a Dante la loro storia; questi si commuove e sviene nuovamente.
Canto VI
Il terzo cerchio, custodito dal cane tricipite Cerbero, è quello dei golosi. Essi stanno sdraiati nel fango sotto un pioggia di neve, grandine e acqua sporca; uno di loro, Ciacco, predice a Dante la vittoria dei Neri fiorentini sui Bianchi.
Canto VII
Il quarto cerchio, custodito dal demone Pluto, il dio greco della ricchezza, è quello degli avari e dei prodighi, condannati a spingere col petto pesanti macigni. Dante e Virgilio giungono poi alla palude dello Stige, in cui sono immersi iracondi ed accidiosi. I primi si percuotono e mordono a vicenda, i secondi giacciono sotto la superficie.
Canto VIII
Flegiàs traghetta i poeti attraverso lo Stige; Dante apostrofa violentemente l'odioso fiorentino Filippo Argenti. I due poeti sbarcano di fronte alla città infernale di Dite, ma i diavoli che la abitano sbarrano le porte impedendo loro di entrare.
Canto IX
Sulle torri delle città appaiono le Erinni, che chiamano Medusa affinché tramuti Dante in pietra. Interviene però un messo celeste, che apre le porte di Dite e fa entrare i poeti. All'interno delle mura, gli eretici giacciono in sepolcri infuocati posti in una pianura sconfinata.
Canto X
Uno dei dannati, Farinata degli Uberti, riconosce Dante e lo chiama a sé; egli avverte il poeta che il suo ritorno a Firenze sarà molto travagliato. Da un altro sepolcro Cavalcante de' Cavalcanti chiede a Dante notizie del figlio Guido. Poi i due poeti riprendono il cammino.
Canto XI
Davanti ai due poeti si apre un abisso puzzolente. Virgilio spiega a Dante la struttura del basso inferno: esso è formato da tre cerchi, in cui si puniscono rispettivamente i violenti, i fraudolenti e gli incontinenti. Questi ultimi sono coloro che stanno fuori dalla città di Dite, data la minore gravità del loro peccato; i due viaggiatori si trovano ora invece dove sono punite le altre due categorie.
Canto XII
Siamo nel primo girone del settimo cerchio, custodito dai Centauri. Qui i violenti contro il prossimo giacciono nel Flegetonte, un fiume di sangue bollente. Il centauro Nesso mostra a Dante alcuni dei dannati, tra cui Alessandro Magno, Guido di Monfort, Attila e Pirro.
Canto XIII
Nel secondo girone, custodito dalle Arpie, stanno i violenti contro se stessi, ovvero i suicidi, tramutati in piante, e gli scialacquatori, inseguiti e morsi da cagne affamate. Dante strappa un ramoscello da una pianta, che comincia a parlare: è Pier delle Vigne, che prega Dante di riabilitare la sua memoria.
Canto XIV
Nel terzo girone, in un deserto infuocato, i violenti contro Dio nella persona, ovvero i bestemmiatori, sono sdraiati a terra sotto una pioggia di fuoco; tra essi c'è il gigante Capaneo. Dante e Virgilio arrivano alla sorgente del Flegetonte, e qui il secondo spiega al primo l'origine dei fiumi infernali.
Canto XV
Sopraggiunge una schiera di violenti contro Dio nella natura, cioè di sodomiti. Tra di loro c'è l'antico maestro di Dante, Brunetto Latini, che raccomanda a Dante la propria opera letteraria, il "Tesoro", e gli preannuncia le sue future sofferenze.
Canto XVI
Dante è riconosciuto da tre fiorentini, che gli chiedono se sono vere le brutte notizie su Firenze apprese da un dannato appena arrivato all'inferno, Guglielmo Borsiere; Dante risponde con un'aspra invettiva contro la corruzione della propria città. Proseguendo nel viaggio, i due poeti arrivano all'abisso in cui precipita il Flegetonte, e vedono salire da esso un orribile mostro: Gerione, simbolo della frode.
Canto XVII
Gerione custodisce il terzo girone, quello dei violenti nell'arte, cioè usurai, seduttori e adulatori. I primi siedono al limite del deserto, presso l'abisso, con al collo delle borse recanti lo stemma della loro famiglia. Dante e Virgilio salgono in groppa a Gerione che li porta al fondo dell'abisso.
Canto XVIII
Si giunge all'ottavo cerchio, "Malebolge": è un pozzo diviso in dieci bolge concentriche. Nella prima ci sono i ruffiani, tra cui Giasone; nella seconda gli adulatori, tra cui Alessio Interminelli e la cortigiana Taide.
Canto XIX
Nella terza bolgia i simoniaci sono conficcati a testa in giù nella pietra; lingue di fuoco bruciano loro le piante dei piedi. Dante ne interroga uno, papa Niccolò III; questi scambia il poeta per Bonifacio VIII, che dovrebbe prendere il suo posto nella buca spingendolo più in basso, ed inveisce contro di lui. Dante pronuncia un discorso contro i papi simoniaci.
Canto XX
Nella quarta bolgia gli indovini camminano piangendo con il viso ritorto all'indietro dalla parte del dorso; tra essi Anfiarao e Tiresia.
Canto XXI
Nella quinta bolgia i diavoli Malebranche tormentano i barattieri immersi nella pece bollente. Virgilio chiede di parlare con un diavolo; si fa avanti Malacoda, al quale Virgilio spiega il motivo del viaggio di Dante. Malacoda gli fornisce una scorta di dieci diavoli.
Canto XXII
Il barattiere Ciampolo di Navarra rivolge la parola a Dante; i diavoli tentano di uncinarlo, ma egli fugge tuffandosi nella pece. Due diavoli, Alichino e Calcabrina, si azzuffano rinfacciandosi la mancata preda e cadono nella pece. Dante e Virgilio approfittano del trambusto per fuggire.
Canto XXIII
Con i diavoli alle calcagna, Virgilio prende Dante in braccio e si cala nella sesta bolgia, dove gli ipocriti camminano sotto pesanti cappe di piombo dorato. Crocifisso a terra c'è Caifa.
Canto XXIV
Nella settima bolgia i ladri sono continuamente assaliti da torme di serpenti; tra essi Vanni Fucci, che con rabbia predice a Dante la sconfitta dei Bianchi e l'esilio futuro.
Canto XXV
Vanni Fucci rivolge a Dio un gesto osceno; immediatamente un serpente lo immobilizza e sopraggiunge il centauro Caco. I due poeti assistono a numerose trasformazioni di ladri in serpenti e di serpenti in ladri.
Canto XXVI
Dante pronuncia una nuova invettiva contro Firenze, poi lui e Virgilio passano nell'ottava bolgia, dei consiglieri fraudolenti; essi vagano senza riposo avvolti da una fiamma. In una fiamma biforcuta sono avvolti due dannati, Ulisse e Diomede; il primo racconta la storia del suo ultimo viaggio e della sua morte.
Canto XXVII
Dante incontra l'anima di Guido da Montefeltro, che un diavolo disputò con successo a S. Francesco.
Canto XXVIII
Nella nona bolgia stanno i seminatori di discordia, mutilati dalla spada di un diavolo. Tra essi ci sono Maometto e Bertrando del Bornio, che cammina tenendo in mano la sua testa mozzata.
Canto XXIX
Dopo l'incontro con Geri del Bello, un parente di Dante, i due poeti passano nella decima bolgia, quella dei falsari; tra essi gli alchimisti sopportano scabbia e lebbra.
Canto XXX
La rabbia colpisce invece i falsatori della persona, tra cui Gianni Schicchi e Mirra. Seguono poi i falsari di moneta colpiti dall'idropisia: tra essi Mastro Adamo. Infine i falsatori di parola, che sopportano la febbre: Dante scorge in mezzo a loro l'anima del greco Sinone.
Canto XXXI
Custodi del nono cerchio sono i Giganti, incatenati ed immersi fino alla vita nel pozzo infernale. Anteo però è slegato e può prendere in mano i viaggiatori e depositarli sul fondo, costituito dal lago ghiacciato di Cocito.
Canto XXXII
Cocito è diviso in zone: nella Caina i traditori dei parenti stanno immersi nel ghiaccio fino al capo, tenuto abbassato; nella Antenora i traditori della patria hanno invece il capo rivolto in alto: tra essi Bocca degli Abati e Gano di Maganza. Dante vede un dannato che rode la testa di un altro, e chiede a Bocca il nome di entrambi.
Canto XXXIII
Il dannato che rode la testa all'altro è il conte Ugolino della Gherardesca, la sua vittima l'arcivescovo Ruggeri. Dante e Virgilio passano poi nella zona detta Tolomea, dove i traditori degli amici tengono il capo talmente all'insù che le lacrime gli si congelano sugli occhi: tra essi frate Alberigo e Branca Doria.
Canto XXXIV
L'ultima zona di Cocito è la Giudecca, dove i traditori dei benefattori sono completamente immersi nel ghiaccio. Ora Dante e Virgilio sono di fronte a Lucifero, infisso nel ghiaccio dalla vita in giù. Esso ha tre teste, e ciascuna delle tre sue bocche dilania un peccatore: la prima Giuda, la seconda Bruto, la terza Cassio. I due poeti si aggrappano al corpo di Lucifero e lo ridiscendono, passando nell'emisfero terrestre meridionale. Attraverso uno stretto budello riescono a ritornare in superficie in corrispondenza degli antipodi.
Purgatorio
Canto I
Dante e Virgilio si trovano sulla spiaggia di fronte al monte del Purgatorio. All'improvviso giunge il custode dell'ingresso, Catone l'Uticense, che li apostrofa credendoli due dannati. Saputa da Virgilio la verità ordina a Dante di cingersi i fianchi di un giunco e lavarsi gli occhi offuscati dalla vista dell'Inferno.
Canto II
Mentre sorge l'alba giunge una navicella guidata da un angelo; da essa scendono le anime destinate al Purgatorio. Tra di esse c'è quella di Casella, un amico di Dante.
Canto III
Ai piedi del monte i due poeti trovano la schiera degli scomunicati, che devono rimanere in attesa per un periodo lungo trenta volte quello della loro scomunica; tra essi c'è Manfredi, che racconta come morì a Benevento.
Canto IV
Virgilio spiega a Dante, stupito di vedere il Sole a sinistra invece che a destra, la posizione geografica del Purgatorio, agli antipodi rispetto a Gerusalemme. I due incontrano poi coloro che si pentirono solo in punto di morte, i quali devono stare nell'Antipurgatorio un tempo pari a quello della loro vita. Tra essi c'è il fiorentino Belacqua.
Canto V
Continuando a salire, Dante e Virgilio incontrano i negligenti morti violentemente. Questi notano che il corpo di Dante proietta l'ombra, e quindi è vivo; lo pregano perciò di dire loro se riconosce qualcuno per il quale fare pregare i vivi. Pur non conoscendone nessuno, Dante promette di esaudire i loro desideri; si fanno avanti Jacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e Pia de' Tolomei.
Canto VI
Virgilio nota in disparte l'anima di Sordello, poeta mantovano come lui, e lo abbraccia. A quella vista Dante amaramente ricorda come gli Italiani siano invece in continua lotta fra loro, con i Fiorentini in prima fila.
Canto VII
Sordello porta i due poeti in una valletta fiorita, dove i principi negligenti attendono di entrare nel Purgatorio.
Canto VIII
Al calar della sera le anime si dedicano alla preghiera. Dante riconosce l'amico giudice Nino Visconti, che si lamenta di essere stato dimenticato dalla moglie. Si avvicina Corrado Malaspina, della cui famiglia Dante tesse l'elogio.
Canto IX
Dante si addormenta e sogna di volare in groppa ad un'aquila fino alla sfera del fuoco, dove entrambi bruciano. Al risveglio Virgilio lo conduce alla porta del Purgatorio, dove un angelo incide con la spada sulla sua fronte sette P (simboleggianti i sette peccati capitali da cui Dante dovrà purificarsi durante il viaggio).
Canto X
Varcata la porta, i due poeti salgono su un cornicione del monte la cui parete sul lato interno è colma di bassorilievi in marmo bianco riproducenti esempi di umiltà. Qui i superbi camminano curvi sotto il peso di enormi macigni, studiando gli esempi dei bassorilievi.
Canto XXI
Il poeta Stazio spiega a Dante e Virgilio che il terremoto avviene ogni volta che un'anima ormai purificata si sente pronta per salire al cielo; questo è quanto accade ora a lui, dopo un'espiazione pluricentenaria.
Canto XXII
I tre poeti arrivano all'uscita, dove l'Angelo della Giustizia cancella la quinta P. Stazio racconta del suo peccato (la prodigalità eccessiva) e della sua conversione al Cristianesimo provocata dalla lettura di Virgilio. Chiede poi notizie degli altri grandi poeti pagani. Si giunge alla sesta cornice, dove voci gridano esempi di temperanza ai golosi.
Canto XXIII
I golosi soffrono fame e sete sotto alberi carichi di frutti e presso chiare sorgenti, cantando preghiere. Tra essi Forese Donati, amico di Dante.
Canto XXIV
Forese indica a Dante l'anima di Bonagiunta da Lucca, col quale il poeta intavola una discussione sul "dolce stil novo". Bonagiunta mostra di aver capito che la sua poesia, oltre a quella di Jacopo da Lentini e di Guittone d'Arezzo, non può rientrare in quel genere non essendo ispirata dal vero amore. Forese predice la morte violenta del fratello Corso. In lontananza si scorge un albero da frutta verso il quale tendono le braccia numerose anime; una voce grida esempi di golosità punita, ricordando che quell'albero discende da quello del bene e del male. L'Angelo dell'Astinenza cancella la sesta P dalla fronte di Dante.
Canto XXV
Stazio spiega come si genera l'uomo e come si formano le ombre dopo la morte corporea. Nella settima cornice i lussuriosi avvolti da fiamme cantano, ascoltano esempi di castità e si danno baci fraterni.
Canto XXVI
Dante trova tra i lussuriosi Guido Guinizelli, per il quale mostra grande ammirazione; ma questi si schermisce, dicendo che assieme a lui c'è un poeta ben più grande, Arnaldo Daniello, che canta piangendo i propri eccessi di un tempo.
Canto XXVII
Un angelo invita i poeti ad attraversare un parete di fiamme; Virgilio vince la paura di Dante dicendogli che oltre quelle fiamme troverà Beatrice. davanti alla scala per il paradiso Terrestre, l'Angelo della Castità cancella l'ultima P dalla fronte di Dante. Cala la notte, e Dante sogna Lia che raccoglie dei fiori. All' alba Virgilio dichiara Dante guarito dai suoi mali.
Canto XXVIII
Nell'Eden i poeti incontrano Matelda che raccoglie fiori; essa spiega come nell'Eden vi siano acqua e vento; la prima viene da una sorgente divina e forma il Lete, che cancella le colpe, e l'Eunoè, che predispone al bene; il secondo è originato dal movimento del Primo Mobile.
Canto XXIX
I quattro risalgono le sponde del Lete. Viene verso di loro una meravigliosa processione: nella scia di sette candelabri dorati avanzano ventiquattro vegliardi, seguiti da quattro strani animali; tra essi un grifone tira il carro trionfale, affiancato a destra da tre donne e a sinistra da quattro. Infine seguono due vecchi, quattro personaggi di aspetto dimesso, e un vecchio che cammina dormendo.
Canto XXX
I 24 vegliardi cantano mentre la processione si arresta davanti a Dante e ai suoi compagni. Appare Beatrice, che racconta ai presenti la storia del traviamento di Dante; questi si volta verso Virgilio, ma la sua guida è scomparsa.
Canto XXXI
Beatrice rimprovera Dante e poi gli ingiunge di guardarla; folgorato da tanta bellezza il poeta sviene. Matelda lo fa rinvenire immergendolo nel Lete e lo riporta al cospetto di Beatrice.
Canto XXXII
La processione torna indietro fino all'albero di Adamo ed Eva, a cui il Grifone lega il timone del carro. Dante si addormenta al suono di un dolce canto. Matelda lo risveglia e gli mostra la processione che sta tornando in cielo. Beatrice siede sotto l'albero in compagnia delle sette donne che portano i sette candelabri. Improvvisamente un'aquila piomba addosso al carro, la terra si fende sotto di esso e un drago emerge dall'abisso squarciandone il fondo. Sul carro spuntano sette teste, una prostituta e un gigante che la frusta, scioglie il carro e lo porta via.
Canto XXXIII
I presenti si incamminano, e Beatrice profetizza la venuta di un messo divino che ucciderà la prostituta e il gigante; invita Dante a riferire agli uomini ciò che ha visto. Dante e Stazio bevono l'acqua dall' Eunoè e si sentono pronti per salire al Paradiso.
Paradiso
Canto I
Dante vede Beatrice fissare il Sole; egli fa altrettanto, ma poi comincia a fissare gli occhi di Beatrice, che diventano sempre più scintillanti, mentre le sue orecchie sentono l'armonia delle sfere celesti. Dante e Beatrice stanno ascendendo attraverso la sfera del fuoco verso il Paradiso, come di necessità fanno tutti i corpi purificati.
Canto II
Arrivati in prossimità della Luna, Dante chiede a Beatrice di spiegargli la presenza delle macchie lunari.
Canto III
Le anime del cielo della Luna, mosso dagli angeli, appaiono evanescenti. Tra esse Piccarda Donati, sorella di Forese, che spiega che qui stanno i beati che vennero meno ai loro voti. Ella fu rapita a forza dal convento, e sorte analoga fu anche quella dell'imperatrice Costanza.
Canto IV
Dante si chiede: a) Perché aver subito violenza può diminuire la beatitudine futura, come fosse una colpa? b) E' vero ciò che dice Platone, che le anime tornano alle stelle? Beatrice spiega che in realtà tutti i beati stanno nell'Empireo, ma si mostrano a Dante nei diversi cieli perché egli possa distinguere tra i vari gradi di beatitudine, e che gli spiriti di questo cielo non resistettero completamente alla violenza.
Canto V
Beatrice mostra a Dante la santità del voto, poi salgono al cielo di Mercurio, mosso dagli Arcangeli, dove gli spiriti attivi stanno avvolti dalla luce; uno di essi si rivolge al poeta.
Canto VI
Lo spirito è quello di Giustiniano, che comincia a narrare la storia dell'aquila romana fino al suo regno, affermando che essa vendicò Cristo con la distruzione di Gerusalemme compiuta da Tito. Spiega poi che in quel cielo stanno gli spiriti che in vita ricercarono la gloria; tra essi Romeo di Villanova.
Canto VII
Riguardo all'affermazione di Giustiniano sulla vendetta di Cristo, Beatrice spiega che la morte del Figlio di Dio fu giusta per quanto riguardava la natura umana di Cristo, ma blasfema riguardo quella divina. Dio scelse il sacrificio del figlio per redimere l'uomo come mezzo implicante sia la misericordia che la giustizia.
Canto VIII
Dante e Beatrice salgono al cielo di Venere, mosso dai Principati. Qui stanno gli spiriti amanti del bene, tra cui Carlo Martello.
Canto IX
Carlo Martello predice a Dante mali futuri per gli Angioini; poi la poetessa Cunizza da Romano profetizza la rovina delle città venete che si ribellano all'Impero. Il trovatore Folchetto di Marsiglia indica a Dante l'anima di Raab, e poi si lancia in un'invettiva contro il clero.
Canto X
Si sale al cielo del Sole, mosso dalle Potestà; qui gli spiriti sapienti sfolgorano disposti in tre corone concentriche; tra essi Tommaso d'Aquino.
Canto XI
San Tommaso elogia San Francesco riassumendone la vita e lamenta la decadenza dell'ordine domenicano a cui egli apparteneva.
Canto XII
Interviene il francescano San Bonaventura, che elogia San Domenico riassumendone la vita e deplora la decadenza del suo ordine che male interpreta la propria regola.
Canto XIII
San Tommaso scioglie un dubbio di Dante riguardante la sapienza di Salomone.
Canto XIV
Beatrice chiede ai presenti di risolvere un nuovo dubbio di Dante riguardante lo stato dei corpi dopo la risurrezione; risponde Salomone, dicendo che allora i corpi saranno più perfetti e più splendenti, e i sensi si adegueranno a tale condizione. Dante e Beatrice salgono al cielo di Marte, mosso dalle Virtù, dove gli spiriti militanti formano una croce luminosa nel cui mezzo splende Cristo.
Canto XV
I beati tacciono per far parlare Dante; dal gruppo esce l'anima del suo antenato Cacciaguida, che accenna alla sua vita passata e loda i costumi dell'antica Firenze.
Canto XVI
Dante rivolge a Cacciaguida numerose domande sulla sua famiglia e sulle condizioni della città all'epoca in cui egli era vivo.
Canto XVII
Dante interroga Cacciaguida sul proprio futuro, e questi gli predice l'esilio e il successivo rifugio presso il magnanimo Cangrande della Scala; incita poi Dante a raccontare ciò che ha appreso nel suo viaggio, anche se potrà riuscire sgradito a qualcuno.
Canto XVIII
Cacciaguida mostra otto grandi spiriti, poi Dante e Beatrice salgono al cielo di Giove, mosso dalle Dominazioni, in cui gli spiriti giusti volteggiano nell'aere formando le parole di una sentenza biblica e l'immagine di un'aquila. Dante riflette sulla giustizia terrena e pronuncia un'invettiva contro la curia di Roma che mercanteggia la fede.
Canto XIX
L'aquila perla dell'imperscrutabilità del pensiero e delle intenzioni divine, affermando che nel giorno del Giudizio molti che non conobbero la fede saranno posti più vicino al Creatore di molti che nominalmente si professano Cristiani.
Canto XX
L'aquila indica a Dante i beati che compongono il suo occhio.
Canto XXI
Dante e Beatrice salgono al cielo di Saturno, mosso dai Troni, qui gli spiriti contemplanti vanno e vengono per una scala dorata diretta verso l'alto. Essi non cantano come dovrebbero per non annichilire Dante con la completa bellezza del Paradiso: lo spiega Pier Damiani, che poi passa a deplorare il lusso dei prelati.
Canto XXII
San Benedetto racconta la sua vita e la storia dell'ordine benedettino, biasimandone l'attuale decadenza. Dante e Beatrice salgono la scala, che porta al cielo delle stelle fisse, mosso dai Cherubini. Dante arriva nella costellazione dei Gemelli, sotto la quale è nato; sotto di sé vede piccolissimi tutti i cieli e i pianeti.
Canto XXIII
Nel mezzo del cielo sfavilla un sole da cui emerge la figura di Cristo; Dante non può sopportarne la vista e torna a guardare i beati, mentre Beatrice risplende di bellezza; tra essi vede Maria su cui cala l'arcangelo Gabriele. La Vergine ascende con loro nell'Empireo.
Canto XXIV
Beatrice invita i beati a dare a Dante un po' della loro saggezza; San Pietro interroga il poeta sulla fede, e questi risponde con sicurezza e proprietà su tutti gli argomenti. San Pietro gli impartisce la benedizione.
Canto XXV
San Jacopo di Galizia interroga Dante sulla Speranza, e il poeta si mostra sicuro anche su questo secondo argomento. Arriva anche San Giovanni, che dichiara essere falsa la leggenda che il suo corpo si trovi già in Paradiso.
Canto XXVI
San Giovanni interroga Dante sulla Carità, e anche stavolta il poeta si mostra preparato. I beati intonano una lode al Signore, mentre Dante si avvicina ad Adamo e gli pone alcune domande sulla sua esistenza.
Canto XXVII
San Pietro pronuncia un'invettiva contro i papa corrotti, in particolare Giovanni XXII e Clemente V; poi i beati tornano all'Empireo, mentre Dante e Beatrice salgono al Primo Mobile, mosso dai Serafini. Beatrice spiega a Dante il movimento del creato e biasima l'umanità corrotta.
Canto XXVIII
Negli occhi di Beatrice si riflette un punto di luce (Dio) attorniato da nove cerchi infuocati (gli ordini angelici); tra essi i più vicini a Dio sono più veloci e virtuosi. Beatrice descrive la gerarchia dei cori degli angeli.
Canto XXIX
Dio creò gli angeli per manifestare la sua bontà; quelli che si ribellarono con Lucifero caddero sulla Terra mentre quelli rimasti fedeli divennero incapaci di compiere peccato; il loro numero è infinito e bruciano di amore divino con diversa intensità, a seconda di come hanno ricevuto la luce divina. Beatrice poi deplora i cattivi predicatori.
Canto XXX
Dante e Beatrice arrivano nell'Empireo, dove un fiume di luce scorre tra rive fiorite prendendo forma di cerchio; da esso escono faville di luce che si trasformano in beati ed angeli, che si dispongono in una rosa circolare di mille gradini. Beatrice guida Dante al centro della rosa.
Canto XXXI
Beatrice torna al suo posto nella rosa, e al suo posto di fianco a Dante appare San Bernardo, che gli indica Maria circondata da angeli e beati a cui infonde letizia.
Canto XXXII
San Bernardo indica a Dante Eva, Rachele, Beatrice, Sara, Rebecca, Giuditta e Ruth, che stanno ai piedi di Maria; alla sua sinistra coloro che credettero in Cristo venturo, alla destra quelli che credettero in Cristo venuto; di fronte a Maria numerosi santi e l'Arcangelo Gabriele. Infine attorno a Maria si vedono anche Adamo, San Pietro e San Giovanni, Mosè, Sant'Anna e Santa Lucia.
Canto XXXIII
San Bernardo elogia Maria e le chiede di intercedere affinché Dante possa godere della visione di Dio. Maria acconsente e leva in alto lo sguardo; allora Bernardo invita Dante a guardare il Creatore e la Trinità, in forma di triplice cerchio; il secondo cerchio sembra racchiudere un'effigie umana e Dante si sforza di comprendere quell'affascinante mistero (l'Incarnazione), ma la sua debole mente non può farcela da sola; solo il sopraggiungere di un'intuizione diretta ed istantanea infusagli dalla Grazia divina gli fa intravedere per un attimo la verità.
Riepilogando in numeri…
Cantiche -> 3 ( Inferno, Purgatorio & Paradiso )
Canti -> 100 ( 1 prologo e 33 canti per cantica )
Terzine -> 4.745 ( endecasillabi in terza rima )
Versi -> 14.233 ( righe totali dell’ opera )
Caratteri -> 538.015 ( totale dei caratteri dell’opera )
Nascita di Dante Alighieri -> 1265
Termine delle prime due cantiche -> 1316
Morte Di Dante Alighieri -> 1321
Prima Pubblicazione Completa -> 1322
Prima Apparizione Del Termine “ Divina “ -> 1555
Fonte: http://skuola.tiscali.it/materiale/dante-omnia.doc
autore del testo non indicato nel documento di origine del testo
Dante Alighieri
- Di antica nobiltà sono i suoi antenati, discendenti addirittura dai Romani. Cacciaguida, suo trisavolo, a Firenze vive con le famiglie dei fratelli Moronto ed Eliseo, nella zona del Mercato Vecchio; armato cavaliere dall'imperatore Corrado III, mentre era al suo seguito durante la seconda Crociata, muore in Terrasanta. La moglie, una Alighiera forse di Ferrara, gli dà dei figli, uno dei quali si chiama come lei, Alighiero I, da cui derivano i rami dei Bellincione e dei Bello. Al primo appartiene Durante, chiamato Dante, figlio di Alighiero II e nipote di Bellincione.
Il padre di Dante vivacchia facendo il cambiavalute e forse anche l'usuraio, a giudicare da alcune voci maligne. Abita nel Sesto di Porta San Pietro, è di tradizione guelfa, ma non si getta certo nel vivo della lotte faziose; è figura scialba che il poeta passa sotto silenzio. Dante nasce in una casa posta di fronte alla Torre della Castagna, verso la fine del mese di maggio del 1265, sotto la costellazione dei Gemelli da Alighiero Alighieri di Bellincione e da donna Bella (Gabriella) di casato ignoto e battezzato in San Giovanni.
Così racconta Boccaccio:
"Del quale, come che alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuoli discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il cui nome fu Alighieri, il quale più per la futura prole che per sé doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempo del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre suo; come che ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, e oggi, per lo effetto seguìto, sia manifestissimo a tutti.
Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire unofigliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, perciò che ottimamente, sì come si vedrà procedendo, seguì al nome l'effetto.
Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel Dante che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle Muse, sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesì meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno".
La madre muore ancor giovane, lasciando il figlioletto in tenera età; subito dopo il padre Alighiero si risposa con Lapa di Chiarissimo Cialuffi che gli dà due figli; Francesco e Tana (Gaetana). Prima del 1283 Anche il padre muore, ma già dal 1277 (Dante ha 12 anni) aveva "provveduto al futuro coniugale del figlio, stipulando l'instrumentum dotis, una specie di fidanzamento ufficiale garantito con atto notarile, col quale Dante veniva promesso in matrimonio a Gemma Donati".
Poco si sa dell'infanzia del poeta; studia presso i francescani, poi ascolta le lezioni di retorica di Brunetto Latini e segue le lezioni di diritto, filosofia e forse anche di medicina all'Università di Bologna, fra l'estate del 1286 e la primavera del 1287. Nel 1274 (all'età di nove anni, come afferma nella Vita nova) conosce Beatrice, figlia di Folco Portinari, che andrà sposa a Simone Bardi, e la rivede nove anni dopo, nel 1283: è l'avvenimento amoroso decisivo della sua vita, che durerà anche dopo la morte della donna avvenuta nel 1290.
Giovanissimo, da vero autodidatta comincia a dire parole per rima, assorbendo la lezione dei numerosi poeti fiorentini, di scuola guittoniana e stilnovista. La sua curiosità e il desiderio di sperimentare tecniche diverse, lo inducono a tentare anche il genere giocoso e forme poetiche di vario genere, in componimenti raccolti nelle Rime. I suoi primi tentativi sono opere anonime come il Fiore, che ripropone in 232 sonetti l'allegoria del Roman de la Rose (dei francesi Guillaume de Lorris e Jean de Meung), completato intorno al 1280 e il Detto d'Amore, poemetto allegorico che segna il trapasso ai moduli guinizelliani. Questi due componimenti, comunque, solo da Gianfranco Contini e pochi altri, con argomenti puramente indiziari, sono attribuiti a Dante: i dubbi restano molti.
Non mancano le esperienze tipicamente giovanili, di prammatica per un nobile rampollo di un comune del Duecento; l'1 giugno del 1289 combatte nella battaglia di Campaldino‚ contro Arezzo e i ghibellini toscani, mentre nell'agosto dello stesso anno partecipa all'assedio del castello di Caprona, in Valdarno, tenuto dai ghibellini. Ma la guerra non fa per lui; meglio la letteratura e anche la politica, intesa come dovere e contributo al pubblico bene.
L'amore, come abbiamo detto, si impersona nell'austera e angelica Beatrice, moglie di Simone dei Bardi e figlia di un ricchissimo borghese che ha donato alla città l'ospedale degli Innocenti, Folco Portinari. L'ha conosciuta a nove anni, la rivede e ne riceve il saluto a diciotto; l'ama in silenzio, pago di vederla, di ricevere la salute dello spirito dal suo saluto per via, di lodarla nelle sue liriche quando lei, forse per le voci che circolano sul suo conto, gli toglie anche questo esile filo di comunicazione. Dante, infatti, per evitare i pettegolezzi, finge di corteggiare altre donne. La sua morte ha il potere di prostrare Dante sino all'abbrutimento, da cui esce con l'aiuto di amici, conoscenti, forse anche di fanciulle pietose, sogni premonitori; decide, allora, di scrivere per Beatrice qualcosa di straordinario e inedito, qualcosa che nessun altro prima d'allora, mai aveva pensato in onore di una donna. E intanto pubblica nel 1292-93 un prosimetro (insieme di poesie e prose), intitolato Vita nuova in cui ricostruisce le fasi e la storia del suo amore per la fanciulla-angelo che gli sembra essere scesa in terra a miracol mostrare, tanto intensa è la bellezza e purezza della sua immagine.
Beatrice, guida di Dante nel Paradiso e sollecitata dal Cielo a trarlo dalla vita di traviamento in cui s'è lasciato cadere dopo la sua morte, sembrerebbe l'obiettivo della Commedia; ma il poema, forse, al di là delle stesse aspettative del poeta, diventerà qualcosa di più che una semplice apologia della donna amata.
Abbandonati i divertimenti giovanili, Dante si dedica agli studi di filosofia (Boezio, Cicerone, Aristotele, Platone, san Tommaso d'Aquino) e di teologia presso i Domenicani di Santa Maria Novella e presso i Francescani di Santa Croce; fra l'estate del 1286 e l'agosto del 1287 lo troviamo a Bologna, a seguire le lezioni di diritto, filosofia e forse anche di medicina.
Intanto, probabilmente nel 1285, comunque prima del 1290, Dante si sposa con Gemma di Manetto Donati parente del fazioso Corso; dalla moglie, sulla quale non scriverà mai una riga, ha tre figli: Iacopo, Pietro e Antonia (forse la suor Beatrice del Convento di Santo Stefano degli Olivi a Ravenna) e probabilmente un Giovanni che premuore al padre, ma risulta da un atto notarile del 1308. Quale parte abbia avuto Gemma nella vita di Dante, non sappiamo. "Fu la madre de' suoi figli e la reggitrice della casa. E paga di tanto uffizio, ella, secondo ogni probabilità, più oltre non ambì. Il marito era poeta, e cercava la vita dove le consuetudini del tempo gliela facevano trovare. Perciò il matrimonio non gli impedì di continuare a cantare la donna che aveva fino allora servito... (Umberto Cosmo, Vita di Dante, La nuova Italia, Firenze 1965, III edizione).
A trent'anni, nel 1295, Dante può buttarsi in politica, dopo che sono stati parzialmente rettificati gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella che, in origine (1293), impedivano ai nobili di accedere alle cariche pubbliche. Ora un nobile che sia iscritto alla matricola di un'Arte, può essere eletto nel Consigli del popolo e al Priorato. Dante diviene membro dell'Arte dei Medici e Speziali, la meno lontana dalle sue attitudini di intellettuale, poeta e scienziato. Non gli è difficile venire eletto; a Firenze tutti lo conoscono come uomo accorto, colto, equilibrato. Nel semestre novembre 1295-aprile 1296 è membro del Consiglio speciale del Capitano del Popolo: 36 cittadini, sei per sestiere (i quartieri di Firenze): Dante era stato eletto con altri cinque compagni per il "sesto" di Por San Pietro; nel dicembre 1296 viene invitato, come uno de' Savi, nel Consiglio delle Capitudini a dire il suo parere sulla procedura, che si sarebbe dovuta seguire per la nomina dei nuovi Priori.
"Nel Consiglio dei Capitani - quale ne fosse la ragione - non profferì verbo; in quello delle Capitudini confortò della sua autorità il parere di un altro Savio: Dantes Alaghieri consuluit. (Cosmo, cit.).
Nel maggio 1296 è nel Consiglio dei Cento, che si occupa dell'amministrazione del pubblico denaro, quattro anni, il 7 maggio, dopo viene inviato come ambasciatore a san Gimignano per rafforzare la lega Guelfa tra i comuni della Toscana e serviva a Firenze per esercitare la sua egemonia. Il 15 giugno, come continuatore della politica di resistenza del Comune contro le ingerenze e le sopraffazioni del Pontefice, proprio mentre si trovava in città il Cardinale d'Acquasparta mandatovi in apparenza come paciere fra le opposte fazioni, è chiamato a far parte della Signoria: è il momento della massima considerazione goduta il patria. Ma ovunque volge lo sguardo vede violenza e cupidigia che generano scontri violenti di fazioni, la voglia del Papa Bonifacio VIII di piegare Firenze alla sua egemonia politica.
Il 1300 è un anno cruciale per la città. A Calendimaggio nella piazza di Santa Trinità scoppia una zuffa tra giovani esponenti della fazione dei Guelfi neri (capeggiata da Corso Donati, violento e fazioso, e dei Guelfi bianchi (guidata da Vieri dei Cerchi, commercianti inurbatisi da poco).
La tensione tra e Bonifacio VIII è altissima e negli ultimi tempi si era acuita per la condanna di tre cittadini fiorentini, Guelfi Neri e banchieri della Corte di Roma, per macchinazioni contro la libertà di Firenze e della Toscana. Il Papa si sente colpito dalla condanna ed esige che vengano annullati processo e condanna: ma la Signoria resiste imperterrita, firma la sentenza di condanna dei cospiratori, impedisce con una provvisione dei Consigli ogni intromissione pontificia nell'esercizio della giurisdizione cittadina e frena le facoltà stesse dell'inquisitore romano. Il 15 giugno entra in carica la nuova Signoria e il Notaio della Camera del Comuni presenta nelle mani dei Nuovi Priori la condanna inflitta ai tre cittadini fiorentini residenti presso la corte di Roma. Comincia così il primo giorno del Priorato di Dante, eletto Priore per il bimestre 15 giugno-15 agosto 1300, proprio quando più insistenti si fanno i tentativi di papa Bonifacio VIII di mettere le mani su Firenze, attraverso gli intrallazzi del suo legato, cardinal Matteo d'Acquasparta, apparentemente incaricato di pacificare le fazioni in lotta.
Il 23 giugno una nuova zuffa, ai danni dei consoli delle Arti, che, come era usanza, andavano in processione a San Giovanni, insanguina le vie della città. I priori decidono, pare proprio per suggerimento di Dante, di espellere i capi più sediziosi delle due parti. In esilio andrà pure Guido Cavalcanti, il migliore amico di Dante.
Finito il suo priorato, Dante non rinuncia a dar battaglia a Bonifacio VIII, mandando a monte alcune sue iniziative egemoniche. Nel 1302, per evitare una rottura con il pontefice, Firenze invia alla Corte romana tre ambasciatori: Dante, Maso Minerbetti che aveva buone conoscenze presso la Curia romana, e Guido Ubaldini degli Aldobrandi detto il Corazza, uomo 'guelfissimo', che era stato Gonfaloniere della Signoria, principale autore del processo contro i tre fiorentini di cui abbiamo detto.
L'ambasceria si presentava in atto di sottomissione, confidando in un atto di resipiscenza del Papa, di "quel peccatore di grande animo. In Laterano il Pontefice accolse l'ambasceria: "così Dante si trovò finalmente di fronte all'uomo che in nome del Dio ond'era sacerdote si proclamava padrone del mondo: un uomo dal corpo disfatto, cui non rimanevano più che lingua e occhi; l'impressione che da quel colloquio il poeta ritrasse di quell'uomo, ironico, sarcastico, satanicamente tentatore, è rimasta in alcuni atteggiamenti di una scena famosa del canto XXVII dell'Inferno." (Cosmo, cit.). Il Papa chiede agli ambasciatori di umiliarsi e sottomettersi a lui e afferma che le sue azioni erano dirette solo al bene della città; rimanda indietro gli altri due e trattiene Dante.
La situazione è grave; sta scendendo in Italia, con cinquecento cavalieri, il fratello del re di Francia, Carlo di Valois, che entra in Firenze il 1 novembre, con il pretesto di pacificarla. In realtà i Neri approfittano del cambiamento di regime, intrallazzando con Carlo. Corso Donati e i fuorusciti fanno ritorno, vendicandosi crudelmente sui beni e sui familiari, oltre che sulle persone dei nemici. La casa di Dante viene saccheggiata, mentre il nuovo podestà, favorevole ormai ai Neri, bandisce i più importanti esponenti dei Bianchi dalla città. Dante, che si è sottratto in tutta fretta dall'assillante protezione di Bonifacio VIII, viene raggiunto a Siena dalla condanna all'esilio per due anni, il 27 gennaio 1302. È stato accusato di baratteria, con l'ammenda di 5.000 fiorini. La pena viene trasformato in condanna al rogo il 1° marzo successivo, poiché il poeta non si è presentato a discolparsi, per timore della cattura.
L'esule
Uno dei massimi dantisti italiani, Michele Barbi (Dante, Vita opere e fortuna, Firenze, Sansoni, 1952), nota che l'esilio fa di Dante un uomo sopra le parti, lo spoglia del suo municipalismo, per renderlo cittadino d'Italia. Il Foscolo nell'Ottocento, sposa la tesi di un ghibellinismo del poeta che, allontanato dalla patria, si accosta al partito avverso e rivaluta il ruolo dell'imperatore. In effetti l'esilio muta radicalmente la vita del poeta; l'inizio è durissimo, come egli stesso confessa nel Canto XVII del Paradiso. Si tratta di lasciare le persone care, i luoghi sicuri, i beni che danno sostentamento. Si trova in balìa della sorte e con la pessima etichetta di bandito dalla patria, come funzionario corrotto e ladro del pubblico denaro (in questo consiste l'accusa di baratteria con cui a Firenze i Neri giustificano il bando del poeta).
Nei primi tempi egli si unisce ai fuorusciti bianchi per tentare di rientrare in città con la forza: è presente a Gorgonza‚ e a San Godenzo, dove l'8 giugno 1302 i guelfi Bianchi e i Ghibellini stringono un'alleanza e si accordano con gli Ubaldini di Mugello contro i Guelfi neri. Ma l'impresa fallisce. La necessità di sopravvivere trasforma Dante in uomo di corte; lo troviamo come poeta, segretario, ambasciatore, delegato dei maggiori signori dell'Italia settentrionale che gli offrono ospitalità, accettata con buona grazia, ma vissuta come una durissima umiliazione.
Nel 1303 è segretario presso il signore di Forlì Scarpetta Ordelaffi, poi si sposta a Verona, presso Bartolommeo della Scala. L'anno successivo partecipa alla delegazione di Parte Bianca che tratta la pace con i Neri di Firenze, attraverso la mediazione del legato pontificio Niccolò da Prato. Intanto Bonifacio VIII è morto e gli è succeduto Benedetto XI. La trattativa non va in porto, i Bianchi organizzano una sortita violenta che si risolverà nella sanguinosa e drammatica battaglia della Lastra (1304). Tra polemiche, accuse ingiuste, sospetti, Dante si toglie dal gruppo e preferisce lottare da solo per la propria vita, aspettando una congiuntura politica più favorevole per il ritorno in città. Già da un anno la condanna comminatagli dai magistrati fiorentini è stata estesa ai suoi figli, quando raggiungeranno l'età di quattordici anni; è giunto il momento di rafforzare la sua posizione, e, benché esule, acquisire fama, prestigio, dignità che gli consentano di vivere alla meno peggio lontano dalla patria. Il problema maggiore è la questione economica che il fratello cerca di alleggerire con prestiti. Per guadagnarsi buona fama, Dante inizia la stesura di trattati e opere letterarie, che rappresentino una sorta di biglietto da visita per i suoi futuri ospiti.
Nel 1304 inizia il Convivio, un banchetto di sapere che rimane incompiuto e che, steso in volgare, si indirizza ai nobili che vogliano approfondire la propria cultura. Rimane incompiuto al quarto libro: dopo il trattato iniziale, gli altri chiosano tre canzoni che saranno citate nella Commedia; Voi che 'intendendo il terzo ciel movete (sulle gerarchie angeliche), Amor che nella mente mi ragiona sulla scienza e la filosofia), Le dolci rime d'amor ch''i solìa (sulla nobiltà come conquista morale e intellettuale).
Negli stessi anni (1304-1309), mentre stende l'Inferno, progetta un'altra opera di argomento linguistico, il De vulgari eloquentia in latino, in difesa del volgare. Interrotto a metà del secondo libro, esamina le origini del linguaggio, i vari dialetti italiani e definisce le caratteristiche di un volgare privilegiato che dovrebbe essere preso a modello degli intellettuali, come lingua comune italiana. Sono anni molto tristi; il poeta si sposta dalla corte di Gherardo da Camino‚ signore di Treviso, alla casa degli Scrovegni, ricchi mercanti padovani. A Bologna conosce Cino da Pistoia, giurista e poeta stilnovista, poi si ferma in Lunigiana, presso Moroello Malaspina‚ e a Lucca. Pare che tra il 1308 e il 1310 sia in Francia per frequentare la facoltà di teologia a Parigi. Sicuramente, se la notizia è vera, ascolta, in vico degli strami le lezioni di filosofia di Sigieri di Brabante. Con l'elezione di Arrigo VII di Lussemburgo a imperatore, Dante spera vivamente che la pace e la giustizia tornino a regnare in Italia.
Il 10 0ttobre 1310 invia una Epistola ai Signori e Comuni e Popoli d'Italia affinché accolgano con obbedienza e umiltà le disposizioni dell'imperatore che sta scendendo in Italia per l'incoronazione. Papa Clemente V ha invitato le città italiane a porsi a sua disposizione, ma ben presto si palesa il suo voltafaccia. Firenze per prima si oppone all'imperatore seguita da altre città timorose di perdere la propria autonomia. L'imperatore mette Firenze al bando dell'impero e l'assedia, ma invano.
Le speranze di Dante svaniscono; non tornerà più in patria in un clima di giustizia. Arrigo VII viene incoronato a Roma nel giugno 1312, ma il Papa lo invita a tornare in Germania, su istigazione degli Angioini e del re di Francia; Dante sente questo come un tradimento. Sta scrivendo un trattato in latino, De Monarchia in tre libri, in cui rivaluta il ruolo dell'impero, dichiara il potere imperiale e quello pontificio indipendenti e sostiene che entrambi derivano dalla volontà di Dio, che vuole garantire agli uomini due mezzi per ottenere la salvezza.
Il 24 agosto 1313 Arrigo VII muore a Buonconvento, presso Siena, di febbri malariche. Dante ha terminato la stesura dell'Inferno e del Purgatorio.
Scrive Boccaccio nel Trattatello in onore di Dante: "Questo libro della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo 'Nferno, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte, cioè il Purgatoro, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza parte, cioè il Paradiso, a Federigo III re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di queste due la verità, niuna cosa altra n'abbiamo che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sì gran fatto che solenne investigazione ne bisogni."
Dante ha perso definitivamente la speranza di tornare a Firenze. Nel 1311, infatti, a Firenze Baldo d'Aguglione ha varato una riforma che consente il ritorno di molti esuli, ma Dante ne è stato escluso; troverà ospitalità presso Cangrande della Scala, succeduto al fratello Bartolommeo nella signoria su Verona. Presso di lui Dante si ferma sino al 1318-19.
Il 19 maggio 1315 il Comune di Firenze approva un'amnistia a tutti gli esiliati, e questa volta senza limitazioni (dalla precedente, infatti, Dante era stato volutamente e dichiaratamente escluso); il 24 di giugno, in occasione della festa del Patrono della città. La cerimonia per gli amnistiati prevedeva che partendo dal carcere, avrebbero dovuto percorrere il tragitto in processione a piedi scalzi, vestiti d'un sacco, con una mitra di carta con sopra scritto il nome e il reato dei malfattori in capo, un cero acceso in una mano e una borsa con danaro nell'altra, fino al Battistero, al "bel San San Giovanni", dove venivano offerti in stato di pentimento all'altare e al santo della città. Compiuto questo rito sarebbero stati reintegrati nei loro beni e in ogni loro altro diritto. Se si trattava di fuorusciti politici che, al momento del provvedimento non erano in carcere, l'oblatio consisteva nel toccare simbolicamente col piede la soglia del carcere e quindi presentarsi al tempio, senza l'umiliazione della mitra né altre condizioni degradanti.
Con sdegno rifiuta l'umiliante proposta: mai avrebbe accettato di stare a fianco di malfattori, come Ciolo degli Abati, che, condannato nel 1291, era stato poi assolto proprio mediante una amnistia. Come Dante si trovava tra gli esuli contumaci, anche lui escluso dalla riforma di Messer Baldo d'Aguglione del settembre 1311.
All'amico (anonimo, ma dalla lettera si ricava che era un religioso, parente di Dante col quale aveva in comune "un nipote", forse Niccolò di Fusino di Manetto Donati, figlio di un fratello di Gemma) risponde con questa lettera, dichiarandosi pronto a rientrare, ma con tutto il rispetto dovuto alla sua innocenza conclamata e a tutti manifesta e al suo lavoro, per il quale in esilio non gli manca il pane e può continuare i suoi studi, a cercare le dolcissime verità (Epistola XII):
[I] Per mezzo delle vostre lettere ricevute e con la debita riverenza e affetto, ho con animo grato e diligente attenzione appreso, quanto vi stia a a cuore e quanta cura abbiate per il mio rimpatrio; e quindi tanto più strettamente mi avete obbligato, quanto più raramente agli esuli accade di trovare amici. Per questo, anche se non sarà quale la pusillanimità di alcuni desidererebbe, vi chiedo affettuosamente che la risposta al loro contenuto, prima di essere giudicata, sia ponderata all'esame della vostra saggezza.
[II] Ecco dunque ciò che per mezzo delle lettere vostre e di mio nipote e di parecchi altri amici mi fu comunicato riguardo al decreto da poco emanato in Firenze sul proscioglimento dei banditi che se volessi pagare una certa quantità di denaro e volessi patire l'onta dell'offerta, potrei sia essere assolto che ritornare subito. Ma ci sono, o padre, due cose degne di riso e oggetto di cattivo consiglio nelle lettere di quelli che mi hanno comunicato tali cose; le vostre lettere, infatti, formulate con maggiore discrezione e saggezza, non contenevano nulla di ciò.
[III] È proprio questo il grazioso proscioglimento con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha sofferto l'esilio? Questo ha meritato l'innocenza a tutti manifesta? questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Sia lontana da un uomo, familiare con la filosofia, una così avvilente bassezza d'animo da sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia, che dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi il suo denaro a quelli stessi che l'hanno oltraggiato, come se lo meritassero!
[IV] Non è questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un'altra via prima o poi da voi o da altri verrà trovata, che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, l'accetterò a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s'entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che? forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? o forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.
Negli anni del soggiorno veronese scrive la famosa Epistola a Cangrande in cui gli dedica il Paradiso. Nel 1319 Dante si trasferisce presso Guido Novello da Polenta con i figli. Mentre compone il Paradiso risponde con due Ecloghe a Giovanni del Virgilio che vorrebbe rielaborasse la Commedia in latino. Poi scrive il trattatello scientificoQuaestio de aqua et terra che presenta a Verona in una dissertazione del 20 gennaio 1320.
Muore di ritorno da un'ambasceria a Venezia per conto del signore di Ravenna, dopo aver contratto le febbri malariche; il 22 agosto vennero firmati i patti dell'alleanza tra Forlì e Venezia e Dante chiese di poter tornare a Ravenna. "L'uomo era stanco, malazzato. Probabilmente chiese e ottenne licenza per il ritorno. Mai, in tanto peregrinare fece viaggio più triste. Attraverso la laguna, lungo il cordone litorale: le terre deserte... La sera del secondo giorno sostò secondo il costume, a Pomposa... Arrivò a Ravenna per riposare sul letto di morte. Il corpo bruciante per febbre, lo spirito immerso in Dio. Intorno i figli piangenti, gli amici, il Signore stesso nelle ore che consentiva l'aggravarsi della situazione politica. ... Il mondo veniva dinanzi a lui: tra lui e Dio non c'era più alcuno. E sentì che Egli giungeva. Era la notte fra il 14 e il 15 settembre 1321. Mentre il grande mistero si compiva, Beatrice, levata con le sorelle per il mattutino, pregava nella piccola cappella dell'Uliva. Il cielo incominciava a imbianchire, e Beatrice sollevò gli occhi umidi di pianto verso quella luce: pareva il cielo si aprisse ad accogliere il padre suo." (Bosco, cit., pag. 261-2).
Secondo l'Altomonte "È una notte di settembre, tra il 13 e il 14, quando entra nel suo «maggior sonno», dopo che il medico Fiducio de' Milotti aveva usato tutta la sua scienza per salvarlo. "Guido Novello aveva predisposto una cerimonia pubblica. Subito dopo il cadavere veniva «seppellito a grande onore in abito di poeta e di grande filosofo». Lo annotava un cronista, confermato poi da Boccaccio, il quale aggiungeva che Guido aveva «adornare il morto corpo di ornamenti poetici sopra un funebre letto». La chiesa della tumulazione - «in un'arca lapidea» - era quella di San Pietro Maggiore. Usciti dalla chiesa, quanto avevano partecipato al rito tornarono alla casa in cui Dante aveva abitato. Guido vi tenne «uno ornato e lungo sermone»."
In quella casa erano conservati gli ultimi 13 canti del Paradiso; li troverà il figlio Jacopo, dopo un sogno nel quale il padre gli era apparso indicandogli il luogo nel quale aveva nascosto la parte conclusiva del suo lavoro. Intanto la figlia Antonia entrava in convento (o forse vi era già) assumendo il nome di Beatrice.
Fonte: http://www.raniero.it/home/kndfoijdfjlouri659704397032597045hieflkhhlirhklr9y0569046905689765hierwhkewrhlkrewihoerwoih549703649
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