Italo Svevo
Italo Svevo
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Italo Svevo
il più grande romanziaere italiano del ‘900
iTALO SVEVO
(1861- 1928)
1.vita
Ettore Schmitz (Italo Svevo è uno pseudonimo letterario) nacque a Trieste, allora territorio dell’impero asburgico, il 19 dicembre 1861, da un’agiata famiglia borghese.
Lo pseudonimo di Italo Svevo indica comunque la sua consapevolezza di appartenere a due tradizioni culturali, quella italiana e quella germanica.
Gli studi del ragazzo furono indirizzati dal padre verso la carriera commerciale, ma contemporaneamente si dedicava alla lettura di scrittori tedeschi, come Goethe, Schiller, Heine, Jean Paul, dimostrando il suo fondamentale interesse letterario.
Nel 1880, in seguito ad un investimento industriale sbagliato, il padre fallì: Svevo conobbe così l'esperienza della declassazione passando, dall’agio borghese ad una condizione di ristrettezza.
Fu costretto a cercare lavoro e si impiegò presso la filiale triestina della Banca di Vienna, presso cui rimase per 19 anni.
Nel 1892 pubblicò a proprie spese il suo primo romanzo, Una vita, con lo pseudonimo di Italo Svevo. Nel 1895 morì la madre, a cui lo scrittore era molto legato. Nel 1896 sposò la cugina Livia Veneziani, molto più giovane di lui e l’anno successivo nacque la figlia Letizia.
I suoceri erano dei ricchi industriali, così Svevo abbandonò l’impiego della banca ed entrò nella ditta dei suoceri, uscendo definitivamente dalle ristrettezze economiche.
Divenne un dirigente industriale e l’insuccesso del suo secondo romanzo, Senilità, uscito nel 1898, lo spinse ad abbandonare l’attività letteraria.
Ma due eventi lo ricondussero dopo tanti anni alla letteratura: l’incontro con James Joyce il celebre scrittore irlandese, che insegnava a Trieste e che diede dei giudizi lusinghieri sui due romanzi pubblicati in precedenza da Svevo, lo spinse a proseguire l’attività letteraria. L’altro evento fondamentale fu l’incontro con la psicanalisi, che avvenne tra il 1908 e il 1910: il cognato aveva sostenuto una terapia a Vienna con Freud, e questo fu il tramite attraverso cui Svevo venne a conoscenza delle teorie psicanalitiche, che erano in consonanza con le sue esigenze profonde.
Nel 1919, pose mano al suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno, che venne pubblicato nel 1923. Come già era avvenuto per i due precedenti romanzi, ancora una volta l’opera passò inosservata. Esasperato per questo silenzio, che riteneva profondamente ingiusto, Svevo mandò il romanzo a Parigi all’amico Joyce, che, riconosciutone immediatamente lo straordinario valore, lo fece conoscere ai letterati francesi. Il romanzo venne tradotto in francese e conquistò una larga fama in Francia e, quindi, in Europa. Solo in Italia rimase attorno a lui un’atmosfera di diffidenza e di disinteresse. L’unica eccezione fu costituita da un giovane poeta, Eugenio Montale, che gli dedico un ampio saggio su una rivista letteraria.
Ma quando la fama europea di Svevo era ormai consacrata e lo scrittore progettava una quarto romanzo, il 13 settembre 1928 morì per le ferite riportate in un incidente stradale.
2. La poetica
In Svevo è caduta ogni funzione sociale e ideologica della letteratura: essa è attività privata, un vizio (almeno rispetto al mondo degli affari). L’autore stesso la praticò in questo modo, senza illusioni e con molti disinganni, fino a pensare seriamente di abbandonare, dopo l’insuccesso del secondo romanzo. I protagonisti dei tre romanzi sono dei letterati falliti: Alfonso scrive un romanzo a quattro mani con Annetta e, alla fine, si suicida (Una vita); Emilio è ancora una volta un letterato annoiato e deluso (Senilità); Zeno Cosini entra in scena con un diario che è definito dal dottore un cumulo di "tante verità e bugie", creando così le premesse di una ambiguità che svuota le stesse possibilità di un racconto reale (La coscienza di Zeno). Perché scrivere allora? La funzione si capovolge: non più estetica o sociale, ma conoscitiva e critica. L’intellettuale, identificato ormai con l’inetto, il diverso, il malato, il nevrotico, ricorre alla letteratura, estraniandosi dall’attività economica e dai modelli sociali, per recuperare la misura della sua esistenza, mediante l’autoanalisi, e dei rapporti sociali. È una conoscenza frammentaria e disorganizzata della realtà, ma lo scrittore, ponendosi sul piano dell’ironia, prende le distanze dal mondo dei "sani" recupera una sua parziale autonomia, può esercitare la tolleranza verso di sé e gli altri.
2. La coscienza di zeno
Il protagonista è Zeno Cosini, benestante borghese triestino, che su consiglio del suo psicanalista, scrive il diario della sua vita ripercorrendone gli episodi salienti e più significativi.
Attraverso essi si disegna la figura centrale per molta letteratura europea del ‘900, di un uomo inetto alla vita, “malato” di una malattia morale la quale spegne ogni impulso all’azione e qualsiasi slancio vitale o ideale: Zeno Cosini si consuma in una statica indifferenza, illuminata da una lucidità intellettiva e introspettiva che si esaurisce per lo più in un’acuta e sterile capacità di auto-analisi, in un’ironia corrosiva che rende impossibile ogni adesione e rapporto diretto con la realtà.
Emblematiche, sono in questo senso, le pagine iniziali, intitolate Il fumo, ricche di una sottile autoironia, in cui il protagonista parla del proprio pigro soggiacere al vizio del tabacco, e dei continui, sterili tentativi di liberarsene: ogni sigaretta dovrebbe essere l’ultima, ma a questa ne segue sempre un’altra, costellando la sua vita di decisioni prese e mai mantenute.
Nel capitolo La morte del padre è l’analisi di un difficile rapporto, fatto spesso di silenzi e malintesi: fino all’ultimo, quello estremo, quando in punto di morte, avendo male interpretato un gesto del figlio, lo colpisce con uno schiaffo; un equivoco che pone un doloroso sigillo alla vicenda, ma che subito si stempera e si addolcisce, allontanandosi nel pacificato torpore della memoria.
Zeno passa poi a narrare la storia del suo matrimonio e di come, innamoratosi di una delle tre sorelle Malfenti, Ada, corteggiata goffamente (e che gli preferisce il più brillante Guido Speier), si trovi, poi, passivamente a sposare quella meno desiderata, Augusta. A quest’ultima egli rimane comunque legato da un tiepido ma sincero affetto, installandosi nella comodità e nella sicurezza regolata della vita familiare. Il che non gli impedisce, essendogli in fondo estraneo ogni travaglio morale (se non come oggetto di disincantata e impersonale analisi), di trovarsi un’amante: un’avventura insignificante con una povera ragazza, Carla Greco, che, come tutto, non riesce a coinvolgerlo profondamente.
La Storia di un’associazione commerciale è la narrazione dei rapporti fra il protagonista e Guido Speier, divenuto suo cognato.
Dopo un periodo di reciproca diffidenza (e d’altronde Zeno sembra geloso di Guido che gli ha sottratto Ada), i due diventano amici pur essendo profondamente diversi per indole e carattere: Guido si rivela infatti persona espansiva, ma debole, fatua e incapace. L’azienda che essi costituiscono va in completa rovina, causa l’inadeguatezza e la disattenzione dell’uno e la neghittosità, l’incertezza del secondo; Guido finge un suicidio per salvare l’onore e ottenere un ulteriore prestito dalla famiglia della moglie: purtroppo sbaglia la dose del sonnifero e, per errore, per caso (e il caso, l’errore hanno gran parte in questo romanzo, dove le cose sembrano accadere al di fuori di ogni decisione e volontà) muore.
Occupandosi dell’azienda, e dei debiti, del defunto cognato, Zeno si avvicina ad Ada, e fra loro sembra nascere qualche sentimento: ma è solo gioco della memoria, che ancora una volta non raggiunge la realtà
Nelle pagine finali, Psico-analisi, il protagonista dichiara di voler abbandonare la terapia psicoanalitica, fonte di nuove malattie dell’animo (nella finzione romanzesca è infatti lo psicanalista che pubblica questo diario, per vendicarsi del suo deluso paziente), incapace di restituire la salute: quella salute che sembra ormai divenuta nel pensiero di Svevo, un bene alienato all’uomo, disperso nella crescente inautenticità e impersonalità dell’esistenza.
Celeberrima è la pagina che chiude il romanzo, anticipatrice di moderni terrori: l’immagine dell’uomo che in possesso di un “esplosivo incomparabile”, lo collocherebbe al centro della terra. “Ci sarà un’esplosione enorme.. e la terra, ritornata alla forma di nebulosa, errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”
fonte: http://www.liceoodierna.it/default,htm/LETTERATURA%20ITALIANA/svevo.doc
autore: Prof. A. Amato
Italo Svevo (1861-1928)
D’annunzio e Svevo sono quasi coetanei, tuttavia si presentano come personaggi completamente differenti: il primo, raffinato cultore dell’estetismo, attua un identità fra arte e vita, ponendo l’arte in una posizione di assoluto privilegio e, di conseguenza, lottando insistentemente contro quella perdita dell’aureola descritta da Baudelaire, al contrario Svevo concepisce l’arte come una sorta di medicina per colui che non riesce ad identificarsi a pieno con la società (l’arte serve all’inetto per riuscire a vivere), e da per scontata la perdita dei privilegi sociali dell’artista; mentre D’annunzio fa della vita un momento pubblico, per Svevo quest’ultima occupa una dimensione del tutto interiore; altra differenza: D’annunzio tende al sublime, mentre Svevo tende piuttosto all’ironico, al lievemente comico… potremmo andare avanti ancora per molto, tuttavia, nonostante le notevoli differenze, entrambi hanno rivestito un ruolo centrale all’interno della letteratura italiana: se D’annunzio è stato uno dei più grandi esponenti del decadentismo internazionale (e sicuramente il più grande in Italia), Svevo è stato lo scrittore italiano più europeo del ‘900, contribuendo largamente alla nascita del romanzo d’avanguardia in Italia. Ma cerchiamo di comprenderlo meglio attraverso dei chiarimenti sulla sua vita e sulla sua poetica.
LA VITA
1861-80
Ettore Schmitz (lo pseudonimo di Italo Svevo verrà assunto a partire dal primo romanzo) nacque a Trieste il 19 dicembre 1861. La sua era una famiglia borghese benestante: il padre apparteneva alla consistente comunità ebraica triestina ed era dedito a proficue attività commerciali. Con la prospettiva di inserirsi nella fiorente economia della città, Ettore venne avviato, insieme ai fratelli Adolfo e Elio, agli studi commerciali presso il collegio di Segnitz, in Baviera. Apprese in questo modo il tedesco, ma si dedicò anche alla lettura della narrativa ottocentesca allora più in voga (Zola, Balzac, Maupassant) e conobbe la filosofia di Schopenhauer. Ultimati gli studi in Baviera, egli fece ritorno a Trieste e si iscrisse all’Istituto “Pasquale Revoltella” con lo scopo di perfezionare le proprie conoscenze nella tecnica aziendale e bancaria: tuttavia i suoi interessi letterari stentavano a conciliarsi con le materie commerciali, alle quali si era dedicato soprattutto per il volere del padre.
1880-85
Nel 1880, dopo il fallimento della ditta paterna, Schmitz ottenne un impiego nella filiale triestina della Banca “Union” di Vienna: cominciava in questo modo un lungo periodo di quasi venti anni, durante i quali egli divise le proprie energie tra la quotidianità di un lavoro ripetitivo, ma condotto con scrupolo ed estrema serietà, e gli approfondimenti letterari, la grande passione per il teatro, le collaborazioni giornalistiche, l’esperienza di un coraggioso esordio narrativo. Sono di questi anni i lunghi pomeriggi trascorsi nella Biblioteca civica alla ricerca di quella lingua italiana che, a causa della sua formazione e della singolare collocazione triestina, egli raggiunse e conquistò soltanto attraverso un progressivo contatto con la tradizione.
1886-95
Nel 1886 conobbe il pittore Umberto Veruda (1868-1904) che più tardi rappresentò nella figura del Balli, in Senilità. Con lo pseudonimo di Italo Svevo usciva intanto il primo romanzo, Una vita, che non suscitò tuttavia molto interesse presso la critica. Per conto del quotidiano “Il Piccolo” iniziò a tenere lo spoglio della stampa estera e, sempre nello stesso periodo, ricoprì la direzione dell’Unione Ginnastica e tenne l’insegnamento di corrispondenza commerciale presso l’Istituto Revoltella.
1896-98
Nel 1896, dopo un breve fidanzamento (scrisse in questo periodo un curioso Diario per la fidanzata), Ettore sposò la cugina Livia Veneziani, di molti anni più giovane di lui. Proseguiva intanto l’interesse per il teatro e la narrativa: nel 1897 Ettore venne infatti assorbito dalla composizione di Senilità, pubblicato dapprima a puntate sull’“Indipendente” e quindi in volume nel 1898.
1898-1928
All’insuccesso del secondo romanzo fece seguito l’abbandono dell’impiego in banca. Ettore decise di dedicarsi alla ricca impresa commerciale del suocero (che possedeva una fabbrica di vernici), precedendo di poco anche la rinuncia all’attività letteraria.
Il lungo periodo compreso tra Senilità e la Coscienza di Zeno (1923) fu da Ettore in gran parte dedicato alla fabbrica, ai numerosi viaggi d’affari (in Francia e, soprattutto, a Londra), all’ambiente familiare (nel 1897 era nata intanto la figlia Letizia), senza tuttavia tralasciare lo studio e la scrittura, sempre più confinata però in una dimensione privata, quasi introspettiva. Questa parentesi venne interrotta nel 1906 dall’amicizia che lo scrittore triestino strinse con il giovane James Joyce, e che precedette di poco un’altra grande scoperta, quella della psicanalisi. Tanto il confronto letterario con lo scrittore irlandese, quanto la conoscenza di Freud esercitarono su Svevo un profondo rinnovamento nella forma e nella struttura del discorso narrativo, e si rivelarono pertanto decisivi in vista della composizione della Coscienza di Zeno. Lo scrittore lavorò a questo romanzo a partire dal 1919, al termine del primo conflitto mondiale, e lo pubblicò nel ‘23 presso l’editore Cappelli di Bologna. Dopo un iniziale disinteresse, il libro ottenne uno strepitoso e inaspettato successo di critica, in particolare in Francia, dove la qualità e i meriti della Coscienza vennero difesi da Joyce (che nel 1922 aveva pubblicato l’Ulysses). Si apriva in questo modo anche in Italia il “caso Svevo” e insieme l’ultima fase della scrittura sveviana, in cui le tematiche del terzo romanzo si incrociano con altre suggestioni, in vista di un ulteriore sviluppo della narrativa e del teatro. La vecchiaia, il senso di una morte incombente, la dimensione del non-finito (molti racconti sono volutamente lasciati incompiuti), la malattia e il desiderio di una rigenerazione dell’organismo si ritrovano nelle opere di questa ultima, purtroppo breve, fase dell’esperienza sveviana: nei racconti Una burla riuscita, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, Corto viaggio sentimentale, Vino generoso, nei testi teatrali Inferiorità, Con la penna d’oro, La rigenerazione, nel progetto del quarto romanzo incompiuto per il quale Svevo aveva realizzato molti frammenti Umbertino, Il mio ozio, Il vecchione, Le confessioni del vegliardo. Questo progetto rimase purtroppo incompiuto a causa della improvvisa morte dello scrittore, avvenuta il 13 settembre 1928, in conseguenza di un incidente automobilistico.
LA POETICA
Il luogo di nascita di Schmitz, a metà tra l’Italia e l’impero asburgico, fa si che egli entri in contatto con diverse culture (il suo stesso pseudonimo indica la sua origine metà italiana, e metà sveva). Sulla formazione culturale di Svevo influiscono infatti varie correnti, a prima vista contraddittorie, che egli sa conciliare con originale organicità: il positivismo e la lezione di Darwin, il pensiero negativo di Schopenauer e Nietzsche, la psicanalisi di Freud, la cultura russa e tedesca, e le letture di J.Joyce. Del positivismo di Darwin egli assume la propensione ad una conoscenza scientifica, piuttosto che metafisica,ma rifiuta la fiducia nel progresso; da Schopenauer desume la capacita di cogliere gli autoinganni e l’aspetto effimero dei desideri umani, ma rifiuta la visione della saggezza da raggiungere attraverso la noluntas; di Nietzsche riprende il tema della pluralità dell’io e la critica alla società borghese, rifiutando i miti dionisiaci; infine in quanto alla psicanalisi di Freud, egli la accetta come strumento di conoscenza, ma la rifiuta come terapia medica. Quest’ultimo rifiuto rivela la difesa dei “malati” da parte di Svevo (tema esplicito nel suo capolavoro “la coscienza di Zeno”). Il malato è colui che non accetta le leggi della società borghese; colui che preferisce non aderire alle leggi sociali, a costo di diventare un disadattato, un inetto, piuttosto che sottostare a quest’alienante società che ci rende vuoti degli impulsi vitali. La terapia renderebbe il malato normale, conforme alla società, ma spegnerebbe definitivamente i suoi desideri ed i suoi impulsi vitali. Svevo preferisce la dimensione dell’inettitudine, piuttosto che l’integrazione alle leggi della società; e questa in fondo è la sua poetica.
I ROMANZI DI ITALO SVEVO
“Una vita”
Il primo romanzo di Svevo venne composto tra la fine del 1887 e gli ultimi mesi del 1889. In vista della pubblicazione, l’autore ebbe contatti con l’importante editore milanese Treves, che rinunciò tuttavia all’iniziativa, forse anche per il titolo proposto (il romanzo doveva chiamarsi Un inetto).
Pubblicato nell’autunno 1892 (ma con la data editoriale del 1893) in mille esemplari a spese dell’autore presso il tipografo-editore triestino Ettore Vram, Svevo adottò allora il titolo di Una vita, inconsapevole del fatto che lo scrittore Guy de Maupassant, nel 1883 in Francia, aveva dato alle stampe un romanzo con lo stesso titolo.
Scarsa fu l’attenzione della critica: dopo due segnalazioni sull’“Indipendente” e sul “Piccolo di Trieste”, Una vita venne recensito da Domenico Oliva sul “Corriere della Sera” dell’11 dicembre 1892, che sottolineò, nonostante il “valore tecnico assai limitato”, come il romanzo rivelasse “una coscienza artistica ed un osservatore dall’occhio limpido”.
Vediamo in breve la trama del romanzo. Alfonso Nitti, un giovane proveniente dalla campagna, si trasferisce in città, dove abita presso la famiglia Lanucci. Lavora come impiegato presso la Banca Maller (è questa una circostanza che Svevo recupera dalle proprie esperienze) ma si sente frustrato da un ambiente che egli avverte come ostile alle sue aspirazioni letterarie. Dotato di una certa cultura ma di scarso successo con le donne, Alfonso viene ammesso a frequentare le riunioni culturali in casa Maller. Vi è introdotto da Annetta, la figlia del proprietario della Banca, la quale decide di ricorrere all’aiuto di Alfonso nella composizione di un romanzo. I due si innamorano, anche grazie alla complicità della governante Francesca, e Alfonso pare di fronte al tanto sospirato successo con un matrimonio vantaggioso e in grado di sollevarlo da una condizione sociale di subalternità e di miseria. Tuttavia, mentre Annetta cerca di convincere il padre ad acconsentire alla loro unione, Alfonso lascia la città con il pretesto di correre in soccorso della madre. Torna allora al paese d’origine e apprende che la madre è malata davvero. Dopo la morte di costei, Alfonso torna in città e apprende che Annetta si è fidanzata con il cugino Macario. In banca Alfonso viene allora relegato a un lavoro di minore importanza; subisce prima con rassegnazione poi con rabbia il proprio destino. Si trova allora “molto vicino allo stato ideale sognato nelle sue letture, stato di rinunzia e di quiete”, che in realtà serve a coprire soltanto la sua umiliazione. Tenta alla fine di affrontare il signor Maller con ricatti e minacce ma ottiene il risultato di essere sfidato a duello da Federico, il fratello di Annetta. Sentendosi ormai odiato da tutti e inabile ad affrontare la sfida, Alfonso rinuncia anche a scrivere un’ultima lettera ad Annetta e decide di uccidersi.
La vicenda di Una vita è in apparenza molto affine ai modelli del Naturalismo francese e di certe esperienze italiane di quegli anni: in primo luogo emerge l’elemento economico-sociale della trama che, al momento della stesura, era al centro degli interessi sveviani.
La storia del protagonista si snoda come indagine precisa e dettagliata dei suoi atti, come tranche de vie: un procedimento, questo, utilizzato frequentemente dal romanzo naturalista. L’indagine sociologica sul personaggio; lo scontro con la classe borghese dominante; il sentimento agonistico della vita, che viene intesa come protesta e scontro di forze (tutti motivi assorbiti dalla lettura di Schopenhauer), sono però elementi che impediscono al romanzo di sviluppare tutte le sue potenzialità e lo trattengono ancora nella scia del Naturalismo.
“Senilità”
Scritto tra il 1896 e il 1898, anno della pubblicazione, ma forse iniziato già verso il 1892, il titolo originario di Senilità doveva essere Il carnevale di Emilio: a ribadire una forte volontà antinaturalistica, Svevo scelse invece quel titolo proprio per indicare uno stato della coscienza e dell’interiorità, piuttosto che un riferimento al singolo personaggio del romanzo. Il romanzo, alla sua apparizione, ebbe scarso successo, ancora meno di Una vita, e ciò fu dovuto al carattere sostanzialmente nuovo e allo sfondo del tutto problematico del romanzo. La critica letteraria italiana rivalutò il romanzo soltanto molto più tardi: ma fino verso gli anni Cinquanta Senilità, forse a causa del giudizio espresso da una voce autorevole come Eugenio Montale, venne ritenuto addirittura superiore alla Coscienza di Zeno.
La vicenda è ancora una volta modellata su consistenti riferimenti autobiografici: il lavoro da impiegato del protagonista, i suoi tentativi letterari, le amicizie artistiche. Ma su tutto spicca, e questo in modo ancora più convincente rispetto a Una vita, il carattere dell’inettitudine del protagonista, la sua incapacità a instaurare con la realtà esterna un rapporto di comprensione e di dialogo.
La senilità è dunque una precoce vecchiaia, una disposizione sentimentale, tutta interiore e simbolica, una incompiutezza della vita, una inettitudine che avviene non più sui binari ribelli e polemici di Una vita, ma su quelli patetici e malinconici di Emilio Brentani. Se Alfonso Nitti, il protagonista del primo romanzo sveviano, trasforma la propria incapacità alla vita in una tensione disperata verso la morte, Emilio cerca l’approdo fallimentare in una ormai definita malattia, in una sensualità eterna e negativa. Nel romanzo Emilio rinuncia a qualsiasi istanza antagonistica, evita lo scontro con l’amore e con il successo, o meglio, da uno scontro con essi esce consapevolmente sconfitto e renitente. Emilio vive una vita grigia e monotona, divisa tra il lavoro impiegatizio e le fallimentari aspirazioni letterarie: di fronte all’inaspettato amore di Angiolina, davanti alla sua esuberante vitalità, egli si dimostrerà impreparato ad assumere con coraggio i rischi di una scelta perentoria e definitiva. La sua senilità consiste proprio in questo assurdo calcolo, nei doveri che lo opprimono e che contrastano con l’autenticità dei propri sentimenti: la contraddizione che ne deriva rende il protagonista incerto e oscillante, spesso meschino, conformista e solitario. “Divenne triste, - scrive Svevo nell’ultima pagina del romanzo - sconsolatamente inerte, ed ebbe l’occhio limpido ed intellettuale”.
“LA COSCIENZA DI ZENO”: UN ROMANZO INEVITABILE
Non è un caso che la Coscienza di Zeno nasca dopo il primo conflitto mondiale, e quindi anche come testimonianza drammatica di una crisi profonda della civiltà europea. La parte finale del romanzo indica con sconcertante chiarezza il dramma personale e cosmico nel quale la cura psicanalitica del protagonista viene contestualizzata: il tono apocalittico della prosa sveviana (si è fatto per questo capitolo anche un riferimento alle Operette morali leopardiane) riassume l’angoscia collettiva, oltre che personale di Zeno, dell’uomo davanti alla tragedia immane della guerra. Con il risultato che la malattia, l’elemento patologico che fino ad allora era stato il terreno d’indagine del solo Zeno, ora diventa lo specchio di un male universale inestinguibile.
Il romanzo, a differenza dei due precedenti, nacque nella prima stesura in tempi piuttosto veloci, da un momento di “forte e travolgente ispirazione” e coinvolgimento, come Svevo scrive nel Profilo autobiografico. Nell’entusiasmo seguito alla liberazione di Trieste, Svevo aveva avviato una collaborazione giornalistica con “La Nazione” di Giulio Cesari: fu questa la spinta a riavviare una pratica letteraria sopita ma non esaurita. La “macchina aveva avuto l’olio. Nel diciannove la sua collaborazione fortemente diminuì”: il romanzo divenne pertanto inevitabile. Iniziato nel 1919 e portato a termine in poche settimane, già nel 1920 Svevo sta lavorando a una revisione e correzione del testo, operazione che si protrae fino al 1922. Nell’aprile del ‘23 l’editore Cappelli pubblica il romanzo, ma anche questa volta, salvo tre lusinghiere recensioni di Silvio Benco sul “Piccolo della Sera”, di Donatello D’Orazio sul “Popolo di Trieste” e di Ferdinando Pasini sulla “Libertà” di Trento, Svevo sembra destinato a un nuovo insuccesso.
“Come riassumere La coscienza di Zeno?” si chiede Montale sull’“Esame” del 1925, nell’Omaggio a Italo Svevo. La difficoltà a riassumere la materia del romanzo è, in questo senso, indicativa dalla sua novità strutturale rispetto all’ordine e alla disposizione logica del romanzo naturalista. Concepito come una sorta di autobiografia con l’evidente scopo di produrre uno scopo terapeutico nel suo autore, La coscienza di Zeno racconta la lunga vicenda di Zeno Cosini, un borghese triestino che intraprende una cura psicanalitica per tentare di guarire dalle sue numerosissime nevrosi, dai complessi di colpa accumulati durante la sua adolescenza (il vizio del fumo, il complesso di colpa nei confronti del padre). Da questa narrazione, in cui è dominante l’uso della prima persona (ma non per questo è lecito parlare di monologo interiore, che è una tecnica ben diversa), emergono gli episodi più significativi di una lunghissima vita: i vani tentativi di smettere di fumare, i difficili rapporti con un padre efficiente e puntiglioso, esatto contrario del figlio, le vicende legate a un rocambolesco matrimonio con una delle quattro sorelle Malfenti, i tradimenti con la bella Carla, i disastri economici prodotti insieme al cognato Guido Speier, poi morto suicida. Giunto quasi alla fine della lunga descrizione, Zeno decide di tenersi le proprie nevrosi e malattie e di interrompere insieme alla cura anche quell’esercizio di scrittura che lo psicanalista, un certo “dottor S.”, gli aveva consigliato per “vedersi intero”. Zeno dunque restituisce il suo manoscritto al medico e costui decide di pubblicarlo, per vendicarsi delle “tante verità e bugie” accumulate nel corso della storia. Il romanzo si apre proprio con la Prefazione del medico psicanalista ed è seguito dal Preambolo dello stesso Zeno: quello della doppia introduzione è un fatto certamente insolito e nuovo nella nostra narrativa, quasi che Svevo volesse istituire due piste di lettura, quella dell’autobiografia di Zeno e quella filtrata dal dottor S.
A Montale, dopo avere ricevuto i due articoli che il poeta di Ossi di seppia aveva pubblicato tra la fine del ‘25 e i primi del ‘26, Svevo, a proposito del terzo romanzo, scriveva: “È vero che la Coscienza è tutt’altra cosa dai romanzi precedenti. Ma pensi ch’è un’autobiografia e non la mia. Molto meno di Senilità. Ci misi tre anni a scriverlo nei miei ritagli di tempo. E procedetti così: quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie solo perché la rievocazione di una propria avventura è una ricostruzione che facilmente diventa una costruzione nuova del tutto quando si riesce a porla in un’atmosfera nuova”. È come se Svevo avesse voluto istituire un livello ulteriore di scrittura autobiografica: Zeno scrive la propria vita, che poi non è altro che la registrazione delle nevrosi di Ettore Schmitz, il mondo e la coscienza dell’ebreo Schmitz, tanto per riprendere qui l’interpretazione di Debenedetti. L’immaginario Zeno non dovrà fare altro che recitare la biografia di Ettore, ma sotto la guida e la regia letteraria dello scrittore Svevo: per questo, paradossalmente e nonostante le riserve espresse da Svevo in quella lettera a Montale, la Coscienza è il libro più autobiografico di Svevo.
Le vicende di Zeno vengono quindi narrate in una successione tematica, indicata dagli stessi titoli dei capitoli: Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale, Psico-analisi (scritto in forma di diario). Quello che risulta decisamente nuovo, rispetto all’impianto tradizionale del romanzo verista, è soprattutto la distribuzione della materia e l’organizzazione dei capitoli che non avviene attraverso una consecuzione cronologica e lineare delle varie fasi della vita di Zeno: semmai si può notare una sovrapposizione di temi e di fatti che si intrecciano e si accavallano per mezzo di costanti riprese. Svevo in definitiva scardina la struttura oggettiva e “deterministica” del romanzo borghese dell’Ottocento: quasi senza avvedersene, egli toglie sostanza e originalità a quell’architettura che aveva resistito per oltre un secolo nelle prove di grandi romanzieri del XIX secolo. E quello dei piani e dei tempi narrativi è un aspetto che riguarda non soltanto Svevo ma anche gran parte del romanzo europeo degli anni Venti, da Joyce a Proust, fino a Thomas Mann: il tempo viene privato della sua istanza cronologica, quantitativa, per assumere una prospettiva esistenziale, inconscia, per divenire memoria o flusso di coscienza.
La tecnica narrativa
La narrazione di Zeno avviene a ritroso: guardando cioè da una postazione privilegiata, quella della vecchiaia, tutta la propria vita. Per la Coscienza, ad esempio, una questione interpretativa interessante è quella che riguarda il tessuto temporale della struttura. I riferimenti cronologici sono sparsi nel romanzo con un’apparente casualità: la data più antica è il 1870 quando le sigarette erano vendute a Trieste “in scatoline di cartone munite del marchio dell’aquila bicipite”, quella più recente, cioè vicina al tempo effettivo in cui avviene nella finzione la stesura del diario di Zeno, è compresa tra il 1914 e il 1916, cioè tra l’inizio della terapia psicanalitica, l’aggravarsi della malattia, lo scoppio della guerra, la decisione di abbandonare la cura. Il tempo cronologico, fisico, è dunque polverizzato, disarticolato in un tempo misto, che è poi il tempo della coscienza: le date, gli appuntamenti dell’ultima sigaretta, vengono continuamente negati e sconfessati. I fatti, gli elementi caratterizzanti e fondamentali dell’intreccio tradizionale, non esistono in quanto collocati in una cronologia orizzontale, ma unicamente come reperti della nevrosi, e Zeno occupa il suo tempo, più che a recuperare il passato attraverso una proustiana recherche, a dissipare invece il presente. All’inizio del capitolo Il fumo, Svevo-Zeno scrive: “Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza”. Nel romanzo, tutto è già avvenuto, tutto ha già avuto un tempo per manifestarsi, tutto, potremmo dire, è già passato. Zeno viene allora contestualizzato all’interno di un tempo circolare, spiraliforme, ricco di involuzioni e di intersezioni tra i vari eventi della vita del protagonista: dalla Prefazione del dottor S., che apre il racconto, si torna di nuovo al punto di partenza nelle ultime pagine, quelle del capitolo Psico-analisi, quando Zeno, rifiutando la terapia, restituisce al medico il manoscritto.
“Zeno è evidentemente un fratello di Emilio e di Alfonso”, scrive Svevo nel più volte ricordato Profilo autobiografico. Una parentela stretta per via di quella disposizione alla nevrosi e all’inettitudine che ispirarono a Cremieux il parallelismo tra Zeno e Charlot per via di quella comune disposizione a incespicare sulle cose e sulla vita. Tra le infinite patologie di Zeno, quella del fumo è la più drastica, la più cronica, quella che si carica di elementi umoristici più esuberanti. Ma il fumo è anche il vizio da cui non ci si può né ci si deve liberare, pena la guarigione: sarebbe assurdo per Zeno “morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita”. Il dato patologico, nel romanzo, è accettato, dato come convinzione assoluta (“la malattia, è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione”): anzi, esso rappresenta il primo episodio del racconto di Zeno, il punto di partenza della vicenda, mentre in Senilità era stato semmai il punto di arrivo della crisi di Emilio. Il fumo, e quindi il patologico, è la manifestazione di una crisi del profondo che non può essere risolta, ma soltanto diluita nell’ironia, nell’autoironia: il fumo è una sorta di alibi, dietro il quale Zeno nasconde e traveste tutta la propria incapacità a capire il mondo, e dove si situa dunque la indecifrabilità stessa del mondo e di se stessi. In questo modo la salute sarà l’opposto delle sue nevrosi, sarà cioè un’assoluta certezza, sarà la totale assenza del dubbio, sarà la forza morale che egli non possiede. Sanità e malattia, forza e debolezza, superuomini e inetti, si fronteggiano in questa ipotesi: Svevo propende ovviamente per il secondo elemento delle categorie che abbiamo qui esemplificato, infatti non rinuncia alla sua malattia e per onorare questo momento accende un’ultima sigaretta.
Per riassumere. La Coscienza si può leggere come romanzo autobiografico, e su questo abbiamo già evidenziato alcune riflessioni. Però, se consideriamo nel romanzo la presenza di un’altra voce, quella appunto del dottor S., allora la Coscienza rivela una struttura narrativa diversa che non può essere paragonabile a un’autobiografia, bensì a quella di un romanzo analitico. Romanzo analitico perché in primo luogo Zeno non racconta la sua vita ma la sua malattia; in secondo luogo, perché il tempo del racconto non procede, come in un’autobiografia tradizionale, dall’infanzia alla vecchiaia, ma è costituito, come abbiamo dimostrato, di intersezioni e intrecci di passato e presente; in terzo luogo, perché i due punti di vista, quello del dottore e quello di Zeno, si contrappongono e si fronteggiano come due verità inconciliabili, escludendo di fatto il punto di vista di Svevo, e invitando il lettore a elaborare una propria opinione.
Tematiche
Il romanzo si presenta dunque come una vera e propria terapia psicanalitica. L’anziano Zeno Cosini, in cura dal Dottor S., viene invitato dal medico a raccontare la storia della sua vita, dei traumi che l’hanno accompagnata. Tuttavia il paziente, giunto quasi alla fine della cura, rinuncia a guarire e rinnega la psicanalisi, restituendo il voluminoso manoscritto al dottore. Questi decide allora di darlo alle stampe, ponendovi come commento questa Prefazione.
Molti studiosi hanno letto questo breve testo iniziale della Coscienza come una specie di avamposto del romanzo: la Prefazione del medico, che precede quella dell’io narrante Zeno Cosini, introduce una seconda possibile pista di lettura, un punto di vista “alternativo” rispetto a quello del protagonista. Questa ambivalenza, sapientemente costruita da Svevo, è da intendere come una contestazione della psicanalisi in quanto terapia: Zeno tende cioè a rinnegare e a rifiutare la cura, e lo fa con ogni mezzo (raccontando bugie, leggendo un libro di psicanalisi per facilitare l’esito della cura, interrompendo improvvisamente le sedute con il medico).
Una delle novità della Coscienza è l’uso della tecnica narrativa adoperata da Svevo. Lo scrittore utilizza indifferentemente sia la prima che la terza persona singolare: nel primo caso egli rievoca la storia della sua vita attraverso il filtro della memoria, torna alla sua adolescenza e alla giovinezza, rivive i propri contrasti interiori, scopre l’importanza di certi eventi della sua vita. Non si tratta di un flusso di coscienza o di un monologare interiore (come avviene invece nell’Ulysses di Joyce). Svevo-Zeno, perché tale è la coincidenza tra l’autore e il suo personaggio) dispone il vissuto all’interno del racconto in modo non cronologico; descrive i fatti intrecciando i tempi in cui essi sono avvenuti, a cominciare dall’evento patologico del fumo.
Nella Coscienza l’elemento patologico costituisce un elemento fondamentale per capire a fondo le ragioni della poetica sveviana, e anzi rappresenta lo spunto iniziale al racconto di Zeno. La malattia ha però una sua rappresentazione, che è appunto il vizio del fumo, il morboso e nevrotico attaccamento del protagonista alle sue sigarette, e in modo speciale all’ultima. Zeno infatti promette a se stesso di voler smettere di fumare, e per questo si costruisce una singolare filosofia del fumo: scrive dappertutto le date fatidiche in cui avrebbe fumato l’ultima sigaretta, date memorabili e ricche di riferimenti simbolici, di analogie, di coincidenze. Ma da questa patologia si origina in lui una seconda forma di nevrosi: il desiderio di liberarsi dal fumo. Il risultato è che Zeno continua a fumare all’infinito: smettere avrebbe significato ammettere una qualche forma di capacità, mentre egli non vuole rinunciare né al fumo né alla sua inettitudine. Egli si definisce un “pigro sognatore”: smettere di fumare significherebbe ristabilire un’etica del successo, che egli non vuole accettare anche perché verrebbe meno la sua disposizione all’autoanalisi.
Svevo e la psicanalisi
I rapporti di Svevo con la psicanalisi sono, come abbiamo già accennato, abbastanza contraddittori: da un lato egli riteneva questa scienza un utile mezzo di conoscenza, dall’altro la escludeva totalmente come terapia medica (lo stesso Zeno nel suo capolavoro rifiuta di farsi “guarire” restituendo il famoso manoscritto al dottor S.). Ciò nonostante le costanti letture di Freud hanno sicuramente avuto un’influenza poetica e culturale sull’autore. È vero che nelle lettere a Jahier e in molte altre occasioni Svevo tende a sconfessare la psicanalisi, a distaccarsi da essa per ribadire l’autonomia letteraria dei suoi romanzi, ma è anche vero che la psicanalisi non lo “abbandonò più”, come scrive nel Soggiorno londinese. Se da un lato Svevo ridimensionava gli ottimismi della psicoterapia, dall’altro non faceva che rafforzare l’ipotesi che la psicanalisi poteva offrire alla narrativa un valido presupposto ideologico per scardinare le basi del determinismo letterario del romanzo naturalista e verista. La realtà del profondo, se non poteva essere del tutto chiarita e risolta a livello terapeutico, poteva invece risultare determinante nell’elaborazione di una poetica moderna. La psicanalisi diventa perciò elemento portante del fatto letterario e della narrazione: Zeno ne è l’esempio più evidente, anche se oggi una parte della critica (Orlando, Lavagetto, Saccone) ha fortemente ridimensionato una certa interpretazione della Coscienza come autentico romanzo psicanalitico. Del resto lo stesso Svevo aveva scritto a questo proposito di avere giocato con questa scienza senza troppo andare per il sottile rispettandone i fondamenti scientifici: nel Soggiorno londinese, ricordato sopra, Svevo tendeva a ridurre sulla sua opera l’influenza della psicanalisi. Scrisse infatti che “noi romanzieri usiamo baloccarci con grandi filosofie e non siamo certo atti a chiarirle: le falsifichiamo ma le umanizziamo”: confermando in realtà un uso del tutto sui generis della psicanalisi, Svevo la piegava ai suoi interessi e alla strategia di uno scardinamento della narrativa realista ottocentesca. La psicanalisi diviene pertanto un’architettura filosofica, un metodo di lavoro e di auto-esplorazione, un impianto strutturale del romanzo, il presupposto necessario per creare un’atmosfera di rottura della trama oggettiva e per incrinare le certezze morali, economiche e sociali del personaggio-uomo del romanzo ottocentesco.
Ciò che interessava a Svevo all’altezza della Coscienza di Zeno era soprattutto l’indagine aperta nei meandri nascosti dell’inconscio, la decifrazione degli “atti mancati” (il più importante di tutti è quello che riguarda l’ultima sigaretta), gli scacchi mentali del personaggio: la psicanalisi rappresentava in questo senso una novità ideologica da utilizzare letterariamente, una riprova scientifica, un punto d’appoggio.
Fonte: http://www.studenti.it/download/scuole_medie/Italo%20Svevo.doc
Autore del testo : non indicato nel documento
Italo Svevo
ITALO SVEVO (1861-1928)
- Contemporaneo di Pirandello
- Il suo vero nome era Ettore Switz
- La sua famiglia è piuttosto agiata, di origine ebraica tedesca
- Nasce a Trieste, che fino al 1818 non era città italiana, ma appartenente al all’impero austroungarico
- La sua formazione è piuttosto eterogenea e si basa ad esempio su Schopenhauer, Nietzche, Freud. Grande influenza su di lui ebbe James Joice, inventore di un nuovo linguaggio letterario. La sua formazione si basa anche sui classici : la sua è una formazione europea di ampio respiro.
- Si avvicinò alla letteratura quasi da dilettante
- Dopo la morte del padre si impiegò in una banca triestina (1880)
- 1896 sposa Livia Veneziani, che apparteneva alla borghesia affaristica di Trieste (come Zeno che sposa Augusta)
- Tre furono le opere più importanti:
-
Ottocenteschi per la data e non per la forma
“Una vita” (1892)- “Senilità” (1898)
- “La coscienza di Zeno” (1923)
Tra i primi due e l’ultimo c’è un grande salto, perché si dedica agli affari. “Senilità passo quasi inosservato.
- Morì in un incidente stradale
- Uno dei critici che ebbe il merito di “scoprirlo” fu Eugenio Montale, che in quanto critico letterario scriveva recensioni per i giornali. Anche grazie a Montale, la fama di Svevo dopo la sua morte crebbe: accadde sia per la novità della sua opera, sia forse per la lingua e il modo di scrivere
- Visione pessimistica del mondo e della società piccolo borghese
- In Svevo è largamente presente la figura dell’inetto: nei romanzi dell’ ‘800 è un piccolo impiegato, letterato fallito, con una vita piuttosto grigia. In entrambi i romanzi è una figura negativa, che non sa affrontare la vita, e che poi soccombe
- Anche Zeno è in inetto, incapace di vivere pienamente una vita, imprigionato nelle convenzioni della società borghese. Ma lui non soccombe, è un inetto del ‘900, in cui vi è una massiccia presenza della psicologia. La sua inettitudine non è pienamente condannata, ma quasi considerata una via di fuga
- Grande attenzione a tematiche psicologiche: in un certo senso anticipa Freud
- Svevo non ha fiducia nelle capacità mediche e curative della psicanalisi. Prende le distanze dalla psicanalisi, anche perché un suo parente che era in cura da Freud non guarì e si suicidò
UNA VITA
Si sarebbe dovuto intitolare ”Un inetto”, ambientato a Trieste; il protagonista, Alfonso Nitti, è un giovane impiegato nella banca Maller di Trieste. L’ambiente lavorativo è molto ben descritto. Ricalca la figura del modesto impiegato che proviene da un paesino di campagna del Friuli. Nitti non è soddisfatto dalla sua vita, che è grigia e opaca.
Il suo è un lavoro ripetitivo e dequalificante, in cui non ci sono buoni rapporti con i colleghi. Nitti sogna un possibile riscatto presso la letteratura, pur non avendo i mezzi per mettere in pratica queste sue velleità.
La vicenda ruota intorno all’idillio, il rapporto amoroso fra Nitti e Annetta Maller; comincia a conoscerla perché spera in un miglioramento della sua condizione sociale, e lo fa quasi in modo inconsapevole. Comincia a frequentare casa Maller, anche con la scusa di andare a delle riunioni letterarie.
Mette in atto un autoinganno: si convince di essere innamorato da Annetta, e la corteggia per arrivare a sposarla, anche se dice a se stesso che lo fa per amore.
Francesca arriva dallo stesso paese di Alfonso, ed è amica di Annetta: fa di tutto perché i due si sposino, poiché lei vuole sposare il padre di Annetta. Annetta impediva questo matrimonio, e Francesca sperava che se lei fosse stata impegnata con il suo matrimonio avrebbe distolto l’attenzione dai suoi rapporti con il padre.
La vicenda non finisce bene, perché è Nitti a tirarsi indietro, svelandosi così nel suo personaggio di inetto.
….
Nitti ha intenzione di andarsene per un periodo; il cugino di Annetta, l’avvocato Macario, vorrebbe sposarla, quindi avrebbe via libera, come anche altri pretendenti, se questo avvenisse. Nitti se ne va per due settimane adducendo la scusa della madre malata. Ma quando arriva da lei, scopre che è veramente malata, quindi lui deve stare via da Trieste per un mese.
Annetta gli manda dei telegrammi per sollecitare il suo ritorno, ma quando lui arriva, lei è già fidanzata con Macario.
…
Nitti manda una lettera ad Annetta per poterla vedere e non sa neanche lui dirle cosa. Ma all’incontro va il fratello di lei, e Alfonso finisce con lo sfidarlo a duello, perchè la famigli aveva interpretato la lettera come un tentativo di ricatto.
Nitti alla fine si suicida esalando monossido di carbonio da una stufa a carbonio.
…
La sconfitta del protagonista non è dovuta a limiti oggettivi, ma a limiti che ha dentro di se. È un vinto, perché preclude da solo il suo successo. In realtà l’idillio amoroso fra lui e Annetta ha ben poco di amoroso.
Il personaggio dell’inetto è quasi una sorta di rovesciamento dell’eroe romantico, e in particolare il rovesciamento di Jacopo Ortis: la differenza fondamentale è che Ortis fallisce perché si scontra con limiti oggettivi e reali. Invece l’inetto trova dentro di sé i limiti che gli impediscono di realizzare i propri sogni.SENILITÀ
Ambientato a Trieste, il protagonista è Emilio Brentani, un impiegato di 35 anni. In questo caso non viene descritto l’ambiente lavorativo. La vicenda ruota attorno a quattro personaggi.
Anche lui è un inetto, anche perché come Alfonso ha delle velleità letterarie. Ha delle vicende familiari un po’ complesse: vive con la sorella, Amalia, che in qualche modo aveva sostituito la figura della madre. Lei è presentata come una vecchia zitella, brutta e sgraziata.
Stefano Belli è anche lui quasi un inetto, perché è uno scultore, non meno fallito di Emilio. Fa lavori di committenza, non ha grandi ambizioni, ma è soddisfatto di sé. C’è un rapporto di emulazione da parte di Emilio verso Stefano.
Angiolina è una povera popolana molto sfacciata, che si concede ad Emilio per una storia totalmente poco seria: c’è anche un’ambizione di Emilio di educare la fanciulla.
Montale defini questi personaggi il “quadrilatero perfetto”, in cui Angiolina è quasi l’elemento di disturbo, che è un sistema per Emilio di uscire dal grigiore della sua vita. Emilio mette in atto degli autoinganni all’inizio: dice di non aspettarsi nulla, anche se inconsapevolmente la idealizza e decide di esercitare un controllo su si lei.
La ragazza lo capisce e si vuole sottrarre dal suo controllo. In Emilio si vede il confluire di alcune idee del socialismo (che in parte influenzarono Svevo), per quanta riguarda l’educazione che un intellettuale tenta di dare al popolo.
Emilio vede in Angiolina quella che può essere una figura materna (complesso edipico di Freud).
Amalia comincia a provare una passione per Stefano e comincia a struggersi per questo amore impossibile. Emilio intuisce e cerca di intervenire per proteggerla, forse anche per un sentimento di gelosia; non parla con la sorella e chiede a Stefano di non frequentare più la loro casa. Amalia se ne rende conto e pensa che lui abbia raccontato a Stefano qualsiasi cosa; lei prende molto male questa situazione e comincia ad assumere dell’etere. Si ammalerà gravemente e dopo una triste agonia morrà accudita si da Emilio, ma soprattutto da Stefano.
Emilio, nonostante tutto, continua a pensare ad Angiolina , quindi oltre ad essere inetto, dimostra di essere egoista; le due cose che lo angosciavano maggiormente erano, il fatto di essere terrorizzato che Amalia morisse abbandonandolo, e il fatto che Angiolina avesse cercato di sedurre.
Emilio era andato per chiarire con Angiolina, ma i due si sono lasciati definitivamente, permettendo a lui di tornare in tempo per vedere morire Amalia.
Il quadrilatero si rompe, perché Amalia muore e Angiolina è costretta ad andarsene per uno scandalo, e i rapporti fra Emilio e Stefano si rompono.LA COSCIENZA DI ZENO
- È un romanzo molto rivoluzionario, il cui narratore è in prima persona
- Svevo scardina la struttura del romanzo, poiché non vi è alcuna struttura cronologica o ad anello, ma solo il flusso ininterrotto dei pensieri e della coscienza del protagonista
- C’è molto di autobiografico nella figura di Zeno
- Il cognome del protagonista, Cosini, sta come ad indicare un individuo di scarsa qualità
- Zeno, piuttosto anziano, si rivolge al dottor S., il quale lo prende in cura e gli propone di fare una cosa poco ortodossa, e cioè descrivere il decorso della sua malattia. Zeno non guarisce, e invia le sue memorie al dottore, che pubblicandole si sta vendicando del fatto che ha abbandonato al cura
- Svevo non ha grande fiducia nella psicanalisi, se non nella linea teorica: crede alle malattie, ma non al fatto che possano essere guarite
- Il romanzo è una sorta di autoanalisi del protagonista
- Lui è un nevrotico, e in quanto tale cancella le cose negative, e dunque scrive aggiustando la realtà. Pertanto il narratore non sta dicendo la verità, evita di dire alcune cose, e mente su altre
- Non si sa come si conclude tutta la vicenda, e non si sa nemmeno se guarisca o meno dalla sua malattia
- Svevo dissemina nel romanzo indizi che smascherano le bugie di Zeno, spesso con dei lapsus: un esempio è quando si parla della società messa in piedi da Guido Speier, a cui Zeno collabora facendo il contabile, come dice lui, senza essere coinvolto nei suoi affari. Molto dopo Zeno si lascia scappare il fatto che in realtà era stato preso in affitto un deposito a Trieste per i commerci dell’associazione, facendo capire che era ben inserito nella società. Non si sa nemmeno se veramente non abbia potuto far niente per evitare la morte di Guido o abbia lasciato che avvenisse per vendicarsi di lui
- Zeno è l’inetto per eccellenza, ma molto diverso da quelli ottocenteschi, deboli, che venivano sopraffatti dalla lotta ed erano personaggi totalmente negativi. Zeno è un inetto perché è incapace di vivere la propria vita, non riesce nemmeno a smettere di fumare, e decide di sposarsi più che altro per aderire ai dettami della società borghese. Vede quasi un’attrazione fatale tra la A del nome di Ada e la Z del suo nome. Augusta sarà un po’ la sostituta della madre
- Vive la sua non vita con una novità: l’inettitudine è ribaltata, quasi come mezzo con cui Zeno può sopravvivere nella società vuota e povera di valori. Si nasconde nella sua malattia per nascondersi dalla società
TEMI:
- Zeno mette in atto continuamente inganni, convincendosi di cose non molto realistiche (l’uomo è preda di angosce profonde, esistenziali, non proprie dell’inetto dell’ ‘800
- Critica alla società borghese con i suoi formalismi
- Lui odiava il padre perché lo vedeva come un rivale e ne desiderava la morte. C’è un episodio grottesco in cui il padre, sul letto di morte, gli tira uno schiaffo: Zeno lo attribuisce al fatto che volesse rimproverare per il sentimento verso la madre. Alla fine si autoconvince che il loro rapporto fosse idillico
- La madre è sostituita dalla moglie, una donna apparentemente sana in una società di sani; non si capisce perché volesse sposare Ada
- Zeno non idealizza mai Carla, come fece Emilio con Angiolina: Carla è orfana di padre, in ristrettezze economiche. Lei vuole studiare da cantante e le sovvenzioni che le dà lui sono una sorta di convenzione borghese. Carla si aspetta da Zeno un impegno che lui non può prendere; il triangolo si rompe in modo grottesco, poiché Zeno decide di farle vedere Ada anziché la moglie Augusta, e la vede come una donna distrutta
- La conclusione è una non conclusione, anche perché Zeno vuole sempre una cosa e il suo contrario. Carla poi si fidanzerà con uno che gli darà un matrimonio amorevole
- Guido muore togliendosi la vita senza volerlo. Il funerale di Guido è un altro episodio grottesco: Zeno si sbaglia e inizia a seguire un altro funerale. Gli studiosi dicono che si tratta del tipico lapsus freudiano, per cui Zeno si sarebbe sbagliato quasi volutamente. Dopo la mancata presenza di Zeno al funerale, lui va a casa Malfenti per giustificarsi con la famiglia. Usa una scusa che è molto efficacie, e dice di essere andato a giocare in borsa per risanare un po’ le finanze (anche se in realtà l’aveva fatto due giorni prima). La suocera sembra essere convinta di quello che gli dice lui, e quasi soddisfatta
- Forse il suo più grande autoinganno è quello che lo porta a dire che Guido è il suo migliore amico
- Zeno dice di essere il migliore: questo non accade per sue capacità particolari, ma perché è riuscito ad adattarsi ai valori tutti materiali basati sull’interesse
Fonte: http://firemusic.altervista.org/appunti/lett/12-svevo.doc
Autore del testo : non indicato nel documentoItalo Svevo
L’autore
La famiglia
Ettore Schmitz, vero nome di Italo Svevo, nasce a Trieste il 19 dicembre 1861 da un’agiata famiglia ebrea. Il padre, Francesco Schmitz, di origine ungherese ma “assimilato” ben presto all’ambiente triestino, era cresciuto in una famiglia molto povera, e - come ci dice Elio Schmitz (fratello minore di Ettore) nel suo Diario, una delle fonti più attendibili sulla vita della famiglia Schmitz– “a 13 anni, fu mandato dal padre a guadagnarsi lui stesso del pane. Vendeva chincaglie pei caffè nelle città pelle quali passava. Avanzando però di grado in grado, esso divenne impiegato alle strade ferrate; poi s’impiegò in case di commercio e finalmente divenne proprietario di un magazzino in vetrami all’ingrosso.”
Quinto di otto figli (Paola, Noemi, Natalia, Adolfo, Ettore, Elio, Ortensia e Ottavio), Ettore cresce in una famiglia che ha – ci spiega Luca De Angelis – “tutti i caratteri della grande famiglia patriarcale ebraica, dove monumentale campeggia la figura paterna. Un po’ defilata è la madre, la dolce e docile Allegra Moravia, consunta e stremata da sedici parti” (molti figli non sono sopravvissuti). Come ci rivela Ettore nel Profilo autobiografico (scritto nel 1928, in terza persona), “essendo la madre sua di carattere dolce e null’affatto autoritaria, al padre parve necessario di sollevarla dal peso di dover dirigere tanta figliolanza” e così è proprio il padre – “sempre pronto a qualunque sacrificio tanto di cuore come di denari” - a occuparsi personalmente dell’educazione dei figli sui quali ha idee precise: “i figli non divengono bravi uomini sotto gli occhi dei genitori” .Gli studi
Terminata la scuola elementare israelitica a Trieste, Ettore col fratello Adolfo – più tardi raggiunto da Elio – viene mandato dal padre in un istituto di Segnitz am Main, presso Würtzburg, in Baviera: il genitore “domandava un collegio – ci dice Elio nel Diario – ove s’impara molto, ma non si viene abituati alle mollezze dei gran signori.” Egli, infatti, vuol programmare il futuro dei suoi figli: “Voi dovete studiare molto, diventare bravi giovani per potermi un giorno aiutare nei miei affari e fare una bella figura. Un buon commerciante deve superficialmente almeno conoscere 4 lingue. Il commerciante a Trieste deve conoscerne 2 perfettamente. Onde conseguire ciò, voi studierete in Germania, in un collegio, il tedesco. L’italiano lo potrete apprendere a Trieste.”
Nel collegio di Segnitz, Ettore legge i classici tedeschi (Schiller, Goethe, Heine, Richter, ecc..) e – come ci rivela nel Profilo – “appresa in pochi mesi la lingua tedesca, il giovanetto [Italo Svevo] aiutato da qualche insegnante, assieme a varii compagni e soprattutto uno dei fratelli, Elio […], si dedicò appassionatamente allo studio della letteratura.”
Ma la letteratura – ci rivelerà la moglie di Ettore, Livia Veneziani Svevo, nella Vita di mio marito – “era una cosa lontanissima dalla mentalità del vecchio Schmitz ed Ettore, nonostante la sua ardente vocazione di scrittore, non aveva in sé la forza di opporsi alla volontà del padre, che reggeva con ferma autorità la famiglia, la cui prosperità andava declinando.”
Così, a diciassette anni, nel 1878, Ettore, costretto dal padre a rinunciare agli studi di lingua e letteratura a Firenze, rientra a Trieste e frequenta L’Istituto Superiore per il Commercio “Pasquale Revoltella” per perfezionarsi negli studi tecnico-professionali: “Furono due anni – rivela nel Profilo – di lavoro intenso che intanto servirono a chiarire ad Italo il suo proprio animo e a fargli intendere ch’egli per il commercio non era nato.”Il lavoro in banca
Due anni dopo, nel 1880, la situazione economica di casa Schmitz cambia radicalmente: l’industria vetraria del padre fallisce ed Ettore, costretto ad abbandonare gli studi, trova lavoro presso la filiale triestina della Banca Union di Vienna, in qualità di corrispondente di francese e tedesco. Lo scrittore annota nel Profilo: “La vita d’Italo Svevo alla Banca è descritta accuratamente in una parte del suo primo romanzo Una vita. Quella parte è veramente autobiografica. Ed anche le due ore di ogni giorno passate alla Biblioteca Civica vi sono descritte. Si trattava finalmente di conquistarsi un po’ di cultura italiana.” Ettore legge i classici italiani, gli scrittori francesi, e – come riferisce il fratello - “fa…nulla. Legge, studia sempre, è sempre più fermo nell’idea di studiare e scrivere, e vive sognando comedie e lavori ora drammatici ora romantici, che sulla carta non vengono mai a compimento. Ha ora cambiato alquanto partito in arte. È verista. Zola lo ha riconfermato nell’idea che lo scopo della comedia e l’interesse devono essere i caratteri e non l’azione. Tutto deve essere vero e comune: i punti di scena, dice Zola nel Naturalisme au théatre, non hanno diritto di stare nelle comedie, non esistendo nella vita.”
Il fratello Elio
In questi anni, Italo Svevo oltre a collaborare con l’”Indipendente”, inizia ad annotare le sue riflessioni e a pubblicare i primi lavori di cui però oggi non rimane pressoché nulla. Intanto al fratello Elio, che rappresenta per Ettore un confidente indispensabile e con il quale condivide passioni letterarie e artistiche, viene diagnosticata una nefrite che lo porterà nel 1886, prima di avere compiuto ventitré anni, alla morte. Ettore, parlando di lui, dirà: : “Elio era di un carattere appassionato, molto più del mio; io, in certi lirismi con certe fantasie riesco a sfogarmi, rimango vuoto di pensieri e di sentimenti per ore, per giorni, per settimane; egli ebbe questo da fanciullo a quanto mi rammento; per pacificarsi gli occorreva più tardi scrivere o suonare legarsi a qualche cosa di reale, di più reale almeno a quanto occorre a me a cui basta una strada da camminare. Io, in fondo, lo piansi poco; è più di un mese che non penso che a lui, ma a lui attraverso a poesia, anche a traverso a filosofia (sic). È certo che se io fossi morto egli mi avrebbe pianto di più. Desidererei che questo fosse stato il caso. Dunque come io gettai le mie prime illusioni sulla poesia, egli le gettò sulla musica. Pareva fossimo nati a complemento uno dell’altro. In cinque o sei anni mentre io sognava e lavorava tanto poco da non conoscere ancor oggi la mia madre lingua egli lavorava, lavorava al violino, al pianoforte, al contrappunto.”
Il dramma della malattia e il desiderio di guarigione di Elio – che annotava nel suo Diario: “Essere uomo sano: queste parole mi pare compendino tutta una storia di felicità! Colla salute ritornerebbero la gioia, il lavoro, l’assopita ambizione!” – ritornano imperiosamente in tutta la produzione letteraria del fratello Ettore, ne diventano il motivo fondamentale, il nucleo principale, il problema irrisolto, il leitmotiv di tutta l’opera, così come Zeno Cosini, protagonista della Coscienza dimostrerà. Al capitolo sesto della Coscienza, il protagonista, parlando della moglie, afferma infatti: “Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire.” E lo stesso Svevo all’amico Valerio Jahier malato scrive: “E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio? Io credo sicuramente che il vero successo che mi ha dato la pace è consistito in questa convinzione. Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata (soprattutto a noi italiani […] credevo davvero di parlare di letteratura. Invece da questa Sua ultima risulta proprio un’ansiosa speranza di guarigione. E questa deve esserci; è parte della nostra vita. Ed anche la speranza di ottenerla deve esserci. Solo la meta è oscura.”Una vita
Dopo la morte del fratello, si apre un periodo intenso e decisivo per Ettore. Conosce il pittore Umberto Veruda che rimarrà suo intimo amico fino alla sua morte, nel 1904, e sarà un punto di riferimento per lo scrittore così “piegato dalle sventure (la morte del fratello, la rovina e presto, dopo, la morte del padre)” , quest’ultima avvenuta il 1° aprile del 1892.
È nel 1887 che inizia il suo primo romanzo, provvisoriamente intitolato Un inetto, poi pubblicato nel 1892 col titolo Una vita e con lo pseudonimo di Italo Svevo. Aveva già usato, fin dal 1886, un altro pseudonimo: “Emilio Samigli” e aveva pubblicato sull’“Indipendente” i suoi primi racconti (Una lotta, 1888; L’assassinio di via Belpoggio, 1890). Ora la scelta è definitiva. Il romanzo, stampato a sue spese presso l’editore Vram di Trieste, dopo il rifiuto dell’editore Treves, presenta una forte connotazione autobiografica, visto che nelle drammatiche disavventure del protagonista, non è impossibile intravedere la vita reale dello scrittore. Una vita racconta la tragica storia di Alfonso Nitti, impiegato di banca con velleità letterarie, che cerca tragicamente la propria collocazione in un mondo borghese gretto e fortemente in crisi. Il romanzo, “certamente influenzato dai veristi francesi” - afferma Svevo nel Profilo autobiografico – risente anche dell’influsso del suo filosofo “preferito”, Schopenhauer: “Alfonso, il protagonista del romanzo, doveva essere proprio la personificazione dell’affermazione schopenhaueriana della vita tanto vicina alla sua negazione.” Di fatto, comunque, con il suo primo romanzo entriamo nell’universo tematico di Svevo, un mondo che ritornerà nelle opere successive, come afferma lo stesso scrittore in una lettera del 1927 a Enrico Rocca: “Forse s’accorgerà ch’io non ho scritto che un romanzo solo in tutta la mia vita” . E nel Profilo autobiografico ammette: “Alfonso è evidentemente il fratello carnale dei protagonisti degli altri due romanzi dello Svevo. È abulico come il Brentani e Zeno. Soltanto che qui, oltre alla descrizione di tanta debolezza, c’è evidente il tentativo d’inquadrarla in qualche teoria, in certo modo sublimarla. Enrico Rocca (La Stirpe, anno V, Settembre) scrive: «Le ansie, i patemi e le ossessioni di Alfonso Nitti son motivi troppo familiari allo Svevo perché già qui non s’enuncino con naturalezza e sufficiente trasporto comunicativo. D’altra parte il grigiore della vita burocratica e la miseria finanziaria e morale della famigliola decaduta sono espressi con un rilievo che ci ripaga di molte romantiche slavature»”
A parte qualche recensione, il romanzo fu ignorato dalla critica e – come ci conferma Livia Veneziani Svevo – “L’insuccesso chiuse Ettore nello sconforto. I rimproveri dei pochi critici per la povertà della lingua lo ferivano crudelmente. Avrebbe voluto abbandonare l’impiego mal retribuito, andare a Firenze per rifare la sua educazione linguistica e letteraria, ma l’insuccesso frustrava i suoi sogni, ribadiva la catena e aumentava la sfiducia in se stesso.”Lo pseudonimo
Ma perché Ettore Schmitz, per questa e per le altre sue opere, sceglie lo pseudonimo di Italo Svevo? Nel suo Profilo autobiografico, lo scrittore prova a darci una risposta: “Per comprendere la ragione di uno pseudonimo che sembra voler affratellare la razza italiana e quella germanica, bisogna aver presente la funzione che da quasi due secoli va compiendo Trieste alla Porta Orientale d’Italia: funzione di crogiolo assimilatore degli elementi eterogenei che il commercio e anche la dominazione straniera attirarono nella vecchia città latina. […] Al suo pseudonimo «Italo Svevo» fu indotto non dal suo lontano antenato tedesco, ma dal suo prolungato soggiorno in Germania nell’adolescenza.”
È chiaro che dietro uno pseudonimo si nascondono motivazioni diverse, e anche dietro lo pseudonimo «Italo Svevo» forse ci sono diverse spiegazioni, oltre a quella che lui stesso ha fornito, che per altro è confermata dalla moglie, Livia Veneziani: “Più che l’eredità del sangue, l’aveva indotto a scegliere tale pseudonimo il ricordo dell’impronta culturale ricevuta nell’adolescenza in Germania, ove più forte s’era dimostrato l’influsso schopenhaueriano.”
C’è probabilmente nello scrittore triestino il bisogno di rispondere a una precauzione di ordine sociale, come afferma Enrico Ghidetti, di dissociarsi da quell’Ettore Schmitz che “è ben conosciuto in Trieste come impiegato di banca e insegnante dell’Istituto Revoltella [aveva iniziato come insegnante negli anni ‘80] e di abbondare il precedente pseudonimo per sottolineare la novità e la severità d’impegno che il romanzo comportava rispetto alla prove precedenti.” Insomma, lo scrittore cerca una nuova identità (Svevo) dissimulando la precedente (Schmitz), vuole allontanare da sé l’impiegato di banca, vuol separare l’artista (Svevo) dal borghese (Schmitz). In tal modo, continua Ghidetti, “Il «rifiuto del patronimico» significa qui non soltanto rifiuto dell’immagine autoritaria di Francesco Schmitz , il padre che non ha saputo comprendere ed alla cui volontà Ettore si è sempre dovuto piegare, ma anche il rifiuto della predestinazione implicita nel nome, il desiderio di una emancipazione ricercata ad un livello più alto di quello della vita quotidiana sul quale si muovono tutti gli Schmitz di questo mondo: il piano della letteratura, elevandosi al quale l’individuo può tentare di dare senso e ordine al disordine dell’esistenza.”
In realtà il dissidio Svevo-Schmitz, la dicotomia fra chi scrive e chi vive, fra l’artista e il borghese, fra l’astratto sognatore e il concreto impiegato, accompagnerà per tutta la vita Italo Svevo, che nella vita come nelle opere cercherà sempre un equilibrio “fra la solida realtà del borghese e l’inquietante chiaroveggenza del suo «doppio», l’uno operoso nella concreta e storica vita di Trieste, l’altro impegnato a raccogliere e collezionare i frammenti e le schegge della vita del primo per leggervi riflesse, come nei frantumi di uno specchio, le immagini di crisi di un’epoca, di una classe, di una condizione umana. Per questo, come ricordava Montale, la pagina di Italo Svevo più crudele verso se stesso e più ironica verso il mondo era davvero il suo biglietto da visita: Ettore Schmitz, commerciante.”Il matrimonio
Nell’ottobre 1895 muore la madre e nel dicembre dello stesso anno Ettore si fidanza con la cugina, Livia Veneziani, più giovane di lui di tredici anni (era nata nel 1874) e figlia di un industriale di un’azienda di vernici. Di questa relazione appassionata e intensa è testimonianza il Diario per la fidanzata (1896) che Svevo inizia a scrivere il 2 gennaio 1896 e abbandona il 2 settembre dello stesso anno, quando Livia è già sua moglie. Il matrimonio civile fra i due fu celebrato il 30 luglio 1896, quello religioso l’anno successivo, un mese prima che nascesse la loro unica figlia, Letizia.
Senilità
Nel 1898, esce a puntate sull’”Indipendente” il suo secondo romanzo, Senilità, poi ristampato lo stesso anno, sempre a spese dello scrittore, in un unico volume, presso l’editore Vram. “A riassumere il romanzo in poche parole – afferma Montale – diremo che questa è la storia della lenta involuzione di un terzetto di amici quarantenni e ratés: Emilio Brentani, impiegato e autore fallito, la sorella Amalia, zitella sfiorita, e lo scultore Balli, bell’uomo arido e orgoglioso, assai amato dalle donne e piuttosto odiato dagli uomini, il quale esercita il suo amichevole e tacito imperio sui Brentani. A turbare la pace di questi amici sedentari giunge Angiolina Zarri, corrotta sartina bella e falsa ingenua, di cui Emilio s’innamora perdutamente…” .
Nonostante il giudizio lusinghiero di Montale – “Grande sapienza e insieme semplicità di costruzione, unita ad una implacabile scienza del cuore umano, fanno di Senilità un romanzo quasi perfetto” -, l’opera ha scarso successo e nessun giornale ne parla. Amareggiato, Svevo nel Profilo autobiografico annota: “Il romanzo che a lui allora tuttavia piaceva gli era venuto fatto quasi senza fatica e lo pubblicò animato da un’ultima speranza. Scrivere dell’altro era difficile perché allora per poter corrispondere un po’ meglio ai propri impegni lo Svevo occupava tre impieghi: la Banca, poi quello d’insegnante di corrispondenza commerciale all’Istituto Revoltella e infine passava una parte della notte nella redazione di un giornale a «spogliare» i giornali esteri. Derivava la necessità della rinunzia. Il silenzio che aveva accolto l’opera sua era troppo eloquente. Fu un proposito ferreo. Gli fu più facile di tenerlo perché in quel torno di tempo entrò a far parte della direzione di un’industria alla quale era necessario dedicare innumerevoli ore ogni giorno.”L’industriale
Nel 1899, infatti, Svevo lascia la banca ed entra nell’azienda del suocero, la ditta Veneziani, una fabbrica di vernici sottomarine, un lavoro impegnativo che Svevo sente in contrasto con la sua passione di scrittore, come egli stesso confessa nel Profilo autobiografico: “Svevo racconta volentieri che non poteva dedicarsi al piacere di scrivere, perché bastava un solo rigo per renderlo meno adatto al lavoro pratico cui giornalmente doveva attendere.” Nel conflitto Svevo-Schmitz, in questo periodo sembra che il borghese prevalga sullo scrittore. Un episodio singolare, a tal proposito è quello che lo stesso Svevo racconta: una volta, durante un incontro di lavoro, “un uomo d’affari interruppe le trattative serie in cui eravamo impegnati per domandarmi: «È vero che voi siete l’autore di due romanzi?». Arrossii come sa arrossire un autore in quelle circostanze e, visto che l’affare mi premeva, dissi: «No! No! È un mio fratello». Ma quel signore, non so perché, volle conoscere l’autore dei due romanzi e si rivolse a mio fratello. Il quale poi non fu molto lusingato dell’attribuzione ch’evidentemente scemava la sua rispettabilità professionale.” Per lavoro inizia a viaggiare, in Francia (Tolone, Marsiglia), in Inghilterra (Londra, Chatham, Plymouth), in Irlanda e in Istria. Annualmente soggiorna in un sobborgo di Londra. Nelle ore libere si dedica al violino e suona in un quartetto di dilettanti nel salotto di villa Veneziani. Ma non rinuncia, comunque, alla scrittura di racconti, commedie, saggi. Sono di questo periodo la commedia Un marito e alcuni racconti: Lo specifico del dott. Menghi, Marianno, Cimutti, In Serenella.
Joyce e Freud
Dopo l’insuccesso di Senilità, Svevo – scrive nel Profilo autobiografico - vive fra “violino e fabbrica fino allo scoppio della guerra. Però prima gli capitarono, non voluti da lui, due avvenimenti veramente letterari ch’egli accolse senza sospetto non sapendoli tali” . Il primo è l’incontro con James Joyce, che insegna dal 1904 presso la Berlitz School di Trieste. Il quarantacinquenne Svevo vuol perfezionarsi nella lingua inglese e si rivolge per questo al ventitreenne Joyce, “il professore più noto che ci fosse a Trieste” . Immediatamente fra i due è amicizia. Lo scrittore irlandese deve insistere per avere i due romanzi di Svevo (“Una vita gli piacque meno. Invece ebbe subito un grande affetto per Senilità” ), mentre lo scrittore triestino legge le prime opere di Joyce: Ritratto dell’artista da giovane e Gente di Dublino.
L’altro avvenimento importante è “l’incontro con le opere di Freud.” L’occasione è casuale: nel 1911 il cognato Bruno Veneziani, affetto da una forma lieve di paranoia, entra in cura “psicanalitica” proprio dal Dr. Freud, ma dopo due anni di sedute molto costose, viene congedato e dichiarato “inguaribile”. Svevo viene attratto dalla nuova scienza freudiana e, in modo tutt’altro che casuale, legge libri di psicanalisi, si preoccupa di capire “che cosa fosse una perfetta salute” , traduce un’opera di Freud sul sogno per compiacere un suo nipote medico che, ammalato, abita da lui: insomma entra nel mondo complesso della psicanalisi con “interesse vivo e non superficiale” – dice Gabriella Contini – anche se ne darà valutazioni contraddittorie. Di fatto sarà uno dei temi della Coscienza di Zeno e alla psicanalisi Svevo dedica un intero saggio, Soggiorno londinese (1927), nel quale chiarisce così la sua posizione: “Il Dr. Ferrieri mi disse «Parli di quello che vuole, parli di quello che sa». Ora io credo di sapere qualche cosa a questo mondo: su me stesso.
[…] Ma c’è la scienza per aiutare a studiare sé stesso. Precisiamo anche subito: la psicanalisi. Non temete ch’io ve ne parli troppo. Ve ne dico solo per avvertirvi che io con la psicanalisi non c’entro e ve ne darò la prova. Lessi dei libri di Freud nel 1908 se non sbaglio [in realtà solo nel 1911]. Ora si dice che senilità e La coscienza di Zeno le abbia scritte sotto la sua influenza. Per senilità m’è facile di rispondere. Io pubblicai senilità nel 1898 ed allora Freud non esisteva o in quanto esisteva si chiamava Charcot. In quanto alla Coscienza io per lungo tempo credetti di doverla a Freud ma pare mi sia ingannato. Adagio: vi sono due o tre idee nel romanzo che sono addirittura prese di peso dal Freud. L’uomo che per non assistere al funerale di colui che diceva suo amico e ch’era in realtà suo nemico si sbaglia di funerale è Freudiana con un coraggio di cui mi vanto. L’altro che sogna di avvenimenti lontani e nel sogno li altera come avrebbe voluto fossero stati, è Freudiano in modo come saprebbe fare chiunque conosca il Freud. È proprio un paragrafo di cui non mi vanterei se non vi fosse dentro un’altra ideuccia di cui mi compiaccio.
Tuttavia io credetti per qualche tempo di aver fatto opera di psicanalista. Ora debbo dire che quando pubblicai il mio libro di cui – come tutti coloro che pubblicano – m’ero atteso il successo, mi trovai circondato da un silenzio sepolcrale. Oggi, parlandone, so ridere, e avrei saputo riderne anche allora se fossi stato più giovine.
[…] Lessi qualcosa del Freud con fatica e piena antipatia. Non lo si crederebbe ma io amo dagli altri scrittori una lingua pura ed uno stile chiaro e ornato. Secondo me, il Freud, meno nelle sue celebri prelezioni che conobbi appena nel ’16, è un po’ esitante, contorto, preciso con fatica. Però ne ripresi sempre a tratti la lettura continuamente sospesa per vera antipatia. Bisogna anche ricordare che vivevo in Austria, la sede del Freud. Le cure del Freud si moltiplicavano con risultati meravigliosi. A un dato punto io mi trovai nella testa la teoria del Freud circa con la precisione con cui quel biologo di cui parlai conosceva la relatività. Come cura a me non importava. Io ero sano o almeno amavo la mia malattia (se c’è) da preservarmela con intero spirito di autodifesa. Anzi la mia antipatia per lo stile del Freud fu interpretata da un Freudiano cui mi confidai come un colpo di denti datto dall’animale primitivo che c’è anche in me per proteggere la mia malattia.
Ma la psicanalisi non m’abbandonò più.”La Prima Guerra Mondiale
Quando scoppia la guerra, Svevo è dapprima inviato come dirigente della Veneziani in Germania e in Austria, poiché la ditta del suocero è fornitrice della Marina austriaca e potrebbe installare una nuova fabbrica di vernici sottomarine. In seguito, quando la guerra raggiunge l’Italia, Svevo si trova – come lui stesso ricostruisce nel Profilo – “chiuso a Trieste. Quale soggetto austriaco era stato incaricato dal proprietario della fabbrica (e cittadino italiano) di custodire i suoi beni e di continuare l’attività della fabbrica. Ma la fabbrica fu chiusa d’ordine dell’autorità e in quegli anni terribili per tutti, lo Svevo, specialmente dal principio del 1917, godette di una grande tranquillità interrotta da bombe che giornalmente piovevano sul distretto industriale di Trieste.”
In una Trieste bombardata e sconquassata dalla guerra, attraversata da disordini e da tensioni anche fra le diverse etnie, Svevo che è stato persino perseguitato dalla polizia austriaca e ha dovuto subire diversi interrogatori e irruzioni in casa, sembra paradossalmente ritrovare un’inaspettata serenità (“mai in vita mia ebbi tanta pace”) e può dedicarsi alle sue annotazioni quotidiane, ai suoi appunti e alle sue letture (Swift, per esempio), inizia un saggio Sulla teoria della pace di cui però restano solo dei frammenti.
Alla fine della guerra, Ettore Schmitz, da convinto irredentista, partecipa alle “adunanze che prepararono l’accoglienza alle truppe italiane” e collabora a un nuovo “giornale veramente italiano” : “La Nazione”. Scrive di politica e di altro; poi però, nel 1919, la sua collaborazione diminuisce: “s’era messo a scrivere La coscienza di Zeno”La coscienza di Zeno
Il romanzo è scritto nel 1919, pubblicato sempre a sue spese nel 1923, presso l’editore Cappelli. Ancora una volta la critica rimane indifferente ma il sostegno di Joyce e, poi, i giudizi positivi di Montale porteranno a far scoprire la grandezza di Svevo in Francia, in Inghilterra e, solo in un secondo tempo, anche in Italia. Nel 1926, una prestigiosa rivista parigina esce con un numero interamente dedicato a Svevo e nello stesso anno la casa editrice Treves si dichiara disponibile a pubblicare l’intera opera dello scrittore triestino, ormai sessantacinquenne. Nel 1928, Svevo prende parte a un ricevimento del Pen Club di Parigi organizzato in suo onore. Il successo e il riconoscimento, per tanto tempo attesi, arrivano con la vecchiaia e con la consapevolezza di essere uno scrittore. Nella primavera dello stesso anno scrive: “E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi. Oh! l’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata.”
Trieste
La città che fa da sfondo alla Coscienza e alle altre opere di Svevo è Trieste, dove lo scrittore è nato e si è formato culturalmente. Porta d’Oriente in Italia, Trieste è forse, come afferma, Giorgio Luti, “il luogo ideale per il problema sveviano” . Negli anni di Svevo la città asburgica, luogo simbolo per l’impero, è soprattutto una città borghese, autenticamente borghese, come sottolinea Gabriella Contini: “per l’assenza di una classe aristocratica e per la mentalità fondata sul privilegio economico” . Porto franco fin dal 1719, Trieste è città commerciale per eccellenza, la sua è – come dice Enrico Ghidetti – “una storia scandita dalle date delle più significative realizzazioni di un intraprendente e aggressivo capitalismo commerciale e finanziario adeguatosi ai modelli inglese e francese, che utilizza i profitti accumulati con le attività commerciali per sviluppare imprese assicurative, amatoriali, industriali.” L’immagine che ci dà Elio Schmitz nel suo Diario è abbastanza eloquente: “Il commercio mi si presenta come una grandiosa focaccia. Migliaia di persone tentano disperatamente di addentarne qualche pezzetto che altrimenti morrebbero di fame. La focaccia non può dare da mangiare che a centinaia. I più prepotenti però non si accontentano di togliersi la fame su essa, ma se ne portano via anche dei brani dopo essersi diffamati. In tal modo la focaccia non serve a nutrire neppure centinaia di persone, ma soltanto delle decine, e gli altri muoiono di fame.”
Allo sviluppo economico-commerciale segue parallelamente lo sviluppo demografico: “quando Ettore Schmitz compie otto anni Trieste conta 123.000 abitanti che, mentre il giovane impiegato lavora al suo primo romanzo, sono arrivati ad oltre 150.000 (1890) per salire ad oltre 170.000 quando Italo Svevo, smessi gli abiti dell’impiegato, comincia a lavorare nell’industria del suocero (1900), e praticamente raddoppiare, rispetto all’infanzia dello scrittore, alle soglie della grande guerra (1913: 247.000), quando la città tocca il culmine dell’espansione economica.”
Collocata fra mediterraneo e continente, Trieste è stata considerata da sempre come un “crogiolo di razze”, uno spazio in cui si mescolano, convivono e si scontrano etnie, gruppi e religioni diverse: ci sono i tedeschi che mantengono le leve del potere ma non appaiono ben inseriti sul piano sociale; poi ci sono gli italiani, la maggioranza, che fanno fatica a convivere pacificamente con la minoranza slovena; infine gli ebrei, una comunità attratta dalle possibilità economiche e commerciali di Trieste. In realtà, come afferma Maxia, “la città non raggiunse mai una vera omogeneità di cultura e di costumi (quale è presupposta dall’immagine del «crogiolo»), ma restò sempre un luogo di incontri e di scambi, e di duri contrasti, sopiti finché l’intensità e la ricchezza del commercio riescono a creare e mantenere un certo equilibrio fra i vari ceti sociali e le diverse aree etniche e culturali.” Più che “crogiolo”, Trieste è quindi “cassa di risonanza”, ovvero, come afferma Lavagetto, “un sismografo molto sensibile, capace di registrare ognuna delle molteplici vibrazioni culturali e politiche che attraversano l’impero asburgico nei suoi ultimi anni di vita” .
In tal senso, Trieste appare come città periferica, né austriaca, né italiana, sempre caratterizzata da provvisorietà e incertezza, sprovvista – così come denunciano gli artisti del primo Novecento - di un’alta e autonoma tradizione culturale. “Gli intellettuali triestini – dice Gabriella Contini – costruiscono la propria identità per via negativa: denunciano l’assenza di tradizioni, la perifericità, la «nevrosi», la frantumazione etnica, linguistica, politica, sociale della città.” Anche Svevo risente, soprattutto sul piano linguistico, di questa condizione “triestina” e il suo protagonista, Zeno Cosini, dice parlando del medico: “Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione per iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!”.L’incidente automobilistico
Raggiunto il meritato riconoscimento, Svevo comincia il suo quarto romanzo, Il Vecchione, che però non potrà completare a causa di un incidente automobilistico avvenuto l’11 settembre 1928. Così la cronaca dei fatti riportata dai giornali: “Quest’oggi verso le 15 […] filava verso Trieste un’auto nella quale, oltre allo chauffeur, avevano preso posto i signori Ettore Schmitz, fu Francesco, di anni 67, la sua signora Veneziani Livia di anni 54 e un nipotino di 7 anni, Fonda Savio Paolo, di Antonio, tutti residenti a Trieste. La macchina filava ad andatura normale, quando in seguito all’abbondante pioggia caduta in giornata, in un certo punto le ruote slittando privarono l’autista del comando del veicolo, che, sbandatosi, andò a cozzare violentemente contro un albero laterale, il quale fortunatamente impedì il rovesciamento della macchina nel fosso sottostante molto basso.”
I viaggiatori rimangono tutti feriti ma, a seguito di alcune complicazioni polmonari, Svevo muore all’ospedale Motta di Livenza il 13 settembre 1928.
Nel necrologio che il 18 settembre Montale pubblica anonimo su “Il Lavoro” di Genova si legge tra l’altro: “Egli per i suoi rappresentanti, per i suoi clienti, per la Trieste dei traffici e della navigazione, fu per tutta la vitali signor Schmitz, commerciante ben quotato, con una solida posizione, conti correnti aperti in banca, e ottime referenze. Questa era la apparenza, o – diciamo così, - la scorza. Sotto sotto, un altro uomo esisteva in lui; aveva altre preoccupazioni che quelle dei contratti e delle forniture, faceva altre notazioni che quelle dei prezzi dei cambi, nutriva ambizioni ben diverse – e più alte – di quelle del traffico e del lucro. Sotto il commerciante accorto, c’era un analista raffinato del cuore umano, un vivisezionista inesorabile di sentimenti propri e altrui, un osservatore potentissimo della mediocrità della vita, delle piccole cause ridicole che governeranno gli uomini e le loro azioni. Sotto Ettore Schmitz c’era Italo Svevo.”
Di diverso tono, invece, il testo del critico e amico Bobi Bazlen, che rispondendo a un altro articolo di Montale su Svevo, afferma: “ho paura che il tuo articolo si presti troppo ad essere interpretato male, ed a far sorgere la leggenda d’uno Svevo borghese, intelligente, colto, comprensivo, buon critico, psicologo chiaroveggente nella vita ecc. Non aveva che genio: nient’altro. Del resto era stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto. Non aveva che genio ed è questo che mi rende più affascinante il suo ricordo.”Eugenio Montale, Italo Svevo, “L’Italia che scrive”, giugno 1926, in Svevo-Montale, Carteggio, Mondadori, Milano 1976, pp. 89-90
Fonte: http://graficogadda.wikispaces.com/file/view/Svevo+_Biografia.doc
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