Verismo Verga letteratura e arte riassunto
Verismo Verga letteratura e arte riassunto
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Il Verismo
Il Verismo deriva dal Naturalismo francese, ma presenta dei caratteri originali. Questi sono:
IL REGIONALISMO - gli scrittori veristi analizzano e descrivono realtà sociali tipiche di una certa regione italiana e diverse dalle altre.
IL PESSIMISMO - le opere dei veristi esprimono una concezione pessimista della vita e del destino del popolo; l’unità nazionale non ha cambiato le sorti delle classi più povere ed emarginate che sembrano prive di speranza.
L’IMPERSONALITA' - gli autori veristi vogliono rappresentare la realtà in modo oggettivo, senza commentarla, vogliono che nelle loro opere emergano i fatti, così come li vivono e li giudicano i protagonisti.
IL LINGUAGGIO - gli scrittori veristi adottano la lingua nazionale, ma nella struttura delle frasi e nell’uso di termini imitano i dialetti regionali: riproducono così il modo di esprimersi della gente semplice senza far ricorso ai dialetti.
Uno dei maggiori esponenti di questa corrente è: Giovanni Verga.
La vita e le opere
Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840 da una famiglia di proprietari terrieri d’origine nobiliare di tradizioni liberali. La sua formazione culturale fu alquanto modesta: alla letteratura dei classici preferiva i romanzi francesi. I suoi primi romanzi furono: Amore e patria e I Carbonari della montagna; si tratta di romanzi di intonazione storico-romantica. Nel 1869 si trasferì a Firenze, qui si accostò ai circoli letterari e strinse amicizia con il conterraneo Luigi Captano, teorico verista di cui condivise le idee. Nel 1870 pubblicò Storia di una capinera (romanzo epistolare di grande successo). Nel 1872 Verga si trasferì a Milano dove lesse i grandi scrittori francesi, tra cui Zola. Verga era affascinato e allo stesso tempo disgustato dalla mondanità borghese. È nella Prefazione di Eva, (che conTigre reale ed Eros costituiscono il gruppo di romanzi milanesi, dai toni sentimentali e melodrammatici, ispirati ad amori torbidi e tempestosi) che esso esprime lo sdegno contro la società del benessere.
Nel 1874 scrisse Nedda, definita dall’autore stesso “bozzetto siciliano”. La scelta di un soggetto legato al mondo popolare della sua terra, ha indotto alcuni critici a considerare la novella come la prima tappa della conclusione di Verga al Verismo. Nedda anticipa la narrativa verista, ma non è ancora l’espressione piena dei principi della nuova poetica. Infatti, in essa il narratore è distaccato dalla materia narrativa, che commenta con toni patetici le sofferenze della protagonista. Solo nel 1878 il racconto Rosso Malpelo – il primo della serie raccolta in Vita dei campi – inaugura la grande stagione della produzione verista. In una lettera all’amico Salvatore Paola Verdura, Verga scriveva di aver maturato il progetto di raccontare il lato drammatico, o ridicolo, o comico di tutte le fisionomie sociali. Così veniva preannunciato il ciclo intitolato prima La marea, successivamente I vinti. In questi romanzi il Verga intendeva offrire un quadro totale della lotta per la vita, rappresentata a tutti i livelli sociali.
Gli anni dal 1880 al 1893, circa, rappresentarono il decennio della grande creatività, in cui l’autore scrisse i suoi capolavori:
- Vita dei campi (1880), raccolta di novelle;
- I Malavoglia, romanzo che secondo il Verga fu un fiasco totale (1881);
- Il marito di Elena (1882), romanzo che interrompe il percorso verista;
- le Novelle rusticane (1883), ambientate in Sicilia;
- Per le vie (1883), racconti che rappresentano la Milano corrotta e materiale;
- Vagabondaggio (1887), raccolta che anticipa i temi del ciclo dei Vinti;
- Mastro-don Gesualdo (1889);
Dopo aver lavorato per il teatro, Verga ritornò a Catania. All’involuzione politica dello scrittore, che approvò la repressione dei fasci siciliani attuata da Crispi nel 1896 e che si rivelò acceso nazionalista, si accompagnò un periodo di crisi creativa. Non fu concluso, pertanto, il terzo romanzo del ciclo dei Vinti, e La duchessa di Leyra di cui stese solo un capitolo e mezzo. Dopo la scrittura di alcuni racconti e opere teatrali di scarso valore artistico, Verga morì a Catania il 14 Gennaio 1922.
Il pensiero e la poetica
La prima fase della produzione verghiana è caratterizzata da opere che riflettono:
- la formazione di tipo romantico e patriottico dell’autore (Amore e patria);
- l’esigenza di incontrare il gusto “mondano” dei lettori (Storia di una capinera, Eva).
Diversi furono i fattori che spinsero il Verga alla ricerca di una narrativa più oggettiva, e accesero il suo interesse per la classi sociali più umili. Si avvia la “conversione” al Verismo, cioè il passaggio dalla produzione romantico-scapigliata di ambiente cittadino a quella verista legata alle condizioni di vita dei ceti umili siciliani. È la novella Nedda, nella quale è rappresentato per la prima volta il mondo contadino siciliano, a segnare questa svolta. La novella narra le disavventure di una povera e sfortunata contadina siciliana. La conversione di Verga al Verismo andò maturando in quegli anni, sulla scia della poetica naturalista e delle teorie sul romanzo elaborate da Zola.
Le teorie formulate da Verga portarono lo scrittore a rivoluzionare le strategie narrative tradizionali del romanzo. Il canone dell’impersonalità creava problemi all’autore, che per rispettate questo canone escogitò nuove strategie narrative:
- l’eclisse dell’autore. L’intervento dell’autore si azzera e il suo punto di vista si colloca all’interno del racconto, gestito da uno o più personaggi;
- la regressione. Lo scrittore diventa un narratore popolare e regredisce al livello culturale dei personaggi delle sue opere;
- lo straniamento. Evidenzia il divario fra il punto di vista del narratore e della comunità cui appartiene e quella dell’autore (lettore);
- il linguaggio. Ha la funzione di ricostruire i fatti con la massima precisione, spesso si esprime attraverso il lessico, la sintassi, i proverbi popolari;
- il discorso indiretto libero. Riproduce le sgrammaticature del parlato popolare per esporre fatti, pensieri e ricordi direttamente secondo il punto di vista e il modo di sentire i personaggi.
Fonte: http://digilander.libero.it/scuola.digitale/Il%20Verismo.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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VERISMO
Taine (p37): Nella “Filosofia dell’arte” sostiene che condizionamenti dell’arte sono razza, ambiente, momento storico (clima, situazione sociale, ...)Vita spirituale ridotta a leggi naturali e i suoi prodotti sottoposti a stesse regole di natura: resisteranno le opere d’arte che meglio rispondono allo “spirito del tempo” e al gusto del pubblico (→”Olympia” ;o) ). L’estetica di Taine unisce storicismo e positivismo e getta le basi x una sociologia dell’arte (manifestazioni estetiche viste come documenti storici).
Zola (p69): prefazione, testo teorico in cui esprime caratteri di poetica naturalistica: 1)romanzo illustra la legge scientifica (ispirata dal determinismo) dell’ereditarietà: membri di una famiglia condizionati da “un’originaria lesione organica→con certezza matematica c’è relazione ke unisce i destini. 2)questa legge + l’influenza dell’ambiente sociale e del momento storico condiziona lo sviluppo dei caratteri. 3)storia di famiglia = storia di società francese durante 2° impero. Importanza di studio medico e fisiologico: studiare lo sviluppo di patologia nei vari membri e analogia tra malattia di famiglia e quella dell’intera società (sdegno x autoritarismo di Napoleone III). Studia i Rougon-Macquart (famiglia da lui inventata) dal punto di vista 1)fisiologico: originaria lesione organica che a 2°a di ambiente determina sentimenti, desideri, passioni i cui prodotti sono vizi e virtù (i cui concetti attenuati xke è la situazione ke ti porta ad esserlo) 2)storico: individui partono dal popolo e s’irradiano in tutta la società con, alla base dell’azione, desiderio di ascesa sociale. Società influenza ma è anche influenzata. Narratore esterno ≠ Verga.
Verga (p198): prefazione a “Amante di Gramigna” in cui dedicatoria a Farina (scapigliato, quindi contro il Verismo). Qui non ancora concezione completamente veristica ma già caratteri come: 1) linguaggio semplice come quello delle narrazioni popolari: vs 4→ non riferisce qualcosa che gli è stato raccontato ma “regredisce” con parole semplici 2) narratore si attiene al fatto nudo e schietto senza filtri: vs 7→no uso di “lente dello scrittore” (filtro) 3)rappresentazione delle passioni come documento umano: vs 14→seguire le passioni umane con “scrupolo scientifico” 4)narrazione deve cogliere sviluppo logico e necessario delle passioni rivelando il legame oscuro tra cause ed effetti: da vs 16 a 19→non si punta tanto alla catastrofe ma a raccontare le cose secondo uno sviluppo logico, che porterà alla catastrofe; da vs 21 a 25 5) mano dell’autore deve restare invisibile: vs 30→artista fa si ke opera d’arte sembri ke parli da sola (è il massimo dll’artificio.
In Verga il narratore è all’interno dell’ambiente, ma non è 1 personaggio, ma è l’ottica comune (≠ Zola)
Visione del mondo:
-Verga→conservatrice→le cose stanno così ed è giusto ke stiano così
-Zola→progressista
Conversione di Verga: da testi “normali” a Verismo, datata circa nel 1878, infatti nel 1880 scriverà “Vita dei campi” da cui è tratta “Amante di Gramigna”.
Fantasticheria (p217): non ancora verista, ma rimanda a ambiti di successiva scrittura dei Malavoglia: scritta con ottica non regredita, non interna, scrittore identificabile con Verga. Racconto mostra spinta contraddittoria: 1)studiare la materia rusticana scientificamente 2)idealizzare la vicenda, vi ritrova “la religione della famiglia” (“l’ideale dell’ostrica”), una “rassegnazione coraggiosa” e una “caparbietà eroica” e quasi una prospettiva idillica (compenetrazione di verismo e romanticismo).
vs1: si rivolge a donna che ha visitato Sicilia
da vs 3: racconta che lui e lei sono stati alla fine 48 ore ad Aci-Trezza e hanno passeggiato, scalato gli scogli, lei si è fatta venire le bolle sulle dita xke ha remato, hanno pescato, sono stati sui fariglioni
vs 25: lei dice: non capisco come si faccia a vivere qui tutta la vita
da vs 26: ciò ke x gli altri era lavoro, fatica, x lei era divertimento
da vs 33 a 46: descrizione della dura vita di Aci-Trezza (mare non è sempre generoso, spesso ci sono malattie, il cibo scarseggia), ma la gente ripullula sempre nello stesso luogo
da vs 46 a 57: paragone gente di Aci-Trezza con formiche, le quali, colpite da un ombrello che scriveva un nome sulla sabbia del viale molte muoiono, le altre, dopo panico e viavai, tornano sul loro monticello, cosa che lui (Verga) e la dama non farebbero. Ma x comprendere il loro atteggiamento bisogna farsi piccini e guardare con il microscopio. Comprensione di ciò che avviene solo dal punto di vista teolologico, tramite fantasticheria, ciò ke alimenta il romanzo.
da vs 144: continua la descrizione della povertà di Aci-Trezza dove i bambini raccolgono cibo e mozziconi che cadono dalle mani della ricca dama. Quei “pezzentelli” daranno vita ad altri come loro che condurranno la stessa vita nello stesso posto→”ideale dell’ostrica”: rimanere attaccato allo scoglio, non xke troppo bello, ma xke unico elemento vitale x l’ostrica che se si stacca cade in mare e muore. Scoglio è brutto, difficile, ma è l’unico possibile x l’ostrica: se si stacca muore (finirà peggio)→sorte di tutti i Malavoglia.
da vs 171: quasi sintesi dei Malavoglia: “istinto dei piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi x vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi prossimi con lui. E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d’interesse. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che si stacca dallo scoglio.”
Fonte: http://styx.altervista.org/Scuola/Italiano/VERISMO.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
NATURALISMO E VERISMO
LA NARRATIVA REALISTA FRANCESE
La narrativa realista, cioè quella narrativa che analizza il mondo contemporaneo, descrivendolo e analizzandolo in rapporto alle forze sociali, politiche ed economiche, nasce in Francia intorno agli anni ’30 dell’800.
Due sono i romanzi che segnano questa nuova narrativa: Madame Bovary di Gustave Flaubert e I miserabili di Victor Hugo:
- In Madame Bovary, Flaubert racconta una storia d’amore in cui la protagonista, Emma, è una donna illusa e frustrata (= insoddisfatta).
- Nei Miserabili, Victore Hugo, descrive con attenzione i poveri della società francese dei primi anni dell’800.
Caratteristiche del romanzo realista o sociale:
- il narratore in terza persona, che commenta e giudica le azioni dei personaggi.
- Un’attenta descrizione degli ambienti e delle persone.
IL ROMANZO NATURALISTA FRANCESE
Il romanzo naturalista come quello realista, analizza con attenzione la realtà sociale contemporanea, e si ispira alla poetica del Naturalismo, una corrente nata in Francia con l’idea di applicare alla letteratura i metodi di ricerca impiegati nelle scienze naturali.
Il Naturalismo fu anche un movimento ideologico che condusse una battaglia contro il potere della borghesia francese che dominava sia in politica che nell’arte. Il Naturalismo produsse una letteratura popolare, scritta per parlare del popolo ed essere letta dal popolo.
Caratteristiche del romanzo naturalista:
- scompare l’eroe, i personaggi sono persone comuni, spesso inetti (= incapaci)
- si preferisce il personaggio delle “classi inferiori” (il popolo povero)
- descrizione precisa delle persone e degli ambienti
- le vicende sono raccontate secondo il loro susseguirsi cronologico
- il narratore è esterno (= non è un personaggio del racconto)
I principali autori naturalisti francesi sono Emile Zola, che diventa il teorico ufficiale dei naturalisti e Guy de Maupassant.
IL ROMANZO VERISTA ITALIANO
Alla poetica naturalista francese aderirono il critico Francesco de Sanctis e Luigi Capuana dando origina al Verismo.
I principi della poetica verista si trovano nella prefazione ai Malavoglia di Giovanni Verga:
- l’opera letteraria deve costituire un documento “umano”
- l’autore deve scomparire (principio dell’impersonalità dell’autore): lo scrittore vede tutto con gli occhi dei suoi protagonisti
- il linguaggio deve essere schietto e semplice; deve saper riprodurre il modo di parlare dei diversi personaggi
differenze tra il romanzo naturalista francese e il romanzo verista italiano:
- lo scopo del romanzo verista è quello conoscitivo (= voler far conoscere la realtà)
- la visione dei veristi italiani è pessimistica: non è possibile cambiare la realtà
- il romanzo verista tratta il mondo contadino, misero e arretrato, mentre quello francese descrive le città industrializzate
PRINCIPALI AUTORI VERISTI
LUIGI CAPUANA
Scrive romanzi e novelle. Nelle sue prime opere descrive delle situazioni patologiche, di malattia mentale (Giacinta e Profumo); l’opera più riuscita è Il Marchese di Roccaverdina ambientato in Sicilia.
GIOVANNI VERGA
Giovanni VERGA
VITA
Si sa molto poco della vita di Verga, perché era una persona molto riservata e teneva nascosta la sua vita privata. Non si sposò mai e sembra che non volesse proprio sposarsi per non perdere la sua libertà.
Nacque a Catania nel 1840. Il padre era un nobile ed era un ricco proprietario terriero (=aveva molte terre); la madre era una borghese.
Cominciò a scrivere romanzi quando era ancora adolescente. Studiò legge all’università di Catania. Fondò un giornale politico “Roma degli Italiani”. Poi lasciò l’università. Scrisse molti romanzi, che erano tutti romanzi storici.
Verga si trasferì a Firenze e qui conobbe molti poeti e scrittori trai quali Luigi Capuana, teorico del Verismo. Continuò a scriver romanzi, ma non erano più romanzi storici, ma romanzi psicologici. Ebbero molto successo.
Andò a Milano e qui conobbe gli scrittori di una corrente letteraria detta la “Scapigliatura”. Qui cominciò a scrivere delle novelle che raccontano dei contadini e dei poveri della Sicilia. Fra queste novelle, possiamo ricordare “Rosso malpelo”, il primo racconto verista della raccolta Vita dei campi.
Voleva comporre un ciclo di 5 romanzi Il ciclo dei vinti ,che dovevano documentare la società dal più basso al più alto livello. In realtà scrisse solo i primi due libri“I Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo”, lasciando incompiuti quelli che dovevano descrivere il mondo delle classi più elevate.
Morì a Catania nel 1922, all’età di 82 anni.
IDEOLOGIA
- Aveva una visione pessimistica della realtà. Non aveva nessuna fiducia nel miglioramento della società
- L’arte non è in grado di fare qualcosa per cambiare la società e risolvere i problemi. L’unica cosa che lo scrittore può fare è quella di descrivere la realtà senza dare alcun giudizio.
- Gli unici valori in cui Verga crede sono la famiglia, gli affetti domestici e il lavoro.
- È ateo, non crede in Dio
TECNICA NARRATIVA
- L’eclissi dell’autore: secondo Verga lo scrittore non interviene mai nel racconto e non esprime mai pareri personali. A raccontare non è Verga, cioè lo scrittore, ma un personaggio del romanzo, che è un povero come tutti i personaggi del romanzo e quindi è pari a loro (= è al loro stesso livello). Si chiama “NARRATORE POPOLARE”: è lui che commenta la storia e dà il suo parere.
- La regressione: lo scrittore diventa un narratore popolare e regredisce al livello culturale dei suoi personaggi.
- La regressione: lo scrittore diventa un narratore popolare e regredisce al livello culturale dei suoi personaggi.
- Il linguaggio deve adeguarsi al vero; ricorre spesso ai modi di dire, ai proverbi popolari
- Utilizza il discorso indiretto libero, punti interrogativi, esclamativi, punti di sospensione; riproduce il parlato popolare
LA LUPA
È una novella che fa parte della raccolta vita dei campi. Racconta del folle amore di una donna matura molto passionale e inquietante, per il giovane Nanni. Verga riesce a descrivere la donna gnà Pina con molta sensualità. La donna viene chiamata la lupa dalla gente del paese proprio per la sua sensualità. Lei si innamora di un giovane, ma non potendolo avere, costringe la figlia a sposarlo per averlo vicino. Il ragazzo però non riesce a resistere alle lusinghe della suocera e finisce poi per ucciderla.
I MALAVOGLIA
In questo romanzo si parla della vita degli abitanti di un paese della Sicilia, Aci Trezza, e in particolare di una famiglia, i Toscano, detti i Malavoglia.
Questa famiglia possiede una casa “la casa del nespolo” e una barca “la provvidenza” ma la loro esistenza viene sconvolta da alcuni fatti: ‘Ntoni deve partire per il servizio militare, una cattiva annata della pesca, in naufragio della loro barca con tutto il carico di lupini, debiti da pagare e tutta una serie di vicende tipiche dell’Italia del Sud di quel periodo. La famiglia va in fallimento, ma nel paese nessuno li aiuta e a nessuno importa.
Alla fine, solo l’ultimo figlio riuscirà a riscattare la casa e ‘Ntoni, uscito di prigione si allontana per sempre: oramai la famiglia è disgregata.
- LA TEMPESTA IN MARE (pag. 804 da leggere!)
- L’ARRIVO E L’ADDIO DI ‘NTONI (pag 808 da leggere!)
LA ROBA (da NOVELLE RUSTICANE)
La “roba” è simbolo di benessere economico, di una ricchezza che non si misura in denaro, ma in pascoli, terre, fattorie, animali. Mazzarò, il protagonista di questa novella passa tutta la vita ad accumulare roba, ma conduce una vita squallida, ha sempre paura di essere ingannato e derubato. Alla fine quando capisce che sta per morire si rende conto che non può portarsi la robe con sé e solo a quel moment si accorge dell’assurdità della vita che ha vissuto.
MASTRO-DON GESUALDO
È il secondo romanzo del ciclo dei Vinti. Racconta le vicende di Gesualdo Motta, un uomo avido di ricchezze e arrampicatore sociale (= diventare importante nella società).
Il tema di questo romanzo è già presenta nella novella La roba.
La vicenda si svolge in un paese vicino a Catania. Gesualdo Motta è un muratore, accanito lavoratore, che riesce ad accumulare una fortuna. Cerca di inserirsi nell’aristocrazia del paese sposando la nobile Bianca che però non lo ama. Nasce la figlia Isabella, forse da una relazione di Bianca con suo cugino. Isabella cresce odiando il padre e disprezzandolo per le sue umili origini.
Durante i moti del 1848 Gesualdo fugge e con lui la figlia che nel frattempo si è innamorata di un lontano parente povero. Gesualdo costringe la figlia a sposare il Duca di Layra, un nobile ma senza soldi. Alla fine andranno tutti a vivere a Palermo nel palazzo del duca. Gesualdo morirà assistendo allo sperpero che il genero e sua figlia fanno di tutti i suoi beni accumulati durante la sua vita.
fonte: http://www.portaleboselli.it/christophernolan/Archivio%20schede/AZIENDALE/
3.%20BIENNIO%20POST%20QUALIFICA/AREA%20COMUNE/ITALIANO%204L%20val%20conf/NATURALISMO%20E%20VERISMO.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Verismo
A partire dalle esperienze della letteratura “campagnola”, dalla sempre crescente attenzione al mondo popolare, dai molteplici tentativi lirici e narrativi che si svolgono nell'orizzonte della Scapigliatura, la letteratura italiana ha accresciuto a partire dagli anni Cinquanta dell'Ottocento il suo interesse nel ricercare la “realtà”.
Già negli anni Sessanta si comincia ad usare il termine “Verismo” per designare una letteratura che si accosta al “vero” nella sua nuda e semplice evidenza. [G. Ferroni, “Profilo storico della letteratura italiana”, 787]
Firenze e Milano dapprincipio sono i centri in cui si sviluppa il dibattito intorno alla nuova corrente artistica che spazierà anche nella pittura, con i macchiaioli, proprio in Toscana.
A partire dagli anni Settanta si manifesta una crescente attenzione alle realtà locali che rivelano sempre più le difficoltà del loro inserimento nelle prospettive di sviluppo del nuovo Stato unitario.
Da non trascurare, inoltre l'influenza del Naturalismo francese che vede in Balzac e Zola i suoi maggiori esponenti.
Fu Zola stesso a coniare il termine naturalisme per indicare diversi modi di attenzione alle forme della realtà. Balzac, inoltre, affermò che il romanziere deve ispirarsi alla vita contemporanea, mettendo in rilievo l'importanza del fattore economico nei rapporti sociali, con una forte adesione nel linguaggio e nello stile alla realtà sociale rappresentata. Il naturalismo si proponeva, quindi, uno studio il più possibile oggettivo e scientifico della società e della psicologia dell'uomo, abbandonando ogni idealismo e focalizzandosi sui ceti più umili.
Il termine Verismo fu dunque assunto in Italia come formula per definire una nuova narrativa che guardava al naturalismo francese, ma con una sua autonoma specificità. (Ad esempio, a differenza del Naturalismo francese, il Verismo italiano non può prescindere dalle realtà regionali mentre i naturalisti francesi si riferiscono ad un contesto cittadino di proletariato industriale, oppure ad una società rurale alquanto più omogenea di quella italiana).
Il metodo verista viene sviluppato nel modo più coerente e con i più alti risultati da alcuni scrittori siciliani (in particolare dell'area di Catania), particolarmente sensibili alla contraddizione tra la nuova realtà dello Stato unitario e il fondo arcaico della vita in Sicilia. [G. Ferroni, op. cit. 787]
Il verismo incontra la sua massima spinta intorno al 1880 con l'opera di Verga e Capuana per poi iniziare a perdere forza e mutare i propri tratti distintivi verso l'inizio degli anni '90 con l'ultimo romanzo di Verga “Mastro Don Gesualdo”(1889).
Molti scrittori tendono a distaccarsi dai canoni veristi puntando più sulla narrativa psicologica dalle sfumature sentimentali. (Si pensi a “Il Piacere” di D'Annunzio che inaugura un orientamento estetizzante e decadente.)
Negli anni Novanta si hanno, però, ancora grandi prove di scrittura di tipo verista con De Roberto e il suo capolavoro “I Vicerè”.
Capuana, Verga, De Roberto vivono in prima persona l'esperienza della frattura della società siciliana post-unità, una società rimasta troppo a lungo fuori dalle tendenze della cultura italiana.
In essi è viva l'ambizione di portare al centro dell'attenzione nazionale la realtà del mondo siciliano.
Da una parte essi sono spinti ad un allontanamento dalle loro radici alla ricerca di contatti con i più vivi centri della cultura nazionale (Firenze e Milano), ma dall'altra essi non sanno distaccarsi dalla loro terra madre e ne fanno materia centrale della loro narrativa.
Ferventi sostenitori del Risorgimento, essi vivono e descrivono nelle loro opere la delusione per la sconfitta degli ideali risorgimentali.
Tale delusione assume l'aspetto di un pessimismo conservatore che induce gli autori veristi a guardare con sfiducia ad ogni possibile modificazione del sistema sociale, ad accettare con rassegnazione l'immutabilità di rigide gerarchie e la durezza di una vita in una società così chiusa e arcaica, in un mondo contadino rimasto fuori dalla storia.
Nelle opere veriste non vengono proposti modelli di comportamento da imitare; viene negata del tutto la possibilità di immedesimazione nei personaggi e nella materia narrata. Molto presente nella letteratura verista è il “canone dell' impersonalità” che consiste nel far vivere e parlare direttamente i personaggi, rappresentando la loro realtà mentale e sociale senza che l'autore proietti su di loro le proprie idee e i propri sentimenti. [G. Ferroni, op.cit. 788]
Nelle opere del Verga, ad esempio, il narratore è calato nella vicenda per mentalità, linguaggio, cultura, canoni di giudizio, valori etici, consuetudini e si rivolge, apparentemente, ad ascoltatori appartenenti a quella stessa società.
Il narratore non allude mai, esplicitamente, alla propria funzione e, spesso, si esprime imitando i modi caratteristici di questo o di quel personaggio.
Per quanto riguarda la lingua, infine, la narrazione verista è dominata dalla prosa parlata, dall'uso di una sintassi dialettale, dal discorso indiretto libero; è una prosa intessuta di dialoghi, fa uso di dialettismi e ricorre talvolta ai proverbi popolari.
Bibliografia:
G. Ferroni, “Profilo storico della letteratura italiana”, vol. 2, Einaudi
Giovanni Verga
La vita
Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840 da famiglia borghese, ma solo per parte paterna. A Catania compie sia gli studi primari che secondari e a diciassette anni scrive il primo romanzo Amore e patria. A diciotto si iscrive alla facoltà di giurisprudenza (che non terminerà) e ventenne, dopo l’arrivo di Garibaldi, si arruola nella Guardia Nazionale. Il 1865 è una data importante perché Verga per la prima volta si reca a Firenze, (capitale d’Italia e centro della vita politica e intellettuale dal 1864) dove frequenterà i salotti letterari più in vista. Presto però si rende conto che il vero cuore della cultura non è Firenze, ma Milano, dove si trasferisce nel 1872. Inizialmente incontra alcune difficoltà, ma in seguito si ambienta molto bene partecipando ai circoli della scapigliatura democratica, diventando anche amico di Boito. Con Nedda, la stesura di Padron ‘Ntoni e Primavera nel 1876 si procura la massima notorietà, tanto che tra il 1878 e il 1880 si concretizza il Ciclo dei Vinti. Tuttavia, se da una parte Vita dei Campi (1880) viene accolta positivamente sia dal pubblico che dalla critica, dall’altra I malavoglia ( 1881)sono un fiasco : il pubblico contemporaneo non era ancora in grado di comprendere un romanzo così rivoluzionario. Verga non si scoraggia e nel 1882 prosegue con la stesura del Mastro- don Gesualdo, mentre in parallelo scrive Novelle Rusticane seguite da Per le Vie, Drammi intimi e Vagabondaggio. Raggiunge successo anche nell’ambito teatrale: infatti nel 1884 Cavalleria Rusticana viene interpretata a Torino da Eleonora Duse. Verso la fine degli anni ottanta frequenta sempre di meno Milano, preferendovi Roma e successivamente ritorna in Sicilia per occuparsi delle sue proprietà. Nonostante la pubblicazione di due novelle, il Ciclo dei Vinti si ferma definitivamente; nel 1920 Verga è nominato senatore e nel 1922 si spegne nella sua casa a Catania.
Due raccolte: “Novelle Rusticane” e “Per le vie”
Introduzione a“ Novelle Rusticane”
Si tratta di dodici novelle, con l’inclusione di “Pane nero” e “Di là del mare”, non previste nel progetto primitivo. Il libro è pronto verso la fine del 1882, in seguito all’accurata revisione stilistica nel passaggio dalle riviste al volume, soprattutto per quanto riguarda la narrazione che viene abbreviata, insieme all’eccessivo utilizzo di dialettalità. Una seconda revisione, nel 1920, viene condotta rifacendosi alla prima: il dialogo e il discorso diretto subiscono trasformazioni e le descrizioni vengono ritoccate in base alla tecnica del romanzo. Tuttavia ci sono due novelle che nella seconda redazione presentano aspetti singolari: La Roba e Libertà, i cui interventi sono minimi. Le Novelle Rusticane sono caratterizzate da alcuni elementi fondamentali che si ripresentano continuamente in ciascuna di esse:
1- l’analisi della realtà storica e sociale della provincia siciliana nella seconda metà dell’Ottocento, in cui il potere religioso, politico, economico diventano uno strumento di oppressione che si scaglia senza pietà e sensibilità contro l’azione dell’uomo.
2- Da questa analisi deriva di conseguenza il cupo pessimismo e l’opprimente desolazione che percorrono le Rusticane: è la tragedia del vivere, della sopravvivenza, unica possibilità che rimane ancorata al ricordo delle cantilene siciliane, del muggito del mare, che regolarmente va e viene, testimone impassibile di quelle esperienze.
3- Simbolo della sopravvivenza e della sofferente lotta per la vita sono i personaggi, la cui vita sembra però sdoppiarsi in due mondi diversi: da una parte c’è un mondo primitivo, violento, pieno di potere, mentre dall’altra c’è un mondo libero in apparenza, ma drammatico. La maggior parte dei personaggi però, appartiene più frequentemente al primo mondo. Basta pensare a protagonisti come l’avido prete in Reverendo o a Mazzarò ne La Roba: sono entrambi personaggi grettamente economici per i quali la proprietà, la famosa roba, è nello stesso tempo fonte di gioie e dolori; mentre non sempre il travaglio che affligge gli altri personaggi riesce a stigmatizzare la sofferenza.
Da “Novelle rusticane”: “La Roba”
Dal punto di vista strutturale e del contenuto, la novella può essere divisa in tre parti:
il racconto si apre, come se fosse un impianto cinematografico, su un fondale dominante, ovvero la roba di Mazzarò. Il paesaggio è identificabile con il protagonista stesso. Infatti trasmette una sensazione di infinito con un chiaro rimando alle interminabili ricchezze di Mazzarò:
“…una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come se gli pesasse addosso la polvere…le lunghe file degli aratri…tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava…”[G. Verga, Novelle, 176]
La narrazione e la visione di Mazzarò è realizzata secondo tre punti di vista differenti: quello del viandante, del lettighiere e il punto di vista del narratore popolare anonimo. Fisicamente il nostro protagonista non ha nessuna rilevanza, esiste perché possiede la roba, i suoi possedimenti vivono per lui. “ quando uno è fatto così vuol dire che è fatto per la roba” [G. Verga, Novelle, 179].
la seconda parte è caratterizzata da un flash-back sul passato di Mazzarò. A questo punto egli è il personaggio positivo, che dal niente, con sacrificio e fatica, è riuscito ad uscire da una situazione di miseria, infatti
“ tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore e dalla malaria, coll’affaticarsi dal mattino alla sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule…”[G. Verga, Novelle 179].
All’interno del flash- back operano in parallelo due livelli differenti, cioè la continua contrapposizione tra il Mazzarò del passato e quello attuale: ora la gente non lo prende più a calci nel di dietro, ma lo chiamano eccellenza, gli parlano tenendo in mano il berretto (quello di Mazzarò tra l’altro è di seta). Ci sono anche altri due espedienti che mettono rispettivamente in risalto due punti chiave della personalità di Mazzarò. Il primo è la descrizione delle attività intraprese o meglio delle non- attività: egli infatti non beveva, non fumava, non aveva il vizio del gioco, non gli interessavano le donne. Si occupava esclusivamente della sua roba. Rimpiangeva l’aver dovuto spendere dodici tarì per il funerale della madre: questo indica che quella era stata l’unica spesa affrontata in tutta la sua vita, ma anche la sua forte avarizia ( messa in evidenza anche nella parte finale “ e se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva). Il secondo espediente è la sequenza di numerose massime riferite al modo contadino, che sottolineano il punto di vista del protagonista:
“…la roba era fatta per lui, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla” oppure “ chi è minchione se ne stia a casa, la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare”.”[G. Verga, Novelle, 179].
Successivamente si sviluppa il sarcastico contrasto tra il giudizio della comunità (“quanti pensieri quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli”) e quello di Mazzarò (“quante seccature Mazzarò doveva sopportare!”). In realtà Mazzarò ha un atteggiamento disonesto poiché aveva rubato ai baroni tutti i suoi possedimenti, l’uliveto, le vigne, i pascoli, le fattorie, il palazzo stesso.
La terza ed ultima brevissima parte riguarda la sconfitta di Mazzarò “ di una sola cosa gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era.” [G. Verga, Novelle, 181]
Il suo obiettivo fallisce: è vincitore nella vita, ma è vinto nel momento della morte, in quanto non ha niente da portare con sé. Da qui scaturisce la visione dell’eterno paesaggio dei campi verdeggianti contrapposta al logoramento interno del protagonista (è la disperazione finale) e alle prime due parti, che erano invece caratterizzate da attivismo e dall’apparente invincibilità di Mazzarò.
Per quanto riguarda il punto di vista della sintassi, in parallelo con le tre parti sopra analizzate:
nella prima parte la sintassi è composta da frasi lunghe coordinate dalla congiunzione “e” da iterazioni che conferiscono senso di infinito al paesaggio, ma l’uso di avversative come “invece” già anticipa il vero carattere del protagonista.
nella seconda parte, sempre incalzante, aumenta tuttavia l’utilizzo di congiunzioni avversative e dichiarative, quasi a sottolineare la differenza tra il passato e il presente. Le massime sono filtrate attraverso il discorso indiretto libero.
nell’ultima parte la sintassi è completamente diversa: le frasi sono lunghe per indicare il lento logoramento finale, c’è l’allitterazione (“ vigne che verdeggiavano”) per far risaltare il paesaggio, la massima finale è filtrata nuovamente attraverso il discorso indiretto libero.
Da “Novelle rusticane”: “Libertà”
Libertà è la novella con la quale Verga si aggancia profondamente alla realtà storica del risorgimento siciliano, tanto che molto probabilmente egli si è servito, nel racconto dei fatti sanguinosi avvenuti alle falde dell’Etna nell’agosto del 1860, di fonti giornalistiche e di diari dell’epoca. Altra peculiarità, il fatto che le vicende storiche non funzionino solo da sfondo, come accade nelle altre novelle, ma siano calate in veri e propri episodi narrativi.
Possiamo dividere Libertà in due parti nettamente diverse, vale a dire: 1- L’azione iniziale.
2- Le conseguenze che l’azione comporta.
Per quanto riguarda la struttura e il contenuto, la prima parte inizia in media res dopo la sbarco dei mille. Come ne La Roba, il racconto si apre con una sorta di scenario cinematografico che introduce il tema: la libertà rappresentata dal tricolore della bandiera.
Si tratta di un annuncio visivo e uditivo: il fazzoletto tricolore, il luccichio delle scuri e delle falci, il suono delle campane, le grida della folla. Di quest’ultima Verga vuole evidenziare lo sviluppo della pura crudeltà mediante una similitudine con il mondo animale: la folla è come un lupo che mangia più per rabbia che per fame. Successivamente vengono descritte le singole azioni attraverso un crescendo molto incalzante
“ ..il peggio avvenne appena cadde il figliuolo del notaio, un ragazzo di undici anni…travolto dalla folla…il torrente gli passò sopra”[G. Verga, Novelle, 215] e attraverso un lessico che evoca la furia del sangue che chiama altro sangue “ ..avevano le mani rosse di quel sangue.. non era più la fame.. era il sangue innocente.. facce insanguinate..” e ancora
“ prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono” [G. Verga, Novelle 216].
Il crescendo inizia con lo svilupparsi delle singole azioni – paragonate ad un torrente – per poi degenerare nella scena finale dell’uccisione della baronessa e dei suoi figli, dove la folla non è più un torrente, ma bensì un fiume in piena.
La fine della rivolta arriva all’improvviso, in una notte quasi sepolcrale – “ rosicchiare secco di ossa”- dominata dalla luna. I contadini sono come lupi anche perché senza branco non sono in grado di organizzarsi: infatti tutti gli usci erano chiusi, si sentivano solo i cani, non c’era la messa né campane che suonassero. Questa prima parte si chiude lentamente con il fazzoletto che sventola dal campanile, come all’inizio, ma ormai è “floscio nella caldura gialla di luglio” [G. Verga, Novelle 217] e con un’interessante metafora
“ ..come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla s’ammassava tutta in un canto” [G. Verga, Novelle, 217] a significare il destino di morte.
Al centro della seconda parte c’è il momento di riorganizzazione della società, dominata da liti e sospetti: prevale, in contrasto con i precedenti tumulti, una sorta di immobilità, un’incapacità di reagire. Alle camicie rosse dei soldati si sostituisce ben presto il colore nero degli uomini e del cavallo di Nino Bixio; il giudizio di Verga si fa sempre più esplicito. Attraverso una lunga descrizione dei giudici, del processo, dell’istruttoria, emerge l’opinione dell’autore: la rivoluzione, che non è proletaria, ma borghese, non è servita a nulla, il progresso si rivela inutile. Esemplare è lo spazio lasciato ai rapporti tra i galantuomini e i contadini
“ tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima.
I galantuomini non potevano lavorare le terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini.” [G. Verga, Novelle, 219] Ai pochi scampati ai tumulti e alla prigione non resta che dimenticare e sopravvivere ricomponendo gli antichi equilibri.
In questi ultimi paragrafi della novella, c’è un esplicito e chiaro rimando sia alla situazione storica siciliana, sia alla sentenza finale dell’autore. Subito dopo l’Unità d’Italia, la Sicilia sperava di ottenere dei miglioramenti, ma le cose andarono in maniera decisamente diversa: le terre furono spartite solo tra i borghesi e quindi ai contadini rimase poco o nulla. Così Verga indirizza la sua polemica contro quelle terre che venivano affittate ai contadini a prezzi molto alti: l’unica libertà rimanente – come ne La Roba- è la libertà di avere una terra.
Per quanto riguarda la sintassi, come ne La Roba, procede in parallelo con la suddivisione strutturale:
la descrizione dei fatti sanguinosi è rappresentata da una sintassi concitata caratterizzata da sintagmi nominali e dall’anafora, per sottolineare il continuo ripetersi delle azioni. I movimenti improvvisi e violenti sono invece resi attraverso il passato remoto e il discorso indiretto libero (morte della baronessa).
La seconda parte è caratterizzata da un ritmo veloce, ma organizzata mediante polisindeti e lunghe enumerazioni: si tratta di una sintassi allargata che vuole evidenziare il ritorno ad una situazione di stasi e immobilità.
Come si può notare, La Roba e Libertà sono accomunate da molti elementi (elencati nell’introduzione), ma soprattutto condividono la tematica più evidente: quella della terra, unica libertà e speranza di vita, unica attività a cui si dedicano. A fondo di ciò emerge in entrambe le novelle un forte pessimismo. Paradossalmente Mazzarò era riuscito ad appropriarsi di tutte le terre, ma le aveva dovute lasciare in punto di morte; dall’altra parte i contadini lottano, ma alla fine non possono fare altro che cercare di sopravvivere tornando alle loro terre. Come se fosse la terra a vivere per loro.
Per Le Vie: Introduzione
Sono state scritte quasi in contemporanea alle Novelle Rusticane il 1882 e il 1883. Il titolo originale avrebbe dovuto essere diverso, ma alla fine l’autore scelse Per le vie in coerenza con la tematica del proletariato urbano, soprattutto quello di Milano. I protagonisti sono ancora i miseri, gli emarginati impegnati nella lotta per la vita, in un mondo crudelmente dominato dal bisogno e dalle ingiustizie sociale. Tuttavia Verga non ricerca solamente i rapporti del quarto stato cittadino con la borghesia e l’aristocrazia, ma si spinge anche a evidenziare l’idea del vagabondaggio e della vita come una sorta di via crucis. Il livello artistico non raggiunge quello delle grandi novelle ad ambientazione siciliana: lo sguardo dell’autore è più freddo e distaccato.
Da “Per le Vie”: “Camerati”
Dopo Libertà, Camerati prosegue il filone delle novelle “risorgimentali”, si divide in tre tempi:
1- il servizio militare del contadino Malerba: lo sradicamento dal proprio paese e il vagabondaggio in una nuova città; vi è qui un chiaro rimando autobiografico. A Malerba sono contrapposti i compagni, allegri e scherzosi, mentre “ egli fissava, sospettoso, e dimenava il capo” e rimaneva indifferente come un “grullo, come uno che non si aspettava nulla” [G. Verga, Novelle, 261- 262].
2- la seconda parte, quella centrale, è il momento della realtà, della battaglia, della guerra vera e propria: si rimanda al 1866, anno della terza guerra d’Indipendenza contro l’Austria. Questo tragico fatto è calato in senso fiabesco, perché la battaglia è un passaggio rituale nella formazione dell’eroe: Malerba, mediante la prova della guerra, ritrova se stesso e agisce. Egli, a contatto con la natura e l’aria aperta, recupera le sue qualità, la capacità di azione di uomo di campagna; c’è quindi una contrapposizione tra Malerba in caserma e quello in campagna. E ancora una volta ritorna il tema della terra
“ a destra e a sinistra si vedevano dei campi nudi. Poi qualche pezza
di granoturco ancora. Poi delle vigne, poi delle gore d’acqua, infine
gli alberetti nani.” [G. Verga, Novelle, 264]
vista con gli occhi del protagonista: egli è coinvolto sentimentalmente, perché si tratta delle terre da lui coltivate, sono le terre che ama, è la sua terra. Ben diverso è il suo atteggiamento quando il Lucchese, suo compagno, nomina il Re Vittorio: Malerba non mostra particolari emozioni ed espressioni nel vederlo, come non mostra dispiacere quando perde alcuni compagni di battaglia, anzi si dimostra molto realista, freddo, crudo. Quando la battaglia viene ritirata, Malerba non riesce a capacitarsene, ora che aveva ritrovato se stesso. La descrizione della battaglia prosegue in parallelo tra un aspetto letterario da una parte, mentre dall’altra c’è un aspetto che richiama la pittura di quel tempo.
3- nell’ultima parte, Malerba e Turiddu si ritrovano al paese del protagonista. Mentre Turiddu pensa alla vendetta, Malerba invece, abbandonato dalla promessa sposa, si accontenta di una vedova economicamente ben disposta e si mostra indifferente alle rivendicazioni sociali di Gallarini, che lo rimprovera di non sapere nulla di come va il mondo.
Malerba rappresenta la disillusione della realtà contadina, che rimane inesorabilmente legata al proprio mondo, mentre Gallarini, per contrasto, rappresenta chi crede nel socialismo ed è in grado di avere una visione globale della realtà. Il mondo contadino risulta pertanto impenetrabile alle idee nuove: prima Verga aveva polemizzato contro il progresso (in Libertà), ora è in polemica contro il socialismo e l’impermeabilità tra il mondo della città e quello di campagna.
Caratteristiche sintattiche:
Il racconto inizia in medias res. Verga, con una veloce “pennellata”, ci dà la descrizione di Malerba attraverso l’uso di sintagmi nominali e una costruzione sgrammaticale di stampo malavogliano. Nella parte della descrizione della battaglia utilizza frequentemente il discorso indiretto libero e, nell’ultima parte della battaglia, la sintassi diventa semplice, per porre l’accento sul ritorno alla calma e ai ritmi sempre uguali della natura e della campagna.
La critica
Il verismo italiano ha, rispetto a quello francese ed europeo, un minore slancio di vitalità immediata e di forza espansiva. Ciò dipende da un diverso grado di evoluzione sociale, ma soprattutto dal fatto che nell’Italia meridionale c’era una profonda e grave frattura e la coscienza di una “ questione sociale”. Il verista italiano dipinge, con sincera e anche condiscendente pietà, la miseria materiale e morale del popolo, mentre i veristi francesi ed europei ritraevano un mondo dalla volontà positiva di azione e di progresso. In modo particolare, la posizione di Verga non è attiva, bensì riflessiva, desolata, statica, aderente alla stanchezza del popolo contadino. Egli era uno scrittore antiletterario per natura e istinto, con scarsa grammatica e legami con la prosa tradizionale: prima di trovare quello che diventerà il suo stile, egli aveva un’umanità da esprimere. Inizialmente si tenne infatti lontano dall’accademia, poi iniziò a leggere classici (Ongaro, Percoto, Dumas padre) e a scoprire il romanzo francese moderno (Balzac, Flaubert, Maupassant, Zola), venendo così a contatto con una letteratura che non rinunciava ad essere viva e contemporanea. Anzi, Verga inizia ad occuparsi accuratamente del folklore locale, accostandosi alla materia nuova degli umili affetti da un’esistenza sterile e desolante. Vita e arte (come abbiamo visto in “Camerati”) proseguono congiunte, alla ricerca e conquista di una verità poetica e di una serietà morale. Accade quindi che il limite di superiorità etica ed intellettuale, imposto dalle condizioni storiche, resti solamente tra l’autore e i suoi personaggi. È la conquista di una materia schietta e pura, di un mondo poetico retto da leggi ferree e severe, radicate nelle consuetudini della vita di tutti i giorni. È anche un continuo sforzo di impossessarsi della sua natura di provinciale inurbato, di risalire alle origini. Da qui l’uso dei particolari satirici, sarcastici, caricaturali, gli spunti idilliaci e drammatici, i toni polemici, che non creano delle fratture, anzi contribuiscono alla composizione di un’atmosfera corale. La Sicilia di Verga è davvero la Sicilia dell’epoca, la forza delle sue opere deriva dal suo attingere e aderire ad una materia reale, ad esperienze concrete. Verga non aveva trovato, come Manzoni, il sostegno dell’ambiente circostante: affonda in un modello più individuale che sociale, sviluppo quell’atteggiamento più riflessivo che partecipe, più nostalgico e disilluso che attivo. Senza dubbio Verga non poteva inventare un linguaggio che diventasse la parlata di tutti, ma dopo quello di Manzoni, rimane l’apporto più nuovo nella storia della letteratura italiana.
La tradizione francese dal realismo al naturalismo e il verismo italiano: ripresa di temi e di strategie narrative e ulteriori sperimentazioni nell’opera di Giovanni Verga.
Attraverso una serie di citazioni di autori del naturalismo francese e di Verga ho cercato di presentare la complessa operazione di assunzione e rielaborazione degli spunti naturalistici ad opera del verismo verghiano.
Se dalle enunciazioni programmatiche appare chiaro l’intento dell’autore di riallacciarsi al filone realista naturalista francese, è pure importante mettere in luce la peculiarità del verismo rispetto a tale produzione. Questa appare infatti caratterizzata al pari dell’opera di Verga dalla ricerca di una rappresentazione oggettiva e realistica, dall’ assunzione a soggetti delle opere di vicende e figure del popolo e dalla descrizione della società sulla base di parametri di ascendenza positivistica materialistica e deterministica. La società è oggetto di un’analisi cruda, appare dominata dalla logica utilitaristica e dall’egoismo.
Occorre tuttavia operare una prima distinzione: nelle crude descrizioni delle ingiustizie e dei soprusi subiti dai personaggi nei romanzi naturalisti, ad esempio in quelli di Zola, sono rinvenibili toni di denuncia che tradiscono l’inclinazione progressista degli autori e la loro speranza in un rinnovamento.
In Verga invece la descrizione delle condizioni disagiate dei personaggi più poveri, non sottende in alcun modo l’ipotesi che un altro ordine sociale sia realizzabile. Il principio regolatore della vicenda umana sembra sempre essere la lotta per la sopravvivenza e per l’affermazione di sé. Quando qualche personaggio dimentica i limiti insiti nel proprio stato sociale e nel proprio “destino” allora va incontro all’emarginazione, al fallimento, alla rovina più completa. È il ben noto epilogo della vicenda umana narrata da Verga ne “I Malavoglia”.
Verga opera una distinzione tra una società premoderna che ancora mostra il barlume di qualche valore e sentimento umano autentico, anche se comunque permeato da un primitivo spirito di conservazione e di sopravvivenza, e la società evoluta della nascente Rivoluzione Industriale, che opera un profondo sradicamento e una disgregazione irreparabile delle relazioni e dei valori umani. La contraddizione è già percepibile in qualche misura nella novella Fantasticheria, che apre la raccolta “Vita dei campi” e che funge da introduzione a quella che sarà più avanti la poetica de “I Malavoglia”. L’autore presenta da un lato un’umanità autentica tutta volta alla preservazione dei propri archetipi socio-culturali (un esempio sono i monelli e i pescatori di Acitrezza), dall’altra un’umanità accecata dal proprio narcisismo alto-borghese e, conseguentemente portata a rimuovere ogni senso di realtà (a questo riguardo va considerato come il narratore, accanto all’omaggio apparentemente galante, riservi alla gentildonna una critica radicale).
Dall’evidenziazione di tale contrasto etico-sociale deriva d’altra parte la prima grande svolta della poetica verghiana, per cui il vero è prima di tutto una nuova e più profonda coscienza della condizione umana.
Dietro l’evoluzione dell’autore, che ha certamente una sua specificità, vi è tuttavia una serie di richiami culturali certamente noti, ma che non sembra inutile ricordare analiticamente.
Primo fra tutti il realismo francese prenaturalista di un grande scrittore come Balzac. Si veda in particolare la Prefazione a “La comédie humaine”, progetto ambizioso di rappresentare l’umanità in toto, mettendone in luce le acute contraddizioni e le forme di incomunicabilità sviluppatesi in seno ad ambiti sociali e culturali diversi.
Un riferimento più prossimo è quello riscontrabile nel naturalismo dei Fratelli Edmond e Jules de Goncourt, un ottimo esempio è offerto dalla prefazione a Germinie Lacerteux del 1865:
vi si indica la Verità quale tratto fondamentale dell’Arte nel romanzo moderno; inoltre si introducono i ceti popolari in veste di protagonisti della narrazione, costringendo il pubblico borghese, abituato a rappresentazioni mistificanti e consolatorie a confrontarsi con realtà spesso scomode e sgradevoli. Il testo riporta quanto segue:
“Viviamo in un’epoca di suffragio universale, di democrazia, di liberalismo, ci siamo chiesti se le cosiddette classi inferiori non abbiano diritto al Romanzo”
“..oggi che il Romanzo si è imposto gli studi e i compiti della scienza, può rivendicarne la libertà e l’indipendenza. Ricerchi dunque l’Arte e la Verità, mostri miserie tali da imprimersi nella memoria dei benestanti di Parigi..”
La prefazione fatta da Edmond de Goncourt a Les frères Zemganno del 1879 è importante in quanto contiene l’idea, ripresa dal Verga nella prefazione a “I Malavoglia”, che sia più semplice rappresentare realisticamente persone appartenenti ai ceti popolari, più genuine e spontanee, e che invece si incontrino maggiori difficoltà a dipingere l’intima natura umana di personaggi delle classi elevate che hanno più filtri e presentano più sfumature e schermi, e di conseguenza creano problemi allo scrittore.
“A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può esser di artificiale nella civiltà.”
Il progetto più complessivo di una rappresentazione dell’umanità presente da un lato ne La Comédie Humaine di Balzac e dall’altro nel ciclo Rougon-Macquart (vedi in particolare la prefazione di Zola a “La fortuna dei Rougon” del 1871) sono riecheggiati da Verga nella lettera a Salvatore Paola Verdura sul ciclo della “Marea” del 1878.
“ Ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria della lotta per la vita che si estende dal cenciuaiolo al ministro e all’artista e assume tutte le forme dell’ambizione all’avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del gran grottesco umano”
“Ciascun romanzo avrà una fisionomia speciale resa con i mezzi adatti”
Altro debito evidente, sebbene non si tratti di una passiva acquisizione, di Verga nei confronti del naturalismo francese riguarda l’innovazione linguistica.
Nella prefazione all’Assommoir del 1877 Zola scrive:”Il mio crimine è stato di aver colato in uno stampo molto elaborato la lingua del popolo”
In effetti la svolta verista di Verga include anch’essa l’adeguamento del linguaggio ai personaggi e ai loro contesti sociali, che conporta la rottura con la tradizione della voce autoriale esplicita.
Ma rispetto ai modelli francesi accentua la frantumazione della prospettiva e la polifonia di voci .
Nella dedicatoria a Salvatore farina si leggono le seguenti righe, riferite al racconto L’amante di gramigna:
“ Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto, pei viottoli dei campi, press’a poco con le medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare..”
Nella prefazione ai Malavoglia invece Verga scrive: “Perché la riproduzione artistica di questi quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di quest’analisi; esser sinceri per dimostrare la verità; giacchè la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale”.
È importante peraltro evidenziare il carattere processuale e la peculiarità del verismo di Verga, prendiamo in considerazione retrospettivamente Nedda, racconto del 1974, importante per l’ambientazione campagnola e siciliana e che si pone, dal punto di vista tematico e stilistico, ancora nell’ottica della letteratura filantropico-sociale tardoromantica con i suoi toni patetici e situabile se vogliamo sulla scia della letteratura campagnola da George Sand a Caterina Percoto.
In Nedda vi è ancora un narratore onnisciente che si concede commenti di carattere moralistico, il linguaggio adottato non è quello popolare ma è il linguaggio della letteratura e fa ricorso anche a metafore letterarie. Il narratore si riserva il compito di presentare i personaggi, nel passaggio che riporto di seguito la descrizione del personaggio femminile sembra quasi portare alla mente la descrizione di Lucia ne I Promessi Sposi.
“Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione.”
In questo stralcio di testo è possibile riscontrare la presenza della voce autoriale, e la scelta di una descrizione ancora tradizionale delle vicende e dei personaggi, che però in alcuni passi della novella viene sostituita da strategie di racconto più innovative. È il caso dell’esclamazione, non introdotta da alcun segnale di discorso diretto, che apre il seguente passaggio:
“Piove! Era la parola che correva su tutte le bocche, con accento di malumore.”
Un esempio di ulteriore sperimentazione è offerto dall’uso del discorso indiretto libero nel seguente passaggio:
“Ai primi albori il castaldo era venuto a spalancare l’uscio, per svegliare i pigri, giacchè non è giusto defraudare il padrone di un minuto della giornata lunga dieci ore, che egli paga il suo bravo tarì , e qualche volta anche tre carlini (sessantacinque centesimi!) oltre la minestra.”
Inoltre, anche se isolato dal corsivo e quindi trattato con un certo distacco, fa irruzione il parlato siciliano, si pensi soprattutto alla canzone in dialetto che Janu canta a Nedda:
“Picca cci voli voli ca la vaju’ a viju. A la mi’ amanti de l’arma mia!..”
ma anche all’espressione dello stralcio di testo che segue:
“Alla messa le ragazze del villaggio poterono vedere il bel fazzoletto di Nedda, dove c’erano stampate delle rose che si sarebbero mangiate, e su cui il sole, scintillante dalle invetriate della chiesuola, mandava i suoi raggi più allegri.”
Inoltre sono riscontrabili alcune sfumature che torneranno quali cifre distintive di opere schiettamente veriste: inizia con Nedda la trattazione dell’agire umano come motivato esclusivamente dall’utile, la società come luogo di emarginazione per i diversi per i più sfortunati, per i poveri o gli orfani.. In Nedda Verga utilizza già il paesaggio come elemento connotativo finalizzato a evidenziare i caratteri di alcuni personaggi e i loro stati d’animo.
Questo è un nesso presente in molti racconti successivi, ne La Lupa per esempio il personaggio si staglia sulla piana riarsa e assolata e si stabilisce quasi una diretta connessione tra la sete della terra e la sete di amore dell’insaziabile e “fatale” personaggio femminile.
Per quanto riguarda Vita dei campi particolarmente significativo dell’ atteggiamento sperimentale sembra essere il racconto Rosso Malpelo, che appare nel 1878 sul Fanfulla della domenica, poi come opuscolo della Biblioteca dell’artigiano e infine nell’edizione di Treves dell’80 di Vita dei campi.
Il racconto appare particolarmente significativo in quanto non solo la voce autoriale è del tutto assente e celata, ma la voce narrativa in tutto il racconto è quella crudele, meschina, superstiziosa, gretta e piena di pregiudizi della popolazione che si accanisce contro il protagonista. Naturalmente l’intuito ci aiuta a scovare qua e là l’atteggiamento dell’autore, la cui voce però non è mai presente.
Lo stile delle novelle di Vita nei campi tende alla registrazione del parlato attraverso i diversi tipi di discorso indiretto libero, questa operazione sarà portata a un ulteriore grado di maturazione ne I Malavoglia, apparso nel 1881, il cui titolo fu cambiato da Padron ‘Ntoni in I Malavoglia, ovvero il nomignolo dato dalla gente di Aci Trezza alla famiglia di Padron ‘Ntoni.
Già dal titolo è possibile desumere alcuni dei tratti salienti dell’opera che si configura come una narrazione obiettiva, filtrata attraverso la prospettiva degli abitanti del paese, incentrata sulla sperimentazione linguistica e sul tentativo di riprodurre l’inflessione e il ritmo della parlata siciliana pur non facendo ricorso al dialetto (cui Verga in nome dell’unità d’Italia, è contrario) ma servendosi di un italiano nuovo, arricchito dai proverbi siciliani studiati nelle opere di Rapisarda “Raccolta di proverbi siciliani”e Pitrè “Proverbi siciliani raccolti e messi in raffronto con quelli dei dialetti d’Italia”.
Ci sono due lettere importanti in cui Verga parla di alcuni aspetti di quest’opera:
Nella lettera a Capuana del febbraio 1881 l’autore spiega la sua scelta di un rifiuto della messa in scena dei personaggi, e la spiega affermando come a suo avviso sia più veritiera un’annotazione dei gesti e delle azioni dei personaggi, non preceduta da alcuna presentazione preliminare e introduttiva. L’esatto contrario, si poterbbe dire, di quanto fa Manzoni nei Promessi Sposi.
L’autore si dice consapevole di quanto questa sua scelta causi una certa difficoltà almeno iniziale nel lettore, il quale si trova in un primo momento del tutto disorientato di fronte al fluire dell’azione, che coinvolge luoghi e personaggi dati come conosciuti ma di cui il lettore in realtà non sa nulla. In questa lettera Verga parla anche della melanconia soffocante riscontrabile nell’opera, segno della sua concezione estremamente pessimistica e disincantata del mondo moderno e del progresso.
Nella lettera a Cameroni, (critico stabilitosi a milano e facente parte del gruppo per la creazione del romanzo moderno assieme a Verga e Capuana) nel febbraio del 1881 Verga dice di essere consapevole dell’insuccesso cui va incontro ma allo stesso tempo fiero della sua scelta coraggiosa e sperimentale, atta a educare il pubblico alla nuova funzione e alla nuova veste dell’arte.
Luigi Capuana
Tra i veristi siciliani Capuana è quello che raggiunge i risultati meno estremi e radicali. Tra le opere della sua vastissima produzione numerosi sono i lavori di critica letteraria. Attento mediatore della cultura naturalistica europea (scrisse numerosi saggi su Zola e Balzac), egli concentrò la sua attenzione sugli aspetti strani e inquietanti dell'esistenza con attente analisi psicologiche.
[Per ciò che riguarda la vita e la biografia e la produzione letteraria di Capuana, si rimanda al lavoro del gruppo 3]
Interessanti a proposito del Capuana verista sono le sue riflessioni a proposito del rapporto tra arte e scienza:
"L'opera d'arte come organismo vivente - Quando l'artista riesce a darmi il personaggio vivente davvero, non so che dargli altro e lo ringrazio. Mi pare ch'egli mi abbia dato tutto quello che dovea. Pel solo fatto di essere vivente, quel personaggio è bello, è morale: e se opera bene e predica meglio, non nuoce: torno a ringraziar l'artista del più. E al pari del personaggio amo viva l'azione. L'azione allo stesso modo, pel solo fatto di esser vivente è bella, è morale: non bisogna pretendere l'assurdo. Sotto la veste dell'artista, convien rammentarselo, c'è sempre più o meno un pensatore. Se questi fa capolino un po' più dell'altro, tanto meglio; è quel che ci vuole a questi benedetti lumi di luna. Ma se si dovesse scegliere ad ogni patto, o l'uno o l'altro, io non esiterei, trattandosi di teatro, a scegliere l'artista."
Capuana intese l'opera d'arte come forma vivente e sottolineò l'affinità tra l'esperienza dell'artista che dà forma alla vita e quella dello scienziato “positivo”.
I lavori più importanti a proposito: “Studi sulla letteratura contemporanea”(1880-1882) , la raccolta “Gli <ismi> contemporanei” (1898) e gli “Studi” (1882).
Proprio negli “Studi”egli ripone le dichiarazioni veriste più importanti. Scrisse infatti:
“...la scienza ha nell'arte la funzione di metodo, fornisce gli strumenti per l'osservazione oggettiva del fatto umano e cerca di ricostruirlo in totale aderenza al vero...”
“...nell'arte quel che più ci attrae è sempre la vita”
“...il personaggio viene giustificato nella sua esistenza stessa...”
La novellistica
La produzione novellistica di Capuana consta di circa trecento novelle distribuite nelle numerose raccolte da lui pubblicate.
Numerose sono le novelle di tipo fantastico (il racconto inverosimile) o in ambito spiritista [vedi gruppo 3]. Le novelle della prima fase sono spesso dedicate a personaggi femminili, alla vita privata di donne che si muovono sullo sfondo cittadino e borghese.
Capuana, a differenza di Verga, non mira agli effetti drammatici, ma si concentra su casi curiosi e singolari, su figure e situazioni di folclore siciliano.
La raccolta che rispecchia maggiormente lo spirito verista è la raccolta delle “Paesane”.
Verrà analizzata anche la raccolta “Le Appassionate”.
Nel riordinare la propria produzione novellistica lo scrittore si era proposto di raccogliere da una parte le novelle “che rappresentano casi passionali” (Le Appassionate), dall'altra “tutte le novelle di soggetto siciliano, studi di caratteri e di ambienti” [Luigi Capuana, Racconti, 3].
Capuana è uno scrittore verista sui generis in quanto egli non applica mai in senso stretto i canoni del Verismo, nelle sue opere prevale sempre l'aspetto dell'ironia e del grottesco.
Le Paesane
La raccolta “Le Paesane” consta di venti novelle scritte tra il 1882 e il 1892. Gran parte di questi testi erano già comparsi sotto altri titoli in precedenza, come per esempio nelle due edizioni di Homo e in Fumando. Le Paesane ebbero anche diverse edizioni e ricomparvero anche sotto diversi titoli: nel 1915, Dalla terra Natale e Nostra gente ed ebbero un seguito nelle Nuove paesane e nelle Ultime Paesane, pubblicate postume dalla casa editrice Treves, nel 1923.
Capuana riponeva grande aspettative in questa raccolta di novelle ed è per questo motivo che la sua non fu una rielaborazione di testi appartenenti a lavori passati per un mero scopo economico, ma fu una riorganizzazione di novelle che lui vedeva come necessaria per dare ai temi della vita delle province siciliane un’omogeneità che sentiva mancare fino ad allora.
Le Paesane riuniscono vari aspetti della produzione dello scrittore siciliano: egli stesso scrisse dell’esigenza di raccogliere “tutte le novelle di oggetto siciliano, studi di caratteri e d’ambienti”. In questa affermazione è possibile cogliere dapprima il forte legame che lo scrittore sente con la propria terra, culturalmente diversissima dagli ambienti mondani e industrializzati della Milano borghese o da quelli editoriali e letterari di Firenze. Così come fu per Verga, per De Roberto e in parte anche come sarà per Quasimodo, la lontananza dalla Sicilia porta, paradossalmente, ad un attaccamento ancora più forte e quindi alla necessità letteraria di dipingerne le sfumature.
A questo amor di patria si aggiunge l’interesse di Capuana per il naturalismo, l’ammirazione e lo studio di critica che operò sul ciclo zoliano dei Rougon-Macquart, nonostante in Italia il naturalismo fu un movimento quasi esclusivamente letterario, mancante di quel rapporto vitale tra positivismo e naturalismo che vigeva in Francia. La fase culminante che si inquadra in questo movimento letterario è del quadriennio 1879-1882, tra la pubblicazione delle storie scabrose ispirate a fatti realmente accaduti come Giacinta o Storia fosca. Lentamente Capuana si distacca dai precetti naturalisti per approdare su un nuovo metodo, già esplorato dall’amico Giovanni Verga. Come si può leggere sulla “Storia della Letteratura italiana Salerno”: Abbandonati sia la legge dell’ereditarietà e la teoria della degenerazione sia il determinismo scientista che avevano guidato Zola nella ricostruzione della “histoire naturelle et sociale” dei Rougon-Macquart, il “metodo” verista si fonda principalmente sul criterio dell’ “impersonalità”.
Nelle Paesane confluisce dunque l’enorme eredità dello scrittore, sia dal punto di vista dello studio degli ambienti siciliani e dell’epoca in cui esse sono situate, sia dal punto di vista psicologico (e demopsicologico), dello studio e dell’esplorazione delle coscienze, sia dal punto di vista folkloristico che Capuana approfondì accanto allo studioso Lionardo Vigo.
Ma ritorniamo al legame viscerale dello scrittore con Mineo, il suo paese natale. A lungo Capuana si occupò persino dell’amministrazione del paese, diventandone anche sindaco, trascurando probabilmente la propria attività letteraria, come gli rimproverava l’amico Verga. Eppure il vissuto pratico e la conoscenza dei vari strati sociali del paese lo portarono a mettere a fuoco personaggi molto diversi tra di loro ma anche molto rappresentativi della società siciliana di provincia. Le Paesane sono infatti anche un susseguirsi di personaggi “pittoreschi, bizzarri, grotteschi, segnati nel fisico e nella morale, quasi sempre ispirati a modelli reali colti nelle più svariate circostanze della vita per ricavarne bozzetti per lo più arricchiti di tinte umoristiche o patetiche”.
Lo stile delle Paesane è di registro elevato: come dimostrerò nell’analisi della novella Lo sciancato,vi è un buon numero di toscanismi e di espressioni d’alto registro. Questo però non impedisce che vi siano alcuni termini tipicamente dialettali, anche se poco numerosi e che talvolta vi siano accenni di discorso indiretto libero.
Ciò che piacevolmente stupisce nella raccolta delle Paesane è l’ironia che l’autore è capace di sviluppare: non si tratta sempre di un’ironia per così dire “amara”, ma piuttosto di quel lieve sorriso dell’autore che vede dall’esterno e che riesce a far giungere al lettore la sofferenza di una situazione drammatica (come può essere quella della solitudine dello Sciancato), ma ne allevia il peso con un affettuosa caricatura del personaggio. (sempre a proposito dello Sciancato, la sua testardaggine).
Sempre in questa novella Capuana accentua l’aspetto comico del personaggio quando gli fa dire in un dialogo:
“Abronunzio! Libera nos domine!- rispose lo Sciancato, col capo fra le mani e i gomiti sui ginocchi, pensoso”.
Abronunzio è infatti la storpiatura dal latino ecclesiastico abrenuntio, cioè “rinunzio” e l’espressione seguente è desunta dal Pater Noster, “Liberaci o signore….”
Come è evidente molti sono i punti in comune con la novellistica verghiana: il metodo dell’impersonalità, il discorso indiretto libero, l’ambientazione provinciale siciliana, ma in particolare è importante notare come l’epilogo delle storie sia in entrambi gli autori drammatico.
“Lo Sciancato”
Lo Sciancato è la seconda novella della raccolta delle Paesane. È la storia di uno dei personaggi del paese detto Lo sciancato perché a seguito di un incidente da bambino non riacquista più un uso corretto delle gambe. Il suo ruolo all’interno del paese è quello che oggi potrebbe essere chiamato un “pubblicitario”: si occupa infatti di pubblicizzare la mercanzia di uno e poi di un altro commerciante del paese, vista l’enorme estensione vocale di cui può avvalersi. Il personaggio negativo della novella è Don Domenico, ricco proprietario terriero che intende a tutti i costi comprare il terreno sul quale Lo sciancato vive nella sua casa per allargare i propri possedimenti. Grazie ad un complotto organizzato da quest’ultimo insieme ad una donna del paese alle spalle del protagonista e l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, Don Domenico riesce infine ad appropriarsi del terreno dell’ormai nullatenente Neli. Il protagonista muore di dolore assistendo all’abbattimento della sua dimora.
La novella si struttura nel seguente modo:
- Descrizione del personaggio, peculiarità del suo posto in società e del suo lavoro;
- Presentazione della problematica principale della casa, del conflitto con Don Domenico;
- Complotto
- Climax
- Epilogo
Sin dal principio la figura dello Sciancato viene presentata con grande ironia:
“Da bimbo, nel saltare un muricciolo, s’era rotta una gamba, e il dottore gliel’aveva rimessa così male che gli era rimasta quasi due dita più corta dell’altra…”
Lo scrittore alleggerisce dicendo che “Neli non se la prendeva”, ma anzi, si vanta delle proprie capacità vocali e ne fa una vera e propria originalità che da tutti lo distingue. Neli ha un carattere fiero e orgoglioso, sempre preoccupato di rispettare la propria dignità.
“Già, in nome di Dio, bisogna nascer banditore dal ventre della propria mamma!”
“Tu allora dovresti essere un galantuomo” gli diceva qualcuno.
Ed egli rispondeva:
“Io almeno lo so con certezza di chi sono figlio, quantunque figlio di Dio; mentre tant’altri non possono dire chi gli abbia fatto un braccio o una gamba. State zitti!”
Per questa sua origine civile lo Sciancato assumeva una certa aria seria e dignitosa fra quei facchini, macellai, bottegai e uomini di campagna che andavano a sedersi insieme con lui sugli scalini del Collegio e facevano crocchio, ragionando del più e del meno…
E’ questa stessa testardaggine che lo porta ad accanirsi contro Don Domenico: anche i rapporti con l’antagonista di Neli vengono presentati in senso ironico, talvolta comico, viste le strane ripicche che i due si fanno a vicenda:
- Ecco, ora mi sfonda il tetto buttando spazzatura dal finestrino di cucina! Buttati tu, con la panciaccia, se hai coraggio!
Tutte le sere così. I tegoli erano diventati una bozzima;
Nel corso di una descrizione della vita e delle abitudini dello Sciancato, troviamo una lunga riflessione del personaggio, un tirare le somme che lo porta a sentirsi se non felice, quantomeno sereno, solo in quella casa che a lui pare un castello.
Il pensiero di Neli viene presentato in una forma che rasenta la tecnica del discorso indiretto libero:
La sera tornava a casa rifinito e, mangiati quattro bocconi di pane e un’acciuga, o un po’ d’aringa coll’olio, e bevuto due soldi di vino, vera grazia di Dio, se n’andava a letto.
Gli pareva di essere un principe in quella cameretta affumicata, su quel pagliericcio bucherellato e quella graticciata che scricchiolava appena egli faceva un movimento. […] Questo non era peccato.
Sereno di coscienza, non faceva male a nessuno. Se Don Domenico fidava nella propria pancia, nei propri quattrini e nei propri occhi uno a Cristo e l’altro a Maria , egli fidava nella Beata Vergine e nel patriarca San Giuseppe. Tutto quel che veniva fatto a lui, povero sciancato, Gesù Cristo lo scriveva nel libro di lassù, dove nulla si cancella!
L’esistenza abitudinaria e serena del protagonista viene interrotta da due elementi: dapprima l’aggravarsi della sua salute e poi l’ingresso in scena della comare Angela. Quest’ultima si avvicina allo Sciancato complottando alle sue spalle assieme a Don Domenico, il quale promette alla donna delle ricompense affinché questa riesca a convincere lo Sciancato ad abbandonare la casa.
In questa parte della novella il narratore onnisciente descrive vere e proprie scene d’amore che dapprima paiono sincere ed emozionanti e che poi si rivelano fasulle, viste le cattive intenzioni della donna. Neli, però si lascia andare al nuovo amore e si apre ad una compagnia nuova che non è più costituita solo dalle mura di una casa alla quale è profondamente legato.
Egli si era alzato dal sasso dove stava a sedere al sole e le si era fatto accosto, presso l’uscio; il cuore gli batteva forte. Era la prima volta che parlava di quelle cose con una donna, e si stupiva in quel momento, pensando che non gliene fosse mancato il coraggio.
Il climax che si avvicina all’epilogo e quindi alla morte di Neli illustra la sofferenza estrema del personaggio:
Rimase; quasi gli avessero scoperchiato il cuore. E dimenticò di andare in piazza del Mercato, e stette tutta la giornata a guardare. Ogni colpo di piccone se lo sentiva intronare nel cervello; a ogni sasso che volava via, sentiva strapparsi un brandello di viscere, senza poter versare una stilla di pianto, quantunque avesse gli occhi gonfi di lagrime e le pupille appannate.[…]La mattina dopo, trovatolo morto sullo sterro, nell’angolo dove una volta era il suo letto, alla vista di quel cadavere
rattrappito, inzuppato d’acqua e intriso di mota, ma con viso di persona tranquillamente addormentata, i manovali ebbero paura.
- Il destino lo chiamava qui! – sentenziò il capo mastro. E un manovale aggiunse:
- È mal’augurio per don Domenico! –
Dall’epilogo e dalla locuzione finale si evince il riscatto, seppur postumo, di Neli, salvato così dalle credenze popolari, dai proverbi e dai modi di dire, eredità della cultura secolare del popolo siciliano.
Le Appassionate
La raccolta de “Le Appassionate” riunisce novelle già stampate in “Profili di Donne”, “Un Bacio”, “Storia Fosca”, “Homo”, “Ribrezzo”, “Fumando” sotto il segno abbastanza generico della rappresentazione di “casi passionali, diremmo quasi casi di coscienza dolorosi o tragici, intramezzati da novelline dove [...] è accennata una sfumatura di passione”.
In tutte le novelle de “Le Appassionate” Capuana dedica la sua attenzione a complessi fenomeni psicopatologici.
La novella analizzata è “Anime in pena”, una novella ispirata ad un dramma passionale svoltosi a Catania nel 1860.
De Roberto lesse la novella (pubblicata sul “Fanfulla della domenica” del 18-25 novembre 1893) e scrisse all'amico: “La mamma me li aveva raccontati tutti (i particolari dell'avvenimento) giacché la sua famiglia abitava vicinissimo a quella gente...”
“Anime in Pena”
La novella si presenta divisa in due blocchi.
La prima parte, più lunga e meno densa della seconda, si apre presentandoci i protagonisti: un uomo di nome Lupi, la moglie, Carmelina e la figlia graciletta e triste di nome Lisa.
Non è il loro, un matrimonio felice; l'uomo - itterico e follemente innamorato della moglie- aveva preso in sposa la donna - bella, dai lunghi capelli neri e la carnagione pallida- quand'ella era appena sedicenne, non riuscendo mai ad essere corrisposto nei suoi sentimenti.
La vicenda è ambientata a Palermo. Nel momento iniziale della novella la famiglia vi si è appena trasferita. Intorno ad essi aleggiano i pettegolezzi della gente curiosa di conoscere quelle strane figure.
Nella descrizione che Capuana fa dei due personaggi, emergono i tratti tipici della Scapigliatura:
la donna pare una convalescente scampata da una lunga malattia e il marito roso dalla gelosia è descritto come un uomo dalla voce cavernosa e la faccia giallastra.
A questo punto il racconto va in flashback. L'espediente è funzionale a descrivere i trascorsi della coppia e le cause dell'infelicità di Carmelina.
Lo scrittore descrive il primo incontro dei due insistendo sui particolari morbosi del loro rapporto, fin dalle prime battute: l'insistenza di lui che la spiava dalla finestra e la paura di lei che lo crede uno “jettatore”.
I parenti convincono la donna a sposare Lupi, ai tempi Regio Procuratore presso il Tribunale di Catanzaro.
Ella raramente cede all'abbraccio di lui che spesso si dimostra “cieco dalla passione, smanioso di baciarle i piedi ch'ella tirava indietro impaurita”.
Carmelina non riesce neppure a dare del tu al marito tanta è la differenza di età che li separa.
Già dopo due anni di matrimonio Carmelina comincia ad adattarsi, a farsi vincere dall'indolenza, abituata a sentirsi dominata “da quel fascino maligno che doveva aver maturato rapidamente la sua bella giovinezza e assonnato nervi e sangue”.
Nasce una figlia non desiderata: “Non si sentiva madre, come non si era potuta sentir moglie”.
Il marito prova un senso di irritazione per la resistenza passiva della moglie: “Sei ingrata, donna senza cuore!”. Carmelina diventa sempre più il suo chiodo fisso: “Mi rode una gelosia pazza! La colpa è tutta tua!”, ma spesso viene colto da eccessi di tenerezza e, rapito dalla bellezza della moglie, prende a carezzarla da capo a piedi.
Dopo il flashback inizia la seconda parte della novella ambientata nuovamente a Palermo.
Carmelina si sente invecchiare giorno dopo giorno rassegnata all'isolamento nel quale il marito la costringeva da anni.
La figlia Lisa si ammala. La madre, tutta occupata a prendersi cura di lei, pare vivere un risveglio dei sensi favorito da quella fessura della finestra che il medico aveva consigliato di tenere aperta per favorire la guarigione della bambina.
Per la prima volta il sole entra nella casa facendole provare un senso di libertà mai assaporata prima: “gli sbuffi di odor di zagara che il vento trasportava dai giardini di aranci della Conca d'oro, le turbavano la testa...”
Un giorno decide di affacciarsi al balcone. Un uomo, il dirimpettaio, inizia a spiarla con un cannochiale da teatro.
Carmelina pare intimorita dalle lusinghe del vicino di casa ma scherza maliziosamente con lui, prima intraprendendo un gioco di sguardi e sorrisi, poi cadendo nelle sue braccia.
La donna si scopre innamorata come una bambina alla prima cotta.
Il marito, del tutto ignaro fino a questo momento, inizia a insospettirsi vedendo la moglie insolitamente viva, ma sempre scostante e irritata dalla sua presenza.
L'amante inizia ad avere paura, il gioco si è fatto troppo pericoloso. Carmelina, infatti, colta da una passione mai provata, è pronta a lasciare tutto per l'uomo che le ha fatto scoprire l'amore.
L'amante decide, dunque, di lasciarla.
Carmelina, perso l'unico motivo di felicità, incurante dell'ira del marito, aspetta l'amante fuori dall'uscio, invano. Egli non tornerà.
La novella si chiude in un crescendo di tensione. Il marito è a casa, attende la moglie “in agguato per scannarla”. Carmelina entra in casa: “Ammazzatemi! ...Avete ragione!”
“Ma colui si strappava i capelli, ma colui le si rotolava ai piedi, mugulando il nome di lei. E quand'ella credette alfine che le si slanciava addosso per ucciderla, si sentì brancicare, amorosamente, su i capelli, su la faccia, per tutta la persona; e si sentì furiosamente baciare e ribaciare, fra singhiozzi e lagrime irrompenti, quas'egli avesse voluto riprendere quel che gli era stato rubato: la sua vita, il suo sole, la sua donna adorata! [...]
Ad un tratto Lupi si rizzò in piedi [...] La bimba (Lisa) vide luccicare una lama e poi sua madre ripiombare, stravolgendo gli occhi fino al bianco... [...] senza comprendere nulla in quel momento.
La seconda parte ha, nel passaggio appena citato, un punto di un'efficacia grandissima. Il lettore si aspetta di assistere ad una scena violenta, ad un massacro annunciato ed invece si trova spiazzato. Lupi è ancora innamoratissimo della moglie e si abbandona ad effusioni che suscitano quasi compassione. Il peggio sta per accadere ma egli pare voler riaffermare, per l'ultima volta, che Carmelina è la sua “donna adorata”.
Per quanto riguarda la lingua e lo stile della novella si nota l'uso di dialettismi siciliani: “intronata”, “squallidezza”; il ricorso al linguaggio familiare: “scalducciata”, “infinocchiare”, “tossico” col significato di “perfido”.
L'aspetto più interessante, che distingue Capuana dagli altri autori veristi è il ricorso al dialetto toscano: “grullina”, “stiede”per “stette” e al linguaggio letterario: “aveva assonnato” (Dante, Purgatorio, XXXII), “Guardatura” (G. Leopardi), “Garriva” per rimproverava (Dante, Inferno, XV).
Federico De Roberto
Cenni Biografici
Federico De Roberto nasce a Napoli il 16 gennaio 1861 da madre siciliana, di sangue nobile, Marianna degli Asmundo e da un ufficiale, Ferdinando. Dopo la morte del padre,nel 1870, la famiglia si trasferisce a Catania, dove De Roberto, compiuti gli studi tecnici, s’iscrive alla facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali, ma non consegue la laurea. A vent’anni De Roberto entra nel mondo editoriale catanese intraprendendo un’intensa e duratura attività giornalistica che lo porterà a collaborare con le più autorevoli riviste del tempo: “Il Fanfulla Della Domenica”, “L’Illustrazione Italiana”, “Il Corriere della Sera”, “La Nuova Antologia”, “Il Giornale d’Italia”, “Il Giornale di Sicilia”. Nel 1887 esce il suo primo volume di novelle, La Sorte, pubblicato dall’editore catanese Giannotta; il volume viene recensito positivamente da Capuana, che ne loda “la fermezza della mano, la precisione del tocco, la giusta misura “ e si preoccupa di difendere l’amico dall’accusa di imitazione delle novelle del Verga:
Così ora (ne son sicuro) se mai la critica vorrà occuparsi del volume del De Roberto, sentiremo tirar fuori le novelle siciliane del Verga o di qualche altro, quasi dall’autentica natura del soggetto debba risultare per forza una identità di forma;quasi tra la forma nervosa e piena di tristezza del Verga e questa calma e blanda del De Roberto, che non si commuove e non si appassiona di nulla, non possa esservi e non vi sia di fatto una bella differenza.
Frequenti i centri culturali italiani più importanti, da Firenze a Milano ed infine Roma; in particolare i caffè, i salotti artistico-mondani della capitale lombarda degli ultimi decenni del secolo, frequentati anche da Verga e Capuana, danno vita a vivaci sodalizi letterari. In questo periodo straordinariamente fruttuoso escono le raccolte di novelle Documenti umani (1888) e Processi Verbali (1890) seguite dall’autentico capolavoro dello scrittore,il romanzo I Viceré (1894), nel quale De Roberto narra le vicende che investono,tra la metà degli anni cinquanta e il 1882, la famiglia Uzeda, viceré di Sicilia al tempo di Carlo V (1661-1700). Il romanzo si sviluppa con la presentazione degli scontri, per lotte di eredità e di potere, che oppongono tra di loro i membri della grande famiglia aristocratica, che si segnalano per il loro cinismo, per la loro avidità e per la loro mancanza di principi. De Roberto scrive quando la fiducia degli intellettuali isolani nelle possibilità di un cambiamento, in senso borghese e liberale, della società meridionale è ormai venuta meno: per questo I Viceré mostrano amaramente come il potere sia rimasto nella mano di poche famiglie di lunga tradizione, abili ad adeguarsi perfettamente alla nuova situazione politica. In questo senso emblematica è la figura del giovane principe Consalvo,che cerca con ogni mezzo, compresa la corruzione, di farsi eleggere al parlamento italiano, conservando in questo modo i privilegi della famiglia. Questo atteggiamento pessimista sarà una delle caratteristiche peculiari della cultura letteraria siciliana; quando nel 1958 uscirà il romanzo di Tomasi di Lampedusa Il Gattopardo, molti critici accosteranno le espressioni del principe Consalvo, secondo le quali occorre essere dentro i processi della storia perché tutto sia come prima, perché la storia, apparentemente cambiando, resti ferma, a quelle del giovane Tancredi, nipote di Fabrizio, ultimo principe di Salina, che afferma:”Se vogliamo che tutto rimanga com’è rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Dopo il felice soggiorno milanese, durante il quale conquista le più prestigiose affermazioni culturali e sociali, lo scrittore, dietro le pressanti insistenze della madre che gli rimprovera di farla soffrire troppo con la sua assenza, torna a Catania, allontanandosi così dai maggiori centri culturali e dalla donna appassionatamente amata, fattori che si pensa abbiano influito sui suoi molteplici disturbi fisici. La pubblicazione del fitto carteggio con la madre , a cui lo legò un tenerissimo, anche se talora angoscioso affetto, fornisce la chiave per la conoscenza psicologica dello scrittore; la meticolosità quasi maniacale con cui informa di tutto la madre conferma la sua predisposizione all’indagine minuziosa, all’analisi spietata. Federico De Roberto muore a Catania il 26 luglio 1927; la notizia della sua scomparsa viene data in sordina dalla stampa nazionale a causa della quasi contemporanea morte della più nota Matilde Serao, ma già da molto tempo un immeritato oblio avvolgeva la figura di De Roberto, un’opera di emarginazione destinata a protrarsi per molti decenni.
La Sorte
Nonostante l’originalità di questa raccolta fosse stata sostenuta con convinzione da una firma autorevole come quella del Capuana, l’influenza del Verga è evidente in molte di queste novelle, il cui modello di riferimento è rappresentato dalle Rusticane, delle quali ripetono l’ambientazione, la tematica, il modulo linguistico e il frequente ricorso a proverbi e modi di dire popolari.
Nella prefazione a Documenti umani, De Roberto racconta le vicissitudini legate all’uscita de La Sorte: lo scrittore si era inizialmente rivolto alla casa editrice Treves, che però aveva rifiutato di pubblicare la raccolta perché non ne approvava il genere; in particolare il Dottor Emilio Treves, nella lettera di risposta a De Roberto, spiega i motivi del suo rifiuto: non si descrive che quel che vi è di brutto, di marcio, di sensuale nella società. Poi tutti i personaggi sono antipatici. Del resto le tematiche dei veristi per lo scrittore non incontravano i gusti della massa dei lettori, che “chiederebbero di assistere a scene della vita elegante, di vedere in azioni grandi dame e gran signori; le descrizioni di catapecchie dove si aggirano i miserabili in cenci sono, a priori condannate.” Tuttavia il narratore realista, spiega lo scrittore, dovrà cercare i propri soggetti là dove il vero presenta caratteristiche più spiccate, più individualizzabili, più salienti; egli si rivolgerà quindi a quegli “ambienti corrotti” e a quei “tipi degenerati” e “casi patologici” nei quali si trova una più ricca varietà di “circostanze significative”, non agli “stati di virtù” e di salute, che sono uniformi e monotoni. La “sorte” va intesa come il destino di insoddisfazione che pervade la modernità e che l’autore cerca di analizzare nelle diverse classi sociali, dai contadini, ai diversi livelli del ceto medio fino ad arrivare agli ambienti aristocratici.
Sebbene il mondo e i sentimenti dei pescatori di Acitrezza o dei pastori di Licodia costituiscano il primo ideale termine di riferimento per De Roberto, egli,tuttavia, vuole svincolarsi da quei modelli per affermare autonomamente la propria personalità; lo scrittore non era naturalmente predisposto alla rappresentazione della povera gente, era estraneo alla psicologia e alla vita affettiva degli umili. Tutt’al più, quel mondo e quei personaggi egli poteva rappresentarli secondo i moduli della commedia, soffermandosi sulle scene di vita quotidiana e spostando l’attenzione dalle grandi alle piccole passioni, ai pettegolezzi, alle rivalità personali. Lo scrittore rivela la propria autentica personalità solo quando abbandona completamente il mondo degli umili, rivolgendo la sua attenzione al mondo aristocratico ormai in declino, al quale si sente spiritualmente legato; un esempio significativo lo troviamo nella novella intitolata La Disdetta. La protagonista di questa novella è la vecchia principessa di Roccasciano, preda del vizio del gioco che non riesce ad abbandonare, perdendo continuamente, rovinando così la propria salute e distruggendo la propria fortuna; è importante sottolineare l’umana comprensione con cui viene delineata la figura della principessa; buona e gentile d’animo, è sinceramente preoccupata per lo sfacelo delle sue proprietà
ed è costantemente pronta a fare ogni sorta di buoni propositi, destinati tuttavia ad andare in fumo per la sua totale incapacità di smettere di giocare; costretta a letto, il vizio la domina ancora e ormai prossima alla morte, inizia una partita con Padre Agatino, il quale gioca come un disperato per trovare i soldi per la donna che ama; la principessa usa come gettoni le pasticche e muore perdendo. Il tema della rovina di una persona simboleggia la rovina di tutta una classe; il palazzo Roccasciano è frequentato da gente avida, meschina ed egoista; tutti i personaggi sono dei predestinati, schiavi di una passione che li trascinerà inesorabilmente alla rovina, qualunque cosa accada, comunque si sforzino essi di reagire. Nessuno è risparmiato: anche un personaggio apparentemente saggio e accorto come Donna Cecilia, che assiste l’amica principessa dispensandole sempre buoni consigli, finirà per perdere la testa. Del mondo aristocratico De Roberto esprimeva il disfacimento, vedendolo, sia pur con una sua commozione, come cosa necessaria, fatale e giusta.
In questa raccolta di racconti sono presenti alcuni motivi ispiratori destinati ad animare i successivi lavori derobertiani; in particolare emerge quel pessimismo determinista, derivato dalla sfiducia nel presente e nel futuro della nazione, che ritroveremo nei Viceré.
Documenti Umani
In questa raccolta di novelle è evidente l’influenza dello scrittore francese Paul Bourget (1852-1935) che, dopo essersi applicato agli studi di psicologia, si dedica alla narrativa con l’obiettivo di spiegare i comportamenti umani attraverso l’esplorazione delle coscienze. In questa direzione si muovono i Documenti umani, nei quali è prevalente l’analisi psicologica, che per De Roberto consiste nell’esposizione di tutto ciò che passa per la testa dei personaggi: delle loro sensazioni, dei loro sentimenti e delle loro volizioni, prodotto di un esercizio di immedesimazione nei personaggi da parte dell’autore. A questo punto si pone un problema per l’autore; egli, infatti, solo attraverso l’autobiografismo potrebbe far coincidere il proprio punto di vista con quello del personaggio; in tutti gli altri casi, l’autore deve limitarsi a raccogliere gli indizi esteriori, polivalenti e ambigui , rappresentati dalle parole, dagli atti, dai gesti del personaggio, dai quali è difficile risalire a un’interpretazione plausibile del processo interiore che li motiva. L’analisi psicologica deve inoltre tener presente che le azioni spesso sono contrarie alle intenzioni e quindi deve studiare questi contrasti; in questo senso il distacco impersonale derobertiano si rileva più che mai adeguato, seppur applicato a un contesto diverso rispetto alle precedenti raccolte e ai romanzi.
I personaggi di Documenti umani non sono più scelti tra “mastri e comari” ma prevalentemente tra artisti, cavalieri e contesse, a cui vengono attribuiti una serie di nobili ideali; essi vengono privati di ogni determinazione personale per raggiungere l’obiettivo dell’immedesimazione dell’autore. Nella novella Una Dichiarazione De Roberto propone un’espressione diretta dei personaggi attraverso le lettere per rappresentare un ironico gioco linguistico. La principessa Borischoff scambia una novella inviatale dallo scrittore Valdara, intitolata Una Dichiarazione, che descrive il corteggiamento appassionato e intriso di retorica sentimentale della letteratura ottocentesca di un uomo nei confronti della donna amata, per un’effettiva dichiarazione d’amore da parte dello scrittore e quindi risponde al supposto seduttore sbeffeggiandolo sarcasticamente, a testimonianza della disillusa concezione dell’amore di De Roberto, il quale conseguentemente assume lo stesso punto di vista della principessa. Tuttavia, nel momento in cui Valdara dichiara l’equivoco e la principessa, conquistata, risponde invitandolo a raggiungerla, il carteggio rientra nella routine della seduzione galante: De Roberto quindi mette in atto un’immedesimazione a intermittenza . Ancora una volta i personaggi di Documenti Umani che lo scrittore sente più vicini sono gli sconfitti della vita e dell’amore, vittime di se stessi e degli altri; uno di questi è il protagonista della novella Il memoriale del marito, un uomo timido, incerto, destinato ad essere sempre vittima dei prepotenti; fin da bambino è tormentato dai suoi piccoli dolori, persuaso dalla totale indifferenza che essi suscitano agli occhi altrui, sempre portato ad attribuire alle vicende di un familiare o di un amico tutta l’importanza che egli nega alle proprie. La situazione cambia sensibilmente con il suo matrimonio e con la sua conseguente esaltazione per il senso di reciproco possesso; ma la sventura è dietro l’angolo: la moglie conosce un volgare seduttore di professione; il marito, inizialmente, cerca di evitare gli incontri, per poi mostrarsi indifferente, non sapendo più come far valere il proprio amore quando la donna comincia a sfuggirgli: “avevo voglia di strapparmi i capelli. Io non volevo che mi rubassero mia moglie. Quell’altro aveva avuto ed aveva molte donne, quante gliene piacevano; io avevo lei sola. Era la donna mia; m’apparteneva, perché io le appartenevo. Io non l’avevo rubata; io ero in regola con la mia coscienza, col mondo, con lei, con tutto e con tutti. ” Ogni espediente tentato non fa che peggiorare la situazione e, alla fine la donna se ne va per sempre; su tutto il racconto aleggia il senso dell’ineluttabilità del destino di un uomo che, sentendo avvicinarsi la rovina, lotta per scongiurarla. Singolare è la cornice del racconto: si tratta della narrazione che il marito farebbe ai giurati se avesse ucciso la moglie, quasi a rappresentare a se stesso quale avrebbe potuto essere la soluzione della propria vicenda.
Processi Verbali
Nella prefazione al volume, lo scrittore espone esemplarmente il suo credo verista, sia spiegando il titolo scelto- “Processo verbale […] significa una relazione semplice, rapida e fedele di un avvenimento, svolgentesi sotto gli occhi di uno spettatore disinteressato” -sia approfondendo la riflessione teorica sull’impersonalità. Partendo dal presupposto che l’impersonalità è incompatibile con la descrizione e con la narrazione, perché “nell’esporre in nome proprio gli avvenimenti, nel presentare i suoi personaggi, lo scrittore si tradisce inevitabilmente; ch’ei voglia o no, finisce per giudicare gli uni e commentare gli altri” , De Roberto afferma che la molteplicità del reale può essere rappresentata solo attraverso il dialogo; lo scrittore cerca di limitare il proprio intervento ai passaggi di raccordo tra una sequenza di dialogo e la successiva, delegando ogni ruolo narrativo all’interazione tra i personaggi.
Il Rosario è la storia di un’anziana gentildonna che non perdona alla figlia di essere fuggita di casa per sposarsi contro la sua volontà, nemmeno quando viene a sapere che il marito della giovane è morto ed ella è rimasta sola, nella miseria. Le tre sorelle Sommatine, zitelle cinquantenni, totalmente sottomesse alla madre, donna Antonia, tutto il giorno chiusa nelle sue stanze, vengono gradualmente informate dai vicini dell’agonia del cognato; esse non osano accorrere in soccorso di Rosalia; la pietà che provano nei confronti della sorella viene subito repressa al pensiero dell’ira materna. Quando la madre si unisce alle figlie per il rosario serale, fornisce loro l’unica occasione per invocare il perdono per Rosalia; tra una preghiera e l’altra donna Antonia affronta tutti gli argomenti della cronaca paesana; in mezzo a queste chiacchiere, dopo molte esitazioni, le sorelle riescono timidamente a insinuare l’argomento che sta loro a cuore. Ma la madre gelidamente risponde: ”Io non ho figlie di nome Rosalia. Mia figlia è morta”. E riprende le proprie preghiere.
Le tre zitellone sono raffigurate accuratamente sia per quanto riguarda l’aspetto fisico; “la stessa corporatura grassa, le stesse guance rosse, le stesse fronti strette sotto gli stessi capelli grigi” sia per quanto riguarda la caratterizzazione morale, con il ritratto di queste tre donne frustrate e allo stesso tempo ossessionate dall’autorità materna; incapaci di prendere qualsiasi decisione autonomamente e ormai incapaci di ogni sincera effusione. De Roberto segue con grande cura, tramite il dialogo, l’alternarsi e il succedersi di pensieri ed impulsi nell’animo delle tre sorelle.
Gabriele D’Annunzio e il verismo
Vita
Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da Francesco Paolo e da Luisa de Benedictis. A Pescara compie i primi studi, sotto la guida delle sorelle Ermenegilda e Adele Del Gado, poi sotto i maestri Eliseo Morico, don Filippo De Titta e Giovanni Sisto. A undici anni è iscritto alla prima ginnasiale presso il Reale Collegio “Cicognini” di Prato, per volontà del padre che, visto le straordinarie doti del figlio, vuole che riceva il meglio in fatto d’istruzione. L’ingresso in questo collegio serio e quotato, permette al giovane D’Annunzio di venire in contatto con i rampolli della migliore borghesia italiana e di crearsi un notevole bagaglio culturale. Nel 1879, ancora studente, pubblica la sua prima raccolta di versi Primo vere, ispirata all’opera di Carducci Odi barbare.
Nel 1881 si trasferisce a Roma con lo scopo di seguire i corsi universitari alla facoltà di Lettere, ma D’Annunzio preferisce frequentare i circoli intellettuali e le redazioni dei giornali dove trova un impiego come cronista mondano. Collabora con poesie, novelle e articoli alle riviste dell’epoca. Durante la sua esperienza a Roma pubblica le raccolte in versi Canto novo (1882), Terra vergine (1882), Intermezzo di rime (1884), Isaotta Guttadàuro ed altre poesie (1886). Proprio in questo periodo pubblica Il Piacere (1889), romanzo che ottiene un enorme successo.
Sommerso dai debiti, nel marzo 1891 è costretto a lasciare Roma, dove tutti i suoi beni vengono messi sotto sequestro; si reca dapprima a Francavilla dall’amico Michetti, dove compone un nuovo romanzo L’innocente, successivamente fugge a Napoli dove Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao (direttori del “Corriere di Napoli”) pubblicano a puntate il suo nuovo romanzo sul loro giornale. Nel novembre del 1896 porta a termine La città morta, il dramma dovrebbe essere messo in scena da Eleonora Duse, attrice di fama internazionale con cui D’Annunzio ha una relazione amorosa. Ella diventerà la più importante interprete e promotrice delle opere drammaturgiche dannunziane.
Nel marzo del 1898 D’Annunzio si trasferisce a Settignano, vicino a Firenze, dove prende in affitto la villetta della Duse, che diventerà una delle più celebri delle sue dimore, “La Capponcina”. Egli conduce una vita dispendiosa e mondana, senza però trascurare il lavoro; infatti, mentre prosegue la stesura del Fuoco, compone l’atto unico in prosa Sogno d’un tramonto d’autunno, e una nuova tragedia, La Gioconda.
Trascorre l’estate del 1899 alla “Capponcina”, luogo simbolo della vita sfarzosa ed elegante di D’Annunzio, uomo gaudente che con le sue pose e il suo tenore di vita crea le basi di quello che diverrà, sul piano del costume, il cosiddetto “dannunzianesimo”. Il periodo trascorso a Settignano è il più proficuo per la sua attività. Tra il giugno e luglio 1899 scrive le prime Laudi, e tra la fine del 1899 e l’inizio del 1900, numerosi componimenti che confluiranno nell’ Elettra e alcune pagine delle Faville del maglio.
Nel 1900 termina un’altra sua opera, Il Fuoco, che costituisce un momento risolutivo nello sviluppo dell’opera dannunziana; è da questo punto in avanti che la lezione superomistica, come presenza attiva e come forza reattiva, svolgerà un ruolo fondamentale e determinante in tutte le fasi successive della sua attività.
Nel 1902 D’Annunzio si reca a Pescara dalla madre, e proprio in quell’anno pubblica Le novelle della Pescara, il meglio delle novelle giovanili del Libro delle vergini e del San Pantaleone. I primi del ‘900 sono molto produttivi per quanto riguarda la poesia; escono nel 1903 i primi tre libri delle Laudi Maia, Elettra, Alcione; del 1910 è il romanzo Forse che sì forse che no, successivamente La contemplazione della morte (1912), La Leda senza cigno (1916), dal 1911 al 1914 risale la pubblicazione delle prime Faville del maglio sul “Corriere della Sera”.
Nel 1920 D’Annunzio assieme ad un gruppo di militari occupa la città di Fiume; fallita l’impresa si ritira a Gardone Riviera sul lago di Garda, nel celebre Vittoriale dove muore il 1° marzo 1938.
Terra vergine (1882)
Nel 1882 D’Annunzio pubblica il suo primo libro di novelle Terra vergine. In verità più che novelle si tratta di bozzetti, di “figurine” (inizialmente i bozzetti erano intitolati Figurine abruzzesi), rapidi ritratti di personaggi sorpresi, o meglio, spiati da un osservatore (un voyeur), che coglie il soprassalto di qualche impellente bisogno: la sete, la fame e, soprattutto, l’estro amoroso.
D’Annunzio è attratto dai grandi modelli con i quali misurarsi ritraendo passioni elementari, brutali, anche se l’animalismo in Terra vergine appare quasi sempre decorativo, esotico e molto lontano dall’esperienza quotidiana del personaggio che ne dovrebbe giustificare l’uso. Mentre in Verga, il referente zoomorfo simula la reale competenza linguistica dei “vinti” ( per esempio “grasso come un maiale”, “ rabbioso come un cane”, etc.), in D’Annunzio appaiono giaguari, pantere, sirene, leopardi, draghi. Questo discorso sul sistema delle metafore zoomorfologiche dannunziane può fare riferimento a Charles Darwin, si pensi alle implicazioni comparative uomo-animale nelle sue opere. Sappiamo che proprio Darwin è una delle letture preferite di D’Annunzio durante i suoi studi al collegio “Cicognini”.
Anche per quanto riguarda l’onomastica (Nora, Nara, Tora, Fiora, Ziza, Zarra, Iosto, Iori, Doca, Toto, Bisce…), più preziosa che popolare, rivela, in quest’opera, la caricatura verghiana: Dalfino, per esempio, fa il verso a più di un’opera di Verga, contemporaneamente Rosso Malpelo, Jeli il pastore, La lupa, Cavalleria rusticana, I Malavoglia.
Per quanto riguarda l’ambientazione di queste novelle, è importante notare il mescolarsi del paesaggio d’Abruzzo con un paesaggio sognato; ritroviamo le immagini di alte erbe e di serpi intrecciate, e anche di foglie metalliche e di fiori velenosi che ricordano le jungle fantastiche che dipinge il doganiere Rousseau.
Parecchi sono gli elementi esotici come l’analogismo ferino di quest’opera; Turespre rabbrividisce all’ “odore della femmina”, si slancia come una “belva in fregola” verso la sua Flora, che “nella curva della schiena e de’ lombi rassomigliava una pantera”. L’equivalenza uomo-animale, in Terra vergine, investe anche la “forma del contenuto”. Il darwinismo, oltre alle immagini zoomorfe, introduce anche la selezione sessuale che impone solo due tipologie erotiche: ai vincitori spetta l’amplesso, in sintonia con la stagione e la vegetazione. Un amplesso da conquistare anche attraverso la spietata lotta dei maschi. Ai vinti rimane l’affetto puro e casto.
La novella Bestiame rappresenta una svolta del “verismo” dannunziano. In essa accade lo scontro tra il mondo del culturale e quello del naturale. Tra il grano nel fienile avviene l’incesto tra suocero e nuora; il marino, stanco per il lavoro della mietitura, mangia “con l’avidità di un cane famelico e si corica come una bestia stracca”, col suo “collo di testuggine”; segue il padre “come un cane avvilito”. Il cedimento della moglie è la vendetta della natura contro il tabù etico dell’incesto. D’Annunzio scrive che ella cede all’amplesso come “una cagna in amore”. Nel momento in cui la “culturalità” si sovrappone alla “naturalità”, l’animalità, che prima era celebrata, viene descritta con metafore dispregiative; questo mutamento durerà per tutte le novelle future.
Le novelle della Pescara (1902)
Sono state ricavate dalla fusione di alcune raccolte precedenti, è l’ultimo episodio della carriera di D’Annunzio come novelliere. Al 1884 risale Il libro delle vergini, seguito da San Pantaleone, Gli idolatri e I violenti. Queste quattro raccolte furono, prima rimaneggiate a causa di testi considerati troppo compromessi con il verismo di matrice verghiana, poi fuse per produrre la nuova raccolta del 1902. Da Il libro delle vergini fu scelta la novella Le vergini, cambiandone il titolo in La vergine Orsola; due bozzetti furono tratti da I violenti, le rimanenti quindici novelle ripropongono testi del San Pantaleone.
Si tratta di un libro programmaticamente composito, composto da diciotto novelle che ritrovano unità e coerenza riguardo ai temi, disparati, ma legati dalla malattia e dalla violenza, dalla sensualità morbosa (che diventa anche sessualità), dalla follia e dalla morte. I protagonisti sono personaggi unici, in un certo senso eroi, colti in un ambiente popolare.
La vergine Orsola, la prima novella, analizza la “fisiologia” dell’anima della malata, Orsola dell’Arca, che, dopo una lunga malattia, si avvia a una lentissima guarigione. La donna, giorno dopo giorno, scopre dentro di sé istinti e desideri che si tramutano nella volontà di portare negli altri gli stessi impulsi, fino all’esasperazione, fino anche ad istigare la violenza sessuale, che avviene lasciando strascichi di una malattia che non coinvolge più solo il corpo ma anche e soprattutto l’anima. Giungerà successivamente ad una morte atroce, osservata nei minimi e morbosi particolari.
Anche il secondo racconto, La vergine Anna, tratta una serie di malattie, convalescenze, guarigioni, ansie di vita e timori di morte, superstizioni e preghiere religiose, con la figura semplice e schietta di Anna. Questo personaggio rimane sempre al centro di una popolare e mediocre vicenda “abruzzese” destinata a finire in un’atroce scena di morte: “Anna agonizzava. […] Alcune bolle di saliva le apparvero sulle labbra; un’ondulazione brusca le corse e ricorse, visibile, le estremità del corpo; su gli occhi le palpebre le caddero, rossastre come per sangue travasato; il capo le si ritrasse nelle spalle. E la vergine Anna così al fine spirò”.
Il modello francese sembra ispirare un po’ tutte le novelle come anche L’eroe, un breve racconto incentrato sull’effetto tragico della perdita della mano dell’Ummàlido, come in una novella di Maupassant, En mer, in cui il marinaio Javel perde il braccio rimasto intrappolato durante il lancio della rete da pesca. Anche qui si possono trovare immagini crude: “Seduto, contemplava la sua ferita, tranquillamente, la mano pendeva, con le sue ossa stritolate, oramai perduta”.
I personaggi di queste novelle restano confinati in una sorta di bozzettismo regionale e bloccati in una sorta di tensione verso il riscatto, destinata a rimanere tale e a non tradursi mai in azione.
Recentemente la critica ha indagato la novellistica dannunziana nel suo rapporto conflittuale con il positivismo. Per D’Annunzio, le novelle costituiscono un’esperienza per l’apprendimento delle tecniche narrative del verismo e del naturalismo, inserendo in esse l’oltranza della violenza, dello scatenamento degli istinti animaleschi, della crudeltà, dell’unione di sesso e morte e anche della condizione tragica dell’eroe.
Remigio Zena
Vita
Nato nel 1850 a Torino da una nobile famiglia genovese, Remigio Zena è pseudonimo di Gaspare Invrea. Dopo un’educazione di impostazione reazionaria e cattolica che lo spinge addirittura ad arruolarsi come volontario presso gli Zuavi del Papa, si laurea in giurisprudenza nel 1873 ed entra nella magistratura ricoprendo vari incarichi in diverse città italiane. Muore a Genova nel 1917.
Ha attraversato i movimenti letterari più significativi del suo tempo, dai primi entusiasmi per la scapigliatura e dal successivo movimento verista fino agli ultimi approdi decadenti.
La fase scapigliata
Fu lui stesso a render noti i suoi modelli in questa fase, ossia Boito, Praga e Camerana in una ballata apparsa sulla rivista “Frou-Frou” per la quale collaborava nel 1884. La Scapigliatura sembra comunque un po’ in contraddizione con i presupposti ideologici della scrittore, cattolico e conservatore, pertanto limita la sua personale battaglia di rinnovamento ad un fatto esclusivamente letterario, respingendo eccessi esasperati e visioni angoscianti. Per altro l’adesione al modello scapigliato gli risulta più facile dal momento che si tratta di una soluzione tutta interna al sistema borghese, senza eccessivi sconfinamenti dal piano letterario a quello politico, come stava avvenendo in quei tempi con il realismo.
Il suo esordio è abbastanza deludente: nel 1878 pubblica “La carriera di Natalino”, in cui si sente ancora la mancanza della lezione del Verga: i fatti sono riferiti con un linguaggio molto colto e gestiti dallo scrittore dall’alto, intervenendo direttamente con giudizi personali, con tanto di rimproveri ai lettori
Nel 1879 pubblica altre due novelle: “Ismail”, racconto ispirato ai miti orientali e “Serafina”, novella “sociale” che verrà in seguito revisionata profondamente dopo l’impatto col verismo e sarà una delle quattro novelle facenti parte di “Anime semplici – storie umili”
L'influsso del verismo
E’ proprio con “Serafina”, o meglio con l’adesione ad una letteratura “sociale” che comincia il passaggio dall’area scapigliata al verismo, o meglio quella che risulterà poi nella maturità di Zena una riuscita e originale forma di fusione tra le due correnti. Mentre Verga infatti indaga le cause psicologiche o sociali delle azioni dei personaggi, Zena partecipa alle loro vicende in modo affettivo e umoristico. Anche se troviamo ancora il narratore onnisciente e onnipresente che rivela la sua pietà per la protagonista, ragazza oppressa e sfruttata dai “guitti”, ladri e saltimbanchi per cui lavora e sembra quasi che Zena voglia “scaricare” in questa novella il suo senso di colpa per l’appartenenza alla classe dominante.
Fondamentale, per capire l’adesione ai principi del verismo è la revisione apportata a “Serafina” nel 1884: il narratore non è più l’autore stesso, ma un narratore anonimo e popolare che presenta le vicende ricorrendo ad un linguaggio lontano da quello dello scrittore e dei lettori, secondo l’esempio di Verga. Di conseguenza la lingua pure viene completamente rimaneggiata, eliminando le espressioni più letterarie e modificando la sintassi che apre a modelli di tipo parlato irregolare e popolare: il linguaggio si fa quindi più ricco e colorito, come poteva essere
Appunto quello di un popolano.
“Non era svelta né atta agli esercizi ginnici. Ruzzolava per terra tutti i momenti” diventa “Per gli esercizi era una polenta e non valeva una mezza pipa di tabacco. Rotolava per terra tutti i minuti come un giuramento falso”.
“In vino veritas” diventa “Dammi il bicchiere e canto, dice il proverbio”
Alle volte il linguaggio diventa addirittura gergo, quello ovviamente dei protagonisti della novella, ladri e saltimbanchi e se nella prima edizione distanziava al massimo il narratore dai protagonisti, facendo comunque sentire il suo giudizio negativo, ora sembra quasi che partecipi all’ambiente che descrive al punto da non cogliere più nemmeno il trattamento disumano riservato dai guitti a Serafina, considerandolo quasi normale e a tratti pure “divertente”.
“Poi il pagliaccio la frustava senza misericordia” diventa “poi il pagliaccio la faceva ballar lui colla frusta”
“e dato di piglio a uno staffile cominciò a frustarla” diventa “e lui in persona fece ballar l’orso”
Queste variazioni permettono di dare certamente una visione più immediata e più ampia di un certo ambiente. Anche l’attacco delle due versioni è profondamente cambiato e alla presentazione di Serafina nella versione del ’79 si sostituisce, secondo l’insegnamento di Verga, l’introduzione diretta del personaggio nella vicenda, nei fatti, come vedremo anche nel “La Bricicca in gloria” e ne “La bocca del lupo”.
Comincia pure qui l’uso del discorso indiretto libero che però arriverà ai massimi ne “La bocca del lupo”, in cui sparisce quasi del tutto il discorso diretto, scavalcando così addirittura la misura del maestro, con l’intenzione di voler portare la mediazione del narratore al minimo, lasciando che i personaggi interferiscano nella conduzione della narrazione stessa.
Le Anime Semplici – Storie umili (1886)
Pubblicata nel 1886, contiene, oltre alla terza edizione di “Serafina”, “Il canonico”, “La Bricicca in gloria” e “Il tifo”.
L’elemento che accomuna le novelle è, come suggerisce il titolo la presenza di personaggi ingenui e semplici. Ne esce un quadro tutto sommato “rassicurante”(1), anche perché dove è presente il male, esso viene spesso controbilanciato da esempi di un agire conforme alla morale e all’amore cristiano verso il prossimo.
In “Serafina” quindi troviamo che il male è isolabile all’ambiente descritto e non estendibile a tutta la società, per cui Serafina troverà nel suo percorso personaggi con questa visione cristiana della vita che la sapranno ascoltare e comprendere come Marmo e Cicchina.
Ne “La Bricicca in gloria” (e soprattutto poi ne “La bocca del lupo”) i comportamenti descritti come riprovevoli trovano una forma di giustificazione nelle condizioni di vita assolutamente precarie in cui versano i personaggi. Questa novella è la storia di una donna che vive nei bassifondi genovesi, in un quartiere immaginario detto la “Pece greca” gestendo un lotto clandestino, dopo che il marito la aveva abbandonata lasciandola sola con quattro figli piccoli per andarsene in America. Quando il figlio comincia a lavorare e a portare un po’ di soldi a casa muore, lasciando la famiglia in difficoltà finanziarie sempre più grosse. La storia è incentrata nella figura di una delle figlie Marinetta, e negli sforzi della madre per riuscire a farla ben figurare in occasione della sua prima comunione, grazie anche all’aiuto di Costante, personaggio losco coinvolto anch’egli nel lotto clandestino, che promette un futuro da artista per Marinetta. In questa novella i valori dell’autore non vengono esibiti direttamente, ma calati in alcuni personaggi positivi e la loro presenza è importante per dimostrare che nel reale c’è anche il bene, per cui accanto alle figure “negative” di Briccica e Marinetta troviamo i lati positivi nelle altre due figlie Angela e Battistina. Spesso anche per l’umile i pericoli vengono dalla mancata accettazione della propria condizione sociale, per cui i personaggi positivi come il figlio Gigio, scomparso precocemente, Angela e Battistina dimostrano tutti una gran dedizione al lavoro, senso di responsabilità, aspirazioni modeste e mancanza di desiderio per il lusso, vizio che invece troviamo in Briccica e Marinetta. Nella figura di Costante invece Zena vuole esprimere il concetto che la nuova cultura e morale laiche avevano prodotto, con la perdita della religiosità, un degrado di certi valori morali: “Messa, colloqui, litanie, benedizione, i preti non la finivano più e il signor Costante nell’uscire con la Bricicca e le altre, ce l’aveva coi frati, coi preti e con l’organista. Quello non era il modo di far stare in chiesa, in ginocchio, digiuni per tanto tempo dei poveri ragazzi: lui aveva una fame da orbo! […]Alla religione si levava tanto di cappello, però, francamente, quelle erano buffonate che nemmeno i preti le pigliavano sul serio e nel secolo decimonono, col progresso che s’era fatto non avrebbero più dovuto sussistere”(2)
La rappresentazione della realtà in questa novella è costruita in base ad uno studio più profondo e impegnativo del reale rispetto alle altre tre novelle. Non è un caso che “La Briccica in gloria” sia l’unica delle quattro novelle in cui è sempre rispettata l’impersonalità e la gestione della narrazione è sempre affidata a qualcuno che fa parte del quadro popolare ritratto.
La Bocca del Lupo (1892)
Solo un accenno per dire che se ne “La Briccica in gloria” la voce narrante ogni tanto si lascia andare a considerazioni di carattere morale vicine al punto di vista dell’autore, anche se viene fatto in maniera molto celata e sottile, nel romanzo “La bocca del lupo” Zena avrà più spazio per queste considerazioni visto il maggior numero di temi trattati e la lunghezza del racconto stesso, per spiegare più a fondo le proprie idee. A questo proposito è paradigmatico l’inserimento della lettera premessa al romanzo che gli permette di fornire al lettore vari elementi per interpretare correttamente i fatti e di questi ne fa un esempio di carattere generale per dare una lezione di morale, ricollegandosi ad una concezione pedagogica dell’arte fatto anomalo nel panorama del Verismo. In maniera del tutto esplicita quindi, ma al di fuori della narrazione vera e propria, lo Zena
si riappropria del diritto di giudicare liberamente, esercizio impossibile in modo così diretto all’interno del romanzo stesso.
L’artificio del narratore popolare gli permette di confrontarsi con più libertà sul tema per lui scottante del rapporto colpa-miseria, in cui lo Zena si sarebbe trovato altrimenti in forti contraddizioni, ossia il problema di trovarsi di fronte a comportamenti e modi di vita per i quali un moralista interverrebbe con urgenza, ma in quanto narratore “distaccato” si vede costretto a sospenderne il giudizio. A differenza del Verga, Zena usa spesso lo strumento dell’ironia per intervenire indirettamente, “coprendo spazi per una ricomparsa sotto mentite spoglie del punto di vista dell’autore”(3). E’ proprio la sua ideologia profondamente cattolica che gli impedisce di imitare il maestro che nella prefazione ai “Malavoglia” scriveva “chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo”.
Questo intento moralistico quindi e l’uso dell’ironia pongono Remigio Zena in una posizione originale nell’ambito del Verismo, del quale per altro accetta comunque alcuni tratti fondamentali, quali il rifiuto dell’inverosimiglianza e la proposta della vita come unico campo dell’arte, l’esigenza della verità che impone agli scrittori di far parlare i loro personaggi in modo non arbitrario e l’attenzione all’ambiente e alla tematica regionalistica, genovese nel nostro caso, tanto più che lo pseudonimo Zena altro non vuol dire che non Genova in dialetto e concluderei riportando il giudizio di un altro illustre genovese, Eugenio Montale: “Nessuno capì così bene i poveri, i diseredati, come lo Zena; nessuno li lasciò ragionare con tanta indulgenza, con tanta pietà superiore e nascostamente sorridente”.
BIBLIOGRAFIA
Per Verga vedi:
Verga Giovanni, Novelle, selezione e commento di Carla Riccardi, Mondadori, 1989.
Zappulla Muscarà S., Invito alla lettura di Giovanni Verga, Mursia,1990.
Luperini Romano, Interpretazioni di Verga, Savelli, 1975.
Per Capuana vedi:
Luigi Capuana, Racconti, a cura di E. Ghidetti, Salerno, Roma 1973-1974 tomo 2
- Luigi Capuana, Racconti, a cura di E. Ghidetti, Salerno, Roma 1973-1974 tomo 1
- Storia della letteratura italiana, a cura di Enrico Malato, Ed. Salerno, Tra l’Otto e il Novecento, Roma, 1999. Capitolo VII Realismo, Naturalismo, Verismo,Psicologismo, Capuana, Verga, De Roberto di Enrico Ghidetti e Enrico Testa.
- “Novelle”, Giovanni Verga, a cura di Carla Riccardi, Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori, 1989, Seriate (BG)
Per De Roberto vedi:
Vittorio Spinazzola, Federico De Roberto e il verismo, Milano, Feltrinelli, 1961
Federico De Roberto, Romanzi, Novelle e Saggi, a cura di C.A. Madrignani, Mondadori, Milano, 1984
AA V. La Letteratura italiana e i suoi classici, Archimede Edizioni, 1997
Racconti italiani dell’Ottocento, a cura di Mara Santi, Mondadori, 2005
Per D’Annunzio vedi:
Gabriele D’Annunzio, Le novelle della Pescara, Oscar Mondadori 1996 Milano.
Gabriele D’Annunzio, Terra Vergine, Oscar Mondadori 1981 Milano.
AA.VV., D’Annunzio giovane e il verismo, atti del I convegno internazionale di studi dannunziani, Pescara 21-21 settembre 1979, Arti grafiche Garibaldi, Pescara 1981.
Per Zena vedi:
Maria Di Giovanna, Remigio Zena narratore,Roma,Bulzoni, 1984
La novella dell’ottocento, a cura di M.Santi, introduzione di C.Riccardi, Milano, Mondatori, 2005.
bozzima: sostanza adesiva con la quale si intridono i fili dell’ordito nella tessitura per ammorbidirli e renderli lucenti, per estensione vale “intruglio”.
Autori :
Anna Colombetti
Chiara Di Piano
Alessandra Fuccillo
Paolo Pegoraro
Nella Porqueddu
Michele Siega
Paola Valle
Fonte: http://www-3.unipv.it/cim/specialistica/corsi-specia/seminario%20leip/La%20novella%20verista%20gruppo%205.doc
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