Francesco Petrarca vita opere e poesie
Francesco Petrarca vita opere e poesie
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Francesco Petrarca
Nasce ad Arezzo il 20 luglio 1304; 1305-10 Francesco e la madre risiedono nel podere di famiglia all’Incisa Valdarno dove, nel 1307, nasce il fratello Gherardo. Nel 1312, il padre decide di abbandonare l’Italia e di trasferirsi a Carpentras presso Avignone. 1312-16 primi studi di Francesco; 1316-20 studi di diritto civile a Montpellier; 1320-26 studi giuridici a Bologna, in compagnia del fratello Gherardo. 6 aprile 1327: apparizione di Laura nella chiesa avignonese di S. Chiara. 1333 viaggia attraverso la Francia, le Fiandre, il Brabante e la Germania. 1336 con il fratello Gherardo scala il Mont Ventoux; primo viaggio a Roma. 1337 si trasferisce a Valchiusa (Vaucluse); nasce Giovanni, il primo figlio naturale. 1341 incoronazione sul Campidoglio a Roma. 1343 il fratello Gherardo si fa monaco; nasce la figlia naturale Francesca; missione in Italia. 1348 muore Laura. 1350 a Roma per il giubileo; conosce Boccaccio. 1354 a Mantova incontra Carlo IV e stringe amicizia con il di lui cancelliere Johann von Neumarkt. 1356 ambasciatore dei Visconti a Praga. 1368 si trasferisce a Padova e poi, 1370, fa costruire una casa ad Arquà, nei colli Euganei. 1374 muore ad Arquà, nella notte tra il 18 e il 19 luglio.
Tralasciando i dettagli degli anni che Petrarca passa alla curia, con tutti i movimenti politici, vorrei passare subito alla più importante esperienza culturale: la salita sul Monte Ventoso e le conseguenze per la nuova visione del mondo. Questa ascensione che viene intrapresa nell’aprile 1336, era un progetto lungamente meditato, come confessa nella sua celebre lettera al suo amico, padre Dionigi da Borgo San Sepolcro: III/1 (Fam. IV,1; Spinto soltanto dal desiderio di visitare un luogo famoso per la sua altezza, sono oggi salito sul monte altissimo di quel paese che a buon diritto si chiama Monte Ventoso. [...] Quello dunque che tante volte avevo pensato risolsi di mandare ad effetto, specialmente perché rileggendo la storia di Roma, m’ero nel giorno innanzi abbattuto in quel passo di Livio, ove narra che Filippo re dei Macedoni, quello stesso che mosse guerra al popolo romano, ascese sull’Elmo monte altissimo della Tessaglia [...])
Il 24 aprile Petrarca, accompagnato dal fratello, si reca a cavallo da Avignone a Malaucène, si ferma per tutto il giorno successivo e all’alba del 26 inizia la salita. Secondo la concezione cristiana – e Petrarca ne è pienamente cosciente - si tratta di un atto peccaminoso: cupiditate ductus, cioè spinto da un forte impulso di curiosità, in più provocato dalla lettura di un autore pagano e per imitare il comportamento di un rè barbarico, vuole infrangere quell’ordine mosaico di rispettare i monti, zona sacrale riservata a Dio: III/2 (Exodus 19,12; State attenti a non salire sul monte e neppure toccarne la base: ognuno che toccherà la sua base morirà.)
Ma il racconto della salita assume prospettive emblematiche nel senso di un’altra peregrinatio spiritualis perché il fratello sale decisamente, mentre Francesco si aggira inutilmente III/3 (Fam. IV,1; [...] non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce [...] Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più.)
Tale il peccatore cristiano prosegue quindi il suo arduo cammino, giungendo finalmente sulla vetta, per osservare un inaudito spettacolo naturale, la visione della creazione come esperienza paesaggistica dei tempi moderni: III/4 (Fam. IV,1; Guardai: e mi vidi le nuvole sotto i piedi. E meno incredibile mi parve allora la fama dell’Ato e dell’Olimpo, vedendo cogli occhi miei in monte meno famoso ciò che di quelli avevo letto ed udito.)
Il libro della natura si apre davanti agli occhi dell’intellettuale e l’invita a decifrare tutte le tracce che la cultura umana vi ha lasciato: III/5 (Fam. IV,1; Vidi però distinti a destra i monti della provincia Lionese e a manca il mare che bagna quindi Marsiglia, e quinci di pochi giorni lontana Aquamorta.)
La provincia Lionese, creata dall’amministrazione romana, Marsiglia come primo insediamento greco ed infine Aquamorta, fondata da Luigi IX come porto di partenza per le crociate cristiane: Petrarca vede sotto i suoi piedi tutta la storia culturale di quella regione e, da quel suo appoggio, potrebbe lanciarsi in alto. Si accorge però subito di non disporre ancora di una meta precisa: III/6 (Fam. IV,1; Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensando a cose terrene, ora, come fatto avevo del corpo, levando in alto la mente, mi venne in capo di prendere il libro delle Confessioni di S. Agostino [...] E lo apersi per leggere quello che mi cadesse sott’occhio, certo che nulla accader vi potesse che pio non fosse e devoto. Volle il caso che mi venisse avanti il libro decimo. Mio fratello stava intento a sentire quello che per bocca mia dicesse Agostino; e lui ch’era presente, ma meglio di lui chiamo Iddio in testimonio, che come prima gettai lo sguardo sul libro, vi lessi: Vanno gli uomini ad ammirare le alture dei monti, i gonfi flutti del mare, il lungo corso dei fiumi, l’immensità dell’oceano, le rivoluzioni degli astri, e di se stessi non prendono cura.)
Petrarca non torna più indietro: l’esperienza della salita non era inutile, la curiosità gli ha aperto prima gli occhi del corpo, e poi gli occhi della mente. La curiosità serve all’intellettuale, ma deve sempre essere diretta verso una meta più nobile di quella della semplice soddisfazione terrena: III/7 (Fam. IV,1; Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi della mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa: quelle parole tormentavano il mio silenzio.)
Quindi, lo sforzo petrarchesco è quello di trovare una forma di conciliazione tra le due culture, quella spirituale cristiana secondo i modelli medievali, e quella letteraria pagana secondo gli antichi.
Africa:
Si tratta di un poema in esametri latini, rimasto incompiuto e con ampie lacune. Lo stesso numero dei libri (cioè 9) fa pensare ad un’interruzione, essendo molto probabile che l’autore intendesse comporne 12, sull’esempio dell’Eneide virgiliana. L’argomento dell’Africa è preso dalle guerre puniche il che costituiva una novità per l’epoca perché il Medioevo, oltre ai romanzi cavallereschi, si interessava soprattutto ai cicli omerici e virgiliani o alle gesta d’Alessandro Magno. Dopo l’invocazione alle Muse e a Cristo con la confluenza simbolica dell’età classica con quella cristiana, il poema descrive la discesa agli inferi di Scipione che parla con le ombre del padre e dei grandi personaggi romani. Da questi riceve il presagio della guerra punica e del destino di Roma, ed inoltre l’annuncio che un giovane poeta natio della terra etrusca, allusione tutt’altro che discreta a Petrarca, sorgerà a cantare le sue gesta. Il secondo libro si chiude con un accenno alla futura decadenza di Roma e con l’elegia sulla caducità di tutti i valori: III/8 (Africa II, 429-434; [...] passeranno i tempi, cadrà questo corpo e le membra si raccoglieranno in indegno sepolcro; presto anche la tomba andrà in rovina, il nome inciso nel marmo perirà; onde soffrirai, o figlio, una seconda morte. Certo più a lungo vivrà la fama affidata ai felici libri, tuttavia anch’essa soffrirà le sue tenebre.)
Nei libri III e IV, frammentari, Scipione invia il suo amico Lelio in Africa per trattare con un re locale un’alleanza contro i Cartaginesi. Su suggerimento della moglie Sofonisba, questi decide però di rimaner fedele alla capitale punica. Dopo un’ampia lacuna, il libro V narra l’ingresso vittorioso di Massinissa, un alleato africano di Roma, nella città conquistata del re marito di Sofonisba, e l’amore tragico di Massinissa per Sofonisba: III/9 (Africa V, 69-75; Subito una ferita ardente d’amore cominciò a errare per le midolla tutte del giovane: come il ghiaccio che si scioglie al calore d’estate, come la cera cedevole presso il focolare ardente, così quello si strugge a vederla., fatto prigioniero della prigioniera nemica, e la vinta poté domare il superbo vincitore.Che cosa amore non spezza?)
Violando i patti con Scipione il quale come comandante dell’esercito romano ha il privilegio di decidere della sorte dei prigionieri, Massinissa promette a Sofonisba il matrimonio per sottrarla all’umiliazione della schiavitù. Resosi conto dell’inflessibilità di Scipione riguardo alla legge militare, lo sposo sfortunato non vede altra alternativa per l’adorata donna che la morte: III/10 (Africa V, 646-652; Ahimè, beate le anime a cui quella luce, improvvisamente sorgendo, verrà a diradare le antiche tenebre! Felici d’esser nati prima, a cui sarà lecito vedere quella che a me rapisce l’invisa morte. Il piede bianco al pari del latte sulla nera barca dovrà salire affrettando il passo divino, e attraversare il ribollente gorgo del Lete. Fortunato Caronte!)
Sofonisba accetta quel suo destino, dimostrandosi un’eroina degna della grandezza classica, di cui troviamo il modello nelle Heroides di Ovidio. Profetizzando a Scipione il gusto amaro dell’ingratitudine che egli dovrà subire dai suoi stessi Romani, beve con stoica decisione la pozione del commiato definitivo: III/11 (Africa V, 767-773; Così disse: e intorno avresti visto i presenti alzar gemiti e pianti, attoniti per la fine crudele. Ella, tenendo con la mano la tazza e alzando al cielo gli sguardi – Almo sole, - disse – dei superni, addio. Addio Massinissa; ricordati di me. – Quindi, come per sete, bevve senza mutare aspetto il tristo veleno, e lo spirito sdegnoso si affrettò verso l’ombre del Tartaro.)
Nel frattempo, i Cartaginesi fanno nascostamente rientrare in patria dall’Italia Annibale e suo fratello Magone. Questi, gravemente ferito, muore durante la traversata, alzando al cospetto della morte il celebre lamento sulla fragilità della vita umana: III/12 (Africa VI, 904-911; Destinato a morire, l’uomo cerca di ascendere agli astri, ma la morte c’insegna quale sia il posto di tutte le nostre cose. A che giovò portare le armi contro il Lazio potente, distruggere con fiamme le case, turbare i patti del vivere umano, sconvolgere le città con triste tumulto? A che mi serve aver costruito alti palazzi adorni d’oro su mura di marmo, se io dovevo per sinistro destino morire così sotto il cielo?)
Questo passo, probabilmente il più noto, sicuramente il primo del poema ad essere divulgato, trasforma decisamente, con la passione lirica, quel guerriero pagano in un filosofo smarrito, un martire precristiano destinato a servire come ammonimento a tutti i grandi del mondo.
Nei libri VII e VIII continuano le vicende della guerra con episodi che testimoniano la generosità di Scipione anche verso i nemici e con lo scontro decisivo tra Scipione e Annibale nella battaglia di Zama. Annibale, dopo aver consigliato ai suoi concittadini di chiedere la pace, abbandona Cartagine per cercare nuove alleanze. Scipione che ritorna a Roma per salire da trionfatore al Campidoglio, ascolta durante il viaggio i canti di Ennio, autore leggendario degli Annales, la prima epopea nazionale dei Romani: III/13 (Africa IX, 54-64; Certo non è piccola fortuna per gli uomini illustri aver avuto un poeta che con versi altisonanti accresca l’onore dell’egregia virtù e il ricordo delle lodi. Ma a te, sommo dei capitani, degno come nessun altro del famoso Omero, la fortuna (in tutto benigna, soltanto in questo severa) non ha dato altri che me. Forse nel corso degli anni verrà qualcuno che innalzi al cielo con degni carmi le tue insigni virtù, le forti gesta, alla cui lira Calliope conceda corde meglio risonanti sotto il dolce plettro e voce sonora.)
De remediis utriusque fortunæ:
Non sappiamo con esattezza quando, ma senza dubbio durante gli anni dei primi interventi politici, cioè tra il 1342 e il 1354, Petrarca comincia a concepire la sua più monumentale opera filosofica la quale gli assicura già in statu nascendi una fama immensa: il De remediis utriusque fortunae. Le uniche notizie esatte che abbiamo, sono una lettera del 1354 nella quale dichiara di scrivere il capitolo 93 del secondo libro, una prima versione portata a termine nel 1360 e la stesura definitiva del 1366, dedicata ad Azzo da Correggio. Il trattato è costituito da 253 dialoghi, compresi in due libri, preceduti entrambi da un breve prologo. Contrariamente alla tradizione della filosofia morale classica (p.es. Seneca: De tranquillitate animi, De brevitate vitae) l’opera non tratta solamente dei rimedi contro le situazioni difficili e malagevoli, nelle quali l’uomo ha bisogno di un’assistenza spirituale, ma si sofferma ampiamente anche sulle cure e le moderazioni che si raccomandano soprattutto nella prosperità: III/14 (Duplice è la nostra lotta contro la Fortuna, e il rischio nei due campi altrettanto grande. Il volgo ne conosce solo una parte, cioè quella che viene chiamata fortuna avversa. Anche se conoscono le due parti, i filosofi pensano che quella sia la più difficile.)
Seneca metteva in scena un dialogo fra Sensus e Ratio nel quale si affrontavano soltanto, secondo la tradizione stoica, le sventure della vita umana, come il dolore, la paura, la miseria e la perdita di esseri o beni cari. Fedele alla concezione cristiana della vanità e a quella della forza tentatrice di ogni bene terrestre, Petrarca ammonisce i suoi lettori ad abbandonare le gioie fragili e a non lasciarsi menare in tentazione da una fortuna troppo favorevole.
Il primo libro compendia i casi relativi alla prosperità in 122 dialoghi tra Gaudio e Speranza da una parte, e la Ragione dall’altra. Ma più che di un vero e proprio colloquio si tratta di un monologo della Ragione, anima e voce dell’autore stesso, che reagisce ad una serie di situazioni atte ad indurre in un ottimismo inconsiderato. Bisogna saper vivere con il necessario distacco, sapersi tener lontano da ogni estremo, considerare l’esistenza un mero passaggio verso la vita eterna e non illudersi per la sua apparente felicità. Bisogna saper dominare se stessi e le proprie passioni, senza mai dimenticare che ogni qualità umana va usata in maniera giusta e temperata, evitando ogni eccesso. Seguendo le idee della filosofia morale del Medioevo, l’opera presenta una casistica di argomenti assai vari e disparati: accanto alle questioni tradizionali della virtù, della bellezza, della fama, del riconoscimento pubblico, della fatuità dei titoli onorifici – laurea poetica compresa – e del valore dell’amicizia, troviamo capitoli sulla curiosità, e persino sul diletto causato da pietre preziose e tazze ornate. Il tema della gloria suscita una serie di argomenti politici e militari: il favore popolare, il regime signorile, l’impero, la vittoria e la pace vengono analizzati con acutezza per condurre finalmente all’espressione di una sfiducia nell’attuale stato dell’impero romano.
Se gli aspetti della buona fortuna sono così vari, il tono del trattato lo è molto meno perché il Petrarca esorta il suo lettore in uno stile grave e abbastanza uniforme a non confidare nei beni di questo mondo. Basta poco, secondo il filosofo morale, perché la fortuna si capovolga e il povero uomo debba rivolgersi alla seconda parte del trattato. Inoltre, dato che le ricchezze procurate dalla buona fortuna sono superficiali ed inadeguati all’adempimento dei veri desideri, l’autore incita il lettore a ricercare i beni sostanziali e più durabili: III/15 (I.108 De felicitate; Gaudio. Sono felice. Ragione. Credi forse che possa renderti felice essere pontefice, o imperatore, o possedere assoluta potenza o ricchezze? T’inganni. Sono condizioni che non rendono né felici né sventurati; ma pongono a nudo e mettono in mostra l’individuo; e se pur avessero qualche efficacia, lo renderebbero sventurato invece che felice, zeppe come sono di quei pericoli nei quali s’affondano le radici stesse delle umane miserie.)
Con esempi dal tono drammatico tenta di dimostrare che la bellezza fisica svanisce, mentre quella spirituale resiste ai capricci del tempo, e che la felicità su questa terra non può essere che un’illusione ingannatrice che distrae dal proseguimento verso il paradiso nell’aldilà. In questo senso, il De remediis può anche considerarsi un’opera sulla vanitas vanitatum, che discende direttamente dalla lezione classica della letteratura consolatoria. Completando il tradizionale spirito stoico con una coscienza cristiana, Petrarca smitizza sistematicamente le facili speranze fondate sull’esistenza caduca. Soltanto la Ragione garantisce un giudizio sereno dei valori incorruttibili ed impedisce il traviamento nella superbia e nella fiducia cieca perché, più di certi rimedi popolari, scruta anche il fondo del male. In questo libro di divulgazione della filosofia morale che vuol insegnare a vivere in sereno equilibrio, non mancano aspetti polemici: nel capitolo 16 del primo libro p.es. viene decisamente attaccata la nozione comune della nobiltà intesa esclusivamente come nobiltà di sangue la quale dovrebbe però cedere il passo alla nobilitas animae, cioè alle qualità e alle virtù individuali di ogni essere umano. La stessa filosofia di fondo è espressa nella seconda parte in cui si parla dei rimedi da adottare nell’avversa fortuna: preceduto da un ampio proemio in cui si sostiene e si esemplifica minutamente la tesi che nella stessa natura dell’uomo tutto è contrasto, il secondo libro affida alla Ragione l’esortazione al coraggio. In 131 dialoghi, la Ragione si difende contro il pessimismo esagerato espresso da Dolore e Paura nei casi più diversi: dalle malattie del corpo a quelle dell’anima, dalla perdita dei propri cari all’ingiustizia politica o civile. L’autore suggerisce di vedere in ogni avversità più i pregi che non i difetti, p.es. l’infermità fisica che dovrebbe farci pensare alla salvezza spirituale. Troviamo dei buoni consigli per tutti quelli che non possono definirsi né giovani, belli, ricchi né in buona salute: chi ha perso al gioco dei dadi ringrazi il cielo per questa lezione; chi è nato da un’umile famiglia pensi a farsi stimare per le sue qualità umane. Non mancano suggerimenti di una sottilità ambigua: un ricco o potente che ha timore di morire avvelenato si conquisti veri amici o, facendosi povero e insignificante, tolga occasione all’invidia altrui. Certe ricette consolatorie sembrano persino, dal nostro punto di vista, piuttosto caricaturali, se non perfettamente disprezzatrici: chi ha perduto la moglie mediti di quanti fastidi si è sollevato e quanta libertà può ora tornare a godere. Finalmente, di fronte alle leggi inesorabili della natura, tutta la filosofia morale deve rassegnarsi in una posizione stoica oppure cristiana: chi non riesce più ad evitare la morte pensi quali illustri compagni (Annibale, Scipione ed altri) lo hanno preceduto in questa sorte e quali speranze possono trarsi dall’esempio dei santi. Una divergenza incompatibile fra la filosofia antica e la dottrina evangelica si mostra però davanti alla questione di una morte volontaria perché Petrarca non può approvare la scelta stoica di uomini come Seneca quando la Chiesa rinnega ai suicidi persino il privilegio di un funerale cristiano.
I contemporanei scoprono in quest’opera la scottante attualità della strage pestilenziale che, nel 1348, in tutta Europa, aveva portato via una cospicua parte della popolazione, vittima innocente di un flagello epidemico mandato dal cielo. Il fervente desiderio dei sopravviventi di ringraziare il cielo per la momentanea salvezza e di prepararsi alla prossima eventualità si riflette p.es. nell’affluenza dei pellegrini per il giubileo del 1350. Non soltanto in Italia, dove gli scontri micidiali delle guerre civili e le sofferenze causate dalle Grandi Compagnie mercenarie hanno creato un clima di estrema disperazione, ma in tutto il continente cresce la coscienza della precarietà capricciosa della fortuna che cambia, da un momento all’altro, salute in malattia e benessere in miseria. In un campo così ben preparato, l’opera consolatoria di Petrarca incontra un successo immediato e quasi incomparabile che perdura ininterrotto nei tre secoli successivi: il suo amico Johann von Neumarkt, cancelliere imperiale, prega l’autore che deve recarsi in visita a Praga, di portargli una copia di quell’opera della quale, anche se non è ancora portata a termine, si discute già alla corte boema. Sono infatti rarissimi i testi di cui si siano fatte altrettante copie manoscritte; col sopraggiungere della stampa a caratteri mobili, escono 28 edizioni fino alla metà del Settecento fra le quali tre nel Quattrocento (la prima nel 1468, presso Heinrich Eggestein a Straßburg) e nove nel Cinquecento. Dalle prefazioni di diverse edizioni sia dell’originale che delle traduzioni possiamo dedurre che il De remediis trova i suoi lettori nella nobiltà e nell’alta borghesia delle città – anche delle regioni protestanti – che lo considerano ottimo strumento per l’educazione della gioventù.
La ricezione massiccia si manifesta anche nelle traduzioni di cui la ricerca ha identificato una cinquantina in nove lingue. Le versioni in tedesco sono le più numerose e testimoniano di una ricezione profonda e regolare. L’importantissimo traduttore preumanistico Niclas van Wyle ha integrato due capitoli del secondo libro (18 De uxoris amissione; 25 De infamia) nel numero 15 delle sue Translatzen, stampate a Eßlingen nel 1478. Molto più ampia, ma sempre frammentaria è la traduzione di Adam Werner von Themar, del 1516. La prima versione tedesca largamente diffusa, anche se stampata con un piccolo ritardo, è quella di Peter Stahel (per il primo libro) e di Georg Spalatin (secondo libro) con un frontespizio molto interessante. L’ornamento grafico della pagina interpreta il titolo del trattato in relazione con l’attualità politica dell’epoca: vediamo la solita ruota della fortuna, spinta dai quattro venti, che innalza i suoi favoriti momentanei e abbassa gli infelici colpiti dal destino. Vediamo qui, sulla sinistra, in un movimento verso l’alto, il sultano dei Turchi che, dopo la vittoria di Belgrado nel 1521, nutre la ben giustificata speranza di un potere crescente, mentre all’apice della ruota, nella posizione più prestigiosa ma anche più precaria, l’imperatore tedesco si difende disperatamente, come nel 1529 nell’assedio di Vienna. Questa silografia del frontespizio e quelle più piccole che precedono i singoli capitoli del testo rappresentano documenti storici di un immenso valore per quel che riguarda la ricezione.
Vorrei, alla fine di questo riassunto del De remediis, attirare la vostra attenzione su due capitoli del primo libro che trattano in modo moral-filosofico un fenomeno particolarmente interessante per la storia della letteratura: nel capitolo 43, parlando della proliferazione dei libri, Petrarca denuncia l’attitudine dei ricchi che comprano manoscritti soltanto per decorare la casa con oggetti di prestigio culturale: III/16 (I.43 De librorum copia; nella traduzione tedesca con la silografia di una libreria; Freud. Ich hab vil Bücher. Vernunfft. Ey wie gantz füglich entsprinngt von disen dingen vrsach zů reden/ dann zů gleicher weiß/ als etliche Bücher zů zucht/ also auch andere zů růmretigkeit/ die Bücher sůchen/ Es sind etlich die disen seyten zieren jre kamern mit büchern/ wölliche doch zů zierd der gemüth erfunden ist/ sollend gleich wol nicht anderst diser bücher sich gebrauchen/ dann der ehrenen gefäß/ gemalter taflen/ geschniter Bylder/ vnn anderer ding/ dauon hieuor rede geschehen ist/ Man fyndt vnderweilen in ansehung der bücher dem geytze anhangen/ yha der aller bösesten mit dem rechten werdt der bücher/ sonder für den werd schätzende/ das ist ein böses/ wiewol newes gifft/ vnnd das nechst hieuor geachtet wirdet/ den vbungen der Reychen zů gegenn kommen sey/ On dem ein werckzeug der begyrlichkait vnd on kunst zů gewachsen ist.
Secondo i principi dell’economia del mercato, questa richiesta di prodotti culturali provoca un’offerta crescente dalla parte degli scrittori, reazione che Petrarca – non senza un visibile tocco di autoironia – considera una malattia contagiosa: III/17 (I.44 De scriptorum fama; Freud. Wie mainstu aber im seyn/ das ich selbs bůcher mache oder schreib. Vernunfft. Dises ist ein offenbarliche vermaylgende vnhaylpare kranckheit/ yederman vnndersteht sich des ampts/ bůcher zů machen/ das doch wenigen verlihen/ vnd ein einiger mit disem vbel behefft/ vergifftet vil ander/ Dann es ist ein ding nach zůthůn/ gemain/ Aber recht zů treffen/ hoch schwere/ Hierumb wechßt täglich die zal sollicher krancken/ darbey nimpt vberhande die krafft der kranckheit/ täglichs aber nachuolgen werden jr mer/ schreiben bößlicher dann leychter ist/ [...]
Anche se la fama e la diffusione del De remediis utriusque fortune durante il tardo Medioevo e il Rinascimento rimangono ineguagliate, non dobbiamo per questo dimenticare gli altri trattati morali o filosofici del Petrarca i quali contengono alcuni pensieri elementari dell’Umanesimo nascente:
De viris illustribus: biografie; 1338-53.
De vita solitaria: 2 libri; 1346-sgg.
De otio religioso: 2 libri al fratello Gherardo; 1347.
De secreto conflictu curarum mearum (Secretum) : proemio e 3 libri; 1347-53.
Rerum vulgarium fragmenta – Canzoniere:
Mentre non sappiamo nulla delle donne che diedero a Petrarca il figlio Giovanni e, 6 anni più tardi, la figlia Francesca, è più che noto il nome del suo grande amore poetico: Laura. In verità ne conosciamo poco più del nome. Le vere notizie su Laura ci provengono dalla nota che Petrarca scrive sul primo foglio del suo Virgilio quando, il 19 maggio 1348, viene a sapere che l’adorata donna era morta poche settimane innanzi. A parte la data del primo incontro e quella della morte aggiunge servendosi delle solite formule che il suo corpo castissimo e bellissimo riposa nel cimitero dei frati minori ad Avignone. Cominciato il 6 aprile 1327, l’amore di Petrarca dura fino alla morte di Laura, il 6 aprile 1348: ventun’anni esatti, numero altrettanto simbolico che la data, il che solleva da sempre discussioni vivissime sulla rispettiva interpretazione. Laura era sposata e aveva molti figli. Ciò non pregiudica però la sua raffigurazione ideale: l’amore del poeta per una donna sposata, madre di figli altrui, è infatti del tutto conforme alle tradizioni della poesia medievale, soprattutto a quella dei Troubadours.
Petrarca comincia a poetare in volgare ancor prima del suo incontro con Laura. Ne siamo informati perché fa vedere i primi componimenti agli amici bolognesi. Dopo il 6 aprile del 1327, le poesie d’amore divengono decisamente più numerose e, nel giro di circa dieci anni, Petrarca produce una bella raccolta che decide di mettere in pulito attorno al 1336. Nasce così, tra il 1336 e il 1338, il libro degli abbozzi, primo nucleo di quei Rerum vulgarium fragmenta ai quali Petrarca attende per il resto di sua vita, fino alla nona e sempre provvisoria versione. Nel corso degli anni 1342-47 amplia considerevolmente quella prima raccolta che, tra il 1356 e il 1358, viene allestita in una prima edizione offerta all’amico Azzo da Correggio. Si tratta in questo momento di 215 componimenti con il titolo complessivo di Fragmentorum liber. A questa prima forma, lontana di essere definitiva, fa seguire almeno otto altre redazioni che rivede e migliora continuamente. Soltanto nel 1373, nella copia per Pandolfo Malatesta, giunge al numero conclusivo di 366 poesie, anche se l’ultima stesura data persino del 1374, in parte della mano dell’autore, in parte trascritta da un copista. Il Canzoniere di Petrarca, come viene chiamato dopo la prima edizione indipendente del 1501, curata da Pietro Bembo e integrata nella prestigiosa collana dei classici del celeberrimo stampatore veneziano Aldo Manuzio, è formato da 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali. E inoltre suddiviso in due parti: nn. I-CCLXIII in vita, e nn. CCLXIV-CCCLXVI in morte di madonna Laura.
Il tema complessivo della raccolta sono i sentimenti amorosi del poeta adoratore per una donna ideale della quale non può sperare altro che la reciprocità dell’affetto. Rispettando almeno parzialmente il concetto dell’amore da lontano dei Troubadours, i componimenti poetici non possono raccontarci episodi concreti del contatto sentimentale tra due persone, ma descrivono stati d’animo e situazioni psicologiche dell’io parlante. Il contenuto si concentra quindi sull’espressione sintomatica di un individuo infelice che fa appello alla donna adorata, al lettore oppure, in quello stato d’animo che la critica chiama voluptas dolendi, a se stesso.
Il Canzoniere si apre con il celebre sonetto di prefazione: III/18 (Canz. I)
Petrarca espone in questa poesia il tema della raccolta, prendendone però subito le distanze perché il sonetto si chiude con il pentimento del poeta circa lo stato di vita trascorsa e la coscienza che quanto è terreno svanisce fugacemente. Dopo la descrizione del primo incontro e dell’intervento di Amore, terzo grande protagonista dell’opera accanto a Laura e al poeta, il terzo componimento è dedicato alla commemorazione del giorno dell’innamoramento che coincide emblematicamente con l’anniversario della Passione di Cristo. Esattamente come nella tradizione platonica e trovadorica, l’immagine luminosa della persona amata penetra attraverso gli occhi per fissarsi indelebilmente nel cuore, sede degli affetti. La poesia non declina soltanto gli stati d’animo delle persone ma gioca anche con le parole Laura – l’aura – lauro come vediamo nella sestina seguente: III/19 (Canz. XXX.1-12)
L’amore per Laura, in realtà sicuramente mai ricambiato perché probabilmente sempre nascosto, genera diversi e spesso anche contrastanti sentimenti. Molto frequenti sono le poesie piene di disperazione nelle quali la figura di Laura infligge il più doloroso tormento. L’inquietudine interiore sale talvolta a vertici lirici quando il poeta rispecchia nel rapporto con la natura il proprio disagio esistenziale, in un’atmosfera tra sogno e realtà, in una serie di quadri idillici ai quali serve da contrappunto poetico il dolore sentimentale. Lo scenario paesaggistico del Canzoniere rievoca di continuo quell’ambiente naturale idealizzato di Valchiusa in cui viene coltivata la passione per la donna eletta: III/20 (Canz. XXXV)
Troviamo però anche rari momenti di felicità esaltante in cui il poeta sente una soddisfazione profonda: III/21 (Canz. LXI)
Le descrizioni della donna adorata rispettano le regole letterarie della tradizione trovadoresca: III/22 (Canz. XC)
Oppure l’integrazione della visione della donna amata in un paesaggio ideale: III/23 (Canz. CXXVI.1-13)
Tipica per Petrarca diventa però l’espressione antitetica degli stati d’animo che segue i tortuosi cammini della voluptas dolendi: III/24 (Canz. CXXXIV)
Anche con una rielaborazione poetica delle cose sentite: III/25 (Canz. CCXXIX)
Gli spettacoli naturali che suggerivano un tempo pensieri d’amore li provocano tuttora, ma con accenti sempre più malinconici e contrastanti: III/26 (Canz. CCCX)
Questo sonetto mette in evidenza prima di tutto l’opposizione tra la natura primaverile e lo stato d’animo del poeta, con un’antitesi tipica tra le due quartine e le due terzine. La struttura attinge alla teoria stoica delle quattro perturbationes che sono il piacere, il desiderio, la paura e il dolore, teoria studiata da Petrarca nelle opere di Cicerone e di Agostino. L’atmosfera arcadica della prima parte con le sue allusioni alla mitologia antica (le due sorelle Progne e Filomena mutate in uccelli; Giove e sua figlia Venere) si trasforma in una contemplazione cristiana di fronte alla morte della persona amata che portò le chiavi del cuore in cielo.
La seconda parte del Canzoniere, in morte di madonna Laura, assume poi timbri profondamente religiosi: il poeta riflette sul proprio destino, sulla fuga inarrestabile del tempo e, di conseguenza, confrontato alla disparizione dell’adorata donna, sull’inesorabile fine della nostra esistenza terrestre: III/27 (Canz. CCCXXXII.1-12, 67-75)
Negli ultimi componimenti del Canzoniere prevale chiaramente la gravità della poesia-preghiera sul tema del pentimento: III/28 (Canz. CCCLXV)
Già nella prima parte si trovano invocazioni di Dio: III/29 (Canz. LXII.1-8)
Il Canzoniere si chiude con una semplice adorazione religiosa nella canzone finale alla Madonna: III/30 (Canz. CCCLXVI.1-13)
Non mancano però nella prima parte del Canzoniere, in vita di madonna Laura, altri soggetti, seppure quantitativamente meno consistenti, p. es. il celebre gruppo delle tre canzoni politiche (nn. XXVIII, LIII, CXXVIII) in cui il poeta, ricordando le grandi imprese del passato, incita i suoi contemporanei a ritrovare gli antichi valori e restaurare la grandezza di Roma e dell’Italia: III/31 (Canz. CXXVIII.1-16)
Sul Canzoniere, invece che sulle opere latine che gettavano almeno fino all’inizio del Cinquecento l’ombra umanistica del pregiudizio intellettuale sui Rerum vulgarium fragmenta, si appoggia inconfondibilmente la fortuna moderna del poeta. La ricezione dei componimenti in volgare è favorita, già dal Quattrocento in poi, in maniera massiccia dalla trasposizione dei testi in musica vocale, sacrale e profana. Ma per farsi un’idea dell’importanza che ha la musica vocale come vettore della trasmissione nel Cinquecento – soprattutto nel caso del Canzoniere – basta citare gli esempi più conosciuti: n° I: Voi ch’ascoltate messo in musica undici volte; n° XXXV: Solo e pensoso diciannove volte; n° XC: Erano i capei d’oro diciotto volte; n° CXXXIV: Pace non trovo dodici volte; n° CCCXXXII: Mia benigna fortuna quindici volte. Infatti, è il nascente movimento letterario del petrarchismo che offre spunti addirittura ideali per le aspirazioni della nascente cultura di corte che vedeva nella combinazione di poesia e musica la perfetta rappresentazione pubblica di un testo poetico. Una delle principali caratteristiche dell’umanesimo europeo – del quale Petrarca stesso aveva gettato le fondamenta – è l’imitatio degli autori latini nella propria produzione neolatina. E quando, all’inizio del Cinquecento, si comincia ad imitare la poesia italiana del poeta laureato sia in Italia che a livello europeo, il principio dell’imitatio viene per la prima volta applicato anche alla poesia volgare. I cosiddetti petrarchisti fanno un largo uso dei mezzi della retorica classica per esprimere sentimenti veri o falsi che siano, ed è in questo punto che incontrano in modo particolare il favore della società colta contemporanea.
Triumphi:
La datazione è una delle più incerte: il primo avvio più probabile negli anni 1352-53; la Commedia di Dante, principale fonte d’ispirazione quanto riguarda le tecniche stilistiche; esistenza di almeno una parte dell’opera nel 1356 ed il fatto che il poeta lavorava al testo praticamente fino all’ultimo momento della sua vita, nel 1374. Il poema in terza rima si compone di sei trionfi i quali, in ordine, sono i seguenti: III/32
Malgrado il testo in toscano, l’autore li chiama sempre Triumphi, nella forma latina, per sottolineare tramite la scelta linguistica per il titolo il carattere serio del poema. Il sistema letterario della diglossia funzionale fra le opere in latino di una concezione più vasta, indipendente dal momento e dall’individuo, e le opere in volgare di un’espressione più personale e momentanea, viene rispettato dagli autori fino al Cinquecento.
I trionfi sono l’esposizione di una visione del poeta travolto, nella solitudine campestre della Primavera provenzale, dall’amore giovanile per Laura. Nel primo dei quattro capitoli del Triumphus Cupidinis gli appare il dio dell’Amore (Cupido) che celebra, sul suo carro, il proprio trionfo come un condottiero romano vittorioso che sale al Campidoglio (cassone nuziale del Duomo di Graz). Secondo il modello antico degli illustri prigionieri tratti in cattività dal vincitore, possiamo osservare dietro il carro del dio trionfatore un corteo di tutti quelli che sono soccombuti ai suoi strali. Si offre a Petrarca come guida nel regno dell’amore uno di questi prigionieri del quale però il poeta non rivela mai l’identità. L’avvicinamento letterario a Dante come poeta esperto dell’amore si rende però particolarmente percepibile nella scena dell’incontro che sembra una citazione dalla Divina Commedia: III/33
La sua guida fa vedere al novizio amoroso le vittime più imponenti del Dio, tra le quali Cesare schiavo di Cleopatra e Ottaviano Augusto che spasimò a lungo prima di conquistare Livia già sposa di un altro. In maniera di autocitazione, Petrarca mette in scena un dialogo con Massinissa il quale ripete le sue sofferenze già raccontate nell’Africa. Appare poi, nel mezzo della schiera, una giovane donna purissima che cattura l’anima ed il cuore di Petrarca trasformando in questa maniera il semplice spettatore in vittima di Cupido. Insieme con gli altri poeti d’amore, egli si vede ormai costretto a seguire la divinità nell’isola di Cipro per assistere al trionfo finale di Venere: III/34
L’unico capitolo del Triumphus Pudicitie confronta poi il dio dell’Amore con Laura, la quale come simbolo delle massime virtù femminili incarna la pudicizia stessa. L’Amore carnale deve dichiararsi sconfitto ed ammirare insieme al poeta il lungo corteo di donne che hanno consacrato la propria vita alla castità, che in compagnia di molte altre figure allegoriche partecipa al trionfo: III/35
I due capitoli del Triumphus Mortis iniziano con il ritorno di Laura dalla guerra della castità contro Cupido nel momento in cui le si fa incontro la minaccia della morte. Per sottolineare la forza di questa minaccia, la campagna intorno alla donna si copre di morti appartenenti a tutte le condizioni sociali. Alla donna che inturbata si mostra pronta ad accettare la decisione divina, la Morte promette allora di farla uscire dalla vita senza alcun dolore. Dopo lo staccamento simbolico di un ciuffo di capelli, Laura trapassa serenamente e, circondata da un alone di pace sovrumana, giace davanti al poeta: III/36
Arricchito dalla sua ultima vittima, Laura, la Morte celebra il proprio trionfo sul solito carro, seguito da una serie di personaggi antichi o cristiani il di cui transito esemplare viene citato come strumento consolatorio. Nella notte successiva, Laura appare in sogno a Petrarca per confermargli che il momento del trapasso non è doloroso. Prendendo congedo lo assicura per la prima e l’unica volta della propria affezione.
Ma sulla Morte trionfa talvolta la fama di quei mortali che si sono resi famosi con azioni o pensieri eccezionali. Nei tre capitoli del Triumphus Fame vediamo la Dea collocata sul carro seguito da una lunga tratta di uomini e donne illustri, dagli antichi come Cesare e Scipione, fino ai moderni come re Roberto di Napoli. Il Triumphus Temporis, composto come anche l’ultimo dei Trionfi da un solo capitolo, si apre con un discorso del Sole che si dichiara invidioso della fama degli uomini celebri i quali, per la loro fama, attingono quasi l’immortalità. Il corso velocissimo della stella ardente simboleggia lo scorrere vertiginoso ed inesorabile del tempo contro il quale nemmeno la fama protegge né sempre né mai completamente. Questa meditazione sulla fugacità delle cose ci ricorda che il mondo degli uomini rimane perennemente soggiogato al Tempo e niente di corruttibile sopravvive al suo dente: III/37
L’unico e supremo rifugio si può sperare soltanto nell’ordine nuovo proclamato dal cristianesimo, fuori del tempo, in un’esistenza immateriale basata sull’eterno amore, cioè nel Triumphus Eternitatis il quale corrisponde nella sua concezione filosofica al Paradiso dantesco: III/38
La morale del tutto è abbastanza trasparente: l’Amore è vinto dalla Pudicizia, la quale però non può resistere alla Morte; più forte della Morte si dimostra la Fama, ma il Tempo ha ragione anche di essa; sul Tempo, solo l’Eternità potrà trionfare.
Fonte: http://homepage.univie.ac.at/alfred.noe/300/300-3.doc
Autore: alfred noe
Francesco Petrarca vita opere e poesie
FRANCESCO PETRARCA (Arezzo 1304 – Arquà 1374)
Chi è Francesco Petrarca? |
Francesco Petrarca è:
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Che cos’è l’Umanesimo? |
Alla fine del XIV secolo (= 1300) e all’inizio del XV secolo (= 1400) in Italia inizia un periodo nuovo per la cultura: l’Umanesimo. Gli Umanisti studiano i libri antichi, scritti da autori greci e romani, prima del Medioevo. Gli Umanisti cercano nei libri le idee degli autori antichi. Gli Umanisti non leggono più le traduzioni dei libri antichi che ha fatto la Chiesa durante il Medioevo, perché a volte la Chiesa ha cambiato un po’ i libri. Gli Umanisti pensano che l’uomo e la vita dell’uomo sulla terra siano importanti. |
Che cosa scrive Francesco Petrarca? |
Francesco Petrarca scrive:
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Quali sono le idee di Francesco Petrarca? |
Francesco Petrarca pensa che:
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IL CANZONIERE DI FRANCESCO PETRARCA
Che cosa c’è prima del Canzoniere di Francesco Petrarca? |
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Che cos’è il Canzoniere di Francesco Petrarca? |
3. Il Canzoniere non è solo un insieme di tante poesie. Tutte le poesie |
In quali anni Francesco Petrarca scrive il Canzoniere? |
Francesco Petrarca scrive il Canzoniere tra il 1342 e il 1374. In questo lungo periodo (32 anni) Petrarca cerca di rendere il Canzoniere sempre più perfetto nel contenuto (= cosa scrive Petrarca) e soprattutto nella lingua e nello stile (= come scrive Petrarca) |
Come è fatto il Canzoniere di Francesco Petrarca? |
È diviso in due parti. Le poesie sono più o meno in ordine cronologico (= di tempo). |
Quali sono i temi del Canzoniere? |
1. La natura: Petrarca ama la natura e parla con la natura |
Chi è Petrarca nel Canzoniere? |
Petrarca è:
Petrarca autore guarda la vita e l’amore per Laura di Petrarca protagonista e condanna questo amore, cioè dice che questo amore è stato un errore. L’amore per Laura ha portato Petrarca lontano dall’amore per Dio. |
Chi è Laura nel Canzoniere? |
Laura è:
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Com’è la lingua del Canzoniere? |
Petrarca lavora molto al Canzoniere per avere:
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Quali sono i metri del Canzoniere? |
Petrarca usa metri diversi nel Canzoniere. Scrive soprattutto sonetti e canzoni |
Il successo del Canzoniere: |
Il Canzoniere ha un grande successo perché la lingua e i temi di Petrarca sono un esempio per molti poeti europei successivi (= che vengono dopo Petrarca) |
Fonte: http://www.inretelab.altervista.org/letteratura/contenuti/originiletteratura/petrarca_canzoniere.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Francesco Petrarca (1304-1374)
La vita
Nasce ad Arezzo nel 1304 dal padre Petracco, guelfo bianco. Scappano da Firenze dopo il colpo di stato. Il padre possedeva dei poderi e molte proprietà e quindi non avevano mai avuto problemi economici.
Si hanno moltissime informazioni da lui stesso tramandate, dove si mette sempre al centro dell’attenzione come uomo. Ebbe una vita da pellegrino, e nel 1312 si trasferì a Carpentras, nei pressi di Avignone (dove in quegli anni risiedeva il papa).
Inizialmente seguì un indirizzo giuridico, ma componeva già versi. Nel 1326 morì il padre e dovette rinunciare agli studi. Lui e suo fratello ebbero una vita molto popolare, erano protetti dai Colonna ed ereditarono i manieri del padre. Gli mancava solo la sua donna, che incontrò nel 1327, che chiamò Laura. E’ una ragazza veramente esistita, ma Petrarca l’ha “schermata”.
Il fratello, nel 1343, entrò in convento e lui prese gli ordini minori, che gli procuravano benefici ecclesiastici che gli permettevano l’attività letteraria. L’unica obbligazione era il celibato, che però non rispettò. Viaggiò e studiò molto.
Va alla ricerca dei testi antichi e fece quella che si può definire la prima edizione critica del “Ab Urbe Condita” (la storia di Roma). E’ quindi anche un filologo.
Prima dell’incoronazione come poeta a Roma in Campidoglio, si sottopose ad una prova sconosciuta. Si allontanò dai Colonna grazie alla sua fama e si trasferì a Valchiusa.
Comincia a riscoprire testi antichi (Cicerone) e a scrivere le prime bozze di quel che sarà il “Canzoniere”. Nel 1353 lascia la Provenza e si stabilisce a Milano, dove prese posizione per la pace a Genova. Qui ebbe rapporti con Boccaccio.
A causa della peste dovette trasferirsi prima a Padova e poi a Venezia. Qui conobbe Francesca, da cui ebbe due figli, ma uno morì di peste. Trascorse i suoi ultimi anni a Padova. Nel 1370 andò a Roma, ma si sentì male e tornò indietro.
Nel 1374 morì poche ore dopo aver finito di tradurre in latino il Decamerone.
Il primo umanista
Petrarca cita l’antichità classica come modello insuperato per ricostruire una vera cultura, affermandosi così uno dei primi umanisti.
La politica
L’Italia non è ancora uno stato unificato, è infatti teatro di battagli e il papa non risiede neanche a Roma, ma ad Avignone.
Cola di Rienzo cercò di formare una repubblica scacciando i nobili di Romna, ma non ebbe successo e venne ucciso.
Con Petrarca la vita politica e civile non può fare a meno degli uomini di cultura; la situazione durerà a lungo e sarà fondamentale per l’Umanesimo.
Lo stile
Classico = opera in cui si possono ancora trovare risposte, attuale
Petrarca diventa un poeta di livello europeo grazie alle lodi a Laura. Cerca la pace, che non trova da nessuna parte. Supera il suo dolore scrivendo poesie. E’ malinconico e triste.
Per il poeta l’acqua era l’esempio di un tipo di poesia.
Rerum Vulgarium Fragmenta
= frammenti di cose volgari (o Canzoniere)
E’ una raccolta di una vita intera, infatti sono 366 testi scritti in quarant’anni di vita.
- 317 sonetti
- 29 canzoni = divisa in stanze, non strofe, a loro volta divise in tre: piede, fronte e sirma)
- 9 sestine = sei versi endecasillabi in rima (ABABCC)
- 7 ballate = forma particolare di canzone
- 4 madrigali = piccolo sonetto di dieci versi
La bipartizione tra rime in vite (1-263) e rime in morte (264-366) di Laura è solo simbolica. Petrarca è il vero protagonista del Canzoniere.
Ci sono chiare allusioni a Laura, sia lessicali che stilistiche (lauro, l’aura,…).
Sonetto proemiale
Chiarimento lessicale
Il testo è diviso in due parti:
- l’esperienza giovanile dell’autore
- il Petrarca maturo
Il sonetto proemiale appare per la prima volta nella seconda metà delle nove relazioni del Canzoniere, quindi è una sorta di introduzione, ma anche una conclusione, perché è stato scritto da Petrarca maturo. Inoltre afferma di non aver conosciuto Dante, anche se i riferimenti sono più che evidenti nei suoi scritti.
Nel testo Petrarca si rivolge a tutti coloro che hanno provato l’amore. Il suo sentimento per Laura non è corrisposto e si descrive come un uomo che fa pena alla gente (chiaro segno di debolezza).
La sintassi riproduce il tortuoso percorso interiore del poeta, infatti niente è casuale, tutto assume un valore espressivo.
Il bilancio del sonetto è un confronto tra passato e presente, che si rispecchia nella morfologia. Si deduce che il passato è il tempo dell’errore e il presente della presa di coscienza di quell’errore. I tempi verbali fanno sentire la distanza tra l’io che scrive e l’io che ha vissuto l’esperienza nel passato.
Analisi del testo
E’ un’opera in cui il poeta fa un bilancio esistenziale e poetico. Si volge indietro a valutare la sua esperienza. Nello stesso tempo fa un bilancio della sua vita poetica. Fa quindi un’introspezione, tipica delle sue poesie, quasi come chi vuole mettere a nudo le sue vergogne. E’ quindi un bilancio negativo.
Incoerente oscillazione
Petrarca ha nutrito il cuore di sospiri amorosi, ma è stato un errore, perché l’ha portato a oscillare tra speranza e dolore, una dispersione tra cose vane. Può trarre un bilancio, perché ora è un altro uomo, anche se non ha completamente superato l’errore.
Non è solo una condanna morale del suo comportamento, ma anche del suo stile: oscilla tra vari temi senza organicità.
Le rime sparse
Sono il frutto dell’oscillazione. L’esperienza morale e letteraria si fendono e sono coinvolte in un unico giudizio.
Il titolo fa cogliere una minore importanza rispetto alle opere latine. Preferisce le opere latine perché ha la necessità di comunicare con gli intellettuali del tempo.
Per lui il volgare è la lingua letteraria, il latino è la lingua di comunicazione.
La speranza di trovare pietà
Petrarca vuole trovare compassione e perdono tra i lettori, quelli che hanno provato un’esperienza amorosa. Il passato non è cancellato, ma vive in stretto rapporto con il presente. La speranza cade quando si accorge di essere stato deriso. Si sente un leggero rimpianto del passato.
La vergogna
La vergogna accompagna sempre l’autore, rendendo il discorso amaro. L’amore secondo lui è stato vano, ha portato solo vergogna e quindi nasce un sentimento di vergogna.
La vanità del tutto
Si rende conto che tutto è breve e svanisce. Nell’ultimo verso rieccheggia una sentenza di un testo biblico (l’Ecclesiasta): “vanitas vanitatum et omnia vanitas” (= vanità delle vanità e tutto è vanità). Significa che tutte le cose sono effimere, finiscono.
Vengono chiamati in causa aspetti tipici del Medioevo, pessimistici.
Gli aspetti formali
Livello sintattico
C’è una netta separazione tra quartine e terzine, segnata dalla fine del periodo. Il “voi” iniziale è un vocativo, senza verbo.
Il sonetto poggia su un’architettura sintattica molto rigorosa (come tutti i suoi testi).
Le quartine sono un intero periodo con una struttura molto complessa, ricca di subordinate. Nella seconda quartina si forma un chiasmo, perché il verbo di riferimento (spero) è alla fine. Il chiasmo si riproduce in varie dittologie (coppie di parole o di verbi).
Nel linguaggio poetico nulla è casuale: tutto assume un valore espressivo. La sintassi riproduce quindi il tortuoso percorso mentale del poeta.
Le terzine invece presentano una struttura molto più secca, un tono più duro e un secco MA di contrapposizione, che include un polisindeto (tante congiunzioni).
Livello metrico
Nelle quartine ci sono rime vocaliche (-ono / -ore), mentre nelle tre ci sono rime consonantiche (-utto / -ente).
Vocalico = suonano aperto
Consonantico = a sillaba chiusa, con uno scontro di consonanti
Questo conferma la bipartizione del test. Il suono duro corrisponde alla vergogna. C’è una cesura (v.4) che sottolinea una frattura con il passato.
Livello lessicale
Ci sono alcuni aggettivi. Tutti hanno una connotazione negativa. La gioventù è un continuo vaneggiare. C’è anche la ripresa tematica del “vaneggiare”.
Livello retorico
Le allitterazioni (vv. 10-11) mettono in risalto la vergogna, perché è l’unica non allitterata
Livello morfologico (come sono formate le parole)
C’è una netta divaricazione tra i verbi al passato e al presente. Il passato è il tempo dell’errore, mentre il presente è quello della consapevolezza.
Il tempo dà all’uomo un senso di precarietà. La frase finale è al presente, come se fosse sempre valida e indicasse una verità universale.
Livello fonico
Fonema = unità che non puoi dividere, che esprime un suono
Il /v/ mette in risalto il vaneggiare, che ricorre molto spesso.
Solo et pensono i più deserti campi (XXXV)
Incipit = inizio
Explicit = fine
Le rime
Sono legate tra loro, creando la “musica” del sonetto, che però è un po’ sottotono.
L’amore
Il tema della segretezza del proprio amore è atto alla difesa delle due persone implicate, e non per nascondere l’amore in sé. In questo contesto la segretezza non serve, perché Petrarca non vive più a corte.
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (XC)
Sentenza = frase sintetica al verso 14
Vago = bello (lume degli occhi)
Non sa se era un’impressione, magari si è illuso che Laura era innamorata di lui.
Ora, nel romanticismo, viene messo al primo posto il sentimento, al contrario di ciò che succedeva ai tempi.
Laura è una figura solida, vera, con però attributi celesti (capelli d’oro, luminosità solare, camminata divina).
Senahl = immagini usate dai trovatori per nascondere il nome della donna amata, che però la rappresentano
Temi
- Il ricordo (erano…)
- La bellezza di Laura resa in termini convenzionali
- L’angelicazione
- Il tempo che passa / la costanza dell’amore
Laura è nel cuore, all’interno di Petrarca, e quindi i cambiamenti esterni, del corpo, non influiscono sull’amore che lui prova nei confronti della donna.
Era il giorno ch’al sol si scoloraro
Il livello metrico
- sonetto
- 14 versi endecasillabi
- lo schema delle rime è ABBA, ABBA, CDE, CDE
- c’è armonia, equilibrio e linearità tra le parole
- le rime sembrano fra loro assonanti e consonanti
Il profilo sintattico
La poesia ha tre frasi una per quartina e una per le due terzine.
Livello fonico
Nel poema vi è la prevalenza dei suoni r e m; confrontandolo con il primo sonetto possiamo affermare che anche qui vi è un’insistenza allitterativa e di rime.
Parafrasi
Era il giorno il sole si oscurò per pietà verso Dio (venerdì Santo), quando io fui catturato mentre non ero in guardia e i vostri begli occhi mi legarono.
Non mi sembrava il momento di prendere precauzioni contro l’amore perciò me ne andai senza preoccuparmi e da quel momento nel dolore comune iniziarono i miei guai. [è colmo dio riprese dantesche]
L’amore mi trovò disarmato a resistergli e trovò aperta la via verso il cuore attraverso gli occhi perciò secondo me non fu un’impresa onorevole colpirmi mentre ero in quella situazione e a voi (Laura) invece armata di virtù non mostrare neanche l’arco (l’amore non corrisposto).
Si può notare come il Canzoniere si propone come diario intimo in cui il poeta annota i suoi stati d’animo e i momenti più significativi della storia d’amore.
Ciò che è descritto in questa poesia, ossia il primo incontro, è il giovanile errore del primo sonetto.
Vi è il mischiarsi del dolore comune a tutti religioso e di quello profano.
Petrarca riprende il linguaggio degli stilnovisti e della scuola siciliana (letteratura cortese).
C’è un rimanda a Paolo e Francesca Inf.V.
Nelle terzine c’è il sopravvento dell’amore profano ed il Dio amore è personificato nelle vesti dell’arciere. L’amore, però, è stato sleale perché non ha obbedito alle leggi della cavalleria e Petrarca lo ha subito.
Nel V sonetto vi è un gioco di parole per dire LAU-RE-TA, di Laura non si conosce niente tanto che molti dicono che non sia mai esistita.
Petrarca diventa un poeta a livello europeo e dopo di lui si vengono a conoscere i siciliani e gli stilnovisti inoltre egli crea un linguaggio amoroso.
Movesi il vecchierel canuto et bianco (XVI)
Vi sono immagini desunte dalla letteratura o dalla Bibbia; vi è nuovamente un tema religioso il pellegrinaggio che si mischia a un tema profano.
Parafrasi
Un vecchio pallido in viso si muove dal luogo dove ha passato la sua vita e la famiglia vede il padre partire per un viaggio (Bonifacio VIII indice un giubileo), quindi trascinando il suo vecchio corpo attraverso le ultime giornate della sua vita rotto dagli anni e stano dal cammino viene a Roma seguendo il desiderio di vedere l’immagine di Cristo che spera di vedere in Cielo (Veronica); così io misero a volte cerco nelle altre donne l’immagine vera della vostra forma.
Il poeta cerca nelle altre donne il volto di Laura che è quasi assimilato a quello di Gesù.
La vita fugge e non s’arresta una hora (CCLXXII)
Dove collochi il sonetto?
Il sonetto è una rima in morte di Laura e lo si vede dal fatto che gli occhi di lei sono spenti, privi di luce (v.14).
Si analizzi il sonetto dal punto di vista stilistico (tutti i livelli)
Il sonetto è diviso in due periodi. Il lungo periodo che occupa le quartine tratta del rapporto dell’io lirico con il tempo che fugge. Della struttura sintattica della frase si può dire che vi sono dei polisindeti che formano delle coppie contrastive o sinonimiche. Nelle due terzine vi è la metafora della nave; il rapporto con il tempo spinge il poeta a fare un bilancio della propria vita attraverso una metafora. La vita del poeta è un navigare che è soggetto a degli ostacoli (venti, tempeste,…) inoltre c’erano le stelle che lo guidavano (gli occhi di Laura) che ora sono spenti.
Parafrasi
La vita scorre e non si ferma un attimo e la morte ci insegue rapidamente e le cose presenti e passate mi tormentano e anche quelle future; e il ricordare e l’aspettare mi angosciano da una parte e dall’altra così che in verità se non fosse per la pietà che nutro verso me stesso mi sarei già liberato da queste angosce dandomi la morte.
Mi ritornano in mente gli istanti di dolcezza se mai qualcuno con il cuore angosciato ne ebbe e poi vedo dall’altra parte il mio navigare (la mia vita) in balia dei venti; vedo la tempesta (il destino) in porto (la morte) ed è stanco colui che guida (la ragione) e spezzati gli alberi (la virtù, la fortezza) le sartie (funi) e i bei occhi privi di luce, quegli occhi che solevo guardare.
Il tempo non da pace al poeta perché né presente né passato né futuro gli danno affidamento.
Fonte: http://www.myskarlet.altervista.org/Scuola/Francesco%20Petrarca.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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