Giacomo Leopardi opere e biografia
Giacomo Leopardi opere e biografia
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GIACOMO LEOPARDI
L’infanzia e gli anni di studio
Leopardi nasce il 29 giugno 1798 a Recanati, piccolo borgo della provincia pontificia nell’entroterra marchigiano. È il primo di 5 figli, di cui due particolarmente cari al poeta: Carlo e Paolina. Il conte Monaldo, suo padre, convinto reazionario, ma amante delle lettere, è sollecito verso il figlio e ne asseconda gli studi. Dopo che egli ha in parte sperperato il patrimonio della famiglia è la madre, Adelaide Antici, donna fredda, severa e bigotta, a occuparsi dell’amministrazione domestica.
Precocemente, a soli 10-11 anni, Giacomo, dopo un’infanzia serena, compone già vari testi poetici, le prime prose, traduce le odi di Orazio. Gli anni che seguono vedono crescere in progressione il numero dei componimenti in italiano e latino. Questi testi non sono importanti per il valore dei risultati ma per la volontà di cimentarsi e misurarsi nei più diversi campi del sapere: quelli che la vasta biblioteca paterna gli offriva. Qui trascorrono i “sette anni di studio matto e disperatissimo” nella volontà di impossessarsi del più ampio universo possibile: sono anni che compromettono irrimediabilmente la salute e l’aspetto esteriore di Giacomo. Che le sofferenze fisiche e l’aspetto infelice della persona fossero in gran parte responsabili del pessimismo leopardiano è pregiudizio diffuso. Leopardi si oppose sempre a simili tentativi di svilire la portata delle sue convinzioni.
Nasce in questi anni di reclusione nella biblioteca paterna una vocazione alla filologia che però non avrà sbocco.
Le prime opere erudite e la “conversione letteraria”
In questi anni di studio (impara da solo il greco) prendono vita grandi opere di compilazione.
È il 1816 l’anno in cui più distintamente la vocazione alla poesia si fa sentire, pur tra le tante opere di erudizione che ancora occupano il campo, l’anno di quella che Leopardi stesso definirà conversione “dall’erudizione al bello”: accanto alle traduzioni del primo libro dell’Odissea e del secondo dell’Eneide, compone una lirica, Le rimembranze, una cantica e un inno. Interviene nella polemica milanese tra classici e romantici. Nel 1817, si registrano nuove traduzioni e prove poetiche significative. Nel frattempo prende avvio un diario d’eccezione, lo ‘Zibaldone di pensieri’, destinato a raccogliere riflessioni e appunti di vario genere sino al 1832. Ma anche, finalmente, Leopardi trova un interlocutore in grado di comprenderne la grandezza in Pietro Giordani. Dalla immediata e reciproca stima nasceranno una durevole amicizia, primo grande varco aperto nel muro della reclusione recanatese, e un’attivissima corrispondenza epistolare fondamentale per la formazione del poeta. Termina quella eccezionale dispersione di forze su tanti diversi versanti del sapere; in Giordani, Giacomo trova un secondo padre, un prezioso amico e confidente.
Dal Discorso intorno alla poesia romantica alla “conversione filosofica”
Il 1818 è l’anno in cui Leopardi rivela la sua conversione poetica, con il primo scritto che abbia valore di manifesto poetico: il Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, in difesa della poesia classica; inoltre pubblica a Roma, con dedica a Vincenzo Monti, le due canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante.
Nel 1819 è colpito da una grave malattia agli occhi che gli impedisce non solo di leggere, ma anche di pensare, tanto che più volte medita il suicidio. Matura in questo clima la cosiddetta “conversione filosofica”, ossia il passaggio dalla poesia alla filosofia, dalla condizione ‘antica’ (naturalmente felice e poetica) alla ‘moderna’ (dominata dall’infelicità e dalla noia), secondo un percorso che riproduce a livello individuale l’itinerario che il genere umano si trovò a compiere nella sua storia. In altre parole, la condizione originaria della poesia si allontana ai suoi occhi sempre più nelle epoche passate, e appare irriproducibile nell’età presente, dove la ragione ha inibito la possibilità di dare vita ai fantasmi della fantasia e dell’illusione.
Tenta la fuga (che è però scoperta) da Recanati, divenuta ormai insopportabile. Tra il 1819 e il 1821 scrive i primi idilli, mentre continua e giunge all’apice l’applicazione del poeta al progetto delle canzoni, pubblicate a Bologna, nel 1824, con nuova dedica al Monti e annotazioni linguistiche.
L’elaborazione del pensiero leopardiano
Già dal 1820 prende avvio il disegno delle Operette Morali (quasi per vendicarsi del mondo) destinato a crescere negli anni che seguono fino alla stampa nel 1827 a Milano. Attraverso una schiera di personaggi, alcuni storici, altri fantastici, spesso personificazioni di enti astratti inanimati, sono impietosamente processati i pregiudizi sui quali si fonda il comune senso del vivere e la verità, ingrata all’uomo e per questo sempre negata, finalmente s’impone compiutamente, rivelando che la vita è un deserto, o una biblica valle di lacrime, e la natura è indifferente al destino delle sue creature.
Al luglio del 1820 risale, nelle pagine dello Zibaldone, il primo disegno compiuto di speculazione filosofica in chiave ormai negativistica. Leopardi si allontana gradatamente dal cristianesimo. L’approccio ai filosofi sensisti e illuministi apre il varco a una riflessione sempre più libera e alla fine avversa a ogni professione di fede sino a posizioni di dichiarato e irriducibile ateismo e agnosticismo (cioè sospensione di giudizio di fronte a problemi che sfuggono alla possibilità umana di comprensione).
L’abbandono di Recanati: il lavoro editoriale e la partecipazione al dibattito culturale contemporaneo
Dal novembre 1822 al maggio del 1823 si colloca il soggiorno a Roma, presso gli zii materni. La capitale si rivela però una grossa delusione. Al soggiorno romano va riferito il nuovo impegno in campo filologico e l’edizione di testi per questo riguardo esemplari.
Nel 1825 parte per Milano, nel settembre è a Bologna, dove dimora per più di un anno curando diverse traduzioni.
Nel 1826 torna alla poesia, una poesia grigia e fredda, sul modello dell’epistola oraziana. I contratti stipulati con l’editore milanese Stella gli garantiscono una rendita mensile che limita l’odiosa dipendenza dalle finanze paterne.
È di nuovo a Bologna, poi a Firenze. Egli avvertì presto la distanza che lo separava da uomini e idee a suo giudizio ingenuamente ottimistiche e fiduciose. Il suo atteggiamento distaccato, le sue stesse convinzioni ideali che ormai le Operette morali in particolare avevano reso di pubblico dominio gli procurarono anche antipatie e inimicizie.
Il periodo dei “grandi idilli” e gli ultimi anni
Nel novembre del 1828 Leopardi è a Pisa (dove compone ‘A Silvia’), poi ancora a Firenze e di nuovo a Recanati per la morte di un fratello e problemi di famiglia. Il ritrovare i luoghi e gli oggetti immutati dell’odiosamata prigionia giovanile, ma visti con occhi nuovi, occhi che hanno conosciuto il mondo, produce nel suo animo un indicibile moto di emozioni e di ricordi: ne derivano alcuni tra i canti maggiori: La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Nel 1830 è a Firenze dove incontra Fanny Targioni Tozzetti, oggetto di una passione accesa quanto incorrisposta e ispiratrice di una serie di poesie amorose, il cosiddetto ‘ciclo di Aspasia’. Reincontra Antonio Ranieri, già conosciuto nel 1827, l’amico che non lo abbandonerà più sino alla morte.
Nel 1831 vede la luce a Firenze l’edizione dei Canti. Nel 1833 parte con Ranieri alla volta di Napoli, dove due anni più tardi firma con l’editore Starita un contratto per la pubblicazione delle proprie opere. Nel 1836, per sfuggire alla minaccia del colera, si trasferisce alle falde del Vesuvio, dove compose due grandi liriche: Il tramonto della luna e La ginestra. Nel 1837, a soli 39 anni, muore improvvisamente per l’aggravarsi dei mali che lo affliggevano da tempo.
“Poesia immaginativa” e “poesia sentimentale”
Il Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818) è il saggio in cui si manifesta un’idea di poesia nuova, in opposizione alle ideologie romantiche e all’invito della baronessa de Staël a rinnovare i temi e il linguaggio della poesia italiana attraverso un’assidua opera di lettura e traduzione dei testi stranieri. Per la prima volta Leopardi nega che la poesia possa fare progressi e avvantaggiarsi di contributi provenienti d’oltralpe.
La prima stagione poetica leopardiana affonda le sue radici nel ripensamento dell’antichità come età ‘poetica’ per eccellenza, forse preclusa per sempre all’uomo moderno. Forse solo la fanciullezza consente di riavvicinare quello stato naturalmente poetico che era proprio degli antichi.
Rintracciare quella felice condizione perduta diverrà il filo conduttore della ricerca poetica di Leopardi. Su questa strada si colloca, intorno al marzo 1821, la messa a fuoco definitiva di due tipi di poesia: una poesia “immaginativa”, quella antica, che nasce in uno stato di grazia, dall’ignoranza del male e del dolore, e la poesia “sentimentale”, propria del suo secolo, che è piuttosto una filosofia, un’eloquenza che sgorga dal vero, laddove era della primitiva poesia l’essere ispirata dal falso.
Dal “pessimismo storico” al “pessimismo cosmico”
Nell’ambito della poesia “sentimentale” si collocano sia la poesia delle canzoni che quella degli idilli. Alle canzoni il poeta affida, in termini piuttosto filosofici e oratori, la funzione di articolare un discorso più complesso e motivato sulla condizione “negativa” in cui è confinato l’uomo moderno. Il dilagare del suo pessimismo in direzione filosofica produce alla fine l’estinguersi della linea delle canzoni e la scelta di strade diverse. Un punto nodale dell’itinerario leopardiano è costituito dalla svolta del 1823, quando prende consistenza il progetto delle Operette morali: l’abbandono della poesia per la prosa.
La conversione poetica del 1818 aveva allontanato Leopardi dalla filosofia moderna frequentata in giovinezza; ora alla filosofia egli ritornava per esperienza nuova della propria sventura, non per conoscenza dottrinaria, ma per un sentire l’infelicità certa del mondo. Da questo sentimento dell’infelicità e dal bisogno di farla sentire ad altri nascono la Operette.
Significato e importanza delle Operette morali
Non godettero di particolare fortuna. Per i contenuti di una filosofia in disaccordo con le idee risorgimentali e per un modello di prosa difficile.
Le Operette morali costituiscono l’anello che congiunge le due stagioni della poesia di Leopardi. La grande poesia della stagione pisano-recanatese nasce dopo che il poeta diventa ormai conscio del fatto che il suo malessere, la sua infelicità non appartiene alla sua storia individuale, o alla sua condizione di moderno, ma è tipica da sempre dell’uomo. La dimensione nuova del pessimismo leopardiano ha indotto a parlare di pessimismo “cosmico” (in opposizione a quello “storico” delle canzoni). La Natura, scagionata, nella stagione delle Canzoni, da ogni responsabilità dell’infelicità umana, e ora messa sotto accusa, svela il suo volto “terribile”. Il pessimismo leopardiano cresce e si estende negli anni che seguono, tocca un ulteriore traguardo nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829), dove tutto è in una condizione negativa. Il discorso delle Operette non si chiude ma prosegue in parte nei Canti.
La funzione della memoria nei “grandi idilli”
Resta un evento straordinario il ritorno della poesia nella primavera del 1828. A parte una sostanziosa immissione di elementi filosofici, tradotti in un linguaggio immaginativo e quasi mitico, un rilievo nuovo assume il tema del ricordo. Il ritorno a Recanati ha certo grande importanza. La verità è che il poeta non può tornare a illudersi, dopo che si è rivelato il vero; può solo rivivere quelle illusioni attraverso il ricordo e ritrovare attraverso di esso quell’io antico: ma la materia di passioni e affetti e passata. I tempi lunghi di composizione del Canto notturno rivelano il venir meno dell’ispirazione.
La vena satirica ed eroica dell’ultimo Leopardi
Con il ritorno a Firenze questa grande stagione della poesia leopardiana rapidamente si esaurisce. L’ultima stagione di Leopardi s’iscrive nell’ambito del dissenso all’ordine risorgimentale, dissenso che si inasprisce con gli spargimenti di sangue. In questo caso si parla di “poetica eroica” sul piano dei contenuti, per la consapevole, solitaria contrapposizione del poeta alle idee dominanti del suo tempo.
Fonte: http://digilander.libero.it/ricerchescolastiche/italiano/rc/leopardi.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Scritti filosofici di Leopardi
Giacomo Leopardi opere e biografia
GIACOMO LEOPARDI
La vita
Giacomo Leopardi nacque il 29 giugno 1798 a Recanati, primogenito del conte Monaldo e di Adelaide Antici. Recanati era un borgo di uno degli Stati a quel tempo più attardati e retrivi d'Italia, lo Stato pontificio. La famiglia Leopardi era tra le più cospicue della nobiltà terriera marchigiana, ma in cattive condizioni patrimoniali, tanto da dover osservare una rigida economia per conservare il decoro esteriore del rango nobiliare. Il padre era un uomo colto, che nel suo palazzo aveva messo insieme una notevole biblioteca, ma di una cultura attardata e accademica. I suoi orientamenti politici erano ferocemente reazionari, ostili a tutte le idee nuove che erano state diffuse dalla Rivoluzione francese e dalle campagne napoleoniche. Giacomo crebbe in questo ambiente bigotto e codino, che in un primo tempo influenzò le sue idee e i suoi orientamenti. La vita familiare era dominata soprattutto dalla madre, donna dura e gretta, interamente dedita alla cura del patrimonio dissestato, ed era caratterizzata da un'atmosfera autoritaria, arcigna, priva di confidenza e di affetto. Giacomo, come era costume nelle famiglie nobili del tempo, fu istruito inizialmente da precettori ecclesiastici, ma ben presto, intorno ai dieci anni, non ebbe più nulla da imparare da essi e continuò i suoi studi da solo, chiudendosi nella biblioteca patema, per quei "sette anni di studio matto e disperatissimo", come li definì egli stesso, che contribuirono a minare il suo fisico già fragile. Dotato di un'intelligenza straordinariamente precoce, si formò ben presto una vastissima cultura: imparò in breve tempo, oltre il latino, anche il greco e l'ebraico, condusse lavori filologici che stupirono i dotti dell'epoca, tradusse classici latini e greci, le Odi di Grazio, il I libro dell'Odissea, il II dell'Eneide, e contemporaneamente scrisse una massa ingente di componimenti poetici, odi, sonetti, canzonette, tragedie. Se questa vasta produzione intellettuale lascia sbalorditi in un adolescente, c'è anche da osservare che ne emerge il quadro di una cultura arcaica e superata, ancora ispirata a modelli arcadico-illuministici, e di un'erudizione arida e accademica, dagli orizzonti ristretti: era la cultura propria dell'ambiente familiare e di quell'attardato mondo provinciale. Anche sul piano politico Giacomo segue gli orientamenti reazionari del padre, come dimostra l'orazione Agli Italiani per la liberazione del Piceno (1815) e vuoi distogliere gli Italiani dalle aspirazioni patriottiche.
Tra il' 15e il' 16 si attua quella che egli stesso chiama la sua conversione "dall'erudizione al bello": abbandona le aride minuzie filologiche, e si.entusiasma per i grandi poeti. Omero, Virgilio, Dante. Comincia a leggere i moderni, la Vita di Alfieri, il Werther, l'Ortis; tramite la lettura della De Staèl viene a contatto con la cultura romantica (nei cui confronti ha però, come si vedrà, forti riserve). Un momento fondamentale della sua formazione intellettuale e della sua esperienza vissuta fu l'amicizia con Pietro Giordani, uno degli intellettuali più significativi di quegli anni. Nella corrispondenza con il Giordani poté trovare quella confidenza affettuosa che gli mancava nell'ambiente familiare, e al tempo stesso una guida intellettuale. Questa apertura verso il mondo esterno gli rese ancor più dolorosamente insostenibile l'atmosfera chiusa e stagnante di Recanati e del palazzo paterno, e suscitò in lui il bisogno di uscire da quella specie di carcere, di venire a contatto con più vive esperienze intellettuali e sociali. Nell'estate del 1819 tentò la fuga dalla casa patema, ma il tentativo fu scoperto e sventato. Lo stato d'animo conseguente a questo fallimento, acuito da un'infermità agli occhi che gli impediva anche la lettura, unico conforto alla solitudine alla "nera, orrenda e barbara malinconia", lo portarono a uno stato di totale prostrazione e aridità (si veda la lettera del 19 novembre 1819). Raggiunse così la percezione lucidissima della nullità di tutte le cose, che è il nucleo del suo sistema pessimistico. Questa crisi del 1819 segna un altro passaggio, sempre a detta di Leopardi stesso, dal "bello al vero", dalla poesia d'immaginazione alla filosofia e ad un poesia nutrita di pensiero.
Il 1819 è anche un anno di intense sperimentazioni letterarie. Molti filoni sono tentati e subito abbandonati, ma con l'Infinito comincia la stagione più originale della sua poesia. Si infittiscono anche le note dello Zibaldone una sorta di diario intellettuale, avviato due anni prima, a cui Leopardi affida appunti, riflessioni filosofiche, letterarie, linguistiche. Nel 1822 ha finalmente la possibilità di uscire da Recanati e di vedere il mondo esterno a quella "tomba de5 vivi", si reca infatti a Roma, ospite dello zio Carlo Antici. Ma l'uscita tanto desiderata si risolve in una cocente disillusione. Gli ambienti letterari di Roma gli appaiono vuoti e meschini, la stessa grandezza monumentale della città lo infastidisce. Tornato a Recanati nel' 23, si dedica alla composizione delle Operette morali, a cui affida l'espressione del suo pensiero pessimistico. E* cominciato un periodo di aridità interiore, che gli preclude di scrivere versi; perciò si dedica alla prosa, all'investigazione dell'acerbo vero". Nel "25 gli si offre l'occasione di lasciare la famiglia e di mantenersi con il proprio lavoro intellettuale: un editore milanese intraprendente e di moderne concezioni, lo Stella, gli offre un assegno fisso per una serie di collaborazioni. Soggiorna così a Milano e a Bologna; nel' 27 passa a Firenze. Trascorre l'inverno '27-'28 a Pisa: qui la dolcezza del clima e una relativa tregua dei suoi mali favoriscono un "risorgimento" della sua facoltà di sentire e di immaginare. Nella primavera del '28 nasce così A Silvia, che apre la serie dei "grandi idilli". Le necessità economiche però lo incalzano. Le prospettive di sistemazione che gli si presentano si rivelano via via inconsistenti. Nell'autunno del 1828, aggravatesi le condizioni di salute, divenuto impossibile ogni lavoro e sospeso l'assegno dell'editore, è costretto a tornare in famiglia, a Recanati. Vi rimane un anno e mezzo, "sedici mesi di notte orribile". Vive isolato nel palazzo paterno, senza rapporti con alcuno, immerso nella sua tetra malinconia. Nell'aprile del "30 si risolve ad accettare una generosa offerta degli amici fiorentini, che pochi mesi prima aveva respinto per fierezza: un assegno mensile per un anno. Lascia così Recanati, per non farvi più ritorno. Comincia una nuova fase della sua esperienza intellettuale: esce dalla cerchia chiusa ed esclusiva del suo io, stringe rapporti sociali più intensi, viene a contatto con il dibattito culturale e anche politico, e vi partecipa con fervore, sia pure da posizioni violentemente polemiche contro l'ottimismo progressistico dei liberali. A Firenze fa anche l'esperienza della passione amorosa, per Fanny Targioni Tozzetti. La delusione subito ispira un nuovo ciclo di canti, il cosiddetto "ciclo di Aspasia" in cui compaiono soluzioni poetiche decisamente nuove. A Firenze stringe una fraterna amicizia con un giovane esule napoletano Antonio Panieri, e con lui fa vita comune fino alla morte. Nel frattempo un sollievo alle sempre condizioni economiche gli viene da un piccolo assegno mensile, finalmente concesso dalla famiglia. Dal'33 si stabilisce a Napoli col Panieri. Qui entra in polemica con l'ambiente culturale, dominato da tendenze idealistiche e spiritualistiche, avverse al suo materialismo ateo. La polemica prende corpo soprattutto nell'ultimo grande canto. La ginestra. A Napoli lo coglie la morte, attesa e invocata da anni, il 14 giugno 1837.
Il pensiero
Tutta l'opera leopardiana si fonda su un sistema di idee continuamente meditate e sviluppate, il cui processo, prima dell'approdo ai testi compiuti, si può seguire attraverso le migliaia di pagine dello Zibaldone. La ricostruzione almeno sommaria di questo sistema nella sua evoluzione nel tempo è quindi una premessa indispensabile alla lettura della poesia e della prosa leopardiane. Al centro della meditazione di Leopardi si pone subito un motivo pessimistico, l'infelicità dell'uomo. Egli arriva a individuare la causa prima di questa infelicità in alcune pagine fondamentali dello Zibaldone del luglio 1820. Restando fedele a un indirizzo di pensiero settecentesco e sensistico, identifica la felicità con il piacere, sensibile e materiale. Ma l'uomo non desidera un piacere, bensì il piacere: aspira cioè a un piacere che sia infinito, per estensione e per durata. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall'uomo
può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua, un vuoto incolmabile dell'anima. Da questa tensione inappagata verso un piacere infinito che sempre gli sfugge nasce per Leopardi l'infelicità dell'uomo, il senso della nullità di tutte le cose. E Leopardi si preoccupa di sottolineare che ciò va inteso non in senso religioso e metafisico, come tensione verso un'infinità divina al di là delle cose contingenti, ma in senso puramente materiale. L'uomo è dunque, per Leopardi, necessariamente infelice, per la sua costituzione. Ma la natura, che in questa prima fase è concepita da Leopardi come madre benigna e provvidenzialmente attenta al bene delle sue creature, ha voluto sin dalle origini offrire un rimedio all'uomo: l'immaginazione e le illusioni, grazie alle quali ha velato agli occhi della misera creatura le sue effettive condizioni. Per questo gli uomini primitivi, e gli antichi Greci e Romani, che erano più vicini alla natura (come lo sono i fanciulli), e quindi capaci di illudersi e di immaginare, erano felici, perché ignoravano la loro reale infelicità. Il progresso della civiltà, opera della ragione, ha allontanato l'uomo da quella condizione privilegiata, ha messo crudamente sotto i suoi occhi il vero e lo ha reso infelice. La prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita su questa antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Gli antichi, nutriti di generose illusioni, erano capaci di azioni eroiche e magnanime; erano anche più forti fisicamente, e questo favoriva la loro forza morale; la loro vita era più attiva e intensa, e ciò contribuiva a far dimenticare il nulla e il vuoto dell'esistenza. Perciò essi erano più grandi di noi sia nella vita civile, ricca di esempi eroici e di grandi virtù, sia nella vita culturale. Il progresso della civiltà e della ragione, spegnendo le illusioni, ha spento ogni slancio magnanimo, ha reso i moderni incapaci di azioni eroiche, ha generato viltà, meschinità, calcolo gretto ed egoistico, corruzione dei costumi. La colpa dell'infelicità presente è dunque attribuita all'uomo stesso, che si è allontanato dalla via tracciata dalla natura benigna. Leopardi da un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni (che, non si deve dimenticare, è gravata dalla cappa oppressiva della Restaurazione), la vede dominata dall'inerzia e dal tedio; ciò vale soprattutto per l'Italia, miserevolmente decaduta dalla grandezza del passato. Scaturisce di qui la tematica civile e patriottica che caratterizza le prime canzoni leopardiane. E ne deriva anche un atteggiamento titanico', il poeta, come unico depositario della virtù antica, si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha condannato l'Italia a tanta abiezione, e sferza violentemente la sua "codarda età". Questa fase del pensiero leopardiano è stata designata con la formula del pessimismo storico: nel senso che la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità e pienezza vitale (ma non bisogna mai dimenticare che si tratta pur sempre di una felicità relativa, e che Leopardi è già sin d'ora consapevole del fatto che la vera condizione dell'uomo è infelice, e che la felicità antica era solo frutto di illusione, di un generoso e provvidenziale inganno). Questa concezione di una natura benigna e provvidenziale entra però in crisi. Leopardi si rende conto che, più che al bene dei singoli individui, la natura mira alla conservazione della specie, e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza.
Ne deduce che il male non è un semplice accidente ma rientra nel piano stesso della natura. Si rende conto inoltre del fatto che è la natura che ha messo l'uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo. In una fase intermedia. Leopardi cerca di uscire da queste contraddizioni attribuendo la responsabilità del male al fato; propone quindi una concezione dualistica, natura benigna contro fato maligno. Ma ben presto arriva alla soluzione delle contraddizioni rovesciando la sua concezione della natura. Questo punto d'approdo è in realtà preceduto da un lungo travaglio, testimoniato dallo Zibaldone. Leopardi concepisce la natura non più come madre amorosa e provvidente, ma come meccanismo cieco, indifferente alla sorte delle sue creature; meccanismo anche crudele, in cui la sofferenza degli esseri e la loro distruzione è legge essenziale, perché gli individui devono perire per consentire la conservazione del mondo (ad esempio gli animali che devono servire da cibo ad altri animali).
E una concezione non più finalistica ( la natura che opera consapevolmente per un fine, il bene delle creature) ma meccanicistica e materialistica. La colpa dell'infelicità non è più dell'uomo stesso, ma solo della natura. L'uomo non è che vittima innocente della sua crudeltà. Se filosoficamente Leopardi rappresenta la natura come meccanismo inconsapevole, somma di leggi oggettive non regolate da una mente provvidenziale, miticamente e poeticamente ama però rappresentarla come una sorta di divinità malvagia, che opera deliberatamente per far soffrire e distruggere le sue creature. Viene così superato il dualismo natura- fato: alla natura vengono attribuite le caratteristiche che prima erano del fato, la malvagità crudele e persecutoria. Coerentemente con l'approdo materialistico, muta anche il senso dell'infelicità umana: prima, in termini sensistici, era concepita come assenza di piacere (vedi la "teoria del piacere" del luglio 1820), in una dimensione psicologica ed esistenziale; ora l'infelicità, materialisticamente, è dovuta soprattutto a mali esterni, a cui nessuno può sfuggire: malattie, elementi atmosferici, cataclismi, vecchiaia, morte. Se causa dell'infelicità è la natura stessa, nel suo cieco meccanismo immutabile, tutti gli uomini, in ogni tempo, in ogni luogo, sotto ogni forma di governo, in ogni tipo di società, sono necessariamente infelici; anche gli antichi, pur essendo capaci di illudersi, erano vittime di quei terribili mali. Al pessimismo "storico" della prima fase subentra così un pessimismo "cosmico": nel senso che l'infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa dell'uomo, ma ad una condizione assoluta, diviene un dato eterno e immutabile di natura. E' la concezione che informerà tutta l'opera di Leopardi successiva al 1824. Se l'infelicità è un dato di natura, vane sono la protesta e la lotta, e non resta che la contemplazione lucida e disperata della verità. Subentra infatti in Leopardi un atteggiamento contemplativo, ironico, distaccato e rassegnato. Suo ideale non è più l'eroe antico, teso a generose imprese, ma il saggio antico, la cui caratteristica è Atarassia, il distacco imperturbabile della vita. E' l'atteggiamento che caratterizza le Operette morali. Ma la rassegnazione dinanzi a ciò che è dato non è propria dell'indole di Leopardi: in momenti successivi tornerà l'atteggiamento di protesta, di sfida al fato e alla natura, di lotta titanica. Sinché al termine della vita, nella Ginestra, sulla base della concezione pessimistica della natura Leopardi arriverà a costruire tutta una concezione della vita sociale e del progresso.
La poetica del vago e indefinito
La "teoria del piacere", elaborata nel luglio 1820, è un crocevia fondamentale nel sistema di pensiero leopardiano. Lo sviluppo delle sue meditazioni si può seguire nei fitti appunti dello Zibaldone immediatamente successivi alle pagine sul piacere. Se nella realtà il piacere infinito è irraggiungibile, l'uomo può figurarsi piaceri infiniti mediante l'immaginazione ("il piacere infinito che non si' può trovare nella realtà, si trova così nell'immaginazione, dalla quale .derivano la speranza, le illusioni"). La realtà immaginata costituisce la compensazione, l'alternativa a una realtà vissuta che non è che infelicità e noia. Ciò che stimola l'immaginazione a costruire questa realtà parallela, in cui l'uomo trova l'illusorio appagamento al suo bisogno di infinito, è tutto ciò che è vago, indefinito, lontano, ignoto. Nelle pagine dello Zibaldone Leopardi passa minuziosamente in rassegna, in chiave sensistica, tutti gli aspetti della realtà sensibile che, per il loro carattere indefinito, possiedono questa forza suggestiva. Si viene a costruire una vera e propria teoria della visione: è piacevole, per le idee vaghe e indefinite che suscita, la vista impedita da un ostacolo, una siepe, un albero, una torre, una finestra, "perché allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale" lo stesso effetto hanno un filare d'alberi che si perde all'orizzonte, un declivio di cui non si riesce a vedere la fine, una fuga di stanze, il gioco della luce lunare tra gli alberi, sull'acqua, sui tetti delle case. Contemporaneamente, viene a costruirsi anche una teoria del suono. Leopardi elenca tutta una serie di suoni suggestivi perché vaghi: un canto che vada a poco allontanandosi, un canto che giunga dall'esterno dal chiuso di una stanza, il muggito degli armenti che echeggi per le valli, lo stormire del vento tra le fronde. A questo punto della meditazione leopardiana si verifica la svolta fondamentale, e la teoria filosofica dell'indefinito si aggancia alla teoria poetica. Giunto al termine di questa rassegna di suoni. Leopardi osserva: "E tutte queste immagini in poesia sono sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe"; e otto giorni più tardi, il 24 ottobre 1821, riprende: «Quello che ho detto altrove sugli effetti della luce, del suono, e di altre tali sensazioni circa l'idea dell'infinito, si deve intendere non solo di tali sensazioni nel naturale, ma nelle loro imitazioni ancora, fatte dalla pittura, dalla musica, dalla poesia. Il bello delle quali arti, in grandissima parte [... ] consiste nella scelta di tali o somiglianti sensazioni indefinite da imitare". D bello poetico, per Leopardi, consiste dunque nel vago e nell'indefinito, e si manifesta essenzialmente in immagini del tipo di quelle elencate nella teoria della visione e del suono (anche certe parole sono per lui eminentemente poetiche, per le idee indefinite che suscitano: ad esempio "lontano", "antico", "notte", "ultimo", "eterno"). Leopardi aggiunge poi una considerazione importante: queste immagini sono suggestive perché, per lo più, evocano sensazioni che ci hanno affascinati da fanciulli. La rimembranza diviene pertanto essenziale al sentimento poetico. Poetica dell'indefinito e poetica della rimembranza si fondono: la poesia non è che ricupero della visione immaginosa della fanciullezza attraverso la memoria.
In effetti. Leopardi osserva che maestri della poesia vaga e indefinita erano gli antichi: essi, perché più vicini alla natura, erano appunto immaginosi come fanciulli. E questo carattere "fanciullesco" è rivelato dal ricorrere spontaneo, nella loro poesia, di immagini vaghe e indefinite. Leopardi cita soprattutto due passi, che gli sono molti cari: una similitudine di Omero, che descrive un notturno lunare, e un episodio dell'Eneide, in cui il canto di Circe giunge ai Troiani da lontano, sul mare, nel buio della notte. I moderni, invece, per Leopardi, hanno perduto questa capacità immaginosa e fanciullesca. Egli, attraverso la De Staél, riprende la distinzione tra poesia ^immaginazione e poesia sentimentale. Ai moderni, che si sono allontanati dalla natura per colpa della ragione, e per questo sono disincantati e infelici, la poesia d'immaginazione è ormai preclusa; ad essi non resta che una poesia sentimentale, nutrita di idee, filosofica, che nasce dalla consapevolezza del vero e dall'infelicità. Leopardi stesso, nella sua produzione in versi segue puntualmente la poetica del vago e indefinito:
quegli esempi di visioni e suoni suggestivi che egli propone nello Zibaldone torneranno puntualmente nelle sue liriche (sinché, dopo il "30, subentrerà una nuova poetica). Quindi, pur conscio di appartenere a quella età moderna a cui è preclusa la poesia d'immaginazione, e pur accettando l'ineluttabile predominio di una poesia fondata sul pensiero e sulla consapevolezza dell'infelicità, che si esprime attraverso il patetico. Leopardi non si rassegna a escludere il carattere immaginoso dai suoi versi: così come (almeno fino al "30) non si rassegnerà a rinunciare alle illusioni, ma, pur consapevole della loro vanità, continuerà a vagheggiarle attraverso la memoria e a nutrire di esse la sua poesia.
Leopardi e il Romanticismo
La teoria del vago e dell'indefinito è indispensabile per capire la posizione di Leopardi nei confronti della nuova poetica romantica, che in quegli anni, a partire dal 1816, veniva in conflitto con la radicata tradizione classicistica della cultura italiana. La formazione di Leopardi era stata rigorosamente classicistica, ed era stata consolidata anche dall'amicizia con un esponente qualificato del classicismo come Giordani. Perciò, nella polemica tra classicisti e romantici. Leopardi doveva inevitabilmente prendere posizione contro le tesi romantiche. Lo fece in due scritti che però non furono pubblicati e rimasero ignoti ai contemporanei. In realtà le sue posizioni sono molto originali rispetto a quelle dei classicisti. Per lui, come si è visto, la poesia è soprattutto espressione di una spontaneità originaria, di un mondo interiore immaginoso e fantastico, proprio dei primitivi e dei fanciulli. Per questo consente con i romantici italiani nella loro critica al classicismo accademico e pedantesco, al principio di imitazione, alle regole rigidamente imposte dai generi letterari, all'abuso meccanico e ripetitivo della mitologia classica. Però rimprovera agli scrittori romantici un'artificiosità retorica simmetrica e contraria a quella dei classicisti, nella ricerca dello strano, dell'orrido, del truculento; rimprovera loro anche il predominio della logica sulla fantasia, l'aderenza al "vero" che spegne ogni immaginazione. Al contrario, proprio i classici antichi sono per lui un esempio mirabile di poesia fresca, spontanea, immaginosa. Leopardi ripropone dunque i classici come modelli, ma in senso diametralmente opposto al classicismo accademico, con uno spirito schiettamente romantico. Anzi, in questa esaltazione di ciò che è spontaneo, originario, non contaminato dalla ragione, appare più romantico degli stessi romantici italiani (e più vicino allo spirito della cultura romantica europea). In questo Leopardi si contrappone alla scuola romantica lombarda, che tende invece a una letteratura oggettiva, realistica, fondata sul vero, animata da intenti civili, morali, pedagogici, intesa all'utilità sociale, e che quindi predilige le forme narrative e drammatiche (anche nella stessa poesia, come si è visto per le odi e per i cori manzoniani). Viceversa, anche per questo aspetto Leopardi appare più vicino allo spirito della poesia romantica d'oltralpe. E' indubbiamente separato dalla cultura romantica (in senso largamente europeo) dal suo retroterra filosofico, che è illuministico, sensistico e materialistico, mentre presupposto del Romanticismo europeo è una visione del mondo idealistica e spiritualistica. Però è vicino al Romanticismo per una serie di grandi motivi che ricorrono nelle sue opere, la tensione verso l'infinito, l'esaltazione dell'io e della soggettività, il titanismo, l'enfasi posta sul sentimento, il conflitto illusione-realtà, con la scelta del mondo dell'immaginazione contrapposto a quello della realtà, l'amore per il vago e indefinito, il culto della fanciullezza e del primitivo come momenti privilegiati dell'esperienza umana.
Il primo Leopardi: le Canzoni e gli Idilli
II periodo successivo alla conversione "dall'erudizione al bello" del 1816, sino alla grande crisi del 1819, è ricco di esperimenti letterali, che si rivolgono in direzioni molto diverse. Molti di questi esperimenti rimangono allo stadio di puri progetti, o di abbozzi presto abbandonati. Di questo vario fermento di prove, si concretano due soli gruppi di poesie veramente mature, che approdano alla stampa (e confluiranno poi nei Canti): le Canzoni e gli Idilli. Le Canzoni furono composte tra il 1818 e il 1823, e pubblicate in un opuscolo a Bologna nel 1824. Si tratta di componimenti di impianto decisamente classicistico, che impiegano il linguaggio aulico, sublime e denso della tradizione, con sensibili influenze soprattutto di Alfieri e Foscolo. La base di pensiero è costituita da quel "pessimismo storico" che caratterizza la visione leopardiana in questo momento. Sono animate da acri spunti polemici contro l'età presente, inerte e corrotta, incapace di azioni eroiche, affogata in una "nebbia di tedio"; a questa polemica si contrappone un'esaltazione delle età antiche, generose e magnanime. Il pessimismo storico giunge a una svolta: si delinea l'idea di un'umanità infelice non solo per ragioni storiche, ma per una condizione assoluta. Non si incolpa ancora la natura, ma gli dèi e il fato, visti come forze malvagio che si compiacciono di perseguitare l'uomo. Ad esse si contrappone l'eroe singolo, che si ribella alla forza crudele che l'opprime, e afferma la propria libertà in un gesto di sfida suprema, dandosi la morte. E* l'affermazione più decisa del titanismo eroico che caratterizza il primo Leopardi. Un carattere molto diverso presentano gli Idilli, sia nelle tematiche, che sono intime e autobiografiche, sia nel linguaggio, che è più colloquiale e di limpida semplicità. Con quel titolo complessivo Leopardi designò alcuni componimenti, scritti tra il 1819 e il 1821, L'Infinito, La sera del giorno festivo (poi La sera del dì di festa), pubblicati sulla rivista "II Nuovo Ricoglitore" nel 1825 e poi nell'edizione dei Versi del 1826. Il titolo non ricompare nelle successive raccolte dei Canti, ma la designazione è rimasta di uso comune. Questi idilli del 1819-21 non hanno più nulla a che fare con la tradizione bucolica classica, che rappresentava una campagna stilizzata e figure idealizzate di pastori. Non hanno neppure a che fare con la nozione moderna di idillio, quell'idillio "borghese" che si era affermato nel Settecento nelle letterature nordiche, e che amava rappresentare scene della vita quotidiana di personaggi di mediocre condizione,
segnate da una tranquilla serenità. Anni dopo, nel 1828, Leopardi definì gli idilli come espressione di "sentimenti, affezioni, avventure storielle del suo animo". Negli idilli, dunque, la rappresentazione della realtà esterna, delle scene di natura serena, è tutta in funzione soggettiva: ciò che a Leopardi preme di rappresentare sono momenti essenziali della sua vita interiore.
Esemplare è l' Infinito (1819), in cui compare una situazione che può ricordare l'idillio classico (la siepe che definisce uno spazio limitato, lo stormire, del vento tra le foglie); ma non è lo scenario di una semplice quiete contemplativa e rasserenante, bensì lo spunto per una vertiginosa meditazione lirica sull'idea di infinito creato dall'immaginazione, a partire da sensazioni visive e uditive. Alla luna (forse 1820) affronta invece il tema complementare della "ricordanza" (tale era infatti il titolo primitivo), che, come l'immaginazione, trasfigura il reale e l'abbellisce, anche se la realtà è triste e angosciosa. La sera del dì di festa (primavera 1820) prende l'avvio da un notturno lunare, una di quelle scene suggestive per la loro vaghezza e indeterminatezza che Leopardi predilige, ma poi trapassa ad una confessione disperata dell'infelicità e dell'esclusione della vita patite dal poeta, per allargarsi infine a una più vasta meditazione sul tempo che cancella ogni traccia umana. In questi componimenti, tutti in endecasillabi sciolti. Leopardi fa la prima prova, oltre che di temi particolarmente congeniali, anche di un originalissimo linguaggio poetico, lontano dalla solennità e dalle arditezze metaforiche delle canzoni, tutto giocato sul vago e indefinito e su una musicalità segreta ed essenziale.
Le Operette morali
Chiusa la stagione delle canzoni e degli idilli, comincia per Leopardi un silenzio poetico che durerà sino alla primavera del* 28. Egli stesso lamenta la fine delle illusioni giovanili, lo sprofondare in uno stato d'animo di aridità e di gelo, che gli impedisce ogni moto dell'immaginazione e del sentimento. Per questo intende dedicarsi soltanto all'investigazione dell'arido vero". Da questa disposizione nascono le Operette morali, quasi tutte composte nel 1824, di ritorno da Roma. dopo la delusione subita nel suo primo contatto con la realtà esterna alla "prigione" di Recanati. A questo folto gruppo si aggiungeranno poi nel '27 il Dialogo di Plotino e Porfirio, infine nel '32, ormai in una temperie culturale tutta diversa, il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Le Operette morali sono prose di argomento filosofico. Leopardi vi espone il "sistema" da lui elaborato, attingendo al vasto materiale accumulato nello Zibaldone. Molte delle operette sono dialoghi, i cui interlocutori sono creature immaginose, personificazioni, personaggi mitici o favolosi, in altri casi si tratta di personaggi storici, oppure di personaggi storici mescolati con esseri bizzarri o fantastici. In alcune operette l'interlocutore principale è proiezione dell'autore stesso. Altre invece hanno forma narrativa. In altri casi si hanno prose liriche ( // Cantico del gallo silvestre) o discorsi che si rifanno alla trattatistica classica. Da questa rassegna risulta la varietà dell'invenzione fantastica di Leopardi. Ma questa invenzione non ha nulla di argutamente bonario, di distesamente umoristico. Anche le invenzioni più aeree si concentrano intorno ai temi fondamentali del pessimismo: l'infelicità inevitabile dell'uomo, l'impossibilità del piacere, la noia, il dolore, i mali materiali che affliggono l'umanità. Con tutto questo non si ha un'impressione di cupezza, di tetraggine ossessiva e opprimente: ciò grazie allo sguardo fermo e lucido, all'assoluto dominio intellettuale e al distacco ironico con cui Leopardi contempla il "vero". Escono da questo quadro le operette più tarde, come il Piotino, dialogo sul problema del suicidio, tutto pervaso da un senso di pietà e di solidarietà fraterna verso gli uomini, che prelude alla svolta della Ginestra, o il Tristano, che già si inserisce nel clima dell'ultima stagione leopardiana.
I grandi idilli
II 2 maggio 1828 Leopardi scrive alla sorella Paolina da Pisa: "Ho fatto dei versi quest'aprile, ma versi veramente all'antica, e con quel mio cuore d'una volta". Il lungo periodo di silenzio poetico, che coincideva con un periodo di aridità interiore, si è concluso. Il poeta assiste a un "risorgimento" delle sue facoltà di sentire, commuoversi e immaginare. Pochi giorni dopo nasce A Silvia. Tornato a Recanati alla fine di quell'anno, non vede interrompersi il felice momento creativo neppure nei sedici mesi di "notte orribile" trascorsi nella casa patena. Nell'autunno del '29 compone La quiete dopo la tempesta. II sabato del villaggio; tra l'inverno del "29 e la primavera del "30 il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. A questa fase, anche se non databile con certezza, risale anche il Passero solitario, ripresa di uno spunto del '19.
Questi componimenti, nati dal "risorgimento" della sensibilità giovanile, riprendono temi, atteggiamenti,, linguaggio degli "idilli' del '19-''21: le illusioni e le speranze, proprie della giovinezza, le rimembranze, quadri di vita borghigiana e di natura serena e primaverile, la suggestione di immagini e suoni vaghi e indefiniti, il linguaggio limpido e musicale, lontano dall'aulicità ardita del linguaggio delle canzoni, ma, pur nella sua semplicità, impreziosito da termini e locuzioni "peregrine". Per questo è nell'uso comune designare i canti pisano-recanatesi del '2^30 con la formula "grandi idilli" (che non è di Leopardi, ma pura estensione per analogia del termine usato per gli idilli). A veder bene, però, questi componimenti non sono la semplice ripresa della poesia di dieci anni prima. Nel mezzo si collocano esperienze decisive, la fine delle illusioni giovanili, l'acquisita consapevolezza del "vero", la costruzione di un sistema filosofico fondato su di un pessimismo assoluto. Perciò, se il moto della memoria ricupera dal passato la stagione dell'illusione e della speranza e fa rivivere immagini, sensazioni, sentimenti antichi, a questo riaffiorare si accompagna sempre, mai dimenticata, la consapevolezza del "vero", della vanità di quegli "ameni inganni". Per questo i grandi idilli sono sì percorsi da immagini liete (che sono quelle rimaste più famose:
il "maggio odoroso", "le vie dorate e gli orti", gli "odorati colli". Silvia "assai contenta" del "vago avvenir" che ha in mente, Nerina che va "danzando", mentre in lei splende "quel confidente lume di gioventù", la donzelletta che viene dalla campagna "in sul calar del sole", il "romorio usato" della vita del borgo che riprende dopo la tempesta, la primavera che "brilla nell'aria e per li campi esulta / si ch'a mirarla intenerisce il core"); ma queste immagini sono come rarefatte, assottigliate, e perdono ogni corposità fisica, materiale: create dalla memoria, si accompagnano sullo sfondo del nulla, sono accompagnate costantemente dalla consapevolezza del dolore, del vuoto dell'esistenza, della morte. Sarebbe sbagliato, pertanto, ridurre i grandi idilli alla sola componente "idillica", come ha fatto la critica crociana, trascurando la presenza del « vero». Va però rilevato come la consapevolezza non eserciti un potere distruttivo su quelle immagini di vita, portando in primo piano 1'"acerbo vero" in tutta la sua crudezza; il «vero» è richiamato con delicatezza e riserbo, pur impregnano di sé ogni immagine evocata. La caratteristica che individua i grandi idilli è quindi un miracoloso equilibrio che si instaura tra due spinte che dovrebbero essere contrastanti, il "caro immaginar" e il "vero". Proprio la presenza di questa consapevolezza e di questo equilibrio determina un'altra fondamentale differenza tra i grandi idilli e i primi idilli di un decennio prima: non compaiono più gli slanci, i fremiti, gli impeti di disperazione e di rivolta, le esasperazioni patetiche (si pensi alla Sera del dì di festa: Qui per terra mi getto, e grido, e fremo"). Leopardi ha assorbito nella poesia l'esperienza delle Operette, quell'atteggiamento di contemplazione ferma e di lucido dominio dinanzi a una verità immutabile. Coerente rispetto a questo atteggiamento è il linguaggio, che a ben vedere è sostanzialmente diverso da quello dei primi idilli: non più espressioni intense e patetiche, ma un linguaggio più misurato, sia nella direzione della tenerezza e della dolcezza, quando viene evocata la giovinezza e l'illusione, sia nel senso della desolazione, quando viene evocato il "vero". Nuova rispetto ai primi idilli è anche l'architettura metrica: il poeta non usa più l'endecasillabo sciolto, ma una
strofa di endecasillabi e settenari che si succedono liberamente, senza alcuno schema fìsso, con un gioco egualmente libero di rime, assonanze, enjambements. Questa libertà metrica asseconda perfettamente la vaghezza e indefinitezza delle immagini e del movimento fantastico, ed è una conquista originalissima nel contesto della poesia lirica italiana del primo Ottocento, ancora legata a schemi strofici fissi (vedi Manzoni e gli altri romantici).
L'ultimo Leopardi
L'ultima stagione leopardiana, che si colloca dopo il 30 e dopo l'allontanamento definitivo da Recanati, segna una svolta di grande rilievo rispetto alla poesia precedente. Presupposto fìlosofìco della scrittura poetica di Leopardi resta sempre quel pessimismo assoluto, su basi materialistiche, a cui il poeta era approdato tra il '24 e il '25. Ma, dopo il distacco rassegnato e ironico della fase delle Operette, dopo il ripiegamento sull'io ed il ricupero dell'età giovanile proprio della fase dei grandi idilli Leopardi ristabilisce un contatto diretto con gli uomini, le idee, i problemi del suo tempo. Non solo, ma appare più orgoglioso di sé, della propria grandezza spirituale, più pronto e combattivo nel diffondere le sue idee, nel contrapporle polemicamente alle tendenze dominanti dell'epoca. L'apertura si verifica anche sul piano umano, interpersonale. Nasce a Firenze la fraterna amicizia con Antonio Panieri, e si colloca negli anni fiorentini la prima vera esperienza amorosa di Leopardi: non più un amore adolescenziale, tutto risolto nel chiuso dell'immaginazione, ma un'autentica passione, vissuta con intenso fervore per una dama fiorentina, Fanny Targioni Tozzetti. La delusione cocente subita in tale rapporto segna per Leopardi la fine dell'inganno estremo", che aveva creduto eterno: l'amore. Dalla passione e dalla delusione nasce il cosiddetto "ciclo di Aspasia", dal nome greco con cui, in una di queste liriche, il poeta designa la donna amata (Aspasia era la cortigiana amata da Pericle nel V secolo a. C.). Ma, soprattutto, si instaura in questo periodo un rapporto intenso con le correnti ideologiche del tempo. La critica leopardiana si indirizza contro tutte le ideologie ottimistiche che esaltano il progresso e profetizzano un miglioramento indefinito della vita degli uomini, grazie alle nuove scienze sociali ed economiche e alle scoperte della tecnologia moderna;
bersaglio polemico sono inoltre le tendenze di tipo spiritualistico e neocattolico che, tramontato l'Illuminismo, si vanno sempre più affermando nel periodo della Restaurazione combinandosi talora con l'ottimismo delle correnti liberali moderate, e che inneggiano al posto privilegiato destinato da Dio all'uomo nel cosmo. A queste ideologie Leopardi contrappone, con una durezza che tocca spesso lo scherno, le proprie concezioni pessimistiche che escludono ogni miglioramento della condizione, umana, affermando che l'infelicità e la sofferenza sono dati di natura, eterni e immodificabili. Allo spiritualismo di tipo religioso, che cerca consolazione nell'aldilà. Leopardi contrappone invece il suo duro materialismo che esclude ogni speranza in un'altra vita, bollando quelle credenze come favole infantili e sciocche, al tempo stesso vili e superbe.
Leopardi critica il liberalismo moderato dei patrioti non in nome di posizioni politiche più avanzate, democratiche e autenticamente progressiste, come spesso si equivoca, ma dal punto di vista del suo pessimismo assoluto, che nega ogni possibilità di miglioramento politico e sociale per un'umanità vittima della natura. Una svolta essenziale si presenta con la Ginestra (1836), il testamento spirituale di Leopardi, la lirica che idealmente chiude il suo percorso poetico. Il componimento ripropone la dura polemica antiottimistica e antireligiosa. Però qui Leopardi non nega più la possibilità di un progresso civile: cerca anzi di costruire un'idea di progresso proprio sul suo pessimismo. La consapevolezza lucida della reale condizione umana, indicando la natura come la vera nemica, può indurre gli uomini a unirsi in "social catena" per combattere la sua minaccia; e questo legame, può far cessare le sopraffazioni e le ingiustizie della società, dando origine a un più' "onesto e retto conversar cittadino", a "giustizia e pietade", al "vero amore" tra gli uomini. La filosofia di Leopardi, che non è mai stata misantropica, come il poeta stesso tiene a sottolineare, si apre qui a una generosa utopia, basata sulla solidarietà fraterna degli uomini, che nasce a sua volta dalla diffusione del "vero". La Ginestra, sul piano letterario, è anche la massima realizzazione di quella "nuova poetica" antiidillica già sperimentata a partire dal '30. E* un vasto poemetto, costruito sinfonicamente con sapiente alternanza di toni, dal quadro grandioso e tragico del vulcano minacciante distruzione e delle distese di lava infeconda, all'aspra polemica ideologica, agli squarci cosmici che proiettano la nullità della terra e dell'uomo nell'immensità dell'universo, alla visione dell'Infinito svolgersi dei secoli della storia umana su cui incombe immutabile la minaccia della natura, sino alle note gentili dedicate al "fiore del deserto", in cui si compendiano complessi significati simbolici, la pietà' verso le sofferenze umane, la dignità che dovrebbe essere propria dell'uomo dinanzi alla forza invincibile della natura che lo schiaccia.
Fonte: http://www.studenti.it/download/scuole_medie/Giacomo%20Leopardi.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Giacomo LEOPARDI
Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798, da una famiglia nobile.
Da bambino era poco amato dai suoi genitori, viveva molto solo e ricevette un’educazione molto rigida e bigotta. Il padre amava lo studio e aveva una biblioteca molto grande e ricca di libri (12.000 libri). Aveva fatto delle speculazioni e aveva sbagliato e così aveva portato la famiglia alla rovina economica. Allora si era occupata degli affari la madre, per rimettere in sesto l’economia della famiglia, ma così aveva trascurato molto i figli (aveva 3 figli: Giacomo, Carlo e Paolina). Non stava mai con i figli e non li coccolava mai.
I genitori di Leopardi decidettero di non mandare i figli a scuola, ma di educarli a casa, chiamando a casa dei precettori (= degli insegnanti privati che andavano a casa degli allievi).
Giacomo lesse moltissimi libri della biblioteca di casa. Trascorse giorni e notti alla scrivania, a leggere e a studiare, per 7 anni, durante tutta la sua adolescenza. Tutto questo studio, chiuso in casa, non fece bene alla salute, la vista s’indebolì e la schiena gli si deformò.
Nel 1817 inizia a scrivere lo Zibaldone una raccolta di appunti e riflessioni. Per la prima volta si innamora: si innamora della cugina Gertrude, che è ospite per pochi giorni a casa sua.
Questi sono gli anni del PESSIMISMO STORICO (vedi dopo)
Nel 1819 si ammala agli occhi e questa malattia lo seguirà per tutta la vita. In quello stesso anno prova a fuggire da casa, ma non riesce e allora cade nella disperazione.
Nel 1822 fa un viaggio a Roma, ospite degli zii. Roma lo delude molto: è una città grandissima, dove le persone non sono sincere, ma sono frivole e oziose. Leopardi è molto triste: si sente diverso dagli altri. Sono gli anni del PESSIMISMO COSMICO (vedi dopo). In questi anni scrive le Operette morali.
In seguito Leopardi vivrà a Milano, a Firenze, a Pisa e poi a Recanati.
Poi va a Napoli dal suo amico Ranieri. Muore a Napoli per una crisi cardiaca nel 1837.
Dal pessimismo storico al pessimismo cosmico
Nelle opere di Leopardi ci sono 3 periodi successivi:
- il periodo del PESSIMISMO STORICO, (si trova nello Zibaldone)
- il periodo della TEORIA DEL PIACERE; (si trova nello Zibaldone)
- il periodo del PESSIMISMO COSMICO. (si trova nelle Operette morali).
1. PESSIMISMO STORICO
La natura ha creato gli uomini felici mentre, la ragione li ha resi deboli e infelici.
L’uomo diventando adulto, man mano che aumenta la sua capacità di ragionare si distruggono i sogni e le illusioni e diventa infelice.
2. TEORIA DEL PIACERE o pessimismo psicologico
Lo scopo della vita è il raggiungimento della felicità ma, la felicità non dura per sempre, cioè l’uomo non riesce a realizzarla completamente e così è sempre insoddisfatto, e allora si dà all’immaginazione (= alla fantasia). L’uomo è perciò sempre infelice.
Infatti questo pessimismo lo avevano anche gli antichi, anche se vivevano a contatto con la natura.
3. PESSIMISMO COSMICO
Crolla per Leopardi il mito della natura: la natura non è più come una madre buona, ma è una nemica dell’uomo, che non si interessa delle sofferenze dell’uomo. Infatti la natura matrigna dà all’uomo le malattie, la vecchiaia e la morte.
ALLA LUNA
È una poesia che Leopardi scrisse a Recanati forse nel 1820. E’ il 3° degli Idilli giovanili.
Il poeta si trova su un colle e parla alla luna; si ricorda che l’anno prima gli era apparsa tremula perché aveva gli occhi pieni di pianto per l’angoscia che provava.
Ora la guarda senza lacrime, anche se è ancora triste.
Eppure gli fa bene ricordare gli anni in cui stava male. Dice che è bello ricordare le cose passate quando si è giovani, quando si ha ancora tanta speranza e si hanno pochi ricordi, anche se sono tristi e anche se la tristezza non è passata.
In questa poesia compare il tema del ricordo, attraverso il quale il poeta cerca consolazione.
Anche la memoria ha il potere di rendere l’uomo felice almeno per un attimo.
A SILVIA
Leopardi scrive questa poesia nel 1828, all’età di 30 anni.
Leopardi ricorda Silvia, una bella ragazza della quale si era innamorato quando era un ragazzo. Ricorda che era primavera, lui studiava in casa sua lei si dedicava ai lavori femminili (cuciva e tesseva) e mentre faceva queste cose cantava felice. La sua voce si sentiva anche fuori di casa sua, e così Leopardi la sentiva e lasciava i libri per affacciarsi alla finestra e ascoltare Silvia che cantava; intanto guardava fuori e vedeva i campi, il mare lontano e le montagne. Si sentiva molto contento e innamorato. A quel tempo Leopardi era un ragazzo giovane e aveva molte speranze: sperava di vivere una vita felice.
Ora invece Leopardi si ricorda di allora e soffre, perché tutte quelle speranze non si sono realizzate. Dice che la natura è come una matrigna, che promette ai giovani molte cose, promette di farli felici, ma non mantiene le promesse, perché nella vita nessuno riesce ad essere felice.
Anche Silvia sognava di viver una vita felice, invece proprio quell’inverno (quindi dopo pochi mesi) si ammalò di tisi e morì, ancora giovanissima. Leopardi le dice. “così non hai potuto conoscere la vita, vivere la tua giovinezza e l’amore”.
Silvia è morta, così come sono morte le speranze di Leopardi. Silvia diventa il simbolo delle speranze che l’uomo ha quando è un ragazzo, speranze che muoiono e non si realizzano mai, perché la vita dell’uomo è dolorosa e infelice.
SILVIA simbolo di giovinezza e SPERANZE
Primavera simbolo di giovinezza
Inverno simbolo di morte
La poesia è formata da 6 strofe:
- Ricorda Silvia e la descrive (Silvia era una bella ragazza, contenta e pensosa);
- Descrive la vita di Silvia: come viveva e che cosa faceva (Silvia si dedicava ai lavori femminili e cantava).
- Descrive la vita di Leopardi: come viveva e che cosa faceva (studiava molto tutto il giorno e amava molto lo studio).
- Quando siamo giovani abbiamo molte speranze, ma poi nella vita queste speranze non si realizzano, perché la vita è dolore e infelicità.
- Silvia muore di malattia quando è ancora giovanissima.
- Anche le speranze che aveva Leopardi da ragazzo sono morte.
I TEMI PRINCIPALI sono:
- il ricordo
- la giovinezza
- la natura matrigna
- le speranze della giovinezza muoiono
- la vita è infelicità
IL SABATO DEL VILLAGGIO
Leopardi descrive la vita del suo paese Recanati, alla sera del sabato; descrive le persone che vede: la ragazza, la vecchietta, l’artigiano e i bambini.
E’ una visione serena del paese e della campagna.
versione in prosa
La ragazza viene dalla campagna tutta contenta, tiene fra le mani rose e viole, che userà la domenica per ornarsi i capelli.
La vecchietta è seduta sulle scale insieme con le vicine e guarda il tramonto. Vede la ragazza e si ricorda di quando era giovane e bella e ballava il sabato sera coi ragazzi.
È il tramonto e le ombre si allungano, si vede già la luna. Suonano le campane.
I bambini giocano, gridano e saltano sulla piazza, tutti contenti.
Il contadino fa cena e pensa già alla domenica, quando si riposerà.
E’ ormai notte, l’artigiano è ancora nella sua bottega che lavora e la sua luce è ormai l’unica luce accesa in tutto il paese; nel silenzio della notte si sente il rumore del martello e della sega dell’artigiano, che continua a lavorare fino a tardi perché vuole finire prima dell’alba.
Il sabato è il giorno più bello della settimana perché è pieno di speranza e di gioia. Alla domenica ci sono tristezza e noia perché tutti pensano al lunedì quando torneranno a lavorare.
Tu che sei un ragazzo, la tua giovinezza è come il sabato, piena di entusiasmo e di speranza. Tu pensi che la tua vita adulta sarà per te come una festa, come la domenica. Io ti consiglio di goderti la giovinezza, di vivere nella gioia questa bella età e di non stare ad aspettare con ansia di essere adulto.
Il SABATO è come la GIOVINEZZA
piena di sogni, di entusiasmo e di speranza
la DOMENICA è come la VITA ADULTA
piena di tristezza e di disillusione
perché i sogni non si sono avverati
Nell’ultima parte della poesia Leopardi lancia il suo messaggio a tutti i ragazzi:
goditi la giovinezza perché poi la vita adulta ti deluderà e sarà soltanto piena di doveri e di responsabilità.
Le Operette morali
Leopardi le scrive nel 1924, ma aveva già progettato di scriverle dal 1818-1820.
Sono opere scritte in prosa.
Vi troviamo diverse forme letterarie: il dialogo, il romanzo breve, il racconto lungo, il saggio, la satira, l’opera teatrale. I personaggi sono mitici o storici o allegorici.
I temi principali sono 2.
- l’infelicità dell’uomo: l’uomo è infelice;
- critica all’ANTROPOCENTRISMO (= la teoria che dice l’uomo è al centro dell’universo).
Le Operette morali sono:
- un’opera di filosofia (= c’è il pensiero filosofico di Leopardi)
- e un’opera di poesia.
Nell’Ottocento queste operette non piacquero e furono molto criticate. Furono molto apprezzate nel Novecento.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE
È un dialogo che fa parte delle Operette morali e fu scritto nel 1924.
riassunto
C’era una volta un islandese che aveva viaggiato molto per tutto il mondo. Un giorno andò in Africa, appena sotto l’equatore, in un terra che non era mai stata esplorata da nessuno. Gli successe una cosa particolare: da lontano vide il busto di una persona molto molto grande.
All’inizio pensava fosse una grossa statua di pietra, ma poi guardò meglio e vide che era una donna, grandissima, seduta per terra, col gomito appoggiato a una montagna. Non era una statua era viva! Aveva i capelli e gli occhi neri, era bella, ma faceva paura. La donna fissava l’islandese e così rimase a guardarlo per molto tempo. Poi lei disse:
Natura - Chi sei tu? che cosa vieni a fare qui dove non c’è nessun uomo?
Islandese - Sono un povero islandese, cerco di sfuggire la Natura, l’ho sfuggita per tutta la mia vita.
Natura - Ma io sono la Natura! Perché sfuggivi da me?
L’islandese è spaventato.
Islandese - Ti racconterò di me: io fin da giovane ho capito che gli uomini sono stupidi, perché combattono gli uni contro gli altri per avere dei beni e per cercare il piacere e intanto si fanno molto male gli uni agli altri. Cercano di essere felici, ma invece si allontanano sempre di più dalla felicità. Allora decisi di non cercare il piacere, di starmene tranquillo per contro mio e di cercare di non avere dolori e sofferenze. Ma io non stavo senza fare niente! io lavoravo! Cercavo di non dare fastidio a nessuno, ma gli altri invece mi facevano del male. Allora per stare in pace mi allontanai da tutti e mi misi a stare da solo per conto mio, su un’isola.
Ma era difficile! Io stavo male! L’inverno era lungo e freddo, l’estate era calda. Cercavo di scaldarmi col fuoco, ma mi faceva male agli occhi. Io stavo male sia in casa che fuori di casa. non ero mai tranquillo: cerano il vento, i terremoti, le tempeste del mare, gli incendi. Io cercavo soltanto di stare in pace e tranquillo.
Allora cercai un altro posto, mi misi a girare il mondo per cercare un posto in cui il clima fosse buono e io potessi stare in pace. Pensai che tu, Natura, avessi fatto un posto sulla terra apposta per gli uomini, dove gli uomini potessero trovarsi bene. Pensai infatti che io non stavo bene perché non ero in quel luogo e quando l’avessi trovato io sarei stato bene.
Io cercai in tutto il mondo questo mondo, ma non l’ho trovato. Ai tropici ho sofferto il caldo; ai poli ho avuto molto freddo; nei climi temperati stavo male per il tempo variabile. Stavo male dappertutto perché trovavo pioggia, neve, vento, temporali, terremoti, le eruzioni vulcaniche, lo straripamento dei fiumi. Poi trovavo degli animali selvatici che mi volevano mangiare, i serpenti velenosi mi volevano mordere, gli insetti mi volevano mangiare. Mi sono pure ammalato: ho rischiato di morire e di perdere alcune parti del mio corpo e ho sofferto molti dolori per molti mesi.
Insomma, non sono stato in pace un solo giorno!
Tu, Natura, sei nemica degli uomini! E anche nemica degli animali! Sei nostra nemica! Noi siamo i tuoi figli e tu ci fai soffrire tanto!
Ecco perché non ho più speranza! Già sto male a pensare che presto sarò vecchio e la vecchiaia è un male grande che tu ci dai, che dai a tutti gli uomini. Fino ai 25 anni cresciamo e fioriamo, poi man mano decadiamo e diventiamo vecchi.
Natura - Ma io non mi occupo degli uomini! non mi interessa se sono felici o infelici. Io non mi accorgo di farvi del male né mi accorgo di farvi del bene. Potrei anche distruggere tutti il genere umano senza accorgermene.
Islandese - Immaginiamo questa situazione. una persona un giorno mi invita nella sua villa e insiste molto, allora io ci vado. Poi mi trovo a dormire in una stanza brutta e sporca, fredda, umida, puzzolente, dove ci piove dentro ed entra il vento. Quello che mi ha ospitato non si preoccupa di me, di farmi stare bene, di farmi passare il tempo in modo piacevole, di darmi delle comodità, ma mi dà soltanto del cibo giusto per farmi sopravvivere. Inoltre permette che i suoi figli e tutti quelli della sua famiglia mi diano le botte. Allora io mi lamento e quello mi dice. Questa villa non è fatta per te? che cosa vuoi? Io ho altro da pensare che a te e al tuo divertimento. Allora io rispondo: ma allora perché mi hai invitato? Visto che mi hai invitato tu, almeno preoccupati che io no stia male e che non sia in pericolo.
E io queste cose le dico a te, Natura. Tu hai invitato noi uomini su questo mondo e poi ci fai soffrire. Dici che il mondo non è fatto per essere al servizio degli uomini. Infatti sembra addirittura il contrario! Che tu hai fatto il mondo per far soffrire gli uomini! Ora io ti chiedo: io ti ho chiesto di nascere? Di venire in questo mondo? Sono venuto contro la tua volontà? Tu mi hai chiamato qui e mi hai messo in questo mondo, anche se io non avessi voluto. Ora dovresti preoccuparti di farmi stare felice e contento o perlomeno di non farmi stare male e di non farmi soffrire.
Io questo lo dico per me, ma lo dico anche per tutti gli altri uomini e per tutti gi animali!
Natura - Sembra che tu non capisca che nel mondo si nasce e si muore; la nascita e la morte sono collegate tra loro, servono l’una all’altra e servono per conservare il mondo, cioè perché continui ad esistere. Se non ci fosse la nascita o non ci fosse la morte, il mondo finirebbe.
Islandese - Quello che mi dici lo dicono tutti i filosofi. Ma dimmi quello che i filosofi non dicono mai: a che cosa serve allora tutto questo mondo? a che cosa serve conservare questo mondo dove tutti soffrono e muoiono?
In quel momento arrivarono due leoni, che erano magri perché non mangiavano da molto tempo e avevano molta fame e si mangiarono l’islandese e così riuscirono a sopravvivere quel giorno.
Qualcuno racconta che non è vero che arrivarono i leoni, ma che invece arrivò un forte vento e che portò moltissima sabbia che ricoprì completamente l’islandese: sotto tutta quella sabbia l’islandese morì, rimase completamente disseccato e diventò una mummia. Dopo molti anni alcuni viaggiatori lo trovarono e lo misero in un museo.
commento
Il tema principale è il PESSIMISMO COSMICO: la natura non è buona, non è come una madre buona per l’uomo, ma è una nemica dell’uomo, fa soffrire molto l’uomo e lo rende infelice. Non si occupa degli uomini e che siano felici, si occupa soltanto che il mondo vada avanti. Gli uomini sono cattivi non per colpa loro, ma perché la natura li rende infelici.
Il pessimismo cosmico di Leopardi è molto simile al pensiero di Voltaire, uno scrittore e filosofo francese.
Invece il pessimismo cosmico di Leopardi è tutto il contrario rispetto al pensiero di Rousseax, che pensava che la natura è come una madre buona per gli uomini; gli uomini sono cattivi perché si allontanano dalla natura.
Fonte: http://www.portaleboselli.it/christophernolan/Archivio%20schede/AZIENDALE/3.%20BIENNIO%20POST%20QUALIFICA/AREA%20COMUNE/ITALIANO%204L%20val%20conf/Giacomo%20LEOPARDI.doc
Autore: christophernolan ?
Dalla protesta della virtù che si ribella contro le delusioni alla scoperta di una nuova verità: il patimento degli individui è connaturato e necessario all’esistenza universale
Le canzoni Bruto minore e Ultimo canto di Saffo, se per l’impianto formale e per l’ambientazione classicheggiante si legano ancora alle prove precedenti (tant’è vero che nella raccolta dei Canti Leopardi, senza tener conto della cronologia in senso stretto, le antepose insieme con tutte le altre canzoni agli idilli), riflettono una fase di innovazione che prelude al passaggio alla prosa, alle Operette morali. Stava mutandosi la concezione stessa della poesia: Leopardi nel corso del 1821 aveva istituito una differenza tra la poesia di immaginazione, che fu propria solo degli antichi e di cui è esempio tipico Omero, e la poesia sentimentale, l’unica possibile nei tempi moderni, e che si può dire « piuttosto una filosofia, un’eloquenza » 1; ma in seguito arrivò a concludere, senza più atteggiamenti riduttivi, che la vera poesia è sempre vicina alla vera filosofia: « tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e la filosofia ch’essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa più contraria al bello; sieno le facoltà più affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l’uno né l’altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa più che mediocremente dell’altro genere, quanto all’indole primitiva dell’ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell’immaginazione »2
Le ultime canzoni, e soprattutto Bruto minore, contengono infatti un nucleo ragionativo molto consistente e fissano quello che rimarrà il tipico schema (compresenza di momenti lirici e di momenti riflessivi) del canto leopardiano.
— La crisi dell’eroe. Che l’individuo d’eccezione sia destinato a esprimere, attraverso quella testimonianza suprema che è il suicidio, la protesta esistenziale o politica e l’aspirazione irriducibile a valori disattesi nei fatti, è un motivo che abbiamo visto svilupparsi tra Sette e Ottocento nelle tragedie di Alfieri, nel Werther di Goethe, nell’Ortis di Foscolo. Leopardi l’aveva ripreso nelle sue prime canzoni con un accento prevalentemente civile: in All’Italia al compianto per il decadimento della patria si accompagna l’offerta sacrificale del poeta che, assumendosi le funzioni di vate e di martire, si dichiara pronto a combattere e morire lui solo (« L’armi, qua l’armi: io solo / combatterò, procomberò sol io », vv. 37-38).
La protesta di Bruto e di Saffo ha una portata assai più ampia: sconfitti, l’uno dalla storia — in cui non vince la libertà ma la tirannide — e l’altra dalla natura
— in cui trionfa, con altrettanta iniquità, la bellezza, e non il merito — affermano con la morte volontaria il loro diritto a sottrarsi all’ordine generale che governa il mondo, e insieme smascherano l’inconsistenza di quella stessa moralità, fondata sulla « virtù » e l'« ingegno », di cui l’eroe tradizionale si faceva portavoce.
— La scelta della morte come risposta individuale al desiderio di felicità. IL contesto filosofico delle due canzoni è quello (che abbiamo già illustrato) della meditazione intorno al piacere. Posto che il dolore nasce dal mancato appaga-mento delle aspirazioni profonde dell’uomo, il suicidio è la scelta per l’uomo più utile. Solo ragioni filosofiche (il suicidio è contro natura) o religiose (è una colpa contro la divinità creatrice) potrebbero inficiarne la liceità: una caratteristica tipica della canzone di Bruto — che Leopardi considerava esemplare della propria personalità3 — è infatti la durezza della polemica contro le giustificazioni metafisiche che tendono a orientare i comportamenti verso una docilità rassegnata e l’accettazione della vita quale è. Ma poiché è l’individuo grande, per nobiltà di sentimenti e intensità di desideri, che avverte più degli altri l’infelicità, a lui spetta il suicidio che dagli altri lo distingue: ancora nella canzone di Bruto, infatti, vediamo esistere di fronte al protagonista, diversi da lui ed estranei alla sua protesta, le cose della natura e gli animali selvatici e anche l’individuo semplice (il « villanello industre », v. 96) il cui tempo trascorre secondo ritmi e consuetudini elementari.
Non è però questa, come sappiamo, la posizione definitiva di Leopardi. L’Islandese dell’operetta Dialogo della Natura e di un Islandese, che segna compiuta-mente il passaggio a una concezione filosofica non antropocentrica, e tanto meno incentrata sugli « eroi », rinuncia alle ambizioni e non spera nel piacere, proponendosi soltanto (ma inutilmente) di sfuggire alla sofferenza e soprattutto a quella fisica. L’Islandese è un uomo qualsiasi, la cui infelicità deriva, prima che dalla privazione di beni, dai mali reali che egli patisce; il patimento a cui è assoggettato lo rende non dissimile dai due leoni stremati che infine lo divorano.
Su questa base, della sofferenza comune e della solidarietà che essa dovrebbe favorire, Leopardi anni dopo trovò anche contro il suicidio un’argomentazione persuasiva, che si può considerare il fondamento della moralità laica. Tra i due filosofi Plotino e Porfirio (il quale ha deciso di uccidersi e spiega la sua decisione nei termini utilitari ed eudemonistici che già conosciamo), dopo un lungo ragionare la battuta conclusiva spetta a Plotino: « Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora »4
1 Leopardi, Zibaldone cit., [735], 8 marzo 1821,
2 Ibidem, [3382-83], 8 settembre 1823, p. 845. p. 223.
3 In una lettera a Luigi de Sinner (da Firenze, 24 maggio 1832) Leopardi dichiarò che i suoi sentimenti verso il destino continuavano a essere quelli che egli aveva espresso nel Bruto minore (Tutte le opere cit., I, p. 1832).
4 G. Leopardi, Dialogo di Plotino e Porfirio (1827), in Tutte le opere cit., I, p. 179.
Fonte:
http://www.bachelet-pascal.it/ramella/Classe%20V/Italiano/Leopardi/Leopardi%20Crisi%20dell%27eroe.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
…. Giacomo Leopardi
- Perché leggere Leopardi
Tra i poeti della letteratura italiana nessuno ha il potere di affascinare e coinvolgere noi lettori moderni come Leopardi. Nonostante la sua sia una lingua per i morti (così egli stesso si espresse), riesce a trasmettere messaggi attuali. Leopardi piace non solo per il valore artistico della sua poesia, ma anche per i contenuti che la sua riflessione trasmette. Chi legge Leopardi non può non interrogarsi sulle proprie certezze, sulle proprie idee, anche se non condivide le posizioni del poeta. Sebbene il suo mondo sia assai lontano e diverso dal nostro, nonostante il pessimismo che caratterizza la sua poesia, i problemi da lui posti riguardano anche noi: il rapporto con la natura, la condizione dell’uomo d’oggi, il bisogno di valori, la possibilità di nuovi rapporti tra gli uomini. La sua originalità consiste nel prendere atto della miseria dell’uomo, senza tuttavia rinunciare alla riconquista di significati nuovi: se la vita è un deserto deve essere tentata in ogni modo la ricostruzione di un sistema di valori.
La lezione di Leopardi costituisce pertanto un punto di riferimento importante, se non necessario per non cedere allo smarrimento o alla stupidità: “ascoltare la voce di Leopardi non ha soltanto un significato culturale: invita anche a prendere posizione, a uscire da certezze non abbastanza verificate e a farsi carico, ciascuno nella propria condizione, di questa responsabilità di essere moderni.”
- La vita
Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798, da una famiglia appartenente alla nobiltà dello Stato pontificio. Il carattere duro, arcigno e distante della madre incise profondamente su Giacomo.
La sua formazione culturale fu affidata a precettori casalinghi. Più importante dell’insegnamento dei precettori è, però, sin dall’infanzia, fu il rapporto diretto di Giacomo con i volumi della ricchissima biblioteca paterna. Tra il 1809 e il 1816 si svolsero quei “sette anni di studio matto e disperatissimo” che gli forniranno una cultura vasta e straordinaria a danno, tuttavia, della sua struttura fisica. Gli studi, le letture, le conoscenze gli aprirono vasti orizzonti, che, tuttavia, gli fecero avvertire un senso di infelicità e il desiserio di qualcosa di più vasto dell’angusto e opprimente spazio familiare e recanatese.
Il 1817 fu un anno decisivo nella sua giovinezza: in quell’anno, infatti, prese inizio la corrispondenza con Pietro Giordani, un famoso letterato, la cui amicizia favorì la rottura con l’asfittico e reazionario ambiente famigliare. Incoraggiato da Giordani, Leopardi tentò, invano, di fuggire dalla prigionia famigliare. Intanto le sue condizioni fisiche peggiorano in seguito ad una malattia agli occhi.
Tra il 1818 e il 1822 Giacomo visse a Recanati in tensione continua con la famiglia, che avrebbe voluto avviarlo alla carriera ecclesiastica. Finalmente nel 1822 potè lasciare Recanati per recarsi a Roma, ospite degli zii; il soggiorno romano fu però per lui fonte di una nuova delusione: scarso entusiasmo suscitò in lui la visita dei monumenti antichi e l’ambiente letterario gli parve mediocre; così fece ritorno a Recanati dove si dedicò di nuovo alla scrittura.
A partire dal 1825 visse a lungo lontano da Recanati: si recò a Milano, Bologna, Firenze e infine Pisa. Nel 1828, non potendo mantenersi, ritornò per l’ultima volta a Recanati e vi rimase fino al 1830: furono sedici mesi di depressione ma anche di intensa attività creativa, durante i quali compose alcuni dei suoi canti più grandi. Intanto gli amici fiorentini misero a sua disposizione una somma sufficiente che gli avrebbe permesso di vivere a Firenze per una anno: Leopardi accettò e lasciò definitivamente Recanati.
A Firenze ritrovò i vecchi amici e si innamorò dell’affascinante Fanny Targioni Tozzetti, a cui dedicò alcune delle poesie più originali e alte.
Tra il 1831 e il 1832 visse a Roma con il conte Ranieri e nel 1833 i due si trasferirono a Napoli. Le condizioni di salute di Leopardi peggiorano e il 14 giugno 1837, mentre infuriava l’epidemia di colera, il poeta morì.
- Il pensiero leopardiano.
Uno dei nodi problematici che affronta Leopardi nelle sue opere è quello dell’infelicità umana. In un primo tempo egli ritiene che l’infelicità non dipende dalla natura, che anzi regala all’uomo illusioni che abbelliscono la vita e lo rendono capace di virtù. L’infelicità è frutto della civiltà umana e dunque della storia che ha distrutto le illusioni.
Successivamente Leopardi consolida un punto di vista materialistico. Alla luce di tale visione della vita, che rifiuta qualsiasi elemento spirituale, la causa dell’infelicità umana nasce nel rapporto tra la ricerca della felicità e l’impossibilità di raggiungerla. Secondo Leopardi ogni uomo desidera essere felice; tuttavia la felicità che egli desidera supera sempre quella che effettivamente si può conseguire. Deluso dalla realtà, l’uomo si rifugia nelle illusioni. In base a queste riflessioni, la natura, che in passato era stata da lui considerata una madre benevola, ora è vista come responsabile dell’infelicità umana, perché essa infonde negli uomini il bisogno di felicità, ma poi non mantiene le sue promesse, facendo così della vita un carico di delusioni, sofferenze e noia.
Possibile antidoto a ciò è la dimensione sociale, che lo porta a rifiutare e condannare il suicidio, che secondo Leopardi è un gesto di viltà e un errore perché provoca dolore in chi sopravvive, rendendo loro più insopportabile la vita. Gli uomini, invece, devono sforzarsi di soccorrersi vicendevolmente, secondo una nuova morale fondata sulla fraternità.
- La poetica
Secondo Leopardi la poesia deve provocare nel lettore un effetto forte; essa infatti ha il compito di garantire un estremo appiglio al bisogno di illudersi, immaginare, fantasticare. In tal senso la poesia sul piano dell’espressione deve servirsi di specifiche tecniche, che tendono all’indeterminatezza e al vago, e deve ricorrere al ricordo, che è una forma di soddisfacimento del piacere.
Per lui, inoltre, la poesia svolge anche una funzione sociale: essa deve tener vivi quei modi di sentire caratteristici dell’uomo e ben sviluppati nel mondo antico (l’immaginazione, le virtù, la nobiltà d’animo, i valori), che rischiano invece di atrofizzarsi nel mondo moderno.
- Le opere
- A diciannove anni Leopardi inizia a sviluppare le proprie riflessioni in un quaderno che lui stesso avrebbe chiamato Zibaldone di pensieri. Il titolo fa riferimento alla varietà disordinata e frammentaria dei temi affrontati. Esso, infatti, non fu concepito come opera destinata alla pubblicazione, ma come diario intellettuale. La sua lettura consente di conoscere il pensiero leopardiano nella sua evoluzione.
- Nel 1824 Leopardi scrive le Operette morali: si tratta di 24 testi in prosa satirica sotto forma di narrazioni o di dialoghi. In esse si ritrovano i temi della riflessione leopardiana: il pessimismo, il materialismo e altri ancora.
- Tra il 183 e il 1835 Leopardi compose i Paralipomeni della Batracomiomachia, un breve poema eroicomico: l’argomento è lo scontro tra i topi e i granchi invasori. Nella vicenda fiabesca sono rappresentati in tono sarcastico gli avvenimenti storici tra il 1815 e il 1821: i granchi sono gli austriaci mentre i topi sono gli italiani.
- I Canti
La produzione poetica di Leopardi è raccolta nei Canti, libro che conta quarantuno testi di varia lunghezza. Il titolo, “del tutto inedito nella nostra tradizione letteraria per una raccolta di liriche” fa riferimento all’intonazione musicale dei testi e sottolinea come essi siano la manifestazione diretta dell’io e della sua interiorità.
Il testo comprende due gruppi di poesie: i Piccoli Idilli e i Grandi Idilli.
Nella poesia antica con il termine idillio si definiva un breve componimento poetico ambientato nella quiete e dolcezza della natura. Leopardi chiama idilli alcune poesie (in endecasillabi sciolti), che, pur partendo da un elemento del paesaggio, danno voce a sensazioni, ricordi, sentimenti, meditazioni interiori.
Fonte: http://piattaformadidattica.files.wordpress.com/2010/10/giacomo-leopardi.doc
Autore: non indicato nel documento di origine del testo
Opere di Giacomo Leopardi
All'Italia
(1818)
O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l'erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi 5
i nostri padri antichi. Or fatta inerme,
nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
formosissima donna! Io chiedo al cielo 10
e al mondo: dite dite;
chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
che di catene ha carche ambe le braccia;
sì che sparte le chiome e senza velo
siede in terra negletta e sconsolata, 15
nascondendo la faccia
tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
le genti a vincer nata
e nella fausta sorte e nella ria. 20
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
mai non potrebbe il pianto
adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive, 25
che, rimembrando il tuo passato vanto,
non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché perché? dov'è la forza antica,
dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando? 30
Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
o qual tanta possanza
valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
da tanta altezza in così basso loco? 35
Nessun pugna per te? non ti difende
nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
agl'italici petti il sangue mio. 40
Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi
e di carri e di voci e di timballi:
in estranie contrade
pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi, 45
un fluttuar di fanti e di cavalli,
e fumo e polve, e luccicar di spade
come tra nebbia lampi.
Né ti conforti? e i tremebondi lumi
piegar non soffri al dubitoso evento? 50
A che pugna in quei campi
l'itala gioventude? O numi, o numi:
pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
non per li patrii lidi e per la pia 55
consorte e i figli cari,
ma da nemici altrui
per altra gente, e non può dir morendo:
alma terra natia,
la vita che mi desti ecco ti rendo. 60
Oh venturose e care e benedette
l'antiche età, che a morte
per la patria correan le genti a squadre;
e voi sempre onorate e gloriose,
o tessaliche strette, 65
dove la Persia e il fato assai men forte
fu di poch'alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l'onda
e le montagne vostre al passeggere
con indistinta voce 70
narrin siccome tutta quella sponda
coprìr le invitte schiere
de' corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia, 75
fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
e sul colle d'Antela, ove morendo
si sottrasse da morte il santo suolo,
Simonide salia,
guardando l'etra e la marina e il suolo. 80
E di lacrime sparso ambe le guance,
e il petto ansante, e vacillante il piede,
toglieasi in man la lira:
beatissimi voi,
ch'offriste il petto alle nemiche lance 85
per amor di costei ch'al Sol vi diede;
voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell'armi e ne' perigli
qual tanto amor le giovanette menti,
qual nell'acerbo fato amor vi trasse? 90
Come sì lieta, o figli,
l'ora estrema vi parve, onde ridenti
correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
ciascun de' vostri, o a splendido convito: 95
ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'onda morta;
Né le spose vi foro o i figli accento
quando su l'aspro lito
senza baci moriste e senza pianto. 100
Ma non senza de' Persi orrida pena
ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
or salta a quello in tergo e sì gli scava
con le zanne la schiena, 105
or questo fianco addenta or quella coscia;
tal fra le Perse torme infuriava
l'ira de' greci petti e la virtute.
Ve' cavalli supini e cavalieri;
vedi intralciare ai vinti 110
la fuga i carri e le tende cadute,
e correr fra' primieri
pallido e scapigliato esso tiranno;
ve' come infusi e tinti
del barbarico sangue i greci eroi, 115
cagione ai Persi d'infinito affanno,
a poco a poco vinti dalle piaghe,
l'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
beatissimi voi
mentre nel mondo si favelli e scriva. 120
Prima divelte, in mar precipitando,
spente nell'imo strideran le stelle,
che la memoria e il vostro
amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando 125
verran le madri ai parvoli le belle
orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
o benedetti, al suolo,
e bacio questi sassi e queste zolle,
che fien lodate e chiare eternamente 130
dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
ch'io per la Grecia i moribondi lumi 135
chiuda prostrato in guerra,
così la vereconda
fama del vostro vate appo i futuri
possa, volendo i numi,
tanto durar quanto la vostra duri. 140
II
(1831?)
Metro: Canzone libera, composta da tre strofe
diverse tra loro per numero di versi e schema. Rime o
assonanze liberamente disposte.
D'in su la vetta della torre antica,
passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera d'intorno 5
brilla nell'aria, e per li campi esulta,
si ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri, 10
pur festeggiando il lor tempo migliore:
tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
canti, e così trapassi 15
dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella età dolce famiglia,
e te german di giovinezza, amore, 20
sospiro acerbo de' provetti giorni,
non curo, io non so come; anzi da loro
quasi fuggo lontano;
quasi romito, e strano
al mio loco natio, 25
passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
odi spesso un tonar di ferree canne, 30
che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
la gioventù del loco
lascia le case, e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor s'allegra. 35
Io solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo: e intanto il guardo
steso nell'aria aprica 40
mi fere il Sol che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica
che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera 45
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; che di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza 50
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all'altrui core,
e lor fia vóto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro, 55
che parrà di tal voglia?
che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.
III
L'infinito
(1819)
Metro: Endecasillabi sciolti.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani 5
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce 10
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare. 15
IV
Alla luna
(1819)
Metro: Endecasillabi sciolti.
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l'anno, sovra questo colle
io venia pien d'angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari. 5
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, che travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova 10
la ricordanza, e il noverar l'etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose, 15
ancor che triste, e che l'affanno duri!
V
A Silvia
(1828)
Metro: Canzone libera. È la prima in ordine
cronologico ed è composta da sei strofe, diverse
tra loro per numero di versi e schema.
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare 5
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta 10
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri 15
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce, 20
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 25
Lingua mortal non dice
quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia 30
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura. 35
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno, 40
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome, 45
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.
Anche peria tra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei 50
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme! 55
Questo è quel mondo? questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero 60
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
VI
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia
(1829-1830)
Metro: Canzone libera di sei strofe, con rime frequenti.
La rima -ale è costante alla fine di ciascuna strofe ed è
ripresa all'inizio della strofe-congedo.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga 5
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore. 10
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera. 15
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale? 20
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, 25
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta, 30
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso, 35
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento. 40
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene, 45
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato 50
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura, 55
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale. 60
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo 65
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto 70
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci 75
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano, 80
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando: 85
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza 90
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa, 95
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento, 100
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata, 105
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno, 110
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno 115
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge 120
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei. 125
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso, 130
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una, 135
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: 140
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
VII
La quiete dopo la tempesta
(1829)
Metro: Canzone libera di tre strofe. L'ultimo verso
di ciascuna strofa rima con uno dei versi precedenti.
Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe là da ponente, alla montagna; 5
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio
torna il lavoro usato. 10
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
con l'opra in man, cantando,
fassi in su l'uscio; a prova
vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
della novella piova; 15
e l'erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi, 20
apre terrazzi e logge la famiglia:
e dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core. 25
Sì dolce, sì gradita
quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
l'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende? 30
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
gioia vana, ch'è frutto
del passato timore, onde si scosse
e paventò la morte 35
chi la vita abborria;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudàr le genti e palpitàr, vedendo
mossi alle nostre offese 40
folgori, nembi e vento.
O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena 45
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana 50
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d'alcun dolor: beata
se te d'ogni dolor morte risana.
VIII
Il sabato del villaggio
(1829)
Metro: Canzone libera di quattro strofe.
Nelle ultime due, l'ultimo verso è in rima
con uno dei versi precedenti.
La donzelletta vien dalla campagna
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole, 5
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno; 10
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch'ebbe compagni nell'età più bella. 15
Già tutta l'aria imbruna,
torna azzurro il sereno e tornan l'ombre
giù da' colli e da' tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno 20
della festa che viene;
ed a quei suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta, 25
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo. 30
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l'altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna, 35
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra anzi al chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia 40
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno, 45
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa 50
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
LEOPARDI
- Proprio nel momento in cui L. nega coincidenza desiderio e raggiungimento di esso, amore completo, felicità raggiungibile, in realtà afferma queste cose negate.
- Il suo pensiero, la sua filosofia è frutto di riflessione, non della sua condizione(gobbo, quindi brutto aspetto fisico…). Non dipende da sua condizione fisica, sue affermazioni valide per tutti, non solo per chi è in sua condizione.
Vita p.431 (1798-1837; Recanati; sette anni di studio matto e disperatissimo, la salute ne risente; 1817 corrispondenza con Giordani, sua guida intellettuale, partecipa a dibattito classici-romantici; 1822 disillusione;…)
Plurimi isolamenti: 1)luogo geografico(Stato pontificio)
2)paese all’interno del luogo geografico(borgo isolato di Recanati)
3)condizione sociale agiata
Necessità passaggio da erudizione al bello = non solo studio fine a se stesso, ma studio che comporti una messa a frutto e relazione. Da chiusura a apertura verso gli altri.
P.444:1816 – posizione a favore dei classicisti, si considera classicista, ma con posizione propria dei romantici (es. Schiller)
- sì a principio imitazione, ma per legame con spontaneità natura (argomentazione diversa rispetto a classicisti, simile a romantici): posizione originale e autonoma.
IMITAZIONE (classicisti) PER ARRIVARE A POSIZIONE SPONTANEA E IMMAGINATIVA (romantici)
p.434: 1817 A PIETRO GIORDANI
Ricerca di una guida spirituale (il padre è intellettuale ma retrivo). Ritrovata in Giordani.
l.2 “un uomo di cuore d’ingegno e di dottrina straordinario”: capacità di sentire + erudizione: maestro di vita, guida morale (non solo guida letteraria).
Recanati = causa persa. Presente a Recanati orribile. Volontà di vedere le meraviglie del mondo.
“A tutto questo aggiunga l’ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s’alimenta e senza studio s’accresce”: NERA MALINCONIA: 1) lo studio fa pensare e comprendere propria condizione (> disperazione); 2) senza studio no distrazioni a Recanati: Noia (> disperazione).
DOLCE MALINCONIA: ispirazione “che partorisce le belle cose”.
p.432: 1822 DISILLUSIONE. Lettera al fratello Carlo da Roma.
l.1-7: viaggio a Roma, parenti, persone schifose. l.27-31: eruditi ciglioni.l.44-56: constatazione del reale e bisogno di amore, vita,… di L.
1818-22: PICCOLI IDILLI
1820: inizio stesura “Zibaldone dei pensieri”: diario intellettuale, osservazione filosofica, riflessioni, osservazione linguistiche, su poetica.
- appunti relativi a teoria del piacere;
- elaborazione su pessimismo storico;
- elaborazione su poetica del vago e dell’indefinito.
p.437 PESSIMISMO STORICO: riconoscimento concezione pessimistica in un momento storico, non in generale. Condizione uomo nell’antichità migliore perché più vicino a natura. Presente = uomo allontanato da natura e troppa ragione.
Natura (primitività, immediatezza, madre benevola, protettiva,…) vs Ragione(negativa)
Dal 1824 in poi elaborazione con più cambiamento.
p.445: POETICA DEL VAGO E DELL’INDEFINITO: è poetico ciò che è vago e indefinito. Termini generici che danno senso indefinitezza e sensazione vaga (es. “antico”, musica senza vedere chi la produce). Vs precisione terminologica (es. Pascoli).
p.438: TEORIA DEL PIACERE: concezioni filosofiche del 1700 sensistiche: determinazioni intellettuali derivano dai sensi.
L’uomo in quanto corpo, senso, per natura sente piacevolezza e dolore fisico e cerca la prima e rifugge l’altra. Desiderio piacevole fisico » desiderio felicità intellettuale: desiderio senza limiti che NON può essere colmato da piaceri fisici: desiderio irraggiungibile. Conseguenze: 1) Inquietudine per impossibilità di raggiungimento; 2) pessimismo sociale: mio piacere e quello degli altri spesso in conflitto, prevale senso egoistico. Mia aspirazione porta a mancato raggiungimento desiderio altrui.
Piacere fisico non da’ felicità suprema e mette in conflitto con gli altri: uomo destinato a infelicità e contrasto.
Elementi che mitigano(attenuano constatazione destino): ILLUSIONI: 1)Amore; 2)Ricordo(rimembranza); 3)Speranza.
- Amore illude a avvicinarsi a uomini (rispetto a pessimismo sociale)
- Speranza e ricordo allontanano da presente: la prima è proiezione nel futuro (ma quando momento sperato arriva cade speranza illusoria); il secondo vede con occhi migliori quanto vissuto anche se negativo (es. Recanati).
1822 “Ultimo canto di Saffo”: L. entra in personaggio. Saffo ha un grande animo ma un brutto fisico e incapacità di esprimere suo animo. Innamorata di giovane bello Faone.
p.521: v.61 “Vivi felice, se felice in terra/ visse nato mortal”: Condizione umana in quanto tale di natura è infelice. Non più epoca migliore di un'altra, non più pessimismo storico.
p.525: 1819 - “L’INFINITO”
Idillio (vd.p.524): - tradizione: descrizione naturalistica
- L.= concezione intima (non solo paesaggio), presentazione propri sentimenti intimi, presentazione di un momento del proprio animo.
Limatura, correzioni per rafforzare senso infinitezza.
p.568 “A se stesso”: ritmo tronco: 10 proposizioni vs “Infinito” (fino a v.13 blocco unico per congiunzioni “e”, “ma”…).
- senso illimitatezza, dilatazione (congiunzioni)
- dilatazione data anche da enjambements (soprattutto agg.+nome)
- dilatazione data anche da termini lunghi (es. “interminati”, “sovrumani”)
No sonetto, ma 15 endecasillabi sciolti (non rimati): -tradizione: endecasillabi
- attraverso tradizione introduce elementi nuovi (no codificazione)
Aggettivi alla fine dei versi: posizione forte (es. “interminati”: sinonimo di infiniti, termine più significativo in posizione forte).
Parole polisillabiche (es. anche v.6 “qui-ë-te”), in legame spesso con riflessione (es. “sedendo”, “mirando”)
Parole corte indicano realtà, ciò da cui ci si vuole allontanare (es. “ermo colle ”, “siepe”)
Struttura ipotattica (molte subordinate con congiunzioni) ~ lactea ubertas di Livio
v.1: passato remoto, poi insistenza sul presente: situazione precisa che innesca azione di un presente non momentaneo, ma abitudine, ripetizione. “sempre…mi fu…”: no narrazione evento, ma affermazione di qualcosa che ha sempre avuto validità e ne ha ancora, concetto sempre valido.
v.1-2: colle-siepe limitano la vista, orizzonte lontano non visibile: sbarrando sguardo fisico favoriscono immaginazione. Il reale visto sbarra invece immaginazione.
Infinito spaziale (v.4-5) perché non vedo orizzonte
v.5-8: ci si perde in esso: inquietante.
v.8: entra altro elemento reale: Vento.
COLLE, SIEPE = INFINITO SPAZIALE
VENTO, FOGLIE = INFINITO TEMPORALE
V.12: l’infinito passato: “morte stagioni”
PASSATO = INFINITO SILENZIO
PRESENTE = RUMORI
Deittico: consapevolezza di luogo e tempo se si ha punto di riferimento. “questo”, “quello” non sempre corrispondono a un determinato significato.
Questo = vicinanza |
|
Quello = lontananza |
v.1-2 colle, siepe |
Reale |
|
|
Allontananza da reale(inf.sp.) |
v.5 siepe |
v.7 piante |
Riavvicinamento a realtà |
v.10 infinito silenzio |
v.13 immensità mare |
Immaginazione completa |
|
Immensità mare = immensità del pensiero » naufragare completo in metafora.
Metafora ossimorica: “naufragar”: evento spiacevole che indica qualcosa di dolce.
(~ Ungaretti: “L’allegria dei naufragi”: allegria dopo superamento difficoltà)
1924-28: “OPERETTE MORALI”
Favole, apologhi, dialoghi, spesso ironici, filosofici. Riflesso meditazioni che ci possono far parlare di pessimismo cosmico: colpevole dell’infelicità è la stessa natura e quindi la stessa natura umana.
# pessimismo storico (natura vs ragione, antichi vs contemporanei).
p.478: “Dialogo della Natura di un Islandese”
Islandese ~ percorso Leopardi. 1° L. = esiste condizione felicità diversa da quella in cui ci si trova.
Approdo Islandese = approdo L.: non esiste alcun luogo tale, natura matrigna più che madre benevola.
l.11: fig. gigantesca: la Natura ha qualcosa di bello e inquietante
l.24: più luoghi aspri, meno uomo, più natura potente.
l.29: Teoria dei piaceri:1) Desiderio di felicità; 2) Islandese consapevole che felicità no raggiungibile, si illude che piaceri possono portare soddisfacimento; 3) Forse si può sfuggire patimento: a) Allontanandosi da molestia degli uomini (in Islanda è facile); b) Ma diminuendo molestia degli uomini si sentono di più disagi condizione naturale uomo (da cui è impossibile allontanarsi). Allora ricerca di un luogo adatto per l’uomo in quanto tale, e Islandese comincia a viaggiare.
l.95: tutto ciò che piace fa male
l.103: già momenti ordinari disagevoli + picchi negatività malattie. Ma natura non ha dato picchi di positività. In più anche cose positive hanno qualcosa vs uomo.
l.122: Da natura madre a carnefice delle proprie creature.
l.133: perché la natura dovrebbe essere favorevole all’uomo? Essa non è né colpevole né favorevole all’uomo, né carnefice né madre benevole: la natura è indifferente.
l.141: Islandese: ma mi hai fatto nascere, è come se tu, natura, mi avessi invitato a casa tua. Come fai a essere indifferente? Invitato, ma ingiuriato (anche da figli = altri animali).
l.164: sofferenza e morte indispensabili per la vita = ciclo produzione-distruzione, cambiamento; qualcosa di libero da patimento.
l.169: tanti filosofi dicono quello che tu, natura, dici. Differenza vita collettiva/individuale: io non percepisco la vita, ma la MIA vita. A che giova che la vita collettiva dell’universo porti vite infelici individuali? CONSTATAZIONE INFELICITA’ PIU’ CHE VOLONTA’ DISTRUZIONE.
l.179: 2 finali: 1°) 2 leoni lo sbranarono per riempire l’inedia (piacere frutto di costrizione) = es. ciclo produzione-distruzione = morte uno è sopravvivenza dell’altro; 2°) Vento che porta sabbia e lo sommerge e mummifica = individuo fuori da ciclo vitale, biologico.
Non cambia nulla per individuo: sia l’introduzione nel ciclo vitale sia l’esternazione chiudono la vita del singolo.
p.456: “Zibaldone” [3]: le sofferenze di un giardino bellissimo. Scontri tra individui viventi.
1829- “Zibaldone”: colpevole dell’infelicità è la natura, non gli altri (# prima) vs misantropia. Gli altri sono compagni di sventura impossibilitati di raggiungere felicità. In “La Ginestra”: “social catena”: legame tra tutti gli uomini.
Da pessimismo sociale a COMPASSIONE(= soffrire assieme)
Dal 1829 nuovi componimenti centrati sul RICORDO + FIGURE ESEMPLARI.
p.534: “A SILVIA” – Silvia è la figura della sua poesia.
1° PARTE:
1° stanza) RIMEMBRI – IO E TE – INTRODUZIONE TEMA DEL RICORDO
v.1 allocuzione. Silvia è morta (v.2): presente, no colloquio tra vivi.
v.4: “i” suoni squillanti, ridenti (“ridenti e fuggitivi”)
v.5: aspetto gioioso e malinconico fusi insieme (“lieta e pensosa”, “ridenti e fuggitivi”)
v.6: anagramma “Silvia”. Ascesa = vita è un progredire, un salire, un superare che è un balzo, un volo; ascendere in confine giovinezza è sì un oltrepassare ma in S. è anche un salire: S. non è mai entrata in giovinezza.
2° stanza) SILVIA
v.13: “maggio odoroso” = Primavera: stile del vago e indeterminato. Stagioni = stagioni della vita – Primavera = giovinezza.
S. canta e lavora. V.11-12:contenta, fiduciosa di un futuro che non si sa quale potrà essere.
3° stanza) LEOPARDI
S. canta = L. canta poesia, scrive (“studi leggiadri”)
S. lavora = L. studia (studi eruditi: “sudate carte”)
Non solo trascorrere tempo, ma anche consumare di se stesso (v.17-18)
v.19…: ascolto di un suono: poetica del vago – non visione: meglio suono di cui non si vede chi lo ha prodotto.
2° PARTE:
1° stanza) RIFLESSIONE SU SITUAZIONE IN GENERALE
v.32: ricordo di nostra situazione di allora mi porta a dolore: speranze non possono essere realizzate. La felicità possibile è la speranza stessa, non quello che si conquista (colpevole è la natura).
2° stanza) RIFLESSIONE SU SILVIA
v.40: S. morta prima di età adulta (= inverno) vs “maggio odoroso”
Suggerisce piacevolezze vita come non presenti: bellezza, gioire di sguardi, parlare d’amore…
Per S. ci sono dei “non” (v.42 e 44)
3° stanza) RIFLESSIONE SU STESSO
v.49-50: Silvia = speranza: come S. morta così speranza morta.
v.50-52: fato nega giovinezza a S., a L. nega giovinezza piena.
v.55: “mia lacrimata speme”: è S., ma anche speranza: sovrapposizione 2 figure.
v.58: ciò che io pensavo lo pensavi anche tu: fusione S. – speranza.
v.59: condizione di tutti: illudersi e vedere poi disillusione.
v.60-61: VERO = realtà = fine speranza – illusione = “VERNO”= realtà che non corrisponde a speranza – età della disillusione.
UNICO APPRODO = MORTE: Speranza che muore indica questo approdo come l’unico forte.
L. non si immerge nella vita, non si mescola nella folla, ma usa dei filtri = qui balcone, finestra (anche nel momento che si osserva). S. lavora direttamente, L. ascolta filtratamente la realtà.
p.538: importanza del corpo e dei sensi.
Teoria dei piaceri: i mali sono necessari per il piacere: eliminazione mali è solo male più attenuat. Non esiste piacere completo, ma speranza o fine del male.
- Piacere = attesa fiduciosa – “Il sabato del villaggio”
- Piacere = fine del male, non in qualcosa di positivo in più – “La quiete dopo la tempesta”
p.552- “LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA”
- Conclusione gnomica, filosofica = dolore inevitabile in vita umana
- Sfere sensoriali varie a cui subentra riflessione amara e sarcastica
v.2: gallina: motivo comico, ma L. lo introduce in serio.
Primi versi descrizione sensoriale dopo la tempesta.
v.32: Piacere = uscita dal dolore, fine di esso senza ottenere nulla di buono in più. Fine turbamento in realtà è nulla, un ritorno alla quotidianità. Piacere = pausa nell’affanno, ritorno al nulla, allo zero dopo momento in cui avevo atteso il meno.
v.33-36: ironia al pessimista (L.) che prova una gioia vana se scampa alla morte aborrita.
Se “piacer figlio d’affanno”, se è dato da fine sofferenza, allora la morte sola può risanare (v.54).
p.558- “IL SABATO DEL VILLAGGIO”
erba = quotidianità – fiori = eccezionalità (festa)
Sollievo attesa: sabato lavorativo.
v.38: fase riflessiva: giorno più gradito è quello prima di festa: Piacere = speranza realizzazione: realtà = disillusione che si verifica. CICLO: futuro di quotidianità, fatica… e nuova speranza festa.
v.40: pensiero per il domani di lavoro porta incrinarsi di entusiasmo nella festa.
= “A Silvia”: se primavera = giovinezza, speranza, allora sabato (speranza) = primavera (v.44)
Quindi la festa della vita (maturità) = domenica = disillusione.
v.50-51: non ti pesi che festa della vita tardi ad arrivare: ti auguro di prolungare attesa = giovinezza.
p.555- “IL PASSERO SOLITARIO”
Datazione del canto incerta: in seconda edizione dei “Canti” (1835) è posto in apertura della sezione degli idilli del 1819-21. Quindi o inizia stesura prima del 1831, data della prima edizione dei “Canti”, e poi la completa in seguito, o compone questo testo interamente in un periodo più tardo.
3 stanze: 1° stanza: una specie di passero, non un individuo, si distingue da altri passeri(ornitologia)
2° stanza: somiglianza con L. - 3° stanza: differenza con L.
1°-2° stanza: L. usa presente di finzione: L. si rifà a esperienza lontana (propria giovinezza)
3° st.: futuro si rifà a periodo compiutezza opera (= il vero presente).
Opera progettata da giovane e compiutezza seguente.
PASSERO = 1)Solitudine: si distingue da altri; 2)Poesia: passero canta (= Silvia)
v.1: “Antica” = imprecisione (= allusione): rimando a poetica del vago
1° st.: situazione che suggerisce gioia vitale (ma negli altri). Primavera = giovinezza.
Contrapposizione passero (v.15 CANTARE, vivi solo per questo canto) vs altri (v.11 godimento vita)
2° st.: L. = passero: per gli altri valgono l’amore…(v.18…), io non curo queste cose e fuggo.
v.27: è primavera e è un giorno festivo (forse festa di Recanati)
v.33-34: Gli altri vanno verso paese, io vado verso la campagna: contrapposizione anche fisica.
v.39: Rimando al futuro festa, il piacere ad un altro momento, ma questo diletto ha il suo tempo, e questo rimandare non mi farà più vivere il diletto (il Sole quasi glielo dice).
3°st.: Differenza: Passero: atteggiamento naturale vs L.: atteggiamento non naturale, non appartiene all’uomo. Comportamento del passero è legato a specie: v.48-49: non è una scelta, non un comportamento individuale, non lo distingue dalla propria specie, ma distinzione tra specie diverse, istinto naturale.
v.50…: Vecchiaia non desiderata = ipotetica vecchiaia non avrà più neanche quell’elemento di speranza tipico della giovinezza, non si può più rimandare a qualcosa di migliore.
v.58-59: RICORDO = RAMMARICO: 2° differenza: mancata riflessione (passero) vs. riflessione e rammarico (L.) senza possibilità di cambiamento.
p.561: IL “CICLO DI ASPASIA”
Risentimento contro se stesso e contro donna amata per illusione.
p.449: Cosa provoca in consapevolezza di sé il sentimento d’amore.
Grande esperienza porta a fare esperienza di sé, di chi si è veramente.
L’amore comune non per forza grande esperienza, l’amore passione può costituire l’esperienza straordinaria: esperienza grande data da: 1)Difficoltà; 2)Amore straordinario.
Con questa esperienza si può comprendere non solo la passione provata, ma cos’è la passione in generale, nei diversi casi, conoscere di più sé e gli altri (l.13-14). l.20-23: CONSAPEVOLEZZA.
Grande esperienza è comprensione di ciò che l’uomo può provare, della sua natura umana.
p.568- “A SE STESSO”: Richiesta e comando al cuore dopo disillusione amorosa (Tozzetti)
3 Sezioni:
1° parte: v.2-3: L’amore ha fatto sentire L. divino, ma è un inganno che il cuore non deve più vivere (non più sentimenti v.1)
v.5: non solo la speranza spenta ma anche desiderio di provare sentimento amore.
v.4: ossimoro: “inganni” = negativo vs. “cari” = illusione può portare qualcosa di piacevole (ma qui si nega).
2° parte: v.6: non provare più sensazioni (imperativo). Nessuna cosa è degna dei tuoi palpiti.
3° parte:v.11-12: quella che stai provando sia l’ultima disillusione
v.12: MORTE = l’unica cosa certa.
v.13-16: disprezza tutto ciò che è nulla, che è vanità (riferimento all’Ecclesiaste)
v.15: “brutto poter” = poter malvagio: 1) capacità di sentire; 2) desiderio felicità (“comun danno”).
- pochi aggettivi, peso parole, ripetitività ossessiva (vd.p.568-569)
- uno ripete più volte se pensa che comando non possa avverarsi: INCERTEZZA che in quell’illusione non ci si possa più ricadere.
- VISIONE MATERIALISTICA: morte = fine di tutto (= Foscolo)
Con “ciclo di Aspasia” si passa da motivi consolazione individuale (con lirica) a apertura verso consolazione collettiva in valori alti (“La ginestra”)
p.578- “LA GINESTRA” (1836, anno prima della morte)
Invito: 1) Guardare in faccia la realtà; 2) Agire comune (“la social catena”): natura nemica, evitare lotta tra uomini.
Citazione di Giovanni ribaltata: - per Giov. tenebre = peccato; per L. tenebre = oscurantismo
Piuttosto che visione razionale
- per Giov. luce = bene; per L. luce = ragione (illuminismo)
vd. Fotocopia.
v.87: il povero e malato che sia saggio non si definisce ricco né si mostra forte e ricco fra gli altri.
v.94-95: mostra sé senza vergogna e parla apertamente della sua condizione
v.98…: stolto quell’essere che nutrito nelle difficoltà, che nato per la morte, dice che è destinato alla felicità, non riconoscendo la sua condizione.
STOLTO (v.99) chi: 1)non riconosce la sua condizione; 2) scrive di condizione che non vive (felicità, che neanche dei conoscono) = intellettuale.
Oggettività è che condizione umana è sempre soggetta a fattori esterni dolorosi.
STOLTO VS. “NOBIL NATURA”: questa ha il coraggio di guardare in faccia il comune destino degli uomini, non abbellisce il vero, la condizione dappoco dell’uomo: compito intellettuale.
v.118-119: FORTE perché non si illude ma affronta sua condizione.
V.120: fratelli in questa condizione: “Nobil natura” è quella di chi non somma alla propria condizione spiacevole altri mali (odio…) e non incolpa uomo (perché condizione uguale per tutti uomini), ma la natura.
NATURA = MADRE + MATRIGNA AVVERSA (v.125)
v.126: “Nobil natura” vede in uomini necessità di un esercito comune, una confederazione di uomini, una lotta comune.
v.135: essa crede stolto combattere contro altri uomini, ingannare, non dimostra supremazia.
v.137: Contrapporsi agli altri in una natura ostile = in guerra invece di difendersi dal nemico lottare contro i propri compagni.
v.145: Gli antichi avevano terrore della natura e perciò la divinizzarono (ribaltamento L. iniziale: antichi più vicini a natura).
v.149: “social catena”: già ci fu con antichi (idealizzazione antichi), ritornerà quando questa concezione della natura tornerà nel volgo e il terrore verso di essa non sarà irrazionale.
v.154: credenze religiose = “superbe fole”: se probità volgo si fonda su queste sta in piedi come uno che sta in piedi su errore.
NON SOLO DISCORSO DISTRUTTIVO MA ATTIVO: solidarietà…
Negatività del suicidio = togliere soldato da esercito contro natura.
v.297-317
“lenta” = flessibile: si piega, ma non può essere spezzata, a lungo termine può opporre resistenza; ginestra sola e quando distruzione viene lei torna.
v.299: adorna luoghi desertici, coperti di lava, ma sarà nuovamente coperta da lava
v.305: soccombe apparentemente senza resistenza, innocentemente (sua condizione = morte): “non renitente”: v.307: Ma ginestra è flessibile: non si è piegata di fronte a minaccia del futuro oppressore (lava) = non implora pietà alla forza che l’avrebbe piegata.
v.309: non hai mai creduto di essere una creatura privilegiata (come fa uomo) in un deserto che non per scelta ti sei trovata a popolare, ma per il caso, il destino.
v.314: uomo vs. ginestra: l’uomo che si trova lì dove vive (L. pre-esistenzialista) esalta la sua condizione, ricerca qualcosa di trascendente: ginestra più saggia dell’uomo.
fonte: http://styx.altervista.org/Scuola/Italiano/4__LEOPARDI.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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