Poesia italiana del novecento

 

 

 

Poesia italiana del novecento

 

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Poesia italiana del novecento

 

CARATTERI  DELLA  POESIA  ITALIANA DEL  PRIMO  NOVECENTO

 

  • IL PROBLEMA DELLE ORIGINI DELLA POESIA MODERNA

 

Si suole affermare, per quanto riguarda gli sviluppi della lirica, che la cerniera che salda in certo modo il nostro secolo al precedente è costituita dalla poesia di Pascoli e D’Annunzio. In realtà la questione è controversa e per orientarsi con un minimo di plausibilità occorre domandarsi quale sia il discrimine, ovvero la linea di demarcazione tra poesia tradizionale, o modo tradizionale di far poesia, e poesia moderna. Affermare,per comodità di semplificazione cronologica, che la prima si esaurisce con l’Ottocento e la seconda inaugura il Novecento significa falsare i termini della questione, anche se è vero che, almeno da noi, la poesia moderna può dirsi senz’altro novecentesca, poiché, come vedremo, si situa quasi per intero nel nostro secolo.

Mi pare che tutta la critica moderna sia d’accordo nell’individuare la vera, autentica novità della poesia moderna, la prima rottura consapevole col passato, nella poetica del Simbolismo. Al riguardo è bene precisare le coordinate spazio-temporali: Francia, seconda metà dell’Ottocento .

Simbolismo significa Baudelaire, significa soprattutto Mallarmé e Rimbaud, significa poesia pura. Per capire questo concetto, che costituisce l’idea dominante del Simbolismo, mi rifaccio ad alcune illuminanti definizioni.

Innanzitutto quella del critico Hugo Friedrich, che recita: “La poesia moderna evita di riconoscere mediante versi descrittivi o narrativi il mondo oggettivo – e anche quello interiore – nella sua sussistenza oggettiva.   Friedrich spiega dunque che cosa non è il simbolismo: esso non è più poesia di imitazione della realtà, di un mondo fuori di noi; non è poesia che descriva o racconti; non è neppure poesia che registri i moti di un mondo interiore.  Che è dunque in positivo? 

Dice Elio Gioanola: “Poesia pura è [la] parola [….] che interrompe ogni rapporto comunicativo con la realtà per porsi essa stessa come realtà totale, oggetto assoluto; “simbolo” […]non significa più rapporto tra un oggetto e la sua rappresentazione verbale, ma sostituzione del mondo con la parola e considerazione della parola poetica come mondo.”.

In altri termini: col simbolismo si rompe quel rapporto armonico, per lo più univoco che legava il segno (o significante) al significato; segno e significato entrano in disaccordo: il primo sussiste autonomamente dal secondo; la parola in sé crea il fondamento della nuova poetica. Mario Luzi:

“Il simbolismo è inteso ad individuare l’elemento o il principio poetico nella sua essenza e a creare il linguaggio peculiare della poesia, indipendentemente da quello di qualsiasi altro ordine di attività individuale.”

E Ruggero Jacobbi:

“La parola viene sacralizzata e investita di poteri che diremmo magici o, più semplicemente, sapienziali.”

E ancora Friedrich:

“La poesia vuol essere un tutto autosufficiente.”

E Marcel Raymond:

“La vita e la poesia sono altrove e bisogna conquistarle rischiosamente l’una mediante l’altra, per negare questo falso mondo, per attestare che il giuoco non è ancora fatto, che tutto può essere salvato.”

Salvato da che? Tutte queste definizioni rimandano al concetto di POESIA PURA, che rappresenta una specie di rivalsa della poesia contro un secolo dominato come nessun altro dalle ideologie, dal razionalismo e dallo storicismo. Non è un caso che la poesia pura del simbolismo si affermi nel periodo culminante del positivismo come reazione al medesimo, che confida nella scienza per risolvere i problemi individuali e sociali e pretende di scomporre ogni fenomeno del reale in dati analitici, ignorando le esigenze più pure dello spirito. Dice ancora LUZI:

“Dovunque il mondo tende a presentarsi nella brutale presunzione dei dati analitici della scienza, lo spirito tenta la sua rivincita e cerca la via dell’unità e della sintesi.”

 

  • GLI  ESORDI  DELLA  POESIA  MODERNA  IN  ITALIA

 

Se si assume la poetica del simbolismo come discrimine tra poesia tradizionale e poesia moderna, non è facile, anzi è questione molto controversa, stabilire chi debba essere considerato l’iniziatore in Italia della poesia contemporanea.

Nel totale disaccordo dei critici si possono individuare quattro posizioni dominanti, ciascuna delle quali si avvale di solide argomentazioni per tentare di imporsi. C’è chi scorge in Pascoli e D’Annunzio gli innovatori, i padri della poesia del Novecento; chi assegna invece questo ruolo ai Crepuscolari e ai Futuristi (alcuni, in particolare, alla linea Palazzeschi-Govoni); chi ai Vociani; chi infine fa partire senz’altro la poesia del Novecento dalla prima raccolta di Ungaretti.

Esaminiamo in dettaglio le quattro posizioni.

 

I. Pascoli e D’Annunzio

 

Pascoli e D’Annunzio sono considerati i principali esponenti di quel movimento letterario che si situa cronologicamente a cavallo tra ‘800 e ‘900 e che chiamiamo Decadentismo. La matrice di questa nuova tendenza poetica va ricercata (non sarà un caso) ancora in Francia: essa si sviluppa infatti all’inizio degli anni Ottanta, sulla scia della lezione di Verlaine e di Rimbaud, e presenta due notevoli innovazioni: sul piano tecnico-formale l’invenzione del verso libero (Adam, Kahn, Mallarmé), su quello tematico l’affermazione di una nobiltà spirituale dell’artista, che si salva dall’inquinamento delle coscienze procedendo à rebours, cioè a ritroso, controcorrente, per usare a scopo definitorio il titolo del più celebre romanzo di Joris-Karl Huysmans, pubblicato nel 1884. Va aggiunto tuttavia che a questo sentimento della nobiltà spirituale dell’artista si associa anche il presentimento della sua fine, un senso di corruzione, di disfacimento, che prelude al nichilismo di tanta poesia del Novecento.

Questi orientamenti della poetica vengono ben presto recepiti nel nostro Paese, dove conferiscono due nuove connotazioni alla composizione letteraria: l’estetismo e l’individualismo, di cui sono interpreti Pascoli e D’Annunzio nella lirica, Fogazzaro nella narrativa. L’area cronologica di maggior affermazione del decadentismo corrisponde al periodo che va dal “Piacere” di D’Annunzio (1889) ai “Poemi conviviali” di Pascoli (1904) al romanzo “Il Santo” di Fogazzaro (1905). Il punto culminante è forse rappresentato dalle “Laudi” di D’Annunzio, pubblicate nel 1903, dopo le quali la parabola decadente si avvia alla conclusione.

Come valutare la modernità di Pascoli e D’Annunzio? Un’indubbia carica di novità è presente nelle poetiche dei due autori, in quella che siamo soliti definire “poetica del fanciullino” di Pascoli e nella poetica del panismo e del superomismo dannunziani.

La prima si può sintetizzare in quattro punti fondamentali :

  • L’arte ha un carattere eminentemente irrazionale e intuitivo; essa sola può metterci in contatto con l’ignoto e il mistero universale; di qui il rifiuto della ragione e il riconosciuto fallimento del positivismo.
  • La poesia non è trasfigurazione del reale, ma oggettiva ricerca dei valori eterni e primitivi della realtà (“Tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta”).
  • La vera poesia sta nelle piccole cose, nella semplicità della quotidiana esperienza.
  • Il linguaggio poetico deve essere preciso, esprimere con chiarezza e immediatezza, senza orpelli o sovrastrutture retoriche, le sensazioni; deve dare ad ogni cosa il suo giusto nome.

Analogamente in quattro punti si può compendiare la poetica dannunziana :

  • Un culto esasperato dell’energia e della forza, che porta all’amore della violenza e al disprezzo del pericolo.
  • L’adesione al mondo, alla realtà, con tutti i sensi, nella loro piena vitalità ed esuberanza.
  • Il culto della bellezza, il cui godimento e la cui fruizione sono privilegio di pochi eletti, che vengono così a distinguersi dalla plebaglia volgare.
  • Una mescolanza di barbarie primitiva e di raffinatezza ricercata, quella propria dell’esteta.

Ma la vera novità dei due autori va ricercata, a mio avviso, nel linguaggio, nel quale essi operano una vera e propria rivoluzione: un linguaggio che assume chiaramente una connotazione simbolista.

Nel Pascoli esso si colloca a metà strada fra continuazione della tradizione e rottura con essa, o forse, più esattamente, è il risultato della loro combinazione. Il grande critico Gianfranco Contini ci ha lasciato un saggio perspicuo e puntuale sul linguaggio del Pascoli (è riportato su quasi tutte le antologie): secondo la sua tesi, nella poesia del Pascoli si intersecano il linguaggio propriamente grammaticale, quello consacrato dalla tradizione poetica, un linguaggio post-grammaticale, costituito dai vari gerghi, dalle “lingue speciali”, perfino dal latino, o da impasti linguistici come l’anglo-americano-toscano di Italy, e un linguaggio pre-grammaticale, costituito da onomatopee e fonosimbolismi, derivato dal mondo delle cose e degli animali, della natura in genere; in questa direzione Pascoli ricupera, riscopre e assimila quella poeticità tipicamente popolare e contadina, sempre rifiutata, in linea di massima, dalla letteratura ufficiale.

Vi risparmio la lettura di poesie, a mo’ di conferma e di documentazione, sia perché si tratta di un autore che rientra in tutti i programmi scolastici e di cui sicuramente vi occuperete, sia perché le sue liriche sono arcinote e non abbisognano di un’ennesima rilettura in questa sede. Mi limito a ricordarvene alcune, particolarmente esemplificative della nuova  poetica: da Myricae Arano, Lavandare, Novembre, X Agosto, L’assiuolo, Il lampo, Il tuono; dai Canti di Castelvecchio Nebbia, La voce, Il gelsomino notturno, L’ora di Barga, La mia sera; dai Primi poemetti Digitale purpurea, Nella nebbia, Italy.

Quanto al linguaggio dannunziano, la citazione d’obbligo è per Alcyone, il terzo libro delle Laudi, il capolavoro, nel quale il poeta realizza una mirabile commistione tra parola e musica; penso alla Sera fiesolana o alla Pioggia nel pineto, dove le parole sopravanzano il significato o contano per se stesse, per il rapporto armonico che si stabilisce fra di esse, per la carica di suggestione che emanano, per la loro musicalità, per il gioco delle sinestesie e delle allitterazioni (Si legga l’inizio della Sera fiesolana: “Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscìo che fan le foglie / del gelso ne la man di chi le coglie / silenzioso…”).

Orbene, Pascoli e D’Annunzio possono dirsi degli iniziatori, dei poeti di rottura? Possono ambire al titolo di padri della poesia del Novecento? Se guardiamo solo al linguaggio e alle tecniche della versificazione, possiamo azzardare una risposta positiva, ma il verso non è tutto (per citare, volgendola al negativo, la famosa affermazione del Piacere). La critica più recente (penso soprattutto a Elio Gioanola e a Franco Fortini, ma ricordo anche la posizione di Giovanni Getto) sostiene che i caratteri dell’assolutezza simbolistica del poetico (vale a dire i caratteri essenziali della poesia pura dei simbolisti) non sono facilmente riconoscibili nelle opere dei due poeti, per i quali si parla non di poesia pura, ma di poesia applicata, contrassegnata da un’eccessiva letterarietà. Il motivo è semplice: a monte di Pascoli e D’Annunzio in Italia non c’era stato Baudelaire, né Mallarmé, ma Carducci e questo spiega come da noi non sia potuto nascere un simbolismo consapevole, dal momento che la poesia, pur con la novità della costellazione simbolica pascoliana e del panismo dannunziano, rimaneva collegata a precise funzioni storico-sociali e, almeno in parte, ad una forma di conoscenza razionale. E anche a livello linguistico la rivoluzione di Pascoli e D’Annunzio è ben diversa da quella operata dai movimenti delle avanguardie novecentesche (futurismo, espressionismo, surrealismo, ecc.). Pascoli poi si esprime teoreticamente alla buona, in termini dimessi, non senza – come avverte il Luzi – qualche demagogia patetica e antintellettualistica .

 

II. Crepuscolari e Futuristi

 

La seconda tesi, quella che individua quali iniziatori della nuova poesia i crepuscolari e i futuristi, trova più numerosi e agguerriti sostenitori. Crepuscolari e Futuristi (e anche i Vociani, di cui si tratterà specificamente nel capitolo che segue) che rappresentano le principali tendenze poetiche dell’inizio del secolo, esprimono: 1) un bisogno di rottura con il simbolismo decadente; 2) una nuova concezione del poeta; 3) una nuova tematica. Esaminiamo distintamente le tre caratteristiche, cominciando dai crepuscolari .

1) Bisogno di rottura con il simbolismo decadente di Pascoli e D’Annunzio. La lezione e il nuovo orientamento provengono sempre dall’estero. Quando la poetica del simbolismo attecchisce in Italia, all’inizio del secolo (1903-1911: periodo crepuscolare), ha già perduto le caratteristiche del grande agonismo nichilistico e ribelle di Mallarmé e Rimbaud; i poeti presi come modelli sono i tardo-simbolisti franco-belgi, che influenzano direttamente i nostri poeti. Qualche nome: Jammes, Rodenbach, Maeterlinck, Laforgue.

Si tratta di poeti che ignorano la grande lezione di Mallarmé, Perché la loro poesia nel complesso si apre proprio a tutto ciò che era stato bandito dalla "poesia pura", vale a dire la realtà esterna e i sentimenti; è una poesia, come vedremo tra poco trattando dei suoi temi, pervasa di malinconia, che canta una realtà stereotipata e sentimenti adottati come maschera. Tutta la lirica crepuscolare è caratterizzata da un senso di sfiducia, di rinuncia, dalla mancanza di ideali, da uno scetticismo languido ed estenuato che intende reagire, più o meno consapevolmente, alla magniloquenza di Carducci e all’aristocratica raffinatezza di D’Annunzio. Ma la reazione non è solo nei confronti di una poetica, bensì anche di un’ideologia e investe drammaticamente il ruolo stesso del poeta.

2) Quale nuova concezione del poeta e del poetare s’impone? Carducci, Pascoli e D’Annunzio erano sorretti tutt’e tre dalla fiducia nella missione del poeta, al quale attribuiscono il ruolo di vate, vale a dire il compito, anzi la missione appunto, di indicare una via di salvezza, di orientare le coscienze e il gusto estetico; non sono sfiorati da alcun dubbio né da vacillazioni ironiche sulla loro presunta missione. Ma per i crepuscolari essi hanno fallito, così come hanno fallito il modello sociale e lo stato liberale.

I crepuscolari avvertono acutamente la crisi del loro tempo, la crisi di quel periodo cruciale che è il primo decennio del secolo, con la nuova dinamica dei rapporti sociali introdotta dall’industrializzazione. La crisi segna il fallimento dei grandi ideali Dio – Patria – Umanità e genera il mito dell’uomo solo, che si traduce in letteratura nel tipo dell’inetto, il quale sa di non poter essere artefice di alcun progresso e di conseguenza si lascia vivere, si abbandona, non agisce ma “è agito”, si sente solo ed incapace e si ritira in un cantuccio a cantare la sua solitudine e la sua inettitudine. Si tratta di un atteggiamento rinunciatario, contrario a quell’esigenza di impegno che era propugnata da D’Annunzio e che si riassumeva nell’assioma “L’uomo fa la storia”.

La sacralità e il privilegio della poesia, che Pascoli e D’Annunzio ancora conservavano, con la conseguente tendenza ad una poesia retorica e civile, vengono avvertiti come anacronistici e rifiutati, quindi sostituiti dalla negazione ironica del ruolo stesso del poeta come vate o mediatore di ideologie dominanti. Di qui le professioni di negatività che accomunano questi singolari poeti.:

Gozzano: “Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta” (La signorina Felicita, vv. 306-307);

Corazzini: “Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.” (Desolazione del povero poeta sentimentale, vv. 1-3);

Vallini: “Ridicola farsa ... non ho niente da dire.”

Moretti: “Io non ho da dir nulla, ossia niente.”

Questo non sapere fa parte di un atteggiamento programmatico che ripete con insistenza l’impossibilità di comunicare con gli altri (Pirandello, contemporaneamente, pone il dramma dell’incomunicabilità al centro della sua narrativa e del suo teatro) e la rassegnazione ad una esistenza vuota e malinconica, contrassegnata da un disimpegno intellettuale che dura fino a Montale (“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe ... // Non domandarci la formula che mondi possa aprirti”), passando per Palazzeschi (“Son forse un poeta? No, certo”).

“La nuova figura del poeta sconta un abbassamento anche perché nasce dalla percezione di una massificazione in atto: lo scrittore ormai si sente parte della nascente massa piccolo-borghese prodotta dalla rivoluzione industriale sviluppatasi a cavallo dei due secoli e dalla stessa politica attuata dal capo del governo, Antonio Giolitti. [...] Può succedere che i nuovi scrittori condividano il diffuso sovversivismo piccolo-borghese, che caratterizza il ceto intellettuale nell’età giolittiana e che rappresenta, anch’esso, una reazione alla massificazione della piccola borghesia e dei ceti intellettuali, ormai largamente provenienti dal suo interno.” (Luperini).

             3) Esaminiamo brevemente i temi e i motivi della poesia crepuscolare. Nel tardo simbolismo l’estraneità del poeta diventa propriamente malattia e la poesia, coerentemente con la professione del disimpegno e dell’inettitudine, si volge a cantare tutto ciò che è povero, prosaico, malato, dimesso in un linguaggio che, accordandosi perfettamente alla tematica scelta, si fa basso, colloquiale, familiare .

             Nelle poesie dei Crepuscolari si affermano nuovi paesaggi, insolite ambientazioni e inedite situazioni: orti (non più i giardini o i parchi cari a D’Annunzio), ospedali, conventi, i tristi pomeriggi o le tristi sere domenicali in provincia; nuovi personaggi: monache, beghine, vecchi, mendicanti, vagabondi, saltimbanchi, suonatori di organetto; nuovi oggetti, quelli che Gozzano definisce le buone cose di pessimo gusto: specchi, organetti di Barberia, vecchi mobili, arredi e soprammobili, perfino il ciarpame relegato nei solai . Leggiamo la prima strofa de L’amica di nonna Speranza, nella quale è descritto l’arredamento del salotto, “il luogo borghese adibito a raccolta e conservazione degli oggetti di pregio, delle memorie di famiglia, delle suppellettili di lusso” (Gioanola):

                                               Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone,

                                               i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto)

 

                                               il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,

                                               i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,

 

                                               un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,

                                               gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco,

 

                                               Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi,

                                               le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,

                                               le tele di Massimo D’Azeglio, le miniature,

                                               i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,

 

                                               il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone

                                               e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,

 

                                               il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco

                                               chèrmisi ... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!

             E poi gli amori: alle donne fatali di D’Annunzio e alla bionda Maria di Carducci i Crepuscolari sostituiscono donne sbiadite, bruttine, gracili, provincialotte e incolte. Emblematico è il ritratto della celebre signorina Felicita di Gozzano (vv. 73-84):

                                                               Sei quasi brutta, priva di lusinga

                                                               nelle tue vesti quasi campagnole,

                                                               ma la tua faccia buona e casalinga,

                                                               ma i bei capelli di color di sole,

                                                               attorti in minutissime trecciuole,

                                                               ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

 

                                                               E rivedo la tua bocca vermiglia

                                                               così larga nel ridere e nel bere,

                                                               e il volto quadro, senza sopracciglia,

                                                               tutto sparso d’efèlidi leggiere

                                                               e gli occhi fermi, l’iridi sincere

                                                               azzurre d’un azzurro di stoviglia...

             Nello stesso poemetto fanno il loro ingresso nella poesia lirica italiana gli ortaggi: l’aglio, il basilico, la cedrina, i porri e l’insalata (vv. 114, 246-7).

             E Corazzini fa dell’organo di Barberia e della sua musica un simbolo della tristezza stessa del vivere:

PER ORGANO DI BARBERIA

                                                                              Elemosina triste

                                                                              di vecchie arie sperdute,

                                                                              vanità di un’offerta

                                                                              che nessuno raccoglie!

                                                                              primavera di foglie

                                                                              in una via deserta!

                                                                              Poveri ritornelli

                                                                              che passano e ripassano

                                                                              e sono come uccelli

                                                                              di un cielo musicale!

                                                                              Ariette d’ospedale

                                                                              che ci sembra domandino

                                                                              un’eco in elemosina!

 

                                                                              Vedi: nessuno ascolta.

                                                                               Sfogli la tua tristezza

                                                                              monotona davanti

                                                                              alla piccola casa

                                                                              provinciale che dorme;

                                                                              singhiozzi quel tuo brindisi

                                                                              folle di agonizzanti

                                                                              una seconda volta,

                                                                              ritorni su’ tuoi pianti

                                                                              ostinati di povero

                                                                              fanciullo incontentato,

                                                                              e nessuno ti ascolta.

E quanta prosaicità si avverte nell’attacco di A Cesena di Marino Moretti (e si tratta di terzine di endecasillabi!):

                                                               Piove. E’ mercoledì. Sono a Cesena,

                                                               ospite della mia sorella sposa, ...

             Un caso particolare è costituito da Aldo Palazzeschi, passato attraverso l’esperienza crepuscolare prima, quella futurista poi. Palazzeschi si può definire un giocoliere del verso. anch’egli, come abbiamo visto, si definisce un non-poeta e al non-poeta – osserva Gioanola – corrisponde la non-poesia. Si legga ad esempio Lasciatemi divertire.

Né vanno dimenticati Gian Piero Lucini; che adottò per primo in Italia il verso libero, e Corrado Govoni.

             Con i Crepuscolari, in conclusione, tramonta per sempre l’idea umanistica e romantica del poeta vate e anzi, come osserva Gioanola, “si instaura la vergogna dell’essere poeta, equivalendo il far versi alla dichiarazione di un’impotenza e di una malattia, quella che separa dall’ordine borghese e dalla vita stessa i figli nevrotizzati della cultura razionalistica e tecnologica”.

 

Un effetto ancor più dirompente sullo svolgimento della poesia del Novecento è prodotto dal Futurismo. I Futuristi sono, come i Crepuscolari, testimoni della medesima crisi della società italiana, ma ai toni smorti, dimessi e scialbi di quelli oppongono una formidabile carica rivoluzionaria, che si esprime in un atteggiamento aggressivo e violento.

Il caposcuola Filippo Tommaso Marinetti intuisce che il processo di industrializzazione sta radicalmente cambiando la qualità della vita e dell’arte, la mentalità e l’orientamento estetico. Bisogna – egli sostiene – adeguarsi ai tempi, esaltando i simboli della modernità: la macchina, la tecnologia, il progresso, la velocità. In un impeto parossistico Marinetti si scaglia contro la tradizione, rompe tutti i legami col passato e si propone come interprete della nuova civiltà della macchina. Per rendersi conto del carattere aggressivo e dissacrante del programma futurista (in verità molto velleitario), sia sufficiente leggere alcuni articoli del Manifesto del futurismo (apparso sul Figaro del 20 febbraio 1909) e del Manifesto tecnico della letteratura futurista, pubblicato sulla rivista Lacerba nel 1910.

Ecco un piccolo “florilegio” dal primo dei due manifesti:

  • Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
  • Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
  • La letteratura esaltò, fino ad oggi, l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.
  • Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
  • Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il                                              
  • gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.

10.Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni viltà opportunistica e utilitaria.

11.Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree multicolori e politiche delle rivoluzioni nelle capitali moderne, canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche, le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi, i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli, i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

       Ed eccone la chiusa: “E’ dall’Italia che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”, perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari.”

Tali princìpi vengono concretizzati in sede letteraria dal Manifesto tecnico, di cui pure riportiamo, a titolo documentativo, alcuni articoli:

  • Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso come nascono.
  • Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo...
  • Si deve abolire l’aggettivo perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale...
  • Si deve abolire l’avverbio...

6.   Abolire anche la punteggiatura...

  • Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell’intelligenza cauta o guardinga, bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un MAXIMUM DI DISORDINE.
  • Distruggere nella letteratura l’”io”, cioè tutta la psicologia...

Dall’applicazione dei princìpi futuristi scaturiscono testi come Zang Tumb Tumb di Marinetti (1914); e non c’è antologia che non riporti il Bombardamento di Adrianopoli, con la piena realizzazione delle parole in libertà e con il conseguente apparato di segni matematici, ortografia libera, varietà di corpi tipografici: una vera e propria sarabanda descrittiva di sensazioni sfrenate, fuori di ogni ordine logico, prive di qualsiasi armonia o musicalità.

 

III. I Vociani

 

      Sono ricordati con questa denominazione i poeti che collaborarono alla rivista La Voce (1908-1916), diretta da Giuseppe Prezzolini prima (fino al 1914), poi da Giuseppe De Robertis (dal ’14 al ’16). Si tratta di Piero Jahier, Giovanni Boine, Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Dino Campana e Arturo Onofri.

      I primi cinque appartengono all’area dell’espressionismo, i cui elementi peculiari sono la sperimentazione di nuove forme espressive, l’analisi dell’io e dei suoi rapporti col mondo (autobiografismo), la forte tensione etica e politica (moralismo) . Più in particolare, sul piano formale questi autori adottano di preferenza il genere del poemetto in prosa, caratterizzato da un’oscillazione tra verso e prosa poetica.

      Si ricercano nuove espressioni: per esempio l’accostamento di due epiteti tramite una lineetta, oppure l’adozione dello stile nominale, quella particolare sintassi in cui i nomi prevalgono sui verbi o questi si omettono del tutto, l’uso di moduli spesso violenti, aggressivi, l’impiego intensivo del verbo in uno stile icastico.

Sul piano contenutistico i Vociani svolgono il tema della contraddizione tra un’esigenza anarchica di rottura, di disordine e di affermazione individuale e un’altra, morale, di ordine, di sacrificio e di solidarietà.

Sotto l’aspetto stilistico e linguistico il più espressionista è Rebora, mentre Sbarbaro, che è più tradizionale nella forma poetica, cioè nella metrica e nel linguaggio, sviluppa i motivi più tipici dell’espressionismo, come, ad esempio, il tema della città mostruosa, della spersonalizzazione dell’individuo, del vagabondaggio.

Leggiamo qualche testo significativo. Tra le poesie più note di Rebora si ricordano Viatico e Dall’immagine tesa. Ne proponiamo la lettura con il breve ed incisivo commento di Elio Gioanola .

VIATICO

                                                               O ferito laggiù nel valloncello,

                                                               tanto invocasti

                                                               se tre compagni interi

                                                               cadder per te che quasi più non eri,

                                                               tra melma e sangue

                                                               tronco senza gambe

                                                               e il tuo lamento ancora,

                                                               pietà di noi rimasti

                                                               a rantolarci e non ha fine l’ora,

                                                               affretta l’agonia,

                                                               tu puoi finire,

                                                               e conforto ti sia

nella demenza che non sa impazzire,

mentre sosta il momento

il sonno sul cervello,

lasciaci in silenzio –

 

Grazie, fratello.

(Da Poesie sparse)

“E’ una delle più straordinarie poesie nate dalla ‘Grande Guerra’, senza la minima traccia di retorica sentimentale nella sua verità lacerante di sofferenza nuda e cruda. Rebora fu congedato dal fronte per una forma di nevrosi contratta negli orrori della prima linea e questo testo mostra tutte le stigmate di questa sofferenza nervosa, che giunge all’incapacità di sopportare il grido del mutilato rimasto senza soccorsi in fondo a un vallone. Ma l’insofferenza dei nervi diventa capacità di intuire nel profondo la condizione non meno orribile, rispetto a quella del ferito, di coloro che sono ancora vivi e a cui non tocca la consolazione della morte, che venga a portre fine allo strazio. Tre compagni sono morti nel tentativo di soccorrere quel ferito senza speranza; perché dunque urla ancora? Tocca a lui, adesso, avere compassione dei vivi, affrettando la sua agonia e lasciando finalmente in pace i compagni, che non possono contare, come lui, nella “demenza che non sa impazzire”, su quel “sonno del cervello” che ormai ha preso il moribondo. L’ultimo verso, “Grazie, fratello”, ripristina, se mai fosse stata in dubbio, tutta l’umanità della scena; il silenzio finalmente sopravvenuto è calma della morte per lo sventurato e calma dei nervi per chi è rimasto a 'rantolare’”.

 

DALL’IMMAGINE TESA

Dall’immagine tesa

vigilo l’istante

con imminenza di attesa –

e non aspetto nessuno:

nell’ombra accesa

spio il campanello

che impercettibile spande

un polline di suono –

e non aspetto nessuno:

fra quattro mura

stupefatte di spazio

più che un deserto

non aspetto nessuno:

ma deve venire;

verrà, se resisto,

a sbocciare non visto,

verrà d’improvviso

quando meno l’avverto:

verrà quasi perdòno

di quanto fa morire,

verrà a farmi certo

del suo e mio tesoro,

verrà come ristoro

delle mie e sue pene,

verrà, forse già viene

il suo bisbiglio.

(Dai Canti anonimi)

 

“E’ forse la poesia più nota di Rebora, quella nella quale la tensione della sua ricerca di alternative alla deiezione esistenziale scopre la sua qualità profondamente religiosa. Il poeta è ancora lontano dalla conversione, ma la sua posizione è già quella di chi non ha da opporre allo scontento della vita, alle condizioni alienanti del lavoro e della cultura, soluzioni dialettiche e riscatti di ordine sociale e politico: la sua incapacità di vivere nelle condizioni date è di colui che non accetta in sé e per sé il limite umano e pensa quindi ad un ordine diverso, assolutamente alternativo. Dice Stefano Jacomuzzi: - E’ la poesia conclusiva dei Canti anonimi, e se il tempo materiale della definitiva chiamata della Grazia è ancora lontano (la composizione risale al 1920), essa è qui misteriosamente presente in un’intensità di tono che fa di questa poesia uno dei più alti canti religiosi dell’arte contemporanea. La ricerca appassionata del poeta, l’operosità ostinata e silenziosa, il suo spirito attivo di carità, lo hanno portato alle soglie di una soluzione decisiva e assoluta, in un bisogno di totale e appagante risposta. I primi tredici versi prendono vita da quella tensione dello spirito vigilante nell’attesa e da quella ripetuta protesta “non aspetto nessuno”. Perché chi “deve venire” (e si noti la forza di quel “deve” che è insieme una ferma richiesta, certezza interiore e già operante presenza) non è nessuno di questo mondo e la sua venuta non è una visita usuale, ma messaggera di perdono, di verità (“verrà a farmi certo”), di conforti divini. La Presenza è alle soglie e chiede un totale tremante silenzio perché possa essere udito il suo discreto bisbiglio -.”

 

Di Camillo Sbàrbaro (1888-1967) proponiamo Taci, anima stanca di godere e Padre se anche tu non fossi il  mio, entrambe appartenenti alla raccolta Pianissimo.

 

TACI, ANIMA STANCA DI GODERE

                                                               Taci, anima stanca di godere

                                                               e di soffrire (all’uno e all’altro vai

                                                               rassegnata).

                                                               Nessuna voce tua odo se ascolto:

                                                               non di rimpianto per la miserabile

                                                               giovinezza, non d’ira o di speranza,

e neppure di tedio.

                                               Giaci come

il corpo, ammutolita, tutta piena

d’una rassegnazione disperata.

 

Non ci stupiremmo,

non è vero, mia anima, se il cuore

si fermasse, sospeso se ci fosse

il fiato...

                               Invece camminiamo,

camminiamo io e te come sonnambuli.

E gli alberi son alberi, le case

sono case, le donne

che passano son donne, e tutto è quello

che è, soltanto quel che è.

La vicenda di gioia e di dolore

non ci tocca. Perduto ha la voce

la sirena del mondo, e il mondo è un grande

deserto.

                               Nel deserto

io guardo con asciutti occhi me stesso.

 

“La fenomenologia della disperazione inizia già in quel rivolgersi del soggetto alla propria anima, dal momento che questo è indizio di una crisi dell’io, che si sente sdoppiato e quindi irrimediabilmente impedito ad intrattenere rapporti sicuri con la realtà: si tratta di una situazione drammatica di narcisismo ed il colloquio dell’io con la propria anima indica che ogni altro colloquio è interrotto, non può addirittura instaurarsi. L’invito a ‘tacere’ poi è indizio del processo di pietrificazione così ossessivamente ritornante nelle figure poetiche di Sbarbaro: in questo senso l’inerzia pesante del corpo è indicata come modello per l’anima, che deve raggiungere la stasi silenziosa della “divina Indifferenza”. stupisce, in questa disposizione all’inerzia disperata, il movimento quasi automatico dell’io, che non per nulla avverte questo movimento come quello di un sonnambulo; e del sonnambulo è il distacco dalla realtà, che rimane in una sua trascendenza inattingibile, uguale sempre a se stessa nella mancanza di rapporti modificatori con il soggetto (gli alberi sono alberi, le case / sono case...; una stupenda immagine dell’impotenza disperata dell’io). E la pietrificazione dell’io ha come conseguenza la desertificazione del mondo, secondo un processo che è esattamente l’opposto di quello condotto da Saba, in cui alla crisi dell’io corrisponde una valorizzazione estrema delle cose. La poesia esemplarmente si chiude con un’altra immagine narcisistica di specularità, negli occhi senza lacrime che si guardano con intontita fissità. [...]”

 

PADRE, SE ANCHE TU NON FOSSI IL MIO

                                                               Padre, se anche tu non fossi il mio

padre, se anche fossi a me un estraneo,

per te stesso egualmente t’amerei.

Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno

che la prima viola sull’opposto

muro scopristi dalla tua finestra

e ce ne desti la novella allegro.

Poi la scala di legno tolta in spalla

di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.

Noi piccoli stavamo alla finestra.

 

E di quell’altra volta mi ricordo

che la sorella mia piccola ancora

per la casa inseguivi minacciando

(la caparbia avea fatto non so che).

Ma raggiuntala che strillava forte

dalla paura ti mancava il cuore:

ché avevi visto te inseguir la tua

piccola figlia, e tutta spaventata

tu vacillante l’attiravi al petto,

e con carezze dentro le tue braccia

l’avviluppavi come per difenderla

da quel cattivo ch’era il tu di prima.

 

Padre, se anche tu non fossi il mio

padre, se anche fossi a me un estraneo,

fra tutti quanti gli uomini già tanto

pel tuo cuore fanciullo t’amerei.

 

“Proprio questa poesia di una tenerezza ritrovata (l’impossibilità del pianto è un motivo ricorrente, l’immagine della sua aridità) è quella che mette ancora più a nudo, fornendoci anche una motivazione, la solitudine di Sbarbaro. Non si tratta, cioè, di una semplice rievocazione del padre, di un nostalgico ricordo dell’infanzia o dell’adolescenza. Si tratta invece della confessione più importante dell’intero libro: la figura del padre non solo è al centro (...) dell’analisi tenace del poeta: essa è individuata all’origine dello stato d’animo da cui sorge Pianissimo. [...] All’origine (...) è proprio il rapporto non risolto nei confronti del padre (...), che si traduce nel fatto estremamente significativo di avere patito in anticipo per la sua morte. Tutto ciò, in modo esplicito, costituisce, col rimorso del figlio, il tema della lirica” (L. Polato).

 

                C’è poi Dino Campana, che oscilla fra soluzioni ispirate al simbolismo decadente e altre più nuove e avanguardiste, e c’è Arturo Onofri, che dal crepuscolarismo delle prime raccolte approda, dopo l’esperienza classicistica della Ronda, all’esoterismo della poesia ermetica. Di Campana si consiglia di leggere almeno La Chimera e Viaggio a Montevidèo dai Canti orfici; di Onofri suggeriamo il confronto tra Marzo della raccolta Arioso (1922), d’ispirazione classica, e Marzo, che mette nuvole a soqquadro da Vincere il drago! (1928),una delle ultime opere, appartenente alla fase ermetica.

 

                La stagione letteraria dei Vociani è assai breve e rappresenta la prima vera avanguardia del ‘900. Il primo Ungaretti ha molti punti in comune con questi poeti e nella prima fase della sua produzione può bene essere definito un espressionista.

 

IV. Il primo Ungaretti

 

C’è infine chi individua gli inizi della poesia del Novecento nella prima raccolta di Giuseppe Ungaretti, Porto sepolto del 1916, e guarda a questo autore come al vero padre della poesia del Novecento. Ma Ungaretti si situa su quella linea che parte dall’espressionismo vociano per approdare all’ ermetismo. Siamo negli anni posteriori al 1908 (data di nascita de La Voce), nel periodo che ingloba la tragica esperienza della guerra e l’avvento al potere del fascismo.

Alle sue prime due raccolte, la citata Porto sepolto, che vede la luce in piena guerra, e Allegria di naufragi del 1919, poi confluite nell’Allegria (1931), Ungaretti imprime il sigillo della sua esperienza di combattente al fronte. Nella tragica realtà della guerra, ben diversa da come l’avevano esaltata D’Annunzio e i Futuristi, nasce una poesia estremamente scarna, “prosciugata”, depurata da qualsiasi incrostazione oratoria, priva di orpelli retorici, una poesia che privilegia la parola “incarnata, incisa in profondità, estratta con sacrificio e purificata come diamante dal carbone, circondata di silenzio” per cogliere la verità insita nella realtà. Ne sono caratteristiche essenziali la disgregazione delle forme metrico-ritmiche tradizionali, l’adozione del versicolo, ovvero del verso breve, spinto sino all’estremo limite del verso-parola, che ha l’effetto di isolare icasticamente la singola parola, o addirittura del verso non significante, costituito da articoli e preposizioni; e inoltre la totale mancanza di punteggiatura, la semantizzazione degli spazi bianchi, da leggere come pause, come sospensioni dello spirito, gli enunciati essenziali, immediati, il lessico quotidiano, la sintassi elementare,l’uso frequente dell’analogia, la rinuncia alla cantabilità, alla facile musicalità. La poesia viene così ridotta a frammento, a una sorta di relitto [Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso (Commiato)], capace tuttavia di esprimere gli abissi più profondi dell’esistenza.

Tutto ciò è frutto di una scelta etica prima che estetica: è il fante Ungaretti Giuseppe del XIX Fanteria, combattente sul Carso, che affida alla poesia la scoperta di sè nella vita di trincea, in particolare la drammatica esperienza della precarietà. Ma lasciamo la parola ad Ungaretti stesso: “Mi apparve subito come la parola dovesse chiamarsi a nascere da una tensione espressiva che la colmasse della pienezza del suo significato. La parola che fosse travolta nelle pompose vuotaggini da un’onda oratoria, o che si gingillasse in vagheggiamenti decorativi ed estetizzanti o che fosse prevalentemente presa dal pittoresco bozzettistico, o da malinconie sensuali o da scopi non puramente soggettivi e universali, mi pareva che fallisse al suo scopo poetico. Ma fu durante la guerra, fu la vita mescolata all’enorme sofferenza della guerra, fu quel primitivismo: sentimento immediato e senza veli; spavento della natura e cordialità rifatta istintiva dalla natura; spontanea e inquieta immedesimazione nell’essenza cosmica delle cose; - fu quanto, d’ogni soldato alle prese con la cecità delle cose, con il caos e con la morte, faceva un essere che in un lampo si ricapitolava dalle origini, stretto a risollevarsi nella solitudine e nella fragilità della sorte umana; faceva un essere sconvolto a provare per i suoi simili uno sgomento e un’ansia smisurati e una solidarietà paterna, - fu quello stato di estrema lucidità e d’estrema passione a precisare nel mio animo la bontà della missione già intravista, se una missione avessi dovuto attribuirmi e fossi stato atto a compiere, nelle lettere nostre.”

Si tratta dunque di una missione di conoscenza, che comporta il bilancio dell’esperienza di una vita (significativo il titolo Vita di un uomo assegnato dall’autore all’intera sua opera), una missione di cui solo il poeta può essere investito, perché solo al poeta è concesso il dono di sondare l’abisso del mistero per trarne qualche illuminazione, ovvero il privilegio di porsi come tramite tra il mondo degli uomini e la verità. E’ questo il significato del suo tuffarsi alla ricerca del porto sepolto:

                                                                              Vi arriva il poeta

                                                                              e poi torna alla luce con i suoi canti

                                                                              e li disperde

 

                                                                              Di questa poesia

                                                                              mi resta

                                                                              quel nulla

                                                                              d’inesauribile segreto

 

I componimenti de L’allegria dunque, che costituiscono un autentico diario di guerra (come dimostra l’apposizione in calce ad ogni lirica della data e del luogo di composizione), vanno letti non come una testimonianza degli orrori della guerra, né come una condanna della stessa alla maniera dei vociani Jahier e Rebora, bensì come un’analisi della condizione e del destino dell’uomo nell’esperienza della tragedia. 

Documentiamo la novità della poesia ungarettiana con un breve florilegio delle poesie di guerra, ciascuna delle quali può essere letta come l’espressione di un determinato sentimento o di una particolare condizione dello spirito: così in Soldati si legge la precarietà, in San Martino del Carso lo strazio del dolore, in Sono una creatura la sofferenza della condizione umana, in Natale la stanchezza esistenziale, in Fratelli lo spirito di una fratellanza ritrovata nel comune dolore, in Veglia l’amore della vita che nasce dall’incontro con la morte.

 

 

 

Soldati

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

 

Bosco di Courton, luglio 1918

 

San Martino del Carso

Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

 

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

 

Ma nel cuore

nessuna croce manca

 

E’ il mio cuore

il paese più straziato

 

Valloncello dell’Albero Isolato, 27 agosto 1916

 

Sono una creatura

Come questa pietra

del S. Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

così totalmente

disanimata

 

Come questa pietra

è il mio pianto

che non si vede

 

La morte

si sconta

vivendo

 

Valloncello di Cima Quattro, 5 agosto 1916

 

 

Natale

Non ho voglia

di tuffarmi

in un gomitolo

di strade

 

Ho tanta

stanchezza

sulle spalle

 

Lasciatemi così

come una

cosa

posata

in un

angolo

e dimenticata

 

Qui

non si sente

altro

che il caldo buono

 

Sto

con le quattro capriole

di fumo

del focolare

 

Napoli, 26 dicembre 1916

 

 

 

Fratelli

Di che reggimento siete

fratelli?

 

Parola tremante

nella notte

 

Foglia appena nata

 

Nell’aria spasimante

involontaria rivolta

dell’uomo presente alla sua

fragilità

 

Fratelli

 

Mariano, 15 luglio 1916

 

Veglia

Un’intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

 

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita

 

Cima Quattro, 23 dicembre 1915

 

 

  • GLI SVILUPPI  DELLA  POESIA  ITALIANA  TRA  LE  DUE  GUERRE

 

Allo scoppio della prima guerra mondiale poeti e scrittori abbandonano per la maggior parte ogni atteggiamento di provocazione nei confronti dello Stato e della società e lo spirito di rottura col passato. Dopo la guerra le avanguardie conoscono un breve periodo di ripresa, poi l’avvento al potere del fascismo nel 1922 imprime una svolta, nel senso di un ritorno all’ordine.

L’espressione più notevole di questo ritorno alla tradizione è rappresentata dalla rivista La Ronda, attiva negli anni 1919-23, di cui sono anima Vincenzo Cardarelli e l’ex vociano Emilio Cecchi. Il titolo della rivista è significativo: in opposizione al concetto di “avanguardia”, che indica una pattuglia di soldati valorosi che va in avanscoperta, la ronda svolge funzioni di vigilanza e di repressione nei confronti degli sbandati e degli indisciplinati. Del resto lo stesso Cardarelli era stato il primo a rientrare, per così dire, nei ranghi, avendo esordito con l’espressionismo vociano per passare successivamente ad un classicismo convinto, modello il Leopardi. Con la Ronda si chiude definitivamente l’età dell’espressionismo e si assiste ad un effimero ritorno del classicismo, nel senso di una restaurazione delle norme tradizionali.

Sotto il fascismo l’alternativa per i poeti e per gli intellettuali in genere si pone in termini molto semplici: o si è “organici”, come si dice, cioè omologati al potere, il quale esercita una rigida censura e pretende dai letterati un’arte di propaganda a sostegno del regime, o ci si rassegna a rinunciare a qualsiasi impegno sociale e politico, limitandosi a scrivere per un’élite. E’ la strada, quest’ultima, battuta dai poeti migliori, i quali attuano un ritorno a quella purezza della lirica, a quella poesia pura dei simbolisti, che i decadenti, i crepuscolari, le avanguardie (futuristi, vociani) avevano per così dire “inquinato” o snaturato, introducendo nella lirica una componente morale o politica o ironica o polemica..

In questo ritorno alla poesia pura svolgono un ruolo importante anche l’influenza di Benedetto Croce, il grande critico e filosofo idealista, che propugna l’ida dell’arte come intuizione pura, e la grande lezione di Sentimento del tempo di Giuseppe Ungaretti. Nasce così, fra il 1925 ed il 1935 una linea di poesia pura cui aderiscono nomi illustri: tra gli altri Salvatore Quasimodo, premio Nobel nel 1959, Leonardi Sinisgalli e Giorgio Vìgolo. Questi poeti aprono la strada, nella seconda metà degli anni Trenta, alla grande stagione dell’ermetismo, centro Firenze.

Va ricordata una data: il 1932. In quell’anno vengono pubblicati Oboe sommerso di Salvatore Quasimodo e Isola di Alfonso Gatto, considerati i primi documenti della nuova poetica, poesie di difficilissima lettura, popolate di "oggetti puri", svincolati dal tempo. Leggiamo, ad esmpio, L’Eucalyptus di S. Quasimodo:

                                                                              Non una dolcezza mi matura,

                                                                              e fu di pena deriva

                                                                              ad ogni giorno

                                                                              il tempo che rinnova

                                                                              a fiato d’aspre resine.

 

                                                                              In me un albero oscilla

                                                                              da assonnata riva,

                                                                              alata aria

                                                                              amare fronde esala.

 

                                                                              M’accori, dolente rinverdire,

                                                                              odore dell’infanzia

                                                                              che grama gioia accolse,

                                                                              inferma già per un segreto amore

                                                                              di narrarsi all’acque.

 

                                                                              Isola mattutina:

                                                                              riaffiora a mezza luce

                                                                              la volpe d’oro

                                                                              uccisa a una sorgiva.

(Da Oboe sommerso)

C’è qui un ricordo infantile che desta pena (accora); esso viene assolutizzato, portato fuori dal tempo tramite le immagini dell’eucalyptus e della volpe fulva. E c’è l’ammissione che la tendenza ad esprimersi in parole poetiche è sintomo di malattia, poiché proviene da un animo malinconico.

Da Isola di Gatto leggiamo Erba e latte:

                                                               Mansueta di campani, la sera remota

                                                               alle finestre pallide di cielo

                                                               odora umido, e tace in gradini la casa vuota.

                                                               Svanisce, continuo tepore di gelo,

 

                                                               nella bottiglia verde, il latte: nuvole chiare

                                                               lontanano nel fioco armonioso tacere

                                                               della campagna. Sembra compiuto nel limitare

                                                               della mia casa il sonno delle riviere.

 

                                                               Beato volto al sereno, quasi la notte m’apra

                                                               continuamente a sgorgare in fragranza.

                                                               Tepida e lieve, cauta, mi lambisce una capra:

                                                               odora d’erbe e di muschio la stanza.

Che cosa notiamo? Una raffinata ricerca di purezza lirica in una struttura che qualche elemento recupera dalla tradizione (tre versi su dodici sono endecasillabi, la rima c’è e dè alternata) e in cui è immediatamente percepibile la cantabilità per effetto di ritmi e rime; ma il linguaggio è irto di simboli e di analogie, affidate soprattutto ad immagini che suscitano sensazioni uditive, visive, olfattive e ad espressioni coloristiche (vv. 2 e 5); e la lirica è strutturata secondo un modello formale che contribuisce alla creazione del linguaggio ermetico e che presenta nella fattispecie i seguenti artifici:

  • uso di preposizioni di cui non è chiara la funzione grammaticale (vv. 2, 3, 4, 10);
  • anomala reggenza di forme verbali (v. 3), alternata alla reggenza regolare (v. 12);
  • sostituzione dell’attivo intransitivo al normale riflessivo (v. 6: lontanano);
  • predilezione per l’enjambement praticato, in unione con l’anastrofe, non solo tra versi contigui, ma tra strofe (vv. 4-5; c’è però il precedente di Pascoli in Arano).

Da questi esempi si capisce come l’ermetismo sia in fondo un episodio di oltranzismo postsimbolista. E’ la scelta di una poesia difficile, aristocratica, chiusa. Ermetica la definì Francesco Flora in un suo famoso saggio e l’aggettivo rimase a designare il movimento. E’ riscontrabile anche una certa influenza del surrealismo francese, che si era affermato nel 1924 con il Manifesto di André Bréton, poesia che supera le barriere logico-razionali, penetrando nell’inconscio e cercando di tradurre in versi il puro linguaggio del mondo onirico, il mondo del sogno.

Tornando alle origini dell’ermetismo, è doveroso segnalare unprecursore illustre in Giuseppe Ungaretti, che già nel 1925 aveva composto L’isola, inserita poi nella raccolta Il sentimento del tempo, concordemente esaltata dalla critica come una delle cose più belle di Ungaretti (“incunabolo di tanta poesia ermetica” la definisce il Gioanola), squisitissima composizione nella quale si fondono elementi bucolici, mitici, onirici. Leggiamola.

               A una proda ove sera era perenne                           

Di anziane selve assorte, scese,

E s’inoltrò

E lo richiamò rumore di penne

Ch’erasi sciolto dallo stridulo                    5

Batticuore dell’acqua torrida,

E una larva (languiva

E rifioriva) vide;

Ritornato a salire vide

Ch’era una ninfa e dormiva                                         10

Ritta abbracciata a un olmo.

 

In sé da simulacro a fiamma vera

Errando, giunse a un prato ove

L’ombra negli occhi s’addensava

Delle vergini come                                                          15

Sera appiè degli ulivi;

Distillavano i rami

Una pioggia pigra di dardi,

Qua pecore s’erano appisolate

Sotto il liscio tepore,                                                     20

Altre brucavano

La coltre luminosa;

Le mani del pastore erano un vetro

Levigato da fioca febbre.

In una lirica come questa tutto è affidato al potere evocativo della parola, alla magia del canto, mentre non approderebbe a nulla il tentativo di decifrare ad una ad una le singole immagini della sinfonia. E’ una poesia che richiede al lettore un approccio molto diverso rispetto ad un testo classico, romantico o anche decadente. Sarebbe del tutto inutile chiedersi qual è il messaggio da decifrare o quale interpretazione dare dell’insieme.

Certo un’interpretazione è possibile ed è stata data, anzi più interpretazioni secondo la diversa sensibilità dei lettori e con l’aiuto di indicazioni offerte dall’autore stesso, senza le quali saremmo del tutto spiazzati. E’ Ungaretti che annota a margine: “Il paesaggio è quello di Tivoli. Perché l’isola? Perché è il punto dove io mi isolo, dove sono solo: è un punto separato dal resto del mondo, non perché lo sia in realtà, ma perché nel mio stato d’animo posso separarmene”.

Nessuna spiegazione, nessuna parafrasi convince fino in fondo: la lirica crea semplicemente un incanto, un effetto di straniamento a cui bisogna abbandonarsi, essendo costituita da un’unica ininterrotta sinestesia che avvolge tutti i sensi. Possiamo, questo sì, capire com’è fatta, com’è strutturata. Possiamo notare il procedimento analogico del v.2, dove i boschi sono umanizzati come figure di saggi assorti in profonde meditazioni; o quello del v.8, dove il suono stridente prodotto sulla superficie dell’acqua dal frullo delle ali di un uccello che improvvisamente si leva a volo è tradotto poeticamente – e ben rilevato dall’inarcatura – come stridulo batticuore, che introduce nella descrizione una nota emotiva, come un improvviso spavento. Possiamo notare il felice inserimento di un richiamo alla classicità - la ninfa del v.10, che misteriosamente si moltiplica nelle vergini del v.15 – in un tessuto onirico-fiabesco. E ancora: l’inestricabile analogia del simulacro e della fiamma (v.11), le analogie molto più perspicue dell’addensarsi dell’ombra negli occhi delle vergini come sera appiè degli ulivi (unica similitudine) e della pioggia pigra di dardi (i raggi del sole che filtrano come dardi di luce, con effetto visivo di pioggia); la sinestesia del liscio tepore (v.20), il calore avvolgente prodotto dalla luce filtrata dai rami degli alberi; la tradizionale metafora della coltre per indicare il prato su cui si sono appisolate le pecore, ma con l’aggiunta del prezioso aggettivo luminosa; infine il concentrarsi della vista sulle mani del pastore, presenza umana quasi invisibile se non fosse per quest’unico particolare, presumibilmente messo in risalto dalla luce, che le fa apparire analogicamente come di vetro, lisce, levigate, trasparenti, come percorse da un’eccitazione febbrile.

E le osservazioni non finiscono qui: va rilevato il gioco di echi e rispondenze sonore, ricco di allitterazioni, assonanze e consonanze, rime interne, anafore ed epifore, costituenti un tessuto fittissimo che ha lo scopo di indebolire le differenze semantiche tra le parole: sera era perenne; selve assorte, scese; ch’erasi sciolto – stridulo; ch’erasi ... ch’era (anafora); vide – vide (epifora); languiva e rifioriva (rima al mezzo, ripresa da dormiva). E non andiamo oltre.

Il carattere onirico è dato innanzitutto dall’indeterminatezza del soggetto osservante e dall’uso del passato remoto, che ha l’effetto di proiettare il contesto in una lontananza atemporale (l’unica indicazione cronologica è l’aggettivo perenne, fortemente rilevato alla fine del v.1). E il lettore può continuare rilevando le inarcature, gli iperbati, le anastrofi, tutte risorse tecniche messe al servizio dell’evocazione di quella atmosfera di sogno che domina tutta la lirica.

 

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Solo nel 1938 – tredici anni dopo la composizione de L’isola – veniva pubblicato nella rivista Il Frontespizio quello che è considerato il manifesto dell’ermetismo, il saggio di Carlo Bo “Letteratura come vita”, nel quale la letteratura è riconosciuta come unica ragion d’essere; in essa risiede l’unica “dignità” possibile, in contrapposizione alle quotidiane e diverse sollecitazioni di un tempo minore, quello della cronaca e delle vicende politiche. Si ritorna alla religione della poesia propria dei simbolisti, alla poesia come rivelazione dell’assoluto da attingere unicamente per via analogica e simbolica e con l’ausilio di una sintassi rarefatta: poiché le parole stesse devono tendere ad un massimo di assolutezza, gli ermetici le rendono indeterminate e astratte, eliminando articoli e nessi grammaticali per meglio isolarle nella loro irrelatezza, nella loro vaga astrattezza.

Furono ermetici, oltre ad Alfonso Gatto, Mario Luzi, Piero Bigongiari, in parte Carlo Betocchi, mentre Quasimodo, dopo gli inizi ermetici, tese a farsi interprete di valori etici e civili, soprattutto in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale: la raccolta Nuove poesie, a cui appartengono liriche famose come Vento a Tindari e Ed è subito sera, è del 1942. Ungaretti stesso, considerato l’anticipatore dell’ermetismo, se ne distaccò nelle raccolte successive a Sentimento del tempo. Quanto a Montale, non si lasciò mai sedurre dalla poetica dell’ermetismo (nonostante qualche fuggevole contatto nelle Occasioni), refrattario com’era per vocazione al misticismo e all’analogismo simbolico.

Con la caduta del fascismo (1943) e con l’inizio del periodo più duro della guerra l’ermetismo entra in crisi, cedendo il posto alla nuova poetica del neorealismo, che si affermerà sino a metà degli anni Cinquanta. E qui conviene fermarsi.

 

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Baudelaire muore nel 1867; Mallarmé nasce nel 1842 e muore nel 1898, Rimbaud nasce nel 1854 e muore nel 1891.

Questa definizione, così come le successive, è riportata da Elio Gioanola in Poesia italiana del Novecento, Milano,  1989, a pag. 11.

Il Positivismo è un indirizzo filosofico della seconda metà dell’Ottocento che propone una conoscenza fondata sui fatti (elementi concreti e sperimentabili, dati reali comprensibili e analizzabili dalla ragione, sicuri ed incontrovertibili), rifiuta ogni metafisica e si propone di estendere il metodo delle scienze positive (matematica, fisica, scienze naturali) a tutti i settori dell’attività umana.

Così Giovanni Getto in Getto-Solari, Il Novecento, Minerva Italica, Bergamo, 1980, pag. 13

Ibid., pagg. 18-19.

Mario Luzi, Vicissitudine e forma, Rizzoli, Milano, 1974, p 131.

Il crepuscolarismo prende nome da una definizione coniata dal critico G. A. Borgese nella recensione delle poesie di Marino Moretti, per indicare il senso di sfiducia, di rinuncia e di mancanza di ideali che le caratterizza.

Vi è riflesso di ciò anche nella narrativa: nell’opera di Svevo, ad esempio, la tematica della malattia è centrale.

Paradossalmente uno degli autori da cui i Crepuscolari traggono maggiormente ispirazione è proprio il detestato D’Annunzio, ma non il vate del superomismo e del panismo, bensì il poeta del ripiegamento interiore, il D’Annunzio del Poema paradisiaco; e, accanto a lui, il Pascoli di Myricae.

Cfr. Gozzano, La signorina Felicita, vv. 133-168.

A quel tempo questo termine era ancora di genere maschile.

Jahier, Boine e Rebora sono anche ricordati come la triade dei moralisti.

Op. cit., pag. 182.

Gioanola, op, cit., pag. 184.

Gioanola, op. cit., pag. 193.

Getto, op. cit., pagg. 234-235.

 

Fonte: http://digilander.libero.it/mdams/POESIA%20ITALIANA%20NOVECENTO.doc

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