Sordomuti
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Sordomuti
CONOSCERE LA SORDITA’
La sordità è la riduzione più o meno grave dell’udito. Secondo la classificazione audiologica della sordità del Biap (Bureau International d’Audiophonologie) si distinguono quattro gradi in relazione all’entità della perdita uditiva espressa in decibel:
Lieve, con soglia tra 20 e 40 decibel;
Media, con soglia tra 40 e 70 decibel;
Grave, con soglia tra 70 e 90 decibel;
Profonda, con soglia uguale o superiore ai 90 decibel.
All’interno della sordità profonda c’è ancora un’ulteriore suddivisione:
1° gruppo: sordità con curva pantonale che abbraccia tutte le frequenze tra i 125 e i 4000 Hertz all’intensità di 90 decibel;
2° gruppo: sordità con curva dai 125 ai 2000 Hertz all’intensità uguale o maggiore di 90 decibel;
3° gruppo: sordità con curva detta a virgola dai 125 ai 1000 Hertz ad intensità maggiore ai 90 decibel.
I diversi gradi di sordità influiscono in vario modo nell’acquisizione e nello sviluppo del linguaggio vocale. E, in particolare:
Nelle sordità lievi il bambino ha uno sviluppo del linguaggio normale, cioè non è in ritardo rispetto alle tappe più significative. Non ha problemi di comprensione del significato delle parole, ma ha solo difficoltà nel discriminare alcuni fonemi (omette o altera alcuni fonemi, ad esempio confonde le consonanti /b/ con le /p/).
Nella sordità media il danno riguarda sia il significante che il significato, cioè il concetto sottostante alla parola. Dobbiamo parlare in questi casi di ritardo nello sviluppo del linguaggio parlato (sia nella comprensione che nella produzione). Se si aumenta l’intensità della voce migliora la comprensione del linguaggio vocale, per cui sono indispensabili la protesizzazione e l’intervento logopedico precocissimi, prima che la componente linguistica sia compromessa.
Nella sordità grave non c’è percezione del parlato. Quello che il bambino riesce a comprendere, senza protesi, anche parlando a voce molto alta vicino all’orecchio, sono la durata e il ritmo, riuscendo a distinguere., ad esempio, un suono ripetuto da uno continuo. Solo attraverso l’intervento logopedico il bambino imparerà a parlare, ma a questo livello l’educazione è molto complessa ed è difficile che il sordo raggiunga una competenza linguistica completa sia nell’italiano scritto che parlato. Quanto più l’educazione è precoce tanto maggiori sono le possibilità di avere risultati accettabili.
Chi è il sordo?
"Si considera sordomuto il minorato sensoriale dell'udito affetto da sordità congenita o acquisita durante l'età evolutiva che gli abbia impedito il normale apprendimento del linguaggio parlato, purché la sordità non sia di natura esclusivamente psichica o dipendente da causa di guerra, di lavoro o di servizio" (art. 1, Legge 26.5.1970, n.381). Causa della sordità è la perdita uditiva congenita o contratta prima del 12° anno di età e "corrispondente ad una ipoacusia pari o superiore a 75 db (decibel) di media tra le frequenze 500, 1000, 2000 Hertz sull'orecchio migliore" (D.M. 5.2.1992).
La sordità rallenta il processo del linguaggio parlato e rende difficoltose le relazioni sociali, la scuola e lo sviluppo culturale. In mancanza di un adeguato ausilio specializzato può condurre all'emarginazione ed all'analfabetismo.
Il recupero funzionale della sordità è possibile mediante la protesizzazione precoce, la terapia logopedica e l'istruzione scolastica secondo le modalità previste dalla Legge 517/77 (art. 2 e 10), nonché dal D.Leg.vo 16.4.1994, n.297. L'apprendimento avviene, come detto, attraverso gli occhi (vista) che sostituiscono l’udito, e con adeguate scelte metodologiche: lettura labiale e/o Lingua dei Segni, riconosciuta dal Parlamento Europeo (Direttiva 17.6.1988).
La migliore integrazione sociale del sordo è basata sul piano di recupero educativo, con piena attenzione e senso di responsabilità da parte di chi lo circonda, altrimenti il recupero del sordo in tarda età è praticamente impossibile.
In Italia la sordità grave colpisce circa una persona su 1.000 ed attualmente si contano circa 50 mila sordomuti o sordi prelinguali (divenuti sordi prima di acquisire il linguaggio).
LA COMUNICAZIONE
PREGIUDIZI
Le difficoltà di comunicazione con una persona sorda derivano spesso da una serie di pregiudizi sulla sordità ancora molto diffusi, anche tra gli addetti ai lavori. Si pensa, ad esempio, che i sordi siano muti, come dimostra l’uso stesso del termine sordo-muto.
Ma l’apparato vocale dei sordi è integro e il bambino sordo, anche mancando di una verifica da parte dell’udito, può imparare, nel corso della logopedia, a regolare l’emissione dei suoni. Inoltre, secondo un approccio che considera la sordità solo da un punto di vista clinico e riabilitativo, il sordo non rieducato al linguaggio verbale è ‘muto’.
Al contrario, in una prospettiva socioculturale, ogni ‘muto’ diventa ‘parlante’ non solo se si impadronisce della parola parlata, ma quando riesce a far propri gli strumenti della comunicazione, qualunque sia la modalità di linguaggio adottata. E’ dunque la facoltà di linguaggio, e non la sua modalità, che consente di costruire la comunicazione e di uscire dal mutismo. E nei sordi la facoltà linguistica è intatta.
Un altro pregiudizio consiste nel ritenere che i sordi abbiano un ritardo mentale complessivo. Ma il loro è un deficit sensoriale e non cognitivo. La sordità di per sé non comporta, cioè, disfunzioni a livello cerebrale e psichico. I problemi del bambino sordo riguardano piuttosto, come sappiamo, l’acquisizione della lingua verbale, perché questa viaggia sulla modalità acustica che in lui è deficitaria. E’ la famiglia, la scuola, le strutture di competenza, che spesso non sono preparate, non sanno o non possono esserlo, per una comunicazione che sfrutti le capacità integre del sordo, tra cui la vista.
Così il bambino sordo resta spesso escluso, negli anni più importanti per l’acquisizione del linguaggio, dalla comunicazione linguistica verbale che gli adulti usano con lui e fra di loro, esclusione che causa problemi nello sviluppo della lingua parlata in termini di tempi (e quindi di ritardi) e di modi (e quindi di usi non corretti della lingua).
Problemi da cui possono derivare complicazioni a livello cognitivo e psicologico, che si possono però prevenire con una diagnosi e una protesizzazione precoce, un’adeguata educazione al linguaggio e un valido iter scolastico, oltre naturalmente ad un ambiente familiare favorevole.
Deficit e handicap
La parola sordità viene generalmente usata sia per indicare il deficit sensoriale uditivo sia l’handicap che ne deriva: fra le due accezioni però esiste una profonda differenza. Con il termine deficit ci si riferisce, infatti, nel caso dei sordi, alla quantità o alla qualità della perdita uditiva, misurabili attraverso la diagnosi audiologica.
Le implicazioni socio-psicologiche del deficit non sono, invece, oggettivamente misurabili. Questo perché la lesione si traduce in una disabilità, che comporta uno o più handicap. La gravità degli handicap dipende dal valore che la cultura dominante attribuisce all’abilità in difetto. Nel caso della sordità l’handicap che consegue direttamente al deficit è l’impossibilità di percepire e decodificare i suoni ambientali e in particolare quelli emessi dalla voce per comunicare. Come sottolinea lo psicologo russo Lev Vygotskij, per un bambino sordo la sordità rappresenta la normalità, e non una condizione di malattia: "Egli avverte l’handicap solo indirettamente o secondariamente, come risultato delle sue esperienze sociali".
Di per sé la mancanza dell’udito significa nient’altro che l’assenza di una delle modalità sensoriali attraverso cui il bambino interagisce con l’ambiente, assenza che viene compensata dall’uso di un’altra modalità sensoriale e percettiva, la vista. La compensazioneè sempre un processo di crescita e di ristrutturazione globale del comportamento e della psiche del bambino portatore di deficit, e mai solo una sostituzione di una funzione con un’altra. Per questa ragione, il bambino sordo ha le stesse potenzialità di apprendimento del bambino udente.
La differenza tra i due bambini, e di cui occorre tener conto nell’educazione, sta nell’uso privilegiato nei sordi del canale sensoriale visivo anziché di quello uditivo. Occorre individuare perciò il carattere creativodello sviluppo della persona portatrice di deficit: "...lo sviluppo, complicato dal deficit, rappresenta un processo creativo (fisico e psicologico): la creazione e ri-creazione della personalità del bambino basata sulla ristrutturazione di tutte le funzioni e sulla formazione di nuovi processi generati dall’handicap e creanti nuove e non lineari vie di sviluppo" (L.S. Vygotskij, Pensiero e Linguaggio).
La sordità dunque, se è un problema, è innanzitutto un problema che ha le sue radici nel rapporto dell’individuo con la società. Sono la famiglia, la scuola, le istituzioni, infatti, che devono e possono trovare un modo per adattarsi alle esigenze del bambino sordo e per accoglierlo in un ambiente che consenta una crescita adeguata alle sue potenzialità.
L’handicap che non si vede
L’handicap causato dalla sordità risulta ‘nascosto’, invisibile ad uno sguardo superficiale e difficile, inoltre, da mettere a fuoco in tutti i suoi aspetti. La sordità non ‘si vede’: è riconoscibile solo al momento di comunicare. Così le persone sorde non sempre ricevono da parte degli udenti tutte quelle attenzioni e quella disponibilità necessarie.
A scuola i coetanei udenti del ragazzo sordo spesso giudicano male alcuni suoi atteggiamenti di chiusura o irritabilità, senza tener conto che non è la sordità di per sé a rendere i sordi diffidenti, aggressivi, irritabili e polemici, quanto lo scontro quotidiano con le barriere che impediscono la comunicazione. L’impossibilità di instaurare con gli altri una relazione significativa espone dunque la persona sorda a una serie di frustrazioni, spesso all’origine di atteggiamenti aggressivi che sono, in effetti, più frequenti nei sordi che negli udenti. Ma, anche qui, non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze.
I comportamenti aggressivi sono, infatti, risposte comuni sia ai sordi che agli udenti: questi ultimi però possiedono una padronanza linguistica che consente loro di convogliare l’emotività in parole, spesso dure e taglienti, e di difendersi attraverso l’ironia e il sarcasmo. I sordi, invece, per la difficoltà di servirsi del linguaggio verbale soprattutto nelle situazioni di maggior coinvolgimento emotivo, ricorrono spesso al linguaggio del corpo, un linguaggio ‘di azione’ in cui scaricano direttamente le frustrazioni. Questo tipo di comportamento viene però giudicato eccessivo e sanzionato con maggior rigore rispetto a quello degli udenti. Un’altra conseguenza della sordità come ‘handicap nascosto’ è il distacco che spesso gli udenti manifestano quando hanno a che fare con le persone sorde. Tra le ragioni di questo comportamento c’è forse anche il senso di impotenza provato dall’udente di fronte alle difficoltà di comunicazione con la persona sorda, impotenza che provoca una reazione di graduale indifferenza emotiva.
Questo può avvenire anche se gli udenti sono i genitori di un bambino sordo. Infatti i genitori che adottano il linguaggio verbale come unica modalità di comunicazione con il proprio figlio sordo rischiano di sperimentare, dopo i primi anni di vita del bambino, un senso di profonda frustrazione per questo rapporto incompleto.
Comunicare con i sordi: capire e farsi capire
(alcune regole da tenere a mente)
- Per consentire al sordo una buona lettura labiale la distanza ottimale nella conversazione non deve mai superare il metro e mezzo.
- La fonte luminosa deve illuminare il viso di chi parla e non quello della persona sorda: bisogna parlare con il viso rivolto alla luce.
- Chi parla deve tenere ferma la testa.
- Il viso di chi parla deve essere al livello degli occhi della persona sorda.
- Occorre parlare distintamente, ma senza esagerare. Non bisogna in alcun modo storpiare la pronuncia. La lettura labiale infatti si basa sulla pronuncia corretta.
- Si può parlare con un tono normale di voce, non occorre gridare. La velocità del discorso inoltre deve essere moderata: né troppo in fretta, né troppo adagio.
- Usare possibilmente frasi corte, semplici ma complete. Non occorre parlare in modo infantile. Mettere in risalto la parola principale della frase. Usare espressioni del viso in relazione al tema del discorso.
- Non tutti i suoni della lingua sono visibili sulle labbra: fare in modo che la persona sorda possa vedere tutto ciò che è visibile sulle labbra.
- Quando si usano nomi di persona, località o termini inconsueti, la lettura labiale è molto difficile. Se il sordo non riesce, nonostante gli sforzi, a recepire il messaggio, anziché spazientirsi, si può scrivere la parola a stampatello. Oppure usare, se la si conosce, la dattilologia (l’alfabeto manuale).
- Anche se la persona sorda porta le protesi acustiche, non sempre riesce a percepire perfettamente il parlato. Occorre dunque comportarsi seguendo queste regole di comunicazione.
- Per la persona sorda è difficile seguire una conversazione di gruppo o una conferenza senza interprete. Occorre quindi aiutarlo a capire almeno gli argomenti principali attraverso la lettura labiale, trasmettendo parole e frasi semplici e accompagnandole con gesti naturali.
lingua dei segni e cultura
I segni usati dai sordi non sono un semplice insieme di gesti per comunicare. Essi hanno una grammatica ben precisa, regole per declinare i verbi, per il plurale e il singolare. Costituiscono cioè una vera e propria lingua al pari delle lingue vocali.
I sordi l'hanno sempre usata, ma per molto tempo di nascosto, visto che i gesti erano considerati ‘poveri’ e si pensava - e c'è ancora chi lo pensa - che usandoli i sordi non avrebbero mai imparato a parlare.
Nel 1880 infatti con il ben noto Congresso internazionale di Milano si affermò la superiorità educativa del metodo oralista e del suo uso come unico metodo d’insegnamento per i sordi in Italia: "Il Congresso, considerando che l’uso simultaneo della parola e dei gesti ha lo svantaggio di nuocere alla parola, alla lettura sulle labbra e alla precisione delle idee, dichiara che il metodo orale deve essere preferito". Oggi l'atteggiamento è in gran parte cambiato, anche grazie ai molti studiosi che in diversi paesi si sono occupati delle lingue dei segni.
Le ricerche hanno avuto inizio negli anni Sessanta, quando il linguista americano William Stokoe dimostrò per primo che la Lingua dei segni americana, la Asl (American Sign Language), presenta tutte le caratteristiche morfologiche, grammaticali, sintattiche di ogni lingua naturale. Come tutte le lingue del mondo, inoltre, anche le lingue dei sordi si differenziano da paese a paese e da regione a regione.
E come tutte le minoranze linguistiche anche i sordi hanno una loro cultura. Fu sempre Stokoe il primo a descrivere, nel dizionario della Lingua dei segni americana, pubblicato nel 1965, la cultura sorda in termini sociali. Stokoe considerò tutto ciò che la sordità produce come cultura: tradizioni che si possono tramandare, racconti e poesie in segni, e tutto il bagaglio di conoscenze teoriche e simboliche trasmesse di generazione in generazione dai sordi.
Il lavoro di Stokoe fu veramente rivoluzionario, dal momento che, precedentemente, neppure i sordi erano consapevoli del fatto che i segni costituissero una vera e propria lingua e fossero all’origine di una cultura particolare. A partire dai lavori di Stokoe altri ricercatori in tutto il mondo hanno iniziato a studiare le loro lingue dei segni. All'Istituto di psicologia del Cnr di Roma da ormai quasi vent'anni ricercatori sia udenti che sordi studiano la Lis, Lingua dei segni italiana, e hanno dimostrato che, come quella americana, essa costituisce una vera e propria lingua.
Nel 1995 a Trieste si è tenuto il primo convegno nazionale sulla Lis, cui hanno partecipato molti sordi e udenti di vari paesi: ricercatori, operatori del settore, insegnanti, e persone semplicemente interessate.
Purtroppo gli studi sulla cultura sorda italiana, in ambito accademico, sono ancora poco sviluppati rispetto ad altre nazioni. Una tappa importante in questo panorama è stato il convegno "Cultura del gesto, cultura della parola. Viaggio antropologico nel mondo dei sordi" che un gruppo di studenti del dipartimento di studi Glotto-antropologici ha organizzato all’Università ‘La Sapienza’ di Roma nel 1996.
E’ stato il primo convegno che ha affrontato in Italia in chiave antropologica temi relativi alla sordità, con la volontà di dare un impulso a questo tipo di ricerche anche nel nostro paese. Nelle parole dei suoi organizzatori, è emersa dal convegno "un’ipotesi di partenza per una disciplina in via di sviluppo: un’antropologia della sordità che consideri l’analisi della sordità non come deficit sensoriale, ma come una risorsa generatrice di cultura".
Una cultura forse difficile da definire, visto che non esiste geograficamente ‘il paese dei sordi’, ma che molti sordi identificano proprio con la lingua dei segni. Questa lingua, infatti, non solo è portatrice della comunicazione e del linguaggio dei sordi, ma è lo strumento di una percezione del mondo tutta particolare che si basa sulla visione, senza l’accompagnamento del suono.
In Italia i sordi sono circa 60.000: una cifra in cui sono compresi sia i sordi dalla nascita, o che sono diventati sordi prima di imparare a parlare, sia le persone che sono diventate sorde dopo aver appreso il linguaggio parlato. Specialmente per i primi, che possono imparare la lingua parlata solo dopo una lunga riabilitazione, è molto importante poter accedere al più presto alla Lis.
Questa è l'unica che può essere acquisita spontaneamente attraverso le stesse tappe del linguaggio parlato, perché si trasmette attraverso il canale visivo che è integro nel sordo. Ed è proprio attraverso questo canale che, grazie alla logopedia, passa anche l'acquisizione della lingua parlata. A livello giuridico una risoluzione del Parlamento europeo del 1988 invitava i Paesi membri a riconoscere le rispettive lingue dei segni come lingue ufficiali. L'Italia non si è ancora uniformata a questa disposizione.
Viaggio nella città invisibile
- Che cosa è la ‘città invisibile’?
- E’ la comunità dei sordi.
- Perché invisibile?
- Perché la sordità non si vede.
- Ma la lingua dei segni, che voi usate, è visibile a tutti.
- E’ visibile per chi la vuole vedere. Ma poiché molti, ancora oggi, chiudono gli occhi e la rifiutano, le nostre mani che segnano sono, di fatto, rese invisibili da loro.
- Quale lo scopo del vostro viaggio nella "città invisibile"?
-Farla conoscere a tutti e quindi renderla, finalmente, visibile. Di conseguenza, per noi, più vivibile: vogliamo essere accettati per quello che siamo, una minoranza culturale e linguistica.
- In che senso, accettati?
- Senza pregiudizi.
- Mi faccia un esempio.
Esiste da tempo il pregiudizio, diffusissimo, che un sordo debba essere necessariamente anche muto. Il che non è vero. I sordi hanno la voce, ma hanno difficoltà a controllarla e, quindi, ad usarla per parlare. Un altro grave pregiudizio è la sottovalutazione della nostra difficoltà a capire chi parla.
- E la labiolettura?
- Leggere sulle labbra è un aiuto, ma ha enormi limiti oggettivi. Tutto il nostro rapporto con la lingua parlata è innaturale. Possibile, ma non spontaneo. Lei immagini di guidare un’automobile che abbia solo la retromarcia: che è, appunto, una guida innaturale. Oppure immagini di dover camminare sulle mani. E’ vero che, a marcia indietro, o camminando sulle mani, si può anche fare il giro del mondo. E come no, Però ci provi. E poi mi dica dove è arrivato. A che punto si è fermato. Noi non vogliamo doverci fermare a quel punto.
- Torniamo al "Viaggio nella città invisibile". Si diceva, perché tutti la conoscano.
- La conoscenza promuove la comunicazione. E’ dunque il modo migliore per gettare un ponte fra noi e la città visibile, che raffigura il mondo degli udenti. Quel ponte si chiama bilinguismo: apprendimento, da parte dei sordi, sia della lingua dei segni sia di quella parlata.
Ripeto però che, per i sordi, la lingua naturale è quella segnata: e deve avere la priorità perché è più idonea a consentire il loro pieno sviluppo mentale e creativo. Privare il bambino sordo di questo strumento è una condanna, spesso inconsapevole, ma spietata. Specie quando si fonda su un calcolo egoistico degli altri, in base al quale, meglio il bambino parlerà meno sembrerà sordo.
- Perché egoistico? Se un genitore ...
- L’ideale per noi non è riuscire a sembrare udenti. Perché dovremmo? Non lo siamo. Se un genitore si vergogna della sordità del figlio, o rifiuta di accettarla, è dentro di lui che qualcosa non va. Noi vogliamo, semplicemente, vivere come tutti la nostra vita. Anche di relazione, con l’esterno, certo. Perciò è importante costruire quel ponte.
Tecnologia e disabilità
In questi ultimi anni il mondo della ricerca ha aperto nuove prospettive nella vita delle persone sorde. La tecnologia e la Lingua dei segni offrono possibilità, sia pure profondamente diverse, per abbattere le barriere comunicative.
Apriremo qui un piccolo inciso sulla LIS (Lingua dei segni italiana), prima di entrare nel vivo del dibattito.
Fino a poco tempo fa le persone sorde si auto-emerginavano da situazioni pubbliche, come dibattiti, seminari, convegni, interviste alla radio o alla televisione, riunioni a livello istituzionale delegando agli udenti la loro rappresentanza, sia a causa di soggettive difficoltà di comunicazione, come ad esempio una brutta voce o una lettura labiale poco veloce, sia per motivi oggettivi, connessi alla difficoltà di seguire più interlocutori in un ambiente ampio (pensiamo ad esempio alla classica riunione in un ministero, in cui ci si siede intorno ad un tavolo lungo 6/7 metri, dove è materialmente impossibile vedere in faccia tutti i partecipanti).
Oggi, la consapevolezza di appartenere ad una comunità linguistica, rafforzata senza dubbio dagli studi che in Italia sono cominciati più di venti anni fa e hanno ampiamente dimostrato che anche la LIS (analogamente alle altre lingue dei segni straniere) è a tutti gli effetti una lingua, hanno portato molte persone sorde ad utilizzare i segni nella comunicazione in pubblico (mediante un interprete che dà loro la voce), consentendo alla comunità dei sordi di rappresentarsi in prima persona, nelle richieste per migliorare la qualità della vita.
Il bilinguismo (cioè conoscere due lingue: l’Italiano e la Lingua dei segni) diventa dunque a la vera strada per l’autonomia dei sordi.
Tornando ora alla tecnologia, che in questo ultimo secolo ha rivoluzionato la vita di tutte le persone, e ancora di più dei sordi, possiamo suddividere i mezzi tecnologici in tre gruppi:
- apparati che migliorano la vita quotidiana (avvisatori luminosi, Dts, videotelefono, sistema di trasduzione);
- apparati che consentono di accedere all’informazione e alla cultura (computer e sottotitoli);
- apparati che migliorano la capacità di utilizzare il residuo uditivo (protesi e impianto cocleare).
Al primo gruppo appartengono quei dispositivi che sostituiscono al segnale sonoro un segnale luminoso: lo squillo del campanello fa accendere una luce verde sulla porta, il suono del citofono diventa una luce rossa, il trillo del Dts (dispositivo telefonico per sordi) fa lampeggiare la luce collegata, il pianto del neonato viene segnalato da una luce, così le fughe di gas, il timer del forno, la sveglia, ecc. Sono ormai lontani i tempi in cui i sordi si dovevano legare una cordicella alla vita collegata con la porta di casa, per essere avvisati quando qualcuno bussava.
Il Dts (Dispositivo telefonico per sordi) è già stata una conquista perché consente di chiamare un’altra persona dotata di Dts, ma non basta. Questi apparecchi dovrebbero essere installati in tutti i luoghi pubblici e dovrebbero essere istituiti servizi ponte su tutto il territorio nazionale così che una persona, che usa il Dts, possa chiamare un utente con il telefono normale, grazie ad un operatore che fa da tramite.
A Roma, grazie ad un accordo tra l’Ens e il Comune, dal 1 giugno 1998 è partito un servizio ponte sperimentale per la durata di 9 mesi. Anche l’Enel ha in programma di realizzare un servizio ponte per i suoi utenti sordi, attraverso un numero verde nazionale, ma ancora molte altre aziende di servizi mancano all’appello, a cominciare proprio dalla Telecom.
Vicino al servizio ponte, si stanno inoltre sviluppando altre due possibilità: il videotelefono e la trasduzione voce/testo e testo/voce. Il primo consente mediante un computer e una telecamera incorporata di vedere la persona con cui si telefona e quindi di poter utilizzare nella comunicazione telefonica la Lingua dei segni e/o la lettura labiale.
Al momento questo servizio è attuato in via sperimentale a Roma, Milano, Napoli, Cagliari e Torino sui sistemi di videotelefonia.
La trasduzione invece è un sistema completamente automatico, che quindi non necessita di un operatore, che consente ad un udente munito di Dts di effettuare una chiamata verso un qualsiasi utente munito di un normale telefono. Esso permette alla persona sorda di inviare un messaggio, conversare telefonicamente su argomenti predefiniti e consultare la lista dei messaggi inviati per conoscerne l’esito.
Il servizio dispone di una serie di vocaboli di riferimento che possono essere selezionati dal sordo e permettono alla macchina di riconoscere le parole pronunciate dall’udente; quest’aspetto deve essere ancora migliorato.
Oltre a questi apparati, si sono sviluppate altre tecnologie, intese qui come computer e sottotitoli. Gli elaboratori con la possibilità di comunicare in tempo reale in tutto il mondo (v. Internet), i programmi che facilitano alle persone sorde l’accesso alla cultura perché viaggiano su una modalità visiva, il software specifico per l’educazione alla lingua parlata (ad esempio Speech) offrono opportunità fino a pochi anni fa impensabili e hanno un ruolo fondamentale nell’educazione dei bambini sordi.
Nell’ambito di queste tecnologie applicate all’educazione, nello scorso decennio abbiamo visto svilupparsi la produzione di alcuni software specifici, come ad esempio i programmi dell’ASPHI-IBM o il videodisco interattivo su "Gli animali della savana", prodotto dall’Olivetti in collaborazione con l’Istituto di Psicologia del CNR di Roma (reparto di Neuropsicologia "Linguaggio e sordità").
In particolare, in quest’ultimo convivono in un eccellente equilibrio il linguaggio multimediale e la Lingua dei segni, offrendo al bambino sordo molteplici modalità di accesso. Dopo un inizio così felice, sembra però che si sia affievolito l’interesse per le aziende a costruire programmi educativi specifici per i sordi. A nostro parere, è quindi urgentissimo un intervento istituzionale che dia forti incentivi alle industrie affinché continuino a percorrere questa strada che ha dato ottimi risultati, come ci risulta dalle ricerche effettuate.
Anche i sottotitoli, con la loro diffusione in ambito televisivo, contribuiscono a rompere l’isolamento e consentono ai sordi un accesso immediato alle informazioni e alle conoscenze. Con essi si attiva una sorta di educazione permanente, in cui le persone sorde, in un contesto di relax e non rigidamente strutturato, arricchiscono e migliorano la loro competenza morfosintattica e lessicale.
In questo campo molto è stato fatto, ma ancora molto si deve fare. Mancano ancora i sottotitoli in diretta, così accade che una persona sorda non possa seguire un dibattito politico, anche se poi è a tutti gli effetti un cittadino che vota. E’ successo ad esempio che i sordi siano stati dimenticati in occasione del discorso del presidente del Consiglio Prodi sull’entrata dell’Italia nell’Euro.
La quantità di ore sottotitolate è ancora troppo limitata, prevalgono film e telenovele, mancano quasi del tutto i programmi culturali. I telegiornali hanno la finestra con l’interprete di Lingua dei segni, ma in poche edizioni e in fasce orarie non di punta. Riguardo poi alla qualità dei sottotitoli, molto ancora deve essere fatto. E’ innegabile che le problematiche siano molteplici:
- un’utenza varia ed eterogenea perché dietro il termine sordo ci sono realtà molto differenti (persone nate sorde, diventate sorde prima dell’acquisizione completa del linguaggio parlato o dopo, persone anziane, ecc.);
- problemi connessi alla diversa velocità tra il parlato e lo scritto;
- difficoltà a rendere nel testo le sfumature della voce;
- problemi nel modo di rendere doppi sensi, metafore, aspetti tipici della lingua parlata.
Il servizio c’è, ma potrebbe essere migliore, come può rendersi conto chiunque sintonizzandosi sui sottotitoli.
Sempre nell’ambito delle tecnologie, l’ENS ha in animo di costituire una Videoteca Nazionale per sordi, analogamente a quanto già esiste per i non vedenti, dove trasformare i libri più importanti della nostra cultura in videodischi multimediali in cui ci siano, accanto al testo scritto, immagini esplicative e la finestra dell’interprete di Lingua dei segni.
Il terzo punto della nostra analisi riguarda l’impianto cocleare. Desideriamo dire immediatamente due cose: un intervento di implantologia non ridà immediatamente la possibilità di sentire, ma richiede comunque una terapia logopedica, a volte lunga, per imparare a riconoscere i suoni; la seconda cosa è che non siamo contrari a questa nuova tecnica, ma ci spaventano moltissimo alcuni meccanismi perversi, che si sono innescati intorno all’impianto cocleare.
L’Ente Nazionale Sordomuti, proprio per le sue finalità giuridiche, non può non mettere in guardia i sordi di fronte ad un’azione pubblicitaria che propaganda l’operazione come la bacchetta magica che può ridare l’udito alle persone sorde. Dispiace molto sentire, in certe riunioni a livello istituzionale, affermazioni del tipo la sordità non è più un problema, perché con l’impianto cocleare non ci saranno più persone sorde. Il timore è che, dietro queste affermazioni, si nasconda un grande business sulla pelle dei sordi, come altre volte è successo nel nostro Paese.
Del resto, la nostra posizione di grande cautela trova riscontro nel Rapporto del Gruppo di Lavoro multidisciplinare sugli impianti cocleari, istituito su richiesta della Comunità Europea dall’EUD (Unione Europea dei Sordi). La ricerca si è avvalsa dei risultati emersi da un questionario inviato a tutti i Centri dei Paesi CEE, dove erano stati avviati un programmi di impianti cocleari pediatrici, alle associazioni nazionali dei sordi e a 41 associazioni di genitori di bambini sordi. Le conclusioni- raccomandazioni sono state le seguenti (citiamo letteralmente):
i genitori devono essere in condizione tale da effettuare una scelta informata sulla base di informazioni equilibrate;
c’è la necessità di una visione più chiara sulla "pratica migliore" nel campo dell’implantologia cocleare pediatrica;
si sente l’esigenza di uno studio di lungo termine sugli effetti linguistici, psicologici e sociali dell’impianto cocleare.
Inoltre ci arrivano molte segnalazioni di famiglie, che dopo aver sottoposto i loro figli all’impianto cocleare, si ritrovano in un vero e proprio calvario. Negli Stati Uniti, dove questa tecnica è applicata da più tempo, sono stati pubblicati articoli sui danni dell’impianto cocleare, in cui vengono riportane percentuali statistiche alte di insuccesso.
Tutto questo ci invita alla prudenza.
Ci sembra infatti che manchi da parte dello Stato italiano un serio controllo sia sui protocolli di applicazione riferiti all’età dei soggetti e alle loro condizioni fisiche (abbiamo Centri dove l’impianto è consigliato con limiti di età molto differenti) sia sui risultati di questi interventi; e soprattutto abbiamo la netta sensazione che non sempre la famiglia sia sufficientemente informata delle difficoltà a cui si va incontro, ma che prevalgano i toni trionfalistici del miracolo della scienza, che fanno leva sul grande desiderio dei genitori di ridare l’udito ai propri figli; salvo poi ritrovarsi nei guai a operazione compiuta. Riteniamo dunque indispensabile un serio controllo sulla selezione dei pazienti veramente idonei e una corretta informazione sugli aspetti anche negativi dell’intervento.
In conclusione, possiamo dire che le tecnologie hanno aperto nuove strade per l’integrazione dei sordi e la legge 104/92 sui diritti degli handicappati ha indicato chiaramente l’indirizzo ideologico e politico da perseguire per una reale integrazione (anche se essendo una legge quadro presupponeva poi una serie di decreti e circolari applicative che non sempre ci sono state), ora tocca al Governo accelerare questo cammino già in atto.
Siamo convinti infatti che la società degli udenti risponderà con attenzione e sensibilità alle richieste della comunità dei sordi.
I metodi riabilitativi*
La scelta oralista ha dominato in modo quasi assoluto, dal Congresso di Milano del 1880, il panorama italiano sull’educazione linguistica dei sordi. Solo da circa vent’anni, a partire dalle prime ricerche sulla Lingua italiana dei segni (Lis) portate avanti dal gruppo di lavoro della dott.ssa Virginia Volterra (Istituto di Psicologia del Cnr), si è incominciato anche in Italia a parlare di altri metodi in logopedia. Nell’educazione al linguaggio del bambino sordo oggi è dunque possibile scegliere tra vari percorsi riabilitativi. Tre sono le principali aree:
Metodi oralisti
Tutti i metodi oralisti condividono l’esclusione, nell’educazione al linguaggio parlato e scritto, di qualsiasi uso dei segni. Essi puntano da una parte sull’allenamento acustico, per aiutare il sordo ad utilizzare al massimo i suoi residui uditivi, dall’altra sul potenziamento della lettura labiale su cui si basa la comunicazione.
Un'altra caratteristica dei metodi oralisti è il privilegiare nell’educazione alla lingua parlata e scritta l’aspetto della produzione piuttosto che quello della comprensione, che è invece preponderante soprattutto nelle prime fasi dell’acquisizione spontanea del linguaggio nel bambino udente.
Tra i massimi esponenti dell’oralismo italiano si trovano Massimo Del Bo e Adriana Cippone De Filippis, che nel loro libro La sordità infantile grave (1974, 1990 ristampa), focalizzano l’intervento logopedico in alcuni punti essenziali, quali:
- la diagnosi precoce
- l’esatta valutazione del deficit
- l’immediata protesizzazione
- la collaborazione della famiglia nell’intervento logopedico
- l’integrazione nelle scuole normali.
Tutti questi aspetti della metodologia oralista sono comuni anche ai metodi misti (vedi punto 2), cioè a quei metodi che utilizzano i segni nella terapia e che hanno anch’essi come obiettivo l’insegnamento della lingua vocale al bambino sordo. La grande differenza tra i due metodi non risiede solo nell’uso dei segni, ma anche nell’approccio verso la famiglia e nella scelta di quali ambiti del linguaggio privilegiare (comprensione vs. produzione). I genitori hanno sempre un ruolo fondamentale nell’educazione al linguaggio del bambino sordo, ma nel caso dei metodi oralisti questo compito viene affidato in modo eccessivo alla famiglia e soprattutto alla madre, il cui coinvolgimento può portare ad una confusione dei ruoli (madre e insegnante-logopedista) con pesanti conseguenze psicologiche.
Metodi misti
Da molti operatori del settore i segni cominciano ad essere considerati un ausilio da utilizzare durante la terapia di educazione al linguaggio orale, oltre che durante l’iter scolastico.
Nel metodo logopedico misto o bimodale si utilizza l’italiano segnato (IS): la parola vocale è accompagnata dal segno corrispondente, pur lasciando inalterata la struttura della lingua verbale. ‘Bimodale’ significa doppia modalità e infatti nella metodologia bimodale vengono utilizzate la modalità acustico-verbale, poiché si parla, e la modalità visivo-gestuale, perché si segna, ma un’unica lingua: l’italiano.
Oltre all’italiano segnato, nel metodo bimodale si può far uso dell’italiano segnato esatto (ISE): si utilizzano cioè, per tutte quelle parti del discorso a cui non corrispondono dei segni (articoli, preposizioni, plurale dei nomi) gli evidenziatori, cioè dei segni artificiali, e la dattilologia (l’alfabeto manuale).
L’obiettivo del metodo bimodale, comune a metodologie più ‘tradizionali’, è la migliore competenza possibile del bambino sordo nella lingua parlata e scritta.
In pratica, quando si parla con il bambino sordo, si dà un supporto gestuale a tutto quello che viene detto. I segni divengono così una sorta di ‘stampelle’ che il bambino usa quando non è ancora abbastanza padrone del linguaggio verbale, per poter rispettare le stesse tappe evolutive del bambino udente.
Per quanto riguarda la scelta dei contenuti, che si cerca di trasmettere al bambino nel corso della terapia, si tiene conto, seguendo le più aggiornate ricerche sull’acquisizione e sullo sviluppo del linguaggio nel bambino udente, di tutti gli aspetti del linguaggio (fonologico, morfosintattico, semantico, pragmatico) e dei suoi diversi contesti: parlato e scritto. Viene data inoltre priorità alla comprensione del linguaggio rispetto alla produzione.
Educazione bilingue
L’educazione bilingue consiste nell’esporre il bambino sordo contemporaneamente alla lingua vocale e alla lingua dei segni. I fautori di questo approccio partono dalla considerazione che le persone sorde acquisiscono con molta facilità la lingua dei segni, a differenza di quanto accade con la lingua vocale, perché i segni viaggiano sulla modalità visivo-gestuale e, quindi, su un canale integro.
La concretizzazione di un’educazione bilingue dl bambino sordo nella realtà implica una serie di problematiche sia in ambito linguistico che psicologico. Tra queste, prima fra tutte la difficoltà di esporre precocemente alla lingua dei segni il bambino sordo figlio di genitori udenti, che non la conoscono o se l’hanno imparata non è per loro comunque una prima lingua. Un’altra difficoltà consiste in questo: quanti sono i sordi veramente competenti nella LIS e quindi in grado di trasmetterla? Su una popolazione sorda italiana dell’1 per mille, sono solo il 5% i sordi figli di genitori sordi che hanno ricevuto la lingua dei segni come lingua madre. Ma è anche vero che negli ultimi tempi la comunità dei sordi italiana si è in qualche modo riappropriata, dopo quasi un secolo di letargo, del problema dell’educazione al linguaggio dei suoi membri. Molti sordi si stanno infatti impegnando in attività scolastiche o di insegnamento della LIS.
Fonte: http://digilander.libero.it/a.persello/documentazione/sordomuti/SORDOMUTI.doc
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