Angina pectoris definizione sintomi diagnosi

 


 

Angina pectoris definizione sintomi diagnosi

 

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L'angina pectoris: angina cronica stabile


Giuseppe Specchia


L'angina pectoris è l'espressione clinica di una malattia coronarica respon­sabile di episodi transitori di ischemia miocardica acuta. Come prima è stato già accennato questi sono il risultato della rottura di una relazione lineare che correla il consumo miocardico di ossigeno con l'apporto di ossigeno. Una discrepanza che può avere una o più cause associate e il cui meccani­smo patogenetico può essere, ma non sempre, individuato nelle caratteristi­che cliniche di presentazione della sindrome.
L'ischemia può, ad esempio, essere provocata da un aumento del con­sumo di ossigeno del miocardio non soddisfatto da un adeguato aumento del flusso (come ad esempio nel caso di una stenosi coronarica che impedisca un adeguato aumento del flusso coronarico al miocardio durante un esercizio fisico, fisiologicamente responsabile di un aumento del lavoro e quindi delle richieste metaboliche del cuore). In altri casi l'attacco ischemico può comparire perché, sebbene il consumo miocardico non aumenti (per esempio il paziente è in condizioni di assoluto ripo­so fisico), il flusso improvvisamente si riduce a causa di uno spasmo che costringe un grosso vaso coronarico epicardico.
Nella grande maggioranza dei casi la condizione ischemizzanfe non è mai pura e la situazione più comune è rappresentata dall'intreccio di più fattori (e ciò verrà meglio compreso nel dettaglio nei paragrafi seguenti).
Dal punto di vista patogenetico quindi l'angina può essere classificata come primaria, legata quindi a una primitiva riduzione del flusso, secondaria, quando l'elemento patogenetico che prevale è l'aumento del consumo mio­cardico di ossigeno e mista, nella maggior parte dei casi. Dal punto di vista clinico l'angina può essere suddivisa in base alla condizio­ne che si associa al sintomo, così che si ha l'angina da sforzo, l'angina a riposo, l'angina da emozione, da freddo, post-prandiale, ecc., con mec­canismi patogenetici diversi e non sempre logicamente correlati (ad esempio l'angina a riposo non è necessariamente un'angina da riduzione di flusso, se provocata ad esempio da una brusca accelerazione del polso e pressione arteriosa e quindi lavoro del cuore, in un paziente con malattia coronarica severa).
Una suddivisione molto importante è quella in una forma stabile e in una instabile, poiché questa differenza è estremamente importante ai fini della prognosi e quindi dell'attenzione diagnostica e terapeutica che il medico deve porre alle due sindromi diverse, che ora verranno esposte in dettaglio.
11.3.1    Angina cronica stabile
Cos'è
Il termine angina cronica stabile definisce una sindrome morbosa caratte­rizzata da attacchi di angor coronarico, determinato da ischemia miocardi­ca acuta transitoria, che compaiono generalmente durante uno sforzo fisico. Bisogna subito ricordare che anche nell'angina stabile, come in altre forme di angina pectoris, gli episodi ischemici non si accompagnano sempre a dolo­re. Al contrario, nella maggior parte degli episodi, questo sintomo cosi impor­tante che ha dato il nome alla malattia, è assente (ischemia silente).
Questa forma di angina viene definita stabile (e contrapposta quindi alla forma instabile) per sottolineare la costanza e ripetibilità del momento di discrepanza fra la domanda di ossigeno da parte del miocardio e l'insuffi­cienza dell'apporto di ossigeno da parte del sangue arterioso coronarico. Il termine vuole inoltre esprimere la stabilità clinica, nel senso che gli episodi si mantengono costanti in frequenza e severità e la sindrome è gravata da una bassa incidenza, a breve e medio termine, di eventi coronarici gravi come la morte improvvisa o l'infarto miocardico non fatale. L'angina stabile può instabilizzarsi così come una forma instabile può diven­tare stabile una volta superata una fase di instabilità senza aver prodotto eventi coronarici più gravi. L'esordio clinico di una angina rappresenta sempre una fase instabile della malattia (vedi angina instabile, pag.195): per definire quando un'angina all'esordio sia diventata stabile non ci si può che affidare a limiti, seppure artificiosi, di tempo. E' usuale parlare di una forma stabile dopo almeno due mesi dall'esordio della sintomatologia.
Il meccanismo patogenetico usuale dell'angina stabile è rappresentato dalla presenza di una placca aterosclerotica (vedi pag. 169) che riduca il lume coronarico di almeno il 75% (stenosi coronarica critica) e da una
causa scatenante: quest'ultima è data dall'aumento del consumo miocardico di ossigeno a un livello che non può essere tollerato da un cuore che ha un circolo coronarico incapace di aumentare in modo adeguato il flusso (tale aumento essendo limitato dalla ostruzione coronarica) e che, pertanto, ha una riserva coronarica ridotta. L'angina stabile è anche chiamata angina da sforzo poiché, in genere, la condizione, che più frequentemente sollecita un aumento del consumo miocardico di ossigeno e induce l'angina, è lo sforzo fisico. Altre condizioni che possono indurre aumento del lavoro del cuore e quindi del consumo miocardico di ossigeno, inducendo ischemia e quindi scatenando l'attacco di angina con lo stesso meccanismo patogeneti­co, sono l'emozione, l'atto sessuale, un pasto troppo abbondante, il freddo intenso: in alcune di queste condizioni il termine "da sforzo" riferito all'angi­na sembra inappropriato, considerato che il paziente è in apparenti condizio­ni di riposo; tuttavia il meccanismo patogenetico è lo stesso. Aumenti del tono coronarico anche nei limiti fisiologici, riducendo ulterior­mente il diametro del lume coronarico, possono concorrere a rendere critica o più severa una ostruzione coronarica, a livello di una placca. Così può accadere che se uno sforzo fisico viene iniziato in momenti nei quali il tono coronarico è più elevato, la soglia della discrepanza venga raggiunta prima e il paziente possa compiere uno sforzo minore prima della comparsa dell'angina. Questa differenza del tono coronarico può quindi provocare una certa variabilità dell'angina (angina a soglia variabile). Una certa variabilità della soglia, e quindi del tempo di comparsa dell'angina o dell'ischemia silente durante uno sforzo, può anche essere legata a differenze nelle condi­zioni esterne al cuore, come ad esempio variazioni di temperatura, oppure al momento particolare in cui lo sforzo viene eseguito, come ad esempio in periodo postprandiale piuttosto che a digiuno o in momenti di particolare intensa stimolazione emotiva. E' importante comunque distinguere il termine angina variabile da quello di angina instabile: la variabilità della soglia non inficia la caratteristica di questa forma d'angina per quanto riguarda una buona prognosi a breve-medio termine.
In popolazioni a rischio elevato per malattia coronarica l'angina pectoris ha negli uomini di media età una frequenza più del doppio rispetto alle donne. Indipendentemente dal sesso aumenta con l'aumentare dell'età e dopo i 75 anni ha una prevalenza uguale nei due sessi. Nell'intera popolazione ha una prevalenza calcolabile intorno a 30000 casi per ogni milione e la sua inciden­za annuale è stata calcolata, per l'Italia, fra lo 0.2 e lo 0.4 %. La prevalenza della malattia è ovviamente maggiore nei soggetti che presentano fattori di rischio coronarico (vedi pag.192) e quindi nei fumatori, nei soggetti affetti da ipertensione arteriosa, in coloro che hanno elevati livelli di colesterolo nel sangue, nei diabetici, negli obesi, in coloro che hanno eredità famigliare per malattia coronarica. Recentemente è stata posta attenzione anche all'associa­zione fra la malattia aterosclerotica coronarica (e le sue espressioni cliniche) e la presenza di polimorfismi genici.
11.3.1.1    Clinica
Il primo sospetto clinico di angina pectoris è rappresentato ovviamente dal dolore tipico, caratterizzato da una sensazione di costrizione o oppressione di bruciore o di peso, generalmente retrosternale, talora irradiata verso il giu-gulo, la mandibola, le spalle, le braccia, i polsi. Più raramente interessa il precordio, l'emitorace destro, l'epigastrio.
La sintomatologia insorge durante uno sforzo fisico, specie se eseguito al freddo. Altre occasioni di insorgenza del dolore sono, come si è detto prima, il rapporto sessuale, un'emozione, un pasto abbondante. Il momento di com­parsa del dolore è definito soglia all'angina e può essere ricavato dal racconto del paziente. In tal modo si ottiene un primo giudizio sull'entità e gravità della malattia. Usuale è ricorrere alla classificazione secondo l'Associazione Cardiovascolare Canadese (Tabella 13).
Bisogna sottolineare che la sintomatologia insorge gradualmente e in genere aumenta, associata a malessere generale, e, se compare durante un'attività fisica, costringe il paziente a fermarsi. Con il cessare delle condizioni che l'hanno scatenata, la sintomatologia regredisce e scompare. La stretta relazio­ne fra una causa scatenante, la comparsa e la scomparsa dei sintomi è importantissima per porre il sospetto diagnostico. I nitrati assunti per via sub­linguale possono far rapidamente scomparire il dolore d'origine coronarica, o, se assunti prima di compiere uno sforzo fisico che usualmente lo induce, sono in grado di prevenirlo, ma questa risposta, che pure è spesso considerata utile i fini diagnostici deve essere considerata molto criticamente. Infatti i nitrati hanno una potente azione rilassante la muscolatura liscia e pertanto possono essere in grado di contrastare anche dolori di altra origine.
 

 

 


Attenzione:        Sono molte le condizioni in grado di simulare un dolore anginoso,
come ad esempio uno spasmo esofageo oppure una esofagite da reflusso in un paziente con ernia dello hiatus; una pericardite o una pleurite; un dolore originato a livello della parete toracica dalle strut­ture osteo-articolari, nervose o muscolari; un aneurisma dissecante dell'aorta.
Come sempre, il sospetto clinico di avere di fronte un paziente affetto da angina pectoris andrà confermato da una indagine strumentale che confermi l'origine coronarica del dolore.


Nella procedura diagnostica è sempre importante aver ben presente il teore­ma di Bayes che avverte che il valore predittivo di un sintomo o di un test diagnostico è correlato non solo alla loro sensibilità e specificità ma anche alla probabilità "a priori" della presenza della malattia nella popolazione in esame. Pertanto prima di giudicare il valore di un sintomo o del risultato di un test diagnostico che suggeriscono la diagnosi di angina pectoris è necessario sempre domandarsi quante probabilità ha il paziente che si esamina di essere affetto da questa malattia. Se la prevalenza della malattia è bassa (per esempio donne di giovane età) deve essere sempre tenuta presente l'eventualità che la sintomatologia o un test positivo rappre­sentino dei "falsi positivi". Al contrario in un uomo di età media, con dolore molto tipico che insorge durante sforzo e che presenti fattori di rischio coro­narico, la probabilità di malattia è già molto alta e, se un test strumentale darà risposte negative, sarà possibile che si tratti di "falsi negativi".


11.3.1.2   Diagnosi strumentale
Il test da sforzo rappresenta la metodica più semplice, più affidabile e sicura per confermare la diagnosi e, come vedremo successivamente, permette anche di ottenere informazioni sulla severità della malattia, sulla prognosi e infine consente di valutare l'efficacia di un trattamento. La prova da sforzo riproduce, in laboratorio, le condizioni che scatenano, nel soggetto ammalato, l'attacco ischemico: lo sforzo muscolare aumenta progres­sivamente il consumo miocardico di ossigeno fino a fargli raggiungere la soglia ischemica. A questo punto il paziente può accusare il dolore (ed è in genere un dolore che è sovrapponibile a quello che avverte nella sua vita abituale). Inoltre, a quel momento è possibile osservare, con un sensore adatto, le altera­zioni prodotte dall'ischemia. I sensori usati sono l'elettrocardiogramma, l'eco-cardiogramma e i radionuclidi, e permettono di evidenziare le alterazioni pro­dotte dall'ischemia sull'elettrogenesi del miocardio, sull'efficienza meccanica del muscolo cardiaco, sulla perfusione del muscolo e sul suo metabolismo. Il test da sforzo più usato è quello che viene eseguito su una bicicletta ergo-metrica (provvista di resistenze variabili, modificando le quali è quindi possibi­le modulare la quantità dello sforzo), mentre il paziente è collegato a un elet­trocardiografo. Il paziente, in posizione supina o seduta come su una comune bicicletta, viene quindi invitato a pedalare mentre, nello stesso tempo, viene registrato il suo elettrocardiogramma. Il carico di lavoro (espresso in watt x minuti) viene aumentato ogni 2-3 minuti, a seconda dei protocolli, fino a un massimo (prova massimale) che viene determinato per ogni singolo soggetto in base alla massima frequenza cardiaca raggiungibile per età, sesso e peso corporeo. Lo sforzo può essere interrotto precocemente per esaurimento muscolare, per dispnea, per eccessivo aumento o riduzione della pressione arteriosa, per aritmie minacciose o per la comparsa di segni ECG di ischemia e/o dolore anginoso. Un test da sforzo viene definito positivo quando compaiono angor tipico e/o uno spostamento del tratto S-T dalla linea isoelettrica. Un tappeto rotante sul quale il paziente cammina a velocità e con pendenza graduabile, può sostituire la bicicletta ergometrica. Se un test risulta negativo ma è stato interrotto prima del raggiungimento di una frequenza cardiaca massimale (la prova cioè è sottomassimale), il risultato non può essere considerato diagnostico per assenza di ischemia inducibile. Se il test è positivo, sarà importante il calcolo dei minuti per i quali il pazien­te ha pedalato (tempo di esercizio), il carico raggiunto, l'entità del sottoslivel-lamento di ST al picco della prova e, sempre al picco della prova, il doppio prodotto: questo parametro è il prodotto della pressione arteriosa sistolica e della frequenza cardiaca (mmHg x min) e rappresenta un grossolano e indi­retto indice di quanto ossigeno in quel momento stava consumando il mio­cardio. Il test può quindi confermare la diagnosi (test positivo), ma anche suggerire la gravità della malattia (scarsa tolleranza all'esercizio con breve durata dello sforzo, basso doppio prodotto alla soglia ischemica o all'angina, una frequenza cardiaca ancora bassa al momento dell'ischemia o angina, uno scarso incremento o, peggio, una riduzione della pressione arteriosa durante lo sforzo, costituiscono criteri di gravità).


Altre metodiche diagnostiche sono i test di immagine.
Costituiscono o un'alternativa alla prova da sforzo tradizionale quando questa, per vari motivi, non possa essere utilizzata, oppure si aggiungono al test da sforzo quando il risultato di questo è dubbio o, infine quando, pur essendo la diagnosi di ischemia inducibile già raggiunta, si ritengano necessarie ulteriori informazioni quali, ad esempio, la sede e l'estensione dell'ischemia miocardica.
I test più usati sono lo studio della perfusione miocardica e l'eco-stress. Per lo studio della perfusione miocardica si usa un radioisotopo, il Tallio marcato con Iodio 131, che ha la caratteristica di diffondere nelle cellule sane insieme con il sangue. Il Tallio viene iniettato all'acme di un test da sforzo (svolto nel modo usuale) e la concentrazione del tracciante nelle varie zone del miocardio viene letta con una gamma camera sia all'acme dello sforzo che dopo alcune ore, in condizioni di riposo. Al massimo dello sforzo le zone miocardiche nelle quali il flusso di sangue non è aumentato appari­ranno meno perfuse e quindi con una radioattività minore rispetto alle zone nelle quali la perfusione miocardica ha avuto il corretto incremento. I difetti di perfusione potranno essere presenti durante sforzo, ma la differenza rispetto alle altre zone scomparirà nelle immagini a riposo (difetto di perfu­sione reversibile, indicativo di una condizione di ischemia durante sforzo e quindi di stenosi a carico del vaso coronarico che irrora la zona diventata ipoperfusa); oppure l'ipoperfusione resterà presente anche nelle immagini a riposo (difetto irreversibile, indicativo di necrosi miocardica). L'eco-stress sfrutta l'alterazione meccanica della fibrocellula miocardica che si accompagna alla comparsa di ischemia miocardica. L'ecocardiogramma permette di rilevare i movimenti sisto-diastolici della parete miocardica sia in condizioni di riposo che in condizioni di aumentato lavoro del cuore (attra­verso uno sforzo fisico, oppure dopo la somministrazione di un farmaco che aumenti la pressione arteriosa, come la dobutamina). In risposta all'iniezione di dobutamina (l'eco-dobutamina rappresenta l'eco-stress più comunemente usato) il cuore aumenta la sua contrattilità e la sua cinesi, ma ciò non si veri­fica a carico di segmenti di parete che diventano ischemici in condizioni di aumentato lavoro e che quindi riducono il loro movimento (diventano ipoci­netici) o, addirittura, si fermano (acinetici).
La monitorizzazione ECG con il metodo di Holter può essere utile in pazienti nei quali sia stata già raggiunta la diagnosi di angina pectoris per evidenziare la presenza di episodi di ischemia miocardica silente nella vita di tutti i giorni. Può essere utile quindi nel valutare il cosiddetto carico ischemi-co totale (numero complessivo di episodi ischemici silenti e non nelle 24 ore) e nel valutare l'efficacia della terapia.
La coronarografìa non rappresenta un metodo di prima scelta nella diagno­si di angina pectoris. Certamente è questa l'unica indagine che permetta di valutare, in vivo, la sede, l'estensione e la gravità della malattia coronarica ed è quindi indispensabile sia nella stratificazione prognostica dei pazienti che nella decisione terapeutica. Da questo punto di vista l'esame angiografico delle coronarie potrebbe essere un complemento diagnostico utile in tutti i pazienti con accertata angina pectoris. Ragioni di disponibilità diagnostiche e di costi limitano in ogni caso questo esame ai pazienti i quali siano stati già etichettati a rischio con i test non invasivi e nei quali si ritiene necessario un intervento di rivascolarizzazione miocardica.


11.3.1.3   Prognosi
L'angina cronica stabile ha in genere una buona prognosi, con una incidenza di eventi coronarici molto bassa per anno (mortalità 1.5-2%, infarto miocardico non fatale 1%).
Attenzione        La prognosi peggiora con l'aumentare della classe funzionale, è più
severa nei pazienti più anziani, in quelli che hanno già avuto un infarto, in quelli che hanno una depressa funzione ventricolare sini­stra, che sono ipertesi, che continuano a fumare.
Segni strumentali di cattiva prognosi sono un test da sforzo positivo con comparsa di angina e di segni di ischemia a basso carico di lavoro e a basso doppio prodotto. Per quanto riguarda gli altri test diagnostici una scintigrafia miocardica indicherà un maggior rischio quanto più numerosi, estesi e severi sono i difetti reversibili, mentre un eco-stress selezionerà i pazienti con pro­gnosi peggiore tra quelli che mostreranno più vaste e gravi alterazioni della cinesi ventricolare alle più basse dosi di dobutamina.
Infine la coronarografia indica, in assoluto, una cattiva prognosi nei pazienti che mostrano una lesione ostruttiva sul tronco comune della coronaria sini­stra e in quelli che sono affetti da una malattia stenosante tutti e tre i mag­giori assi coronarici, associata a depressa funzione ventricolare sinistra (per esempio frazione di eiezione inferiore al 40%).

 

11.3.1.4   Terapia
Il trattamento dell'angina cronica stabile deve cercare di migliorare la tolle­ranza all'esercizio fisico, e quindi migliorare la qualità della vita abolendo o riducendo gli episodi di dolore. Dovrebbe anche porsi l'obbiettivo di ridurre, nel lungo termine, gli eventi coronarici più gravi e quindi di allungare la sopravvivenza.
Il primo obiettivo si ottiene in genere con l'uso di farmaci capaci di evitare, con vario meccanismo d'azione, la comparsa di ischemia miocardica. I nitrati agiscono dilatando il distretto venoso sistemico e riducendo così il volume di sangue che ritorna al cuore (pre-carico) e di conseguenza riduco­no il volume di riempimento ventricolare sinistro, il lavoro del cuore e quin­di il consumo miocardico di ossigeno. Come effetto minore esplicano anche una dilatazione sulle arterie e, in particolare, sui vasi coronarici epicardici: possono quindi anche ridurre la pressione arteriosa (post-carico), contri­buendo ulteriormente alla riduzione del consumo di ossigeno del cuore, e aumentare il flusso coronarico.

I nitrati possono essere somministrati per via sub-linguale e in tale forma sono i farmaci di prima sceita nel trattamento acuto dell'attacco anginoso. Hanno, come principale effetto collaterale, l'insorgere di cefalea che talora obbliga a sospendere  il trattamento.
I beta-bloccanti agiscono bloccando la stimolazione simpatica sul cuore e sui vasi: riducono pertanto la frequenza cardiaca, la contrattilità e la pressione arteriosa, complessivamente riducendo il consumo miocardico di ossigeno. Sono quindi eccellenti farmaci nel trattamento cronico dell'angina pectoris. Poiché deprimono la contrattilità, il loro impiego è limitato quando la funzio­ne ventricolare è già depressa; possono inoltre essere controindicati nelle aritmie bradicardiche e sono da evitare nei pazienti con sindromi di bronco­spasmo, perché deprimendo i recettori beta, esaltano l'azione delle amine sui recettori alfa con conseguente più facile bronco-costrizione. I Calcio-antagonisti rappresentano il terzo grande gruppo dei farmaci anti-ischemici. Possono essere suddivisi in due grossi gruppi: i diidropiridinici, il cui capostipite è la nifedipina e non diidropiridinici, di cui fanno parte il dil-tiazem e il verapamil. I Calcio-antagonisti sono potenti vasodilatatori arterio­si, e, il diltiazem e il verapamil all'azione sui vasi arteriosi aggiungono anche un'azione bradicardizzante e una di depressione della contrattilità. Diltiazem e verapamil possono rappresentare una valida alternativa ai beta-bloccanti. I diidropiridinici, che hanno la più potente azione di vasodilatazio­ne arteriosa con marcata riduzione del post-carico e aumento del flusso coronarico, trovano il loro principale punto di impiego soprattutto nei pazienti anginosi nei quali la vasocostrizione giochi un ruolo importante nel produrre ischemia, nei pazienti anginosi e ipertesi. Sono frequentemente somministrati in associazione ai beta-bloccanti.
E' documentato che l'aggiunta alla terapia dei pazienti con angina stabile di acido acetilsalicilico (aspirina) migliora la prognosi e pertanto questo far­maco deve essere unito alla terapia di base, a meno di controindicazioni. Fondamentale è la correzione dei fattori di rischio coronarico che con­corrono alla progressione e all'eventuale instabilizzazione della malattia atero-sclerotica. E' quindi necessario che in ogni paziente sia attentamente control­lata l'eventuale dislipidemia (correggendo con la dieta o, se questa misura da sola è insufficiente anche con farmaci, la ipercolesterolemia), l'eventuale ipertensione arteriosa. Deve essere inoltre severamente proibito il fumo.

 

Rivascolarizzazione miocardica: consiste in procedure, chirurgiche e non chirurgiche, che permettono di far affluire più sangue a zone miocardiche male irrorate perché servite da vasi coronarici ammalati e stenotici.
La chirurgia si avvale della metodica di by pass coronarico, che consiste nell'inserire un "ponte" vascolare fra la zona a monte della stenosi e la zona a valle. Può essere realizzato con un segmento di vena safena prelevato dalla gamba, inserendo poi il capo prossimale sull'aorta e il capo distale sulla coronaria ammalata a valle della stenosi. Oggi, soprattutto nelle lesioni che riguardano l'arteria coronaria sinistra e, in particolar modo, la discendente anteriore, si usa collegare a valle del tratto stenotico il capo terminale dell'arteria mammaria interna di sinistra, il cui capo prossimale resta integro e fisiologicamente collegato all'arteria succlavia da cui prende origine. Il by pass arterioso ha una più lunga pervietà con una bassa incidenza di occlu­sioni, mentre quello venoso può andare incontro a processi degenerativi e a occlusioni, con una percentuale di pervietà a lungo termine significativamen­te più bassa.
L'angioplastica coronarica è una procedura non chirurgica che si esegue dilatando il vaso coronarico nel suo tratto stenotico mediante il gonfiaggio di un palloncino posto in cima a un catetere, che viene inserito in un'arteria periferica (l'arteria femorale) e guidato con controllo radioscopico, per via retrograda fino al bulbo aortico, poi nell'ostio della coronaria ammalata e fino a raggiungere il tratto da dilatare, posizionando il palloncino a livello della stenosi e quindi gonfiando. Il tallone d'Achille dell'angioplastica è l'alta percentuale di ristenosi (circa il 30% delle lesioni dilatate diventano nuova­mente stenotiche entro 1-3 mesi). La possibilità di posizionare una protesi metallica cilindrica (stent) nel tratto appena dilatato ha oggi ridotto di molto la percentuale di ristenosi e aumentato notevolmente la percentuale di suc­cesso a medio e lungo termine della procedura.
Una rivascolarizzazione miocardica è indicata quando, malgrado una terapia medica ottimale, il paziente continua ad avere episodi di dolore angi­noso, oppure quando è presente una malattia coronarica grave e che presup­pone una prognosi molto sfavorevole (ad esempio una malattia del tronco comune della coronaria sinistra o una malattia su più vasi coronarici associa­ta a una funzione ventricolare sinistra depressa). Esistono poi delle situazioni di rischio intermedio, segnalate dai test diagnostici o alla coronarografia (ad esempio una soglia ischemica molto bassa al test da sforzo, un eco-stress positivo con basse dosi di dobutamina e grande estensione delle discinesie indotte, un gran numero e una grande estensione di difetti di perfusione reversibili alla scintigrafia, una stenosi molto critica e prossimale sull'arteria discendente anteriore) nelle quali la rivascolarizzazione miocardica pur non essendo obbligatoria, è spesso raccomandata o comunque viene presa in considerazione nel singolo paziente.
La rivascolarizzazione chirurgica è infine obbligatoria nei pazienti con malat­tia del tronco comune della coronaria sinistra e decisamente preferita nei pazienti con coronaropatia diffusa su più vasi, con una funzione ventricolare sinistra depressa. L'angioplastica rappresenta quasi sempre la metodica di scelta nei pazienti con malattia di uno-due vasi e con funzione di pompa conservata.
Letture consigliate

  1. Linee Guida sull'Angina Cronica Stabile. In: Linee Guida Cliniche, Standard e VRQ dei Laboratori Diagnostici in Cardiologia di SIC e ANMCO, Cepi-Piccin Ed., Firenze, 1997 (in stampa).
  2. Ellestad MH and Startt Selvester RH. Stress Testing. Principles and practice, Davis A Pubi., Philadelphia, 1996.
  3. Specchia G ancl Ghio S. Pathophysiology, Clinical Presentation and Prognosis of Angina pectoris. In: Ardissino D, Opie LH, Savonitto S. Drug Evaluation in Angina Pectoris. Kluwer Academic Pubi., 1994; 3-11.

 

Autore: Giuseppe Specchia

Fonte: http://medicinapavia.altervista.org/Specchia/Angina%20cronica%20stabile.doc

Link: sito web: http://medicinapavia.altervista.org


 

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