Storia della chiesa

 


 

Storia della chiesa

 

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Storia della chiesa

STORIA DELLA CHIESA
SECOLI VI-XIII

INTRODUZIONE

UNA STORIA PER PERIODI
Se si pensa anche solo per un momento quanto vasta e complessa sia la vicenda della Chiesa, distesa su ben venti secoli, costruitasi nel tempo e nello spazio in una molteplicità di luoghi, strutture, istituzioni di ogni genere, entrata in rapporto con le più diverse popolazioni ed entità politiche, sociali, culturali, ci si può ben rendere conto della difficoltà di abbracciarne sinteticamente l’insieme, di raccontare e di scrivere una “storia” della Chiesa.
È per questo che, fin dall’antichità, chiunque ne scriva ricorre a quella che si chiama una “periodizzazione”, ossia la distingue in epoche diverse e limitate, ognuna delle quali caratterizzata da uno o più elementi unitari e di continuità, tali da individuare appunto un’ “epoca” particolare e da distinguerla da altre, precedenti o successive. Certo, organizzare una storia in epoche significa già interpretarla, e ciò è indubbiamente rischioso perché si corre il pericolo di sovrapporre alla realtà uno schema mentale. D’altra parte, non potendo la mente abbracciare d’un sol colpo tutta la storia – ma neppure la giornata di ieri, qualora la si voglia raccontare a qualcuno – è necessario suddividerla. Infine, come tutte le interpretazioni, quelle che si danno nel periodizzare, oltre ad essere inevitabili, non costituiscono solo un limite, ma aiutano ad evidenziare quegli aspetti diversi della realtà storica, coglibile appunto solo nella misura in cui la si interpreta.

LA PERIODIZZAZIONE TRADIZIONALE
La storia della Chiesa viene organizzata in quattro grandi periodi, con una suddivisione dei venti secoli finora passati all’incirca in questo modo:

  • EPOCA ANTICA, dal I al IV secolo. Corrisponde, essenzialmente, al suo nascere e al suo crescere in una situazione storica che è già costituita: quella del mondo mediterraneo unificato dalla cultura greca e dalla struttura politica dell’Impero romano. Al crollo di questa unità politico-culturale, cambia evidentemente la situazione e si passa all’epoca comunemente detta medievale. Allo sfasciarsi del mondo greco-romano, è la Chiesa stessa a costituire una nuova sintesi politico-culturale, favorendo, tramite l’evangelizzazione, l’ingresso dei popoli barbari nell’Impero e assumendo, prima di fatto e poi di diritto, la guida della nuova civiltà venutasi a creare.
  • EPOCA MEDIEVALE, dal VI al XIV. Il mondo medievale, giunto al suo culmine nel XII secolo con la teocrazia papale, ossia con la guida universale del mondo affidata all’autorità della Chiesa, comincia poi a frantumarsi sia geograficamente (dall’Europa continentale ci si apre alle terre oltreoceano), sia politicamente (dall’Impero unitario si passa agli Stati nazionali), sia culturalmente (dalla visione cristiana che ingloba tutte le branche del conoscere si distacca la scienza fondata sulla conoscenza razionale), sia religiosamente (con il distinguersi delle numerose Chiese riformate). Si crea una situazione di distacco e di reciproca polemica tra società e Chiesa, con il costituirsi di due realtà:
  • Il “mondo” laico, da un lato,
  • La compagine ecclesiastica dall’altro. È quella che viene chiamata epoca moderna.
  • EPOCA MODERNA, dal secolo XV al XVIII. È chiamata così precisamente perché caratterizzata dalla novità (modo in latino significa “adesso”) rispetto alla situazione precedente. Diciamo che si è certamente avviata un’epoca successiva a quella moderna, che sentiamo ormai come finita; tuttavia essa rimane ancora per noi difficilmente definibile e la chiamiamo, pertanto, ancora oggi, semplicemente “contemporanea”.
  • EPOCA CONTEMPORANEA, corrispondente ai secoli IX e XX. È un’epoca che sembra caratterizzarsi per il desiderio di una reciproca “comprensione” tra la Chiesa e il mondo.

Si avvia un dialogo che, come tale, implica ancora (e necessariamente) la dualità, ma tende a    superare, anche relativizzandone l’importanza, la rottura verificatasi durante i secoli dell’epoca moderna.
Questi quattro grandi periodi possono essere individuati grazie ad un insieme di elementi spaziali, temporali, sociali, culturali, che costituiscono una certa “unità” compresa tra due “crisi” che preparano il passaggio dall’una all’altra. Naturalmente, i nomi con cui si indicano queste epoche sono convenzionali e, come tali, inadeguati, tuttavia sono ormai insostituibili, in quanto entrati nell’uso comune.

IL VANTAGGIO DI STUDIARE LA STORIA DELLA CHIESA
Il senso di disagio che proviamo nell’accostarci ad un passato, anche al passato della Chiesa e, d’altra parte, il fascino che ci attrae ad esso, dipendono dal fatto che comunque il passato è altro dalla nostra realtà attuale.
Ora, in una corretta visione umana e, soprattutto, nel supremo modello cristiano costituito dall’essere trinitario di Dio, l’alterità è ricchezza, è dono. Questa ricchezza può essere raccolta, fatta propria e sviluppata nel dialogo. La storia della Chiesa non è un perditempo né, tantomeno, un comodo rifugio, se la consideriamo come un dialogo con una Chiesa che vive in situazioni diverse dalla nostra e tuttavia simili proprio nello sforzo di individuare e attuare la missione originaria affidataci da Cristo.
In tale prospettiva, la storia della Chiesa si presenta come uno straordinario accumulo di esperienze, di cui sarebbe sciocco non far tesoro. Pensiamo alle numerose, diverse possibilità, verificatesi nel passato, di attuare l’esperienza cristiana: la vita religiosa, nelle sue molteplici configurazioni, la carità nella ricchezza della sua inventiva, la pratica pastorale nella varietà del suo realizzarsi, e così via. Ricordiamo le molteplici spiritualità che si sono prodotte nei diversi tempi e luoghi, in rispondenza a culture e situazioni diverse; gli innumerevoli testi di riflessione sulla vita di grazia, di commento alla Scrittura, di approfondimento della fede, di celebrazione della novità cristiana, di proposte per l’organizzazione e l’azione della Chiesa. Non dimentichiamo, infine, la preziosità degli errori, utili soprattutto per mantenere viva la coscienza dei nostri limiti – anche di quelli della Chiesa – e, soprattutto, per studiare i meccanismi di deviazione che possono rovesciare le migliori intenzioni in esiti contraddittori e controproducenti.
La storia della Chiesa diventa, fra l’altro, strumento di sana relativizzazione, nel senso che ci aiuta ad isolare ciò che è veramente essenziale, senza assolutizzare quelle che sono, invece, realtà transitorie e secondarie.
Grazie alla storia, percepiamo l’esatta proporzione delle cose, evitiamo di considerare “tradizione” quello che è nato l’altro ieri e che nel corso del tempo è cambiato più di una volta; sdrammatizziamo molte inquietudini suscitate fatalmente in noi dall’apparizione di idee e forme nuove.
La storia ridimensiona anche le visuali troppo idealiste, documentando il peso fortissimo delle condizioni storiche. Si può vedere ad esempio nel passato come una posizione che inizialmente appare innovatrice, conduca poi, quasi inesorabilmente, ad un esito conservatore; e, viceversa, come posizioni inizialmente di irrigidimento conducano poi ad aperture nuove. Questo perché la storia è una realtà composita, ed è fatta di persone libere che, singolarmente o in gruppo, interagiscono in modo spesso imprevedibile; per cui una scelta di oggi può produrre domani esiti diversi a seconda delle condizioni storiche in cui si colloca; d’altra parte, se ci si vuole mantenere coerenti alla linea scelta, non c’è altro modo che quello di adeguarla continuamente all’evolversi delle condizioni storiche.
La storia della Chiesa, insomma, insegna a tener conto della dimensione storica che, se è inscindibile da ogni realtà terrena, lo è ancor più dalla Chiesa, sia per la sua ineliminabile componente umana, sia per la sua fede in Dio che, facendosi uomo, ha voluto condividere la nostra vicenda terrena.
Il motivo per cui, spesso, la storia, anche quella della Chiesa, sembra non insegnare proprio nulla è che la storia è irripetibile, fatta di complesse contingenze e di libere decisioni. Ma è proprio questo il più grande insegnamento che se ne può ricavare: quello di avere rispetto, e di porre adeguata attenzione a quel mutare dei tempi e moltiplicarsi di luoghi, a quell’inesauribile variare delle persone e delle situazioni, a quel continuo e tuttavia irripetibile vivere e morire, amare e soffrire, che fa la storia, di ciascuno e dell’intera umanità.

 

IL MEDIOEVO
Nozione,origine, caratteristiche, durata.

Ogni tentativo di periodizzare la storia appare discutibile. La denominazione stessa di “medioevo” per caratterizzare il periodo che va dal 500 al 1500 circa appare infelice e priva di reale contenuto. Nel mondo antico la Chiesa aveva acquisito pian piano diritto di cittadinanza, ma il mondo medioevale fu creato da lei (in collaborazione con altri fattori). Quale epoca plasmata dalla Chiesa, il medioevo ha perciò fama di aver realizzato grandi cose, ma è anche accusato di essere caratterizzato da uno stretto legame tra Chiesa e “Stato” (nella misura in cui questo già esisteva), fra spirituale e mondano, fra “imperium” e “sacerdotium”.
La storia della Chiesa deve astenersi da giudizi sommari che non rendono giustizia alla realtà.
Non appare facile delimitare cronologicamente questo periodo storico. L’unico e vero legame tra l’antichità e il medioevo fu costituito dalla Chiesa cattolica e solo quando venne conclusa un’alleanza fra la cristianità cattolica e il germanesimo fu creata una delle basi essenziali per la formazione di quella comunità di popoli di cultura occidentale che caratterizzò il medioevo. Di primaria importanza si rivelò il BATTESIMO CATTOLICO DI CLODOVEO, RE DEI FRANCHI (496).
Difficile è anche stabilire chiaramente quando ebbe fine il medioevo. Forse si potrà considerare la frattura della fede – avvenuta nel XVI secolo – come una delimitazione essenziale.

L’evoluzione storica del medioevo si basa sulla triade

  • Antichità
  • Cristianesimo
  • Germanesimo. Il teatro della storia della Chiesa si sposta dall’area mediterranea verso il nord: ENTRANO NELLA CHIESA I GIOVANI POPOLI GERMANICI. È bene guardarsi dall’errore di presentare i Germani come popoli “selvaggi”. Però questi appartenevano ad una cultura diversa. Una discordanza così profonda non poteva non ripercuotersi sulla vita della Chiesa e sull’intero sviluppo culturale del medioevo.

Nella I epoca (500–700) l’INCONTRO TRA LE DUE CIVILTA’ fu del tutto SUPERFICIALE e avvenne grazie all’attività missionaria. Molto tempo dovette passare prima che i battesimi collettivi apportassero un vero miglioramento interiore e la misera catechesi che li preparava o li seguiva favorì nei battezzati l’impressione che l’essersi convertiti al cristianesimo non implicasse affatto abbandonare il vecchio stile di vita.

Solo con la II epoca (700–1046) si giunse ad una COMPENETRAZIONE PIU’ PROFONDA dopo che i monaci anglosassoni ebbero preparato il terreno con una seconda ondata missionaria. In un primo momento vecchie abitudini germaniche continuarono a dominare gli animi. Gradualmente si poté giungere a sopprimerle. FURONO CONSERVATE ALCUNE STRUTTURE ORIGINARIE DELLA VITA GERMANICA nei modi che seguono:

  • LA CHIESA ACQUISISCE anche UNA STRUTTURA AGRARIA (benefici ecclesiastici, suddivisione della parrocchia nelle campagne).
  • LA CONCEZIONE GERMANICA DEL DIRITTO DEL PROPRIETARIO SUL POSSESSO TERRIERO HA RIPERCUSSIONI SUGLI AFFARI INTERNI DELLA CHIESA (tributi, redditi da donazione, amministrazione dei sacramenti, cura d’anime…) E IL VESCOVO NON AVEVA ALCUNA AUTORITA’ (“CHIESE PROPRIE”).
  • LA RIGOROSA DIVISIONE IN CLASSI SOCIALI, vigente nel mondo germanico,  TROVA ACCOGLIENZA anche NELLA CHIESA (ALTO E BASSO CLERO).
  • L’INCLINAZIONE GERMANICA ALLA LOTTA FAVORISCE il movimento delle CROCIATE.
  • LA REGALITA’ GERMANICA, AVVOLTA DA UNO SPLENDORE SACRALE E MISTICO, CONTINUA A SUSSISTERE CON I RE CRISTIANI (PIPINO, CARLO MAGNO, OTTONE IL GRANDE).
  • QUESTA CONCEZIONE PORTA ALLA “CHIESA TERRITORIALE” AL CUI VERTICE STA IL RE. ANCHE GLI IMPERATORI ELEGGONO E DESTITUISCONO VESCOVI, DISPONENDO LIBERAMENTE DEL COSIDDETTO “PATRIMONIO ECCLESIASTICO”
  • LA LOTTA CONTRO L’INVESTITURA LAICALE E LA SIMONIA DIVENTA PRESTO IL GRIDO DI GUERRA DEI RIFORMATORI.

Si entra così nella III epoca (1046–1300) che vide la REAZIONE DECISA DELLA CHIESA. Tutta l’epoca è caratterizzata dalla LOTTA TRA IMPERO E PAPATO. PUNTE MASSIME DEL CONFLITTO: ENRICO IV CONTRO GREGORIO VII, BARBAROSSA CONTRO ALESSANDRO III E FEDERICO II CONTRO INNOCENZO III.
Intorno al 1300 il massimo punto di sviluppo è ormai raggiunto. Bonifacio VIII riassume ancora una volta tutte le pretese di dominio della Chiesa nella BOLLA “UNAM SANCTAM, ma ormai il papa non è più in grado di esercitare la sua supremazia sul re francese Filippo il Bello e la sua politica è destinata a fallire.

Inizia così la IV epoca (1300–1500) che vede la  DISGREGAZIONE DELLA COMUNITA’ DEI POPOLI D’OCCIDENTE. MOLTE FORZE SONO GIA’ ALL’OPERA PER FAVORIRE QUESTO PROCESSO:

  • I NASCENTI STATI NAZIONALI
  • LA CULTURA INIZIA A DIFFERENZIARSI (L’INDIVIDUALISMO PORTA ALLA DEVOTIO MODERNA)
  • IL LAICATO SI SOTTRAE SEMPRE PIU’ AL GOVERNO DEL CLERO.
  • LA TENSIONE ESISTENTE TRA IL PRIMATO PAPALE E IL COLLEGIO EPISCOPALE (CONCILIARISMO).
  • LA FILOSOFIA E LA TEOLOGIA SCUOTONO CON IL LORO SCETTICISMO LA CHIUSA VISIONE DEL MONDO MEDIEVALE.
  • L’INTERO ATTEGGIAMENTO SPIRITUALE DELL’UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO CHE MINANO ALLA BASE LA COSCIENZA UNITARIA DEL MEDIOEVO.
  • LA RIFORMA PROTESTANTE, INFINE, RAPPRESENTA LA FASE ESTREMA DI QUESTA EVOLUZIONE STORICA. L’OCCIDENTE PERDE IL LEGAME SPIRITUALE.
  •  
  • RIASSUMENDO:
  • INTERVENTO DI ENRICO III NELLA CONFUSA SITUAZIONE ROMANA DEL 1046 CHIUDE L’ALTO MEDIOEVO CONTRADDISTINTO DALLA MISSIONE, DAL RAPPORTO DELLA CHIESA COL REGNO DEI FRANCHI E CON L’IMPERO
  • L’ELEZIONE DI GREGORIO X NEL 1271 CHIUDE IL BASSO MEDIOEVO, CONTRADDISTINTO DALLA RIFORMA DELLA CHIESA E DALLE SUE CONSEGUENZE.
  • TARDO MEDIOEVO, CARATTERIZZATO DAL DISSIDIO FRA ESIGENZE ECCLESIALI E UN MONDO MUTATO (LAICALE).

TRATTI DISTINTIVI ESSENZIALI CARATTERIZZANTI IL MEDIOEVO:

  • LA COMUNITA’ OCCIDENTALE DEI POPOLI AFFONDAVA LE SUE RADICI SUL RICONOSCIMENTO GENERALE DEL LEGAME RELIGIOSO E METAFISICO DI TUTTI GLI UOMINI A DIO. ESISTEVA UN’UNICA VERITA’, UNA SUPREMA NORMA ETICA, UNA SOLA AUTORITA’ MORALE SULLA TERRA – LA CHIESA ALLA QUALE TUTTI SI PIEGAVANO. C’ERANO PECCATORI ED ERETICI MA ERANO RESI INNOCUI. L’UNITA’ ERA INTANGIBILE E INSOSTITUIBILE..
  • LA VITA INTERIORE DI QUESTA COMUNITA’ DIPENDEVA DALLA SIMBIOSI ESISTENTE FRA CHIESA E STATO (ELLISSE CON I DUE FUOCHI, PAPATO E IMPERO). A DIFFERENZA DEL CENTRALISMO ORIENTALE BIZANTINO (TUTTO IL MONDO INCENTRATO SULL’IMPERATORE) L’OCCIDENTE SI FONDO’ STABILMENTE SUL DUALISMO DI POTERI. QUESTO PORTO’ AL CONDIZIONAMENTO RECIPROCO DELLE DUE POTENZE.
  • LA DIVISIONE IN CLASSI DELLA VITA PUBBLICA ERA CONSIDERATA RISPONDENTE PIENAMENTE ALL’ORDINE VOLUTO DA DIO SULLA TERRA
  • LA CHIESA DETENNE INCONTESTABILMENTE FINO AL XIII SECOLO IL MONOPOLIO CULTURALE.

 

L’AZIONE MISSIONARIA EDUCATIVA
svolta dalla Chiesa nella conversione dei nuovi popoli dell’Europa

1. LA CONVERSIONE DI CLODOVEO E DEI FRANCHI SULLO SCORCIO DEL V SECOLO SEGNO’ LA VITTORIA DELLA CHIESA CATTOLICA TRA I GERMANI IN MODO DEFINITIVO. Vescovi di antiche città romane, missionari di origine iroscozzesi e anglosassone svolsero la loro attività in mezzo a quei popoli con dedizione disinteressata. La stragrande maggioranza dei Germani si è convertita al cristianesimo con una rapidità che sorprende e con spontaneità.. SOLO I SASSONI FURONO COSTRETTI DOPO DURA RESISTENZA AD ACCETTARE IL CRISTIANESIMO DA CARLO MAGNO. La sottomissione e la cristianizzazione dei Sassoni chiuse l’anello dei Germani occidentali nel regno dei Franchi. Con questo avvenimento era posta la condizione necessaria per il lento formarsi di uno Stato tedesco unitario e di una nazione tedesca.

2. I PRIMI CENTRI MISSIONARI FURONO LE ANTICHE CITTA’ EPISCOPALI ROMANE. Eminenti vescovi furono
MARTINO DI TOURS (+397)
LIBORIO DI LE MANS (+397)
SEVERINO DI COLONIA (+INTORNO AL 400)
AVITO DI VIENNE (+518)
REMIGIO DI REIMS(+INTORNO AL 533)
CESARIO DI ARLES (+542)
Fino al VI secolo, in quasi tutti gli episcopati della Gallia e della Germania erano ancora insediati vescovi di provenienza romana. Fu solo alla fine del VII secolo che l’episcopato raggruppò prevalentemente vescovi di origine germanica.

3. IN TUTTI I PAESI D’EUROPA ESERCITARONO UN NOTEVOLE INFLUSSO (PRIME GRANDI CONVERSIONI) I MISSIONARI IROSCOZZESI. Erano monaci provenienti dall’Irlanda. Per l’isola, priva di città, il carattere monastico divenne il tipo stesso dell’intera vita ecclesiale. Gli abati, e non i vescovi, furono le vere guide responsabili della Chiesa irlandese ed ebbero anche potestà di giurisdizione ecclesiastica. L’influenza del monachesimo si fece sentire in modo deciso anche sulla struttura della vita ecclesiastica. Il monastero di ogni stirpe provvedeva alla cura spirituale del clan; i suoi monaci esercitavano l’attività pastorale, tenevano scuole e celebravano il servizio divino per il popolo. Il monaco-sacerdote si identificò in Irlanda con il sacerdote in cura d’anime e i caratteri sacerdotali del suo ministero furono poi trasmessi anche nel continente grazie alla missione iroscozzesi. Il celibato e le ore canoniche – che costituivano le basi stesse della vita comunitaria dei religiosi e che erano tipiche anzitutto di questi monaci-sacerdoti irlandesi – furono in seguito accettate ed imitate da tutti i sacerdoti dell’Occidente. Le pratiche ascetiche della vita monastica si estesero – in questa stessa epoca – anche alla vita sacerdotale e laica, prima di tutto in Irlanda ed in seguito anche nel continente.. La severa disciplina penitenziale e la mortificazione della carne, in uso fra i monaci, furono parimenti imitate. I monaci-sacerdoti, attraverso la loro attività pastorale e spirituale, tramandarono la penitenza privata, segreta e volontaria, e la confessione privata – già praticata nei monasteri – al mondo laico.
Nella pratica penitenziale  del cristianesimo primitivo, il vescovo infliggeva al fedele che aveva dichiarato i suoi peccati gravi – ma questa possibilità era concessa una sola volta nella vita – la penitenza, e lo riammetteva nella comunità ecclesiastica, solo quando fosse scaduto il tempo della penitenza. Con questa riconciliazione veniva concesso anche il perdono dei peccati. La nuova forma della confessione privata, con la confessione dei peccati intimi, comportava invece al tempo stesso anche l’assoluzione. Essa era compiuta dinanzi al sacerdote, a modo di confessione auricolare, poteva essere ripetuta in ogni tempo, e fu richiesta e praticata – come strumento di vita spirituale – anche dal mondo laico.
Nei secoli VI e VII questa pratica si diffuse nell’intero Occidente ed esercitò una grandissima influenza sulla vita di pietà dell’intera Chiesa occidentale. Per dare ai confessori una regola di condotta nell’impartire la penitenza, furono redatti dei libri penitenziali, che consistevano in un catalogo dei peccati principali con allegate le penitenze da imporre.
Il monachesimo irlandese era ricco di entusiastico spirito attivo, che si tradusse in un ardente zelo missionario. Gli zelanti missionari operarono in tutti i paesi d’Europa e la loro missione fu ricca di successi grazie soprattutto al loro esempio e alla loro parola. Di solito, essi si fermavano per poco tempo in un luogo; la loro missione non poté operare molto in profondità come la successiva missione anglosassone, ma non fu inutile.
COLOMBANO il giovane (530-615) fu il più importante, il più attivo e tenace fra questi missionari iroscozzesi. Svolse la sua opera in Bretagna, in Gallia e in Borgogna, nei Vosgi dove fondò i monasteri di Anegrey, Luxeuil e Fontaìne, per i quali dettò anche una severa regola. Dalla Borgogna si recò in Alemannia e si stabilì a Bregenz e, nel 613, si trasferì nell’Italia settentrionale ove fondò l’abbazia di Bobbio (dove morì nel 615). L’influenza di Colombano sulla vita ecclesiastica del regno dei Franchi fu grandissima, soprattutto nel campo della prassi penitenziale e confessionale. Colombano, stabilitosi a Luxeuil, che era il monastero centrale, governava con mano ferma la sua comunità, valendosi per ciascuna dell’autorità di un preposto; fu allora che egli scrisse la sua regola, dandole non tanto carattere di organizzazione completa dell’abbazia e del suo governo quanto, piuttosto, quello di una fervente esortazione alla pietà e all’ascetismo, comprendendovi una serie di penitenze, di fustigazioni frequenti e digiuni a pane ed acqua per i colpevoli; essa contiene pure un ordo particolareggiato per la salmodia.
Le pratiche irlandesi cui il severo maestro rimaneva fedele e particolarmente la celebrazione della Pasqua secondo un computo diverso da quello della Gallia, non meno che l’indipendenza che egli dimostrava verso l’episcopato locale, gli procurarono anche delle difficoltà, che egli d’altronde affrontava anziché fuggire, ma la venerazione universalmente nutrita per le sue virtù diffondeva in tutta la regione l’ascendente di Luxeuil. Tuttavia Brunechilde, di cui aveva urtato la volontà autoritaria con la sua abituale energia, ed il nipote Teodorico, di cui aveva condannato la vita privata nel 610, lo cacciarono da Luxeuil..
LE PEREGRINAZIONI DI COLOMBANO PROVOCARONO UNA INATTESA DIFFUSIONE DEL SUO INFLUSSO E DELL’ISTITUZIONE MONASTICA.

4. I MONACI ANGLOSASSONI ereditarono da quelli irlandesi l’ardente desiderio della “peregrinatio pro Christo” e quell’irresistibile entusiasmo missionario che di lì a poco avrebbe dispiegato la sua massima attività nella cristianizzazione dei Sassoni e dei Frisi, popoli di identica stirpe.
Nel 596 papa Gregorio Magno (590-604) aveva inviato il priore del monastero di S. Andrea, Agostino, insieme con quaranta monaci, in Inghilterra. FU IL PRIMO PAPA CHE INTAVOLO’ UN NUOVO TIPO DI RAPPORTO CON I GERMANI E CHE CERCO’ COSCIENTEMENTE DI ADATTARE I METODI MISSIONARI ALLE CATEGORIE MENTALI DI QUEI POPOLI. Il successo della missione condotta quasi parallelamente da Roma e dalla Chiesa iroscozzesi fu davvero sorprendente.
In questa nuova missione nel continente apparve la differenza che esisteva fra la mentalità anglosassone e quella irlandese. Gli anglosassoni vollero che il papa coordinasse la loro attività e si posero sotto la protezione del re dei Franchi. Cercarono in primo luogo di conquistare le anime dei capi. La “missione dall’alto” poteva avere un senso solo quando il successo fosse assicurato da un’assistenza successiva e da una ben articolata organizzazione e l’unione con il papato universale permise alla missione di diffondersi e di consolidarsi e la preservò dal pericolo di rinchiudersi nel puro ambito di una Chiesa territoriale. Il primo e più importante missionario anglosassone fu VILFRIDO, VESCOVO DI YORK. Ottenne da Roma (678) l’autorizzazione a predicare tra i Frisi. Lo seguì VILLIBRORDO con dodici compagni, dopo aver ottenuto anche lui l’autorizzazione dal papa. In un secondo tempo fu consacrato vescovo e scelse come sede Utrecht e fondò il monastero di Echternach, che divenne centro e sostegno spirituale della missione. Qui Villibrordo morì nel 753. Sotto la sua guida esperta anche Vinfrido Bonifacio iniziò la sua attività missionaria.

VINFRIDO BONIFACIO fu il più grande missionario anglosassone del continente e una delle maggiori figure storiche dell’Occidente, il vero pioniere della comunità cristiana d’Europa. Egli GETTO’ LE BASI DELL’ALLEANZA TRA IL REGNO DEI FRANCHI E IL PAPATO, liberando la Chiesa franca dall’isolamento e riallacciandola a Roma e rese possibile quell’evoluzione storica che, proseguita da Carlo Magno, trovò il suo apice nell’incoronazione a imperatore di quest’ultimo nell’anno 800 e nel ristabilimento dell’impero con Ottone il Grande nel 962. Senza Bonifacio sarebbe impensabile il concetto di impero universale del medioevo.

  • Nasce tra il 672 e il 675 nel regno di Wessex. Nel
  • 716 iniziò la sua attività missionaria in Frisia sotto la guida di Villibrordo.
  • Si recò a Roma per ricevere da papa Gregorio II il mandato missionario. In seguito operò nell’Assia e in Turingia incontrando difficoltà anche per le apparizioni instabili dei missionari iroscozzesi. Era necessaria maggiore autorità; quindi prese per la seconda volta la via di Roma. Qui ottenne da Gregorio II la consacrazione episcopale e le lettere commendatizie per Carlo Martello.
  • Bonifacio riprese la sua missione in Assia con l’appoggio del papa e di Carlo Martello. Per potergli concedere ancora maggiore autorità e favorirlo nella sua opera, papa Gregorio III lo nominò nel 732 arcivescovo senza sede fissa e lo autorizza a consacrare vescovi per le nuove diocesi.
  • Visto che la dignità e l’autorità vescovile non gli erano ancora sufficienti, Bonifacio si recò per la terza volta a Roma nel 737-738 e si fece nominare dal papa nunzio apostolico per la Baviera, l’Alemannia, l’Assia e la Turingia, con l’incarico speciale di dare a quei paesi un’organizzazione ecclesiastica più rigida. A Roma ottenne anche nuovi collaboratori per questa sua opera: erano monaci provenienti dal monastero di Montecassino.
  • Dal 738 al 747 si dedicò esclusivamente all’organizzazione e alla riforma della Chiesa nel regno dei Franchi. La vita religiosa di queste terre era decaduta fortemente, il clero inferiore incolto e sfrenato, l’alto clero ingolfato in attività materiali e mondane e quasi privo di collegamento con la Sede romana. Carlo Martello , respingendo l’attacco degli Arabi in Francia si rese benemerito alla causa cattolica; ma per i diritti della Chiesa e per la sua disciplina ebbe pochi riguardi: nominò vescovi ed abati non badando alla loro canonica idoneità, ma solo a mire politiche e, senza alcun ritegno, dispose dei beni ecclesiastici per scopi profani. Sotto la sua direzione si tennero alcuni sinodi che emanarono salutari provvedimenti, promulgati poi come leggi della Chiesa insieme e dello Stato (“capitularia”). In particolare vi si esortò il clero a condurre una vita conforme ai canoni (proibizione di portare armi, della caccia, del vestito laicale e del concubinato), i membri del clero furono assoggettati alla vigilanza del vescovo, si prescrisse per i monaci la regola di S. Benedetto, si proibirono usanze pagane e superstiziose e la diffusione di dottrine eretiche, si insisté per l’elezione canonica dei vescovi (esclusione dei laici). I regnanti del paese non solo accettarono le idee riformatrici del missionario ma anche la sua diretta unione con Roma. nel
  • 747 durante un sinodo, i vescovi presenti, sotto la guida di Bonifacio, indirizzano un solenne voto di fedeltà al papa. L’alleanza era di fatto conclusa.
  • Gli ultimi ani della sua vita operosa furono pieni di amare delusioni: era il missionario anglosassone straniero. Bonifacio allora si ritirò e scelse come sede metropolitana Magonza e qui, nell’abbazia che gli era più cara, Fulda, continuò la sua missione pastorale e spirituale.  Quando papa Stefano II (752-757), nell’anno 753 o 754, si presentò come postulante nel regno dei Franchi e in  quell’occasione ripeté l’unzione e l’incoronazione di Pipino in tutta solennità, Bonifacio stava proprio per intraprendere il suo ultimo viaggio missionario in Frisia. E in quella regione il 5 giugno 754 fu ucciso insieme con cinquantadue compagni. IN QUELLO STESSO ANNO SI CONCLUSE L’IMPORTANTISSIMA ALLEANZA TRA IL PAPATO E IL REGNO DEI FRANCHI, I CUI FONDAMENTI ERANO STATI POSTI PROPRIO DA BONIFACIO.

LA CONVERSIONE DEI SASSONI. Il CRISTIANESIMO VERSO I GERMANI DEL NORD
La conversione dei Sassoni, avvenuta in un tragico contesto di cui si tratterà parlando di Carlo Magno, portò il cristianesimo verso i Germani del nord. S. ANSCARIO (801-865) monaco e maestro nella abbazia sassone di Korvey svolge l’opera principale di evangelizzazione in Danimarca e Svezia.
Il cristianesimo riuscì presto ad affermarsi in Norvegia, grazie a re cristiani e monaci anglosassoni (secolo X). Lo zelo missionario dei re norvegesi si estese anche all’Islanda. Nell’anno 1000 la comunità dell’isola decise che tutti gli islandesi si dovevano battezzare.
Le numerose stirpi degli slavi si insediarono nei territori lasciati liberi dai Germani. Della loro cristianizzazione si occuparono tanto la Chiesa di Roma quanto la Chiesa di Bisanzio.
Il cristianesimo di tipo occidentale giunse a questi popoli (Carentani di Corinzia, Avari, Croati, Moravi, Cechi) specialmente in seguito all’estendersi del dominio franco verso Oriente.
Dalla Boemia il cristianesimo si diffuse fino ai Polacchi. La parte principale del mondo slavo fu guadagnata al cristianesimo dalla Chiesa greca; questo fatto portò spesso ad attriti con l’Occidente e la Chiesa latina. Gli Slavi meridionali furono coinvolti nello scisma.
I Serbi furono costretti ad accettare il Battesimo.

OPERA MISSIONARIA DEI SANTI CIRILLO E METODIO
Cirillo, presbitero e filosofo a Costantinopoli, e suo fratello Metodio, monaco e abate presso Cizico, furono mandati dall’imperatore Michele III e dal patriarca Fozio nella Moravia. I loro notevoli successi sono dovuti alla traduzione della Sacra Scrittura e dei testi liturgici nella lingua popolare slava. Furono invitati a Roma dal papa Nicola I per fare una relazione sul lavoro svolto. Cirillo morì poco dopo, Metodio fu fatto arcivescovo della Pannonia, ma incontrò notevoli difficoltà.

Presso i Bulgari lavorarono dopo la metà del secolo IX sacerdoti greci.

I patriarchi FOZIO e IGNAZIO si occuparono molto della conversione dei Russi (Regno di Kiev). Il principe Vladimiro, per ragioni religiose e politiche, ricevette il Battesimo (988); ben presto seguì quello delle classi dirigenti.

Per gli Ungari o Magiari la conversione al cristianesimo si svolse lentamente nel corso dei secoli X e XI. L’Ungheria divenne come la Polonia un avamposto della cultura occidentale verso l’Oriente asiatico e greco-scismatico. È vero che dopo la morte di Stefano II si sollevò una cruenta ribellione pagana; ma Bela I distrusse rapidamente e per sempre la potenza del paganesimo, che però nelle usanze del popolo sopravvisse ancora a lungo. Il papa Gregorio VII appellandosi a una donazione di Stefano fece valere diritti di vassallaggio della Sede Apostolica sull’Ungheria; canonizzò Stefano e suo figlio Emmerico.
La missione medioevale raggiunse quindi successi grandi e permanenti, quando essa fu favorita dal re e dalle classi dominanti, fosse anche solo in seguito alla sconfitta di fronte a potenze cristiane.. Questo nesso non è propriamente cristiano, bensì storicamente condizionato e in molti punti increscioso.. Esso ha comunque trasmesso ai Germani e agli Slavi la fede cristiana e con essa i valori del mondo culturale occidentale.

I RAPPORTI DEI PONTEFICI ROMANI
del secolo VIII con l’Oriente e l’Occidente

A PARTIRE DAL III SECOLO, LA STORIA DEL PAPATO NON E’ MAI STATA COSI’ FOSCA COME NEI QUATTRO SECOLI CHE SEGUIRONO IL PONTIFICATO DI GREGORIO I (590-604) E, IN PARTICOLARE, LA STORIA DEI PAPI DEI SECOLI VII - X.. Durante questi due periodi, e anche nel secolo IX, i papi si succedettero molto rapidamente; così dal 604 al 701 vi furono 20 pontificati; tra l’816 e il 900, ve ne furono di nuovo 20 e 33 tra il 900 e il 1003; il che per l’insieme dei tre secoli, dà una durata media per pontificato inferiore ai 5 anni.
Pochi papi hanno lasciato tracce durature della loro personalità:
GREGORIO II (715-731)
GREGORIO III (731-741)
ADRIANO I (772-795)
NICCOLO’ I (858-867)
ADRIANO II (967-872)
SILVESTRO II (999-1003)
Se ci si limita a Roma il periodo di quattro secoli si divide in QUATTRO EPOCHE..

  • 604-715. La prima epoca continua in modo diverso la storia pontificia precedente. La Chiesa di Roma fa ancora parte giuridicamente dell’Impero. È strettamente legata all’attività teologica della Chiesa d’Occidente. L’Urbe dal canto suo ha parzialmente recuperato il territorio perduto al momento delle invasioni e degli assedi del secolo VI. Costituisce un complesso cosmopolita, rinvigorito, a metà del secolo VII, dagli esuli cristiani che fuggono l’Oriente musulmano. Il clero è plurirazziale; dal 686 al 752 tutti i papi, salvo Gregorio II, sono o greci dell’Italia meridionale oppure siri.. Molti di loro furono uomini degni di stima e portano il titolo di santi. La morte di Zaccaria nel 752 segna una tappa: coincide pressappoco con l’estinzione dell’esarcato bizantino di Ravenna e con l’ascesa in Francia di Pipino.
  • 715-800. Durante la seconda epoca alcuni papi di particolare valore furono chiamati uno dopo l’altro ad affrontare una situazione sempre mutevole in Italia e in Occidente. Nell’Italia settentrionale le conquiste longobarde sommersero gli ultimi capisaldi dell’impero d’Oriente e minacciarono i territori vicini amministrati dal papato.
  • In Gallia l’ascesa al potere di Carlo Martello e dei suoi successori portò all’istituzione in Occidente di una fonte di solida autorità e fornì ai papi degli eventuali protettori assai potenti. Per quasi un secolo continuò il processo evolutivo che, infine, nell’800 sfociò nella creazione dell’Impero Occidentale.
  • 800-888. Durante la terza epoca i papi assistettero all’apogeo e quindi al declino dell’Impero carolingio. Fu un’epoca di grande operosità per la Chiesa franca, che discusse e risolse problemi liturgici e teologici e sulla quale il papato esercitò la propria influenza consigliandole moderazione e esigendone la sottomissione dovuta a un sovrano. L’epoca si chiuse con la caduta dell’Impero carolingio e l’ascesa delle potenti famiglie di Roma o dintorni, che costituirono una perpetua fonte d’inquietudine.
  • Nel corso del quarto e ultimo periodo, il potere universale del papato subì un’eclissi (il secolo X è il famoso “saeculum obscurum”); il centro dell’attività politica si spostò in Germania dove i re (e più tardi gli imperatori) esercitarono l’autorità sui vescovi e assorbirono il papato. Per un’ironia della storia, fu proprio perché l’imperatore designò al papato una nutrita schiera di prelati tedeschi che fu infranto il potere delle famiglie romane; un papa pieno di zelo riformatore ebbe così la possibilità di tracciare a grandi linee un piano per un governo della Chiesa indipendente e potente.

CENNI STORICI SULL’VIII SECOLO
L’impero bizantino non poté opporsi all’espansione araba e perse vasti possedimenti. Solo Costantinopoli fu difesa con strenue lotte che durarono molti anni (674-678). L’Occidente poté sfuggire così all’invasione degli Arabi.
Negli anni 718-719 i Musulmani, che avevano attaccato la città dal mare e dalla terra, subirono, infatti, una spaventosa sconfitta dinanzi a Costantinopoli.
Il dominio bizantino era diventato debole in quella parte dell’Italia, che dopo l’invasione longobarda del  568, era rimasta ancora all’impero; l’eccessiva pressione fiscale, la corruzione dei funzionari e la deficiente protezione militare contro il pericolo dei Longobardi gli avevano allontanato gli animi dei sudditi. D’altro canto aumentava sempre più l’influsso e l’importanza anche politica della sede papale.
È comprensibile che Bisanzio non fosse più in grado di difendere Roma e l’Italia dai Longobardi. Per quanto questi avessero abbracciato abbastanza presto la fede cattolica, si verificarono ugualmente delle tensioni politiche con Roma. Quando il re Liutprando (712-744) riprese la vecchia politica di conquista e cercò di assoggettare a sé l’intera Italia, l’Impero d’Oriente era scosso all’interno e all’esterno da terribili crisi. Inutilmente, i papi invocarono l’intervento dell’Impero d’Oriente. Impegnato com’era nella lotta con i Longobardi e abbandonato dall’imperatore, negli anni 739-740 papa Gregorio III (731-741) chiese, allora, aiuto al maggiordomo franco Carlo Martello che, avendo concluso un’alleanza con i Longobardi, fu costretto a rifiutare l’aiuto che il papa gli chiedeva.
In questa difficile situazione papa Zaccaria (741-752) si adattò a concludere con Liutprando una pace ventennale.
Astolfo (749-756) riprese gli antichi piani di conquista e papa Stefano (752-757) chiese ancora aiuto al re dei Franchi. E Pipino, l’energico figlio e successore di Carlo Martello (732, vittoria sugli Arabi a Poitiers), esaudì pienamente le richieste papali.
Intanto nel regno dei Franchi si sentiva la necessità di sostituire l’inetta e meschina dinastia merovingia in favore di Pipino che di fatto era diventato l’esclusivo signore. Per dare al regno un saldo ancoraggio religioso era tuttavia necessario il benestare di un’altissima personalità, che giustificasse l’usurpazione e sostituisse al diritto di sangue del maggiordomo l’unzione spirituale. In tali circostanze solo il papa poteva concedere questa approvazione e, grazie all’opera di Bonifacio, il papato godeva allora di grandissima stima e rispetto presso i Franchi. Pipino si rivolse dunque a Zaccaria chiedendogli risolutamente se potesse osare questo passo. Forte dell’approvazione papale e protetto dalla massima autorità spirituale, Pipino si presentò alla dieta reale di Soissons (751-752) e si fece eleggere re dei Franchi (colpo di stato). Il papa Zaccaria incaricò un metropolita franco di consacrare re Pipino.
Furono i Bizantini e i Longobardi che indussero il papa a compiere questo passo, che aprì veramente un nuovo corso nella storia europea. IL PAPATO, che fino ad allora, nonostante le numerose tensioni, si era sempre appoggiato a Bisanzio, SI STACCO’ DEFINITIVAMENTE DALL’IMPERO D’ORIENTE E SI RIVOLSE COMPLETAMENTE ALL’OCCIDENTE, RAPPRESENTATO DAL REGNO DEI FRANCHI. Il viaggio che il papa Stefano II intraprese nel novembre del 753 simboleggiò lo sciogliersi del papato dall’Impero bizantino-romano e il passaggio storico dal periodo bizantino a quello franco. Il 7 gennaio 754 a Ponthion fu stipulato il patto di amicizia tra il papato e il regno dei Franchi.. Pipino promise al papa il suo aiuto contro Astolfo e, al tempo stesso, la restituzione delle regioni conquistate finora dai longobardi e, in particolare, di Ravenna. A proposito di questa restituzione non si parlò ormai più di Impero Bizantino – per quanto in realtà quei territori appartenessero a quest’ultimo – bensì di San Pietro; i Franchi, infatti, così dichiararono in quella occasione, non intendevano scendere in campo per l’Imperatore bizantino, ma solo per San Pietro e il suo successore.
LA STRETTA DIPENDENZA DEL PAPATO NEI CONFRONTI DELLA MONARCHIA FRANCA FU GRAVIDA DI CONSEGUENZE. Più di tre secoli prima, per mettere freno alle pretese degli imperatori di governare la Chiesa, i papi avevano elaborato una tesi secondo la quale l’imperatore era integrato nella Chiesa, vi aveva una funzione di protezione, sotto l’autorità pontificia. Questa tesi era destinata a perdere progressivamente significato in ragione delle teorie e della pratica di imperatori come Giustiniano I (cesaropapismo), e per via della politica avventurosa degli imperatori successivi; questi principi non ebbero il minimo riguardo per Roma, esaltarono e sfruttarono il patriarcato di Costantinopoli. Dopo un secolo e mezzo di difficile convivenza con l’Impero, il papato volse il proprio sguardo verso l’Occidente.
Quando Pipino rispose al suo appello, il papa compì il passo decisivo che consisteva nell’attribuire al re dei Franchi il titolo di patrizio dei Romani.. Patrizio era il titolo che alla corte di Bisanzio assumevano certi funzionari. Nella sua nuova forma e nella conseguente applicazione, il termine appare una novità; assume il significato di “signore” o “protettore”, mentre i Romani di cui si parla non sono soltanto gli abitanti di Roma, ma tutti quelli che rientrano nella giurisdizione della Chiesa romana. Se si aggiunge al conferimento di questo titolo la cerimonia fino a quel periodo sconosciuta della consacrazione regia, il papa non solo conferiva un carattere religioso al “patricius romanorum” ma in più lo legava saldamente a sé. Il titolo era concesso dal papa; assumeva un significato maestoso grazie ad una specie di consacrazione assolutamente originale. Così il papa cominciava ad occupare il posto e a svolgere le funzioni che l’imperatore d’Oriente aveva lasciato vacanti per la propria inattività.

L’ICONOCLASTIA

Per evitare che il popolo d’Israele ricadesse nell’idolatria e soprattutto per mettere in luce la natura spirituale di Dio, l’Antico Testamento aveva raccomandato nel decalogo: “Non ti farai immagini scolpite”. Ma dopo che Dio stesso si era fatto uomo e aveva preso forma visibile in Gesù Cristo, il divieto di farsi delle immagini non poteva più avere nel Nuovo Testamento lo stesso significato. Nonostante ciò la Chiesa primitiva cercò di reprimere a lungo questo uso e preferì servirsi di segni e simboli per raffigurare Gesù Cristo.
I cristiani delle origini, nella linea della tradizione giudaica, sono visibilmente reticenti di fronte alle immagini religiose in generale e criticano con virulenza il carattere idolatrico di quelle del culto pagano. Fin dal secolo III, però, appaiono le prime immagini cristiane, ma pare non avessero, allora, altro che un carattere didattico, catechetico: così, per esempio, gli affreschi delle catacombe o di Dura-Eupos, che rappresentano alcuni eventi o realtà della storia della salvezza.
La più antica raffigurazione del Crocifisso risale, infatti, solo al IV secolo (S. Sabina a Roma). E se, per amore di molti cristiani che non sapevano leggere, non si poté fare a meno del tutto delle immagini per alcune scene bibliche o per la vita di qualche santo, non si raggiunse mai un accordo unanime sul vero senso e sulla precisa importanza da attribuire alle immagini di Cristo.
L’icona come immagine di culto entrò solo nel VI e VII secolo, favorita grandemente dalla fede popolare, dalla leggenda, dal miracolo. Comparvero innumerevoli immagini miracolose, figure di Cristo non dipinte da mano d’uomo, Madonne dell’evangelista pittore Luca, icone che si dicevano cadute dal cielo, che sanguinavano, che si opponevano ai nemici del culto, che difendevano le città, guarivano ammalati e risuscitavano morti. Oggi questo sviluppo appare indisturbato perché gli scritti contrari furono distrutti. Ci fu una grande lotta nel tentativo di chiarire questa complessa problematica.

LE DISPUTE CRISTOLOGICHE
Le dispute cristologiche ebbero in questo una parte notevole: ci si domandava, infatti, se fosse veramente possibile e lecito raffigurare la natura umana di Cristo. I rigidi doceti, come i monofisiti, rifiutarono di raffigurare Cristo, perché essi non credevano nella piena e reale natura umana di Cristo. E anche altri, di sentimenti più moderati, non ritennero opportuno raffigurare la natura umana del Verbo, poiché essa – a loro avviso – non aveva alcuna importanza nel piano divino della salvezza. Se poi si voleva proprio rappresentare l’uomo-Dio si doveva farlo tenendo conto della sua duplice natura, ma – poiché non era possibile fermare in immagine il divino – ogni raffigurazione umana di esso sarebbe stata solo un’occasione prossima per una pericolosa eresia – il nestorianesimo – a meno che non si negasse, come facevano gli ariani, la divinità di Cristo. Ogni raffigurazione simbolica di Cristo – così argomentavano concludendo – cadeva dunque in sospetto di eresia ed era per ciò stesso pericolosa. Per giunta, il popolo è di sua natura incline a adorare superstiziosamente tutte le immagini, anche quelle dei santi, e in modo particolare quelle di Maria: era dunque meglio abolire del tutto le immagini e il loro culto. Si vedeva un’illecita concessione al paganesimo.
Dopo l’invasione degli Arabi in Siria e in Egitto anche molti vescovi – sotto l’impressione della propaganda iconoclasta dei musulmani – cominciarono a combattere il culto delle immagini, molto diffuso ed amato dal popolo cristiano.
IL CONCILIO TRULLANO II DI COSTANTINOPOLI (692) SI ESPRESSE TUTTAVIA ANCORA A FAVORE DELLA RAFFIGURAZIONE SIMBOLICA DI CRISTO, ANCHE SE NEL CAN. 82 SI VIETAVA DI RAPPRESENTARE CRISTO SOTTO FORMA DI AGNELLO COME SI FACEVA IN OCCIDENTE.

LA LOTTA FU RIAPERTA DALL’IMPERATORE-SOLDATO LEONE III (717-741) DETTO L’ISAURICO (SIRO)
Nel 726 l’imperatore dispose con un editto l’allontanamento o il coprimento delle immagini sacre: ordina la distruzione dell’immagine di Cristo posta al di sopra di una delle porte del palazzo imperiale (fu sostituita da una croce), poi quella di altre immagini. Questa disposizione rientrava in quella generale riforma e riorganizzazione dell’impero, alla quale Leone mirava. Voleva sottomettere al suo potere la Chiesa, in particolare i monaci, i più tenaci assertori della libertà ecclesiastica. Simile politica solleva l’opposizione del patriarca Germano di Costantinopoli e di numerosi teologi, di numerosi fedeli e infine di tutti i vescovi di Roma. Quindi la maggioranza degli ecclesiastici e del popolo e tutti i monaci erano contrari. Secondo Giovanni Damasceno le icone sono “sermoni silenziosi”, “libri per gli illetterati”, “memorie dei misteri di Cristo”, “segni visibili della santificazione della materia”. L’editto suscitò grande agitazione e persino delle sommosse popolari. Ma l’imperatore depose Germano sostituendolo con Anastasio a lui più docile. Con il consenso di costui, l’imperatore emanò nel 730 un nuovo editto che ordinava, questa volta in modo più deciso, la distruzione delle immagini.

IL PAPA GREGORIO II (715-731) AMMONI’ L’IMPERATORE IN DUE SCRITTI MOLTO ENERGICI. Il suo successore GREGORIO III (731-741) COLPI’ CON LA SCOMUNICA LA DISTRUZIONE, LA PROFANAZIONE E IL DISPREZZO DELLE IMMAGINI SACRE. Le minacce dell’imperatore scatenarono in Italia viva indignazione: mancò poco che il Paese si staccasse del tutto dal dominio bizantino.
Dopo il fallimento di una missione marittima (732) Leone si vendicò fortemente contro il papa: confiscò gli ingenti patrimoni che la Chiesa romana possedeva nell’Italia meridionale ed in Sicilia ed incorporò tutti questi territori insieme con la provincia ecclesiastica dell’Illirico (il vicariato di Tessalonica) al patriarcato di Costantinopoli, staccandoli dalla giurisdizione patriarcale di Roma. Questi motivi di discordia furono una delle ragioni che spinsero i papi ad allearsi con i Franchi e contribuirono poi a far tramontare il dominio bizantino nell’Italia centrale e settentrionale.. Le questioni politico-ecclesiastiche, economiche e finanziarie svolsero un ruolo decisivo accanto a quelle religiose; anzi furono le prime a far sentire in Italia l’importanza delle seconde.
L’imperatore Costantino V (741-775), soprannominato Copronimo o Caballinos convocò a Hiera nel 754 (o 753), un sinodo di 338 vescovi che si definì ecumenico (VII) che sancì l’iconoclastia. Tutte le “icone”, quale che fosse la materia di cui erano fatte e in qualunque modo fossero realizzate, dovevano essere bandite dalla Chiesa cristiana. Dipingere l’immagine di Cristo equivale a ricadere nell’eresia di Nestorio o di Ario poiché si dipinge soltanto l’immagine della carne, dividendo in tal modo Cristo unico. La pittura separa la carne dalla divinità e costituisce perciò un atto blasfemo. Tutte le immagine sacre furono dunque allontanate dalle chiese. I monaci furono pressoché i soli che ebbero il coraggio di opporsi. Si dice che l’imperatore abbia rifiutato a Maria il titolo di teothocos, privato i santi di questa loro denominazione, proibito le reliquie. Vengono confiscati monasteri e trasformati in caserme. I monaci arruolati e costretti a rinunciare al celibato. I monasteri della Bitinia si spopolano, le chiese sono distrutte, la vita monastica derisa. Il monachesimo non rimane passivo e rappresenta la coscienza della Chiesa di fronte al letargo dell’episcopato.
Il papa Stefano III nel sinodo lateranense del 769 colpì con la scomunica il “sinodus execrabilis” iconoclasta del 754.
Leone IV, figlio e successore di Costantino, si mostrò un po’ più mite. Un cambiamento decisivo si ebbe solo quando, dopo la morte del marito, l’imperatrice Irene, cui il culto delle immagini stava molto a cuore, assunse la reggenza per il figlio Costantino VI ancora minorenne. L’imperatrice promosse un nuovo concilio veramente ecumenico, con l’appoggio e l’aiuto del patriarca di Costantinopoli Tarasio a lei devoto, ed in accordo con il papa Adriano I. Il concilio poté riunirsi solo nell’autunno del 787 a Nicea. Ripudiò lo pseudosinodo del 754, dichiarò che si poteva e si doveva tributare un culto di devota VENERAZIONE con lampade, incenso e prostrazione alla santa Croce, alle immagini di Cristo, della Madonna, degli Angeli e dei Santi: poiché questa venerazione è diretta al prototipo stesso, cioè alla persona rappresentata; invece l’adorazione vera e propria (latrèia) spetta solo a Dio. L’immagine non è il soggetto che raffigura ma rimanda ad esso.

CONSEGUENZE DEL CONCILIO DI NICEA DEL 787
In Occidente
Le decisioni di Nicea non furono accolte per la traduzione latina difettosa degli atti sinodali e per la tensione politica tra Carlo Magno e Bisanzio.. Nei Libri Carolingi fatti redigere in Occidente si ripudiavano tanto il sinodo iconoclasta del 754 come pure quello “adoratore delle immagini” del 787. Il papa Adriano difese il più possibile il concilio di Nicea. Carlo tenne nel 794 un concilio generale che ripudiò ancora una volta le decisioni di Nicea. Per quanto incresciosa la cosa fosse per il papa, questi però fu tanto prudente da evitare ogni ulteriore incrudimento del conflitto.
In Oriente
Nello stesso Oriente l’imperatore Leone V (813-820) rinnovò l’iconoclastia, anche perché attribuì al ripristino delle immagini una grave sconfitta militare da parte dei Bulgari che fu interpretata come punizione divina. S’adoperò ora il dotto abate di Studios Teodoro, quale acuto apologeta delle immagini. La persecuzione durò quasi trenta anni. Fu l’imperatrice TEODORA, in qualità di reggente per il figlio Michele, CHE RIMISE IN VIGORE IL CULTO DELLE IMMAGINI in un sinodo tenuto a Costantinopoli nell’843.

 

PARTICOLARITÁ DEL MONDO ORIENTALE CRISTIANO
Per capire meglio il senso degli avvenimenti della seconda metà del secolo IX che sono come i prodromi della separazione definitiva della Chiesa Greca dall’Occidente, occorre presentare alcune particolarità del mondo orientale cristiano. La Chiesa greca in questo periodo si chiude sempre più nel suo conservatorismo e tradizionalismo, rimane sostanzialmente ferma nel dogma, nella costituzione, nel culto, nell’ascesi e nella sensibilità religiosa: non vi è un progresso organico, non vi è un medioevo, ma solo continuazione dell’antichità cristiana.
La cristianità d’Occidente è pervasa da un’impronta universalista, quella d’Oriente mantiene un carattere nazionale. Il cesaropapismo porta la Chiesa bizantina alla perdita della sua indipendenza e dignità. I greci non aspirano tanto a trasformare tutto il  mondo dell’individuo e della società sotto l’insegna del cristianesimo ma tendono piuttosto a ricercare il centro della vita ecclesiastica nei misteri della liturgia. Ciononostante la Chiesa bizantina di quest’epoca dimostra una forte vitalità nella conversione dei popoli slavi.

L’occasione del conflitto fra Occidente e Oriente venne offerta da una nomina controversa del nuovo titolare della sede vescovile di Bisanzio.
Dall’847 questa era occupata dal patriarca IGNAZIO, un figlio dell’imperatore Michele II, politicamente un conservatore radicale. La sua posizione era molto difficile. Per il suo atteggiamento politico nel novembre 858 fu costretto ad abdicare ed al suo posto venne nominato FOZIO, segretario di Stato, comandante della guardia del corpo imperiale ed il più notevole dotto del suo tempo.. Essendo ancora laico, nel giro di cinque giorni ricevette tutti gli ordini sacri, compresa la consacrazione episcopale, che gli fu conferita dall’arcivescovo di Siracusa Gregorio Asbesta, il quale era stato scomunicato da Ignazio. Quest’ultimo, che aveva sacrificato i propri interessi a quelli della Chiesa, contava molti sostenitori, specie tra i monaci. Sotto la direzione dell’arcivescovo Metrofane di Smirne, gli avversari di Fozio si radunarono nella chiesa di S. Irene e dichiararono Fozio usurpatore del patriarcato, deposto e scomunicato.
Primavera del 859: i foziani in un sinodo tenuto nella chiesa degli apostoli lanciarono la scomunica e la deposizione contro i seguaci di Ignazio, e contro questi stesso, qualora volesse riprendere il suo posto quale patriarca di Costantinopoli.
Fozio partecipò al papa la notizia della sua nomina. Allo sguardo acuto di Nicola I non potevano sfuggire i difetti occorsi nell’intronizzazione di Fozio. Per un esame della situazione il papa mandò due legati in Oriente. I legati oltrepassarono le loro facoltà e pronunciarono la sentenza che il papa si era riservata. Riconfermarono la deposizione di Ignazio, mentre questi dal canto suo dichiarava invalida la sua abdicazione e si rifiutava di riconoscere i legati quali suoi giudici. I suoi fautori inviarono un rapporto a Roma, in seguito al quale, il papa in un sinodo romano dell’863 decretò che i legati erano destituiti dal loro ufficio, che Fozio era privato di ogni dignità ecclesiastica.
Fozio passò ad una lotta aperta contro Roma. In un’enciclica dell’867 agli altri tre patriarchi d’Oriente egli afferma:

  • che il grado dei vescovi nella gerarchia ecclesiastica è determinato dall’importanza civile della città. È affermare la preminenza di Costantinopoli su Roma (sempre l’annosa questione).
  • sollevò forti accuse contro l’invadenza dei missionari romani in Bulgaria e contro la disciplina occidentale ivi introdotta: il digiuno del sabato, l’uso di latticini nella prima settimana di quaresima, il celibato ecclesiastico e il non riconoscimento della cresima amministrata dai preti greci.
  • combatté anche come un’esecrabile eresia la dottrina degli occidentali circa la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio.. Convoca i patriarchi ad un grande sinodo a Costantinopoli per pronunciare un giudizio sul papa.

Estate dell’867
Ebbe luogo il sinodo, alla presenza della corte. Contro ogni diritto, questo sinodo scomunicò e depose quale “eretico e devastatore della vigna del Signore” papa Nicola I.
La rottura era ormai consumata.
Il nuovo imperatore Basilio I costrinse Fozio ad abdicare, ripristinò Ignazio e riprese le relazioni con Roma.

869-870 OTTAVO CONCILIO ECUMENICO A COSTANTINOPOLI. Gli orientali affermano il proprio accordo con la sede dell’antica Roma, che ha ricevuto la presidenza e la preminenza nella pentarchia (termine moderno per designare comunemente “la divisione della Chiesa universale in cinque grandi circoscrizioni ecclesiastiche che, nell’ordine di precedenza, sono: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme”).
Alcuni vescovi consacrati da Fozio chiedono il perdono del concilio. I legati, a nome del papa, li reintegrano. Convocato dall’imperatore, Fozio si presenta davanti al concilio, ma alle domande che gli vengono rivolte rimane ostinatamente muto. Fozio fu rumorosamente condannato e scomunicato. In mezzo all’assemblea furono bruciati tutti gli scritti antiromani di Fozio e dei suoi seguaci.

I Bulgari che erano stati annessi alla Chiesa di Roma (866), vennero ammessi di nuovo al patriarcato di Costantinopoli. Il papa Giovanni VIII (872-882) sollecitò Ignazio con inutili ammonimenti e perfino con la minaccia di scomunica e di deposizione, di restituire la Bulgaria, ma tutto fu invano.

Dopo la morte di Ignazio (877 o 878), Fozio ritornò per la seconda volta sul trono patriarcale di Costantinopoli.. Il papa Giovanni VIII credette di dover tener conto delle mutate situazioni, qualora il nuovo patriarca avesse sconfessato in un sinodo proposto dall’imperatore il suo atteggiamento precedente, rinunciando alla sua giurisdizione sui bulgari e riconciliandosi con gli ignaziani.
Nel sinodo di Costantinopoli dell’879-880, Fozio venne quasi incondizionatamente riconosciuto come legittimo patriarca e il concilio del 869-870 venne ripudiato. Per quanto riguarda la Bulgaria tutto rimase come prima.
Per quanto spiacevole tutto ciò fosse per il papa, NON SI GIUNSE TUTTAVIA AD UNA NUOVA ROTTURA TRA ROMA E COSTANTINOPOLI.
L’imperatore Leone VI depose Fozio non per motivi di politica ecclesiastica ma per motivi personali e conferì la dignità patriarcale al proprio fratello sedicenne, il principe Stefano. Fozio fu relegato in un monastero dove morì verso l’892 in comunione con Roma. La Chiesa ortodossa, greca o slava, venera “S. Fozio”.

Questi concili sono, in fondo, una manifestazione del conflitto latente che oppone Roma a Costantinopoli, UN CONFLITTO POLITICO PIÙ CHE PER DIVERGENZE DOTTRINALI.
Al punto in cui siamo giunti (870) l’unione è stata ristabilita. Almeno nelle dichiarazioni ufficiali se non negli spiriti. L’unità durerà senza grosse difficoltà fino alla rottura solenne del 16 luglio 1054, allorché il cardinale Umberto deporrà sull’altare di S. Sofia la bolla di scomunica!

Il II Concilio di Nicea precede sei concili e, quindi, nel 787 si contano sette concili ecumenici, ancora adesso riconosciuti in comune dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse.
Il IV Concilio di Costantinopoli, riconosciuto ecumenico dalla Chiesa cattolica, è stato mantenuto nelle liste medioevali che contano, perciò, otto concili. Ma la Chiesa greca non l’accetta. Allora i concili ecumenici sono sette per i Greci e otto per i cattolici.

MOTIVI CHE DISTANZIANO ORIENTE E OCCIDENTE
Dopo le vicende oziane il legame fra la Chiesa greca e quella latina non raggiunse più una giusta stabilità.

  • Il distanziamento era troppo antico e troppo profondo per vari motivi:
  • la diversità della lingua e del carattere,
  • della costituzione ecclesiastica,
  • della disciplina (leggi: celibato dei preti),
  • della liturgia e
  • della teologia.
  • Tali motivi rendevano ormai impossibile un’unità organica tra la Cristianità di Oriente e quella di Occidente.
  • C’erano gravi differenze politiche: il tramonto del dominio bizantino nell’Italia centrale e settentrionale, l’unione dei papi con i Franchi e la fondazione dello Stato Pontificio a danno di Bisanzio, l’incoronazione di Carlo Magno e il ripristino dell’Impero Occidentale sotto Ottone il Grande (Sacro Romano Impero Germanico), acuirono l’antipatia fra i Greci e i Latini. Nel X secolo Bisanzio, profondamente offesa per la tirannia degli Ottoni a Roma e per la politica militare nell’Italia meridionale, dove esistevano forti interessi greci, non si sentiva molto portata a sostenere una comunanza di vita con gli Occidentali.
  • I Bizantini riguardavano le usanze particolari della Chiesa latina come una decadenza della tradizione apostolica. In questa situazione un infelice incidente poteva trasformare in ogni momento lo scisma latente in uno scisma aperto e definitivo.

LO SCISMA ORIENTALE (schema)

MICHELE CERULARIO (1043-1058), patriarca di Costantinopoli, politico ambizioso e scaltro, riferì la “Donatio Constantini” alla sua sede episcopale, deducendone diritti quasi imperiali. Cresceva sempre più la convinzione che solo lì, a Bisanzio, le usanze ecclesiastiche, la vita e, in ultima analisi la fede religiosa si erano conservate intatte. Già nel
1050

  • Cerulario rimproverò i latini come eretici.
  • 1053
  • Per ordine del patriarca vennero chiuse le chiese dei Latini a Costantinopoli e confiscati i loro monasteri. L’accusa principale contro di loro era che nella comunione usavano pane azzimo. Il pane azzimo non può essere validamente consacrato. Furono profanate le ostie dei latini e calpestate.
  •  
  • 1053
  • Lettera di Leone d’Achrida. L’arcivescovo Leone di Achrida (o Ochrida, leggi: Michele Cerulario!) in Bulgaria dichiarò in una lettera indirizzata al vescovo di Trani (era solo intermediario: si voleva colpire il papa) che i Latini erano mezzo giudei e mezzo pagani. L’uso del pane azzimo nella Messa, di carni sanguinolenti, del digiuno sabatino, della soppressione dell’alleluia in quaresima: ecco dei gravi errori che collocavano coloro che li commettevano in contraddizione con la dottrina degli apostoli e con quella dei sette concili. L’autore della lettera voleva la rottura. Il vecchio e rispettabile monaco Niceta Stethatos attaccò la legge del celibato dei Latini.
  • Il papa Leone IX sceglie il cardinale Umberto di Silva Candida per controbattere alle accuse. Umberto era persona colta, teologo della riforma, ma impulsivo e degno avversario del Cerulario, dotato di un temperamento simile al suo. Nel suo “Dialogus” Umberto respinse con genialità le accuse dei Greci. Meno felice fu invece nella parte aggressiva, che egli aggiunse alla difesa: rimproverò alla Chiesa greca più di novanta eresie, combatté come adulterio e eresia nicolaita il matrimonio degli ecclesiastici, accusò i Greci di “macedonianismo”, perché avevano levato dal credo il “Filioque”, e li minacciò a più riprese con la scomunica

1054

  • All’inizio del 1054 una delegazione pontificia guidata da Umberto andò a Costantinopoli. Cerulario si mostrò dispotico e inabbordabile. I legati pontifici (il papa però era già morto il 19 aprile)  deposero
  • Il 16 luglio del 1054 sull’altare maggiore della Chiesa di Santa Sofia, dinanzi al clero e al popolo riuniti nell’ora del solenne pontificale e dopo aver protestato contro l’ostinazione del patriarca, la bolla di scomunica contro il patriarca ed i suoi seguaci, redatta da Umberto in termini molto aspri. Poi uscendo dalla chiesa scossero, conformemente alla parola di Gesù, la polvere dai loro calzari esclamando: “Veda Iddio e ci giudichi”. Fatto questo , partirono (18 luglio).
  • Il 20 luglio la delegazione ritorna per ordine dell’imperatore
  • Il 24 luglio in un sinodo il patriarca ripeté il manifesto di Fozio del 867 e lanciò la scomunica contro i latini. Gli altri patriarchi dell’Oriente e i popoli convertiti dai Greci (Serbi, Bulgari, Russi e Rumeni) vennero coinvolti nello scisma.

Questo avvenimento appare sconcertante perché si è costretti a notare che – in gran parte almeno – esso fu provocato da tragici malintesi, da difetti umani e da questioni di carattere dottrinale. Ancora oggi non si sa con sicurezza se il cardinale Umberto fosse stato autorizzato a compiere passi tanto decisivi. Certo è che papa Leone era morto e il suo successore Adriano IV fu eletto soltanto il 4 dicembre 1054 e che quindi il seggio papale in quei giorni era vacante. Nonostante i frequenti tentativi di riconciliazione (ricordiamo che nel 1965 le due parti ritirano la reciproca scomunica), lo scisma perdura anche oggi.
La valutazione storica non coincide con quella giuridica, né ciò è necessario. Se la scomunica, pronunciata quando il papa era già da tempo morto e non aveva ancora ricevuto un successore, avesse valore giuridico, è una questione piuttosto controversa. In tutti i casi il suo contenuto è un’illegittima amplificazione del risentimento personale di Umberto, anche se coglie il problema centrale. Dal punto di vista formale la scomunica non era rivolta contro la Chiesa ortodossa in quanto tale e nemmeno contro il suo capo, l’imperatore, ma solo contro Michele e i suoi aiutanti. Similmente, Cerulario non scomunicò il papa o la Chiesa romana, ma solo i legati e i loro sostenitori. Ma ciò che ambedue le parti volevano era comunque qualcosa di diverso; su ciò non ci possono essere dubbi. Dal punto di vista giuridico-formale non furono posti atti che consentano di parlare di uno scisma vero e proprio. Ma la veemenza con cui si parlò ed agì fu del tutto nuova, senza precedenti; il repertorio delle reciproche accuse fu molto più vasto di quello usato nello scisma foziano e la generalizzazione quanto mai grottesca.
La guerra fredda fra le due gerarchie si inasprì in modo determinante, la polemica diventò violenta da ambo le parti provocando una situazione che alla fine nessuno sapeva come definire. Il termine scisma non può quindi essere del tutto scartato; tuttavia sarebbe sbagliato pensare che la situazione di allora fosse disperata, che cioè non offrisse alcun motivo di speranza. Questa opinione dello Jedin non è condivisa da Fliche-Martin che conclude: “La lieve lacerazione che già da tanti anni minacciava l’unione della Chiesa greca e latina era diventata una voragine spalancata, forse per sempre incolmabile”.
1055

  • Morte di Costantino Monomaco. Gli succedette Michele VI Stratiotico sotto il quale il Cerulario divenne onnipotente.
  • 1057
  • Ben presto, irritato dall’atteggiamento diffidente dello Stratiotico a suo riguardo, il Cerulario passò all’opposizione e favorirà il complotto ordito a Pasqua del 1057 per mettere Isacco Comneno al posto del vecchio Michele VI. Cerulario intendeva governare a suo talento il nuovo basileus; ma il Comneno non era uomo da subire un padrone.
  • 1058
  • Deposizione di Cerulario che morirà a Natale. Ma, non appena scomparso, ecco il popolo spontaneamente canonizzarlo. Alcuni mesi più tardi Isacco abdicava, designando suo successore Costantino X Ducas sposo a Eudocia, nipote di Cerulario. Costantino di Cude, nuovo patriarca.
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  • LO SCISMA ORIENTALE (tratto dal Fliche-Martin)
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  • IL PATRIARCA MICHELE CERULARIO (1043-1058)
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  • SUOI PRECEDENTI
  • Il patriarca di Costantinopoli non era il primo venuto; più incline agli affari politici che alle cose di Dio, Michele, nato da famiglia senatoriale, già nel 1040 era stato coinvolto nel complotto ordito contro l’imperatore Michele IV.. Se vogliamo credere allo storico Giovanni Schilizze, si sarebbe allora pensato di elevare al trono proprio lui; ma, arrestato ed imprigionato, il cospiratore si era ridotto a prendere l’abito monastico e la sua conversione sembra fosse sincera.
  • Salito però al trono Costantino Monomaco, ecco Michele Cerulario ricomparire al Sacro Palazzo, dove ben presto diventerà il più ascoltato dei consiglieri del nuovo basileus, ed arbitro quasi assoluto “degli affari divini ed umani”. Nominato protosincello del patriarca Alessio, egli era con ciò senz’altro designato a succedergli.
  • Nulla mostra che la sua assunzione al trono patriarcale (1043) sia stata più irregolare di quella dei suoi predecessori; da gran tempo la volontà del principe esercitava una funzione preponderante nella designazione dei titolari di Costantinopoli. Abusi di questo genere vigevano in quel tempo anche in Occidente, sicché i latini avrebbero dimostrato ben poco tatto nell’andar sindacando le circostanze dell’elezione di Cerulario. Piuttosto essi potevano e dovevano appuntare le loro critiche su ben altro, giacché è certo che Michele porta di fronte alla storia la responsabilità dell’infausta lacerazione che, nonostante le episodiche riconciliazioni, doveva separare fino ai giorni nostri le due Chiese: d’Oriente e d’Occidente.
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  • RAPPORTI FRA LE DUE CHIESE ALL’ASSUNZIONE DI MICHELE
  • A dire il vero, l’unione delle due Rome non esisteva già quasi più al tempo in cui il Cerulario saliva al trono patriarcale; se fra le due sedi non vi era propriamente stata guerra, per lo meno i rapporti diplomatici erano rotti, presagio indubbio di aperte ostilità. Si può essere sicuri che al suo avvento il Cerulario non inviasse al papa, che era allora il tristo Benedetto IX – la propria sinodica (= lettera di comunicazione) di presa di possesso; e si può essere sicuri anche che, sotto il suo pontificato e fin dal principio, il nome del papa non si recitasse durante gli uffici liturgici.
  • Tale era altresì l’atteggiamento del patriarcato di Antiochia, strettamente dipendente da Costantinopoli; quanto al patriarcato melchita di Alessandria non si può dir nulla di preciso, e nemmeno di quello di Gerusalemme. Senza dubbio essi ispiravano il loro atteggiamento a quello di Costantinopoli, il cui titolare d’altra parte pareva adattarsi tranquillamente ad una situazione assai favorevole a quel desiderio di autonomia ecclesiastica – o di autocefalia, come si dirà più tardi – nel quale si era sempre in cuor suo compiaciuta la cristianità greca.
  • Le circostanze politiche avevano fatto di lui il capo pressoché incontestato dell’Oriente bizantino e di tutti i paesi che ne dipendevano; perché non avrebbe egli potuto essere in quelle regioni ciò che il papa di Roma era per l’Occidente, senza conti da rendere a nessuno, neanche al titolare della prima sede?
  • Una situazione siffatta non l’aveva creata Michele: era la risultante di tutto un insieme di fattori culturali, politici, religiosi, ecclesiastici, operanti già da secoli. Ad ogni modo il patriarca intendeva difenderla ed occorrendo rinforzarla. Ora accadde che talune circostanze politiche abbastanza insignificanti gli fecero temere di perdere tale autocefalia, nella quale si compiaceva la sua ambizione e che soddisfaceva alla sua concezione della Chiesa.
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  • RICONCILIAZIONE POLITICA FRA L’IMPERO E ROMA
  • Abbiamo detto quale fosse stato, nei rapporti fra le due Rome, il peso delle lotte che avevano messo di fronte Bizantini e Tedeschi nell’Italia meridionale. Ma, per un singolare capovolgimento, la competizione germano-bizantina stava per mutarsi, intorno al 1050, in un’alleanza che avrebbe ravvicinato papa Leone IX e l’imperatore Enrico III al basileus Costantino Monomaco. Contro il Normanno, che nel Mezzogiorno della penisola si andava forgiando un dominio sempre più vasto, non erano troppi gli sforzi uniti di tutti quelli che esso ledeva o faceva tremare. Così pensava il catapano (governatore) d’Italia, Argiro: tale politica di alleanze egli preannunciò per l’appunto durante una dimora a Costantinopoli (1049-1051) e la mise in pratica non appena sbarcò a Bari nel 1051. Ad essa venne guadagnato il basileus e vi aderì pure Leone IX, il cui viaggio alla corte germanica nel 1052 non ebbe quasi altro scopo che di associare l’imperatore Enrico III.
  • Tuttavia in questa combinazione il patriarca Cerulario non trovava il suo tornaconto: l’unione politica fra il basileus e l’Occidente voleva dire immancabilmente la fine della sua autocefalia; lo si scorgeva fin dal 1052. Dovendo eleggere un titolare alla sede d’Antiochia, il governo vi mandò un prelato, formatosi certo a Costantinopoli, ma che non faceva mistero dei suoi sentimenti filoromani.
  • Prima cura di Pietro d’Antiochia era stata, rompendo con le pratiche in uso, di mandare a Roma la sua sinodica, la quale recò a papa Leone una lieta sorpresa; un giorno o l’altro il basileus poteva imporre al Cerulario un passo analogo; il patriarca non era uomo da rassegnarsi senza prima aver combattuto. Egli aveva già preso posizione, durante la dimora di Argiro a Costantinopoli, contro le idee pacificatrici di costui, e la sua irritazione aveva preso la forma di  un rancore personale, tradotto in una scomunica lanciata contro il catapano.
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  • OFFENSIVA DI MICHELE CERULARIO CONTRO I LATINI (1052-1053)
  • Poco dopo, durante il 1052, Michele Cerulario prendeva l’offensiva contro i latini stabiliti a Costantinopoli e contro le chiese in cui essi celebravano i loro riti. Questi luoghi di culto furono chiusi e non senza disordini; le ostie dei Latini profanate e calpestate, poiché si diceva che il pane azzimo non può essere validamente consacrato; violenze che, nel pensiero di Cerulario, dovevano rendere impossibile l’unione con Roma. Assai più grave sarà, nella primavera del 1053, una vera dichiarazione di guerra inviata a Roma dalla Chiesa greca e pervenuta proprio nel momento in cui si allestiva nella città eterna la spedizione contro i Normanni.
  • Si trattava di una lettera indirizzata dal metropolita Leone d’Ochrida, arcivescovo di Bulgaria, al vescovo di Trani nelle Puglie, nel tema dei Longobardi.
  • Costui, sebbene in territorio bizantino, seguiva però il rito latino e dipendeva ecclesiasticamente da Roma; egli pure era amico di Argiro, il quale in quel momento spingeva anch’egli avanti i suoi preparativi militari. Ma Giovanni di Trani – e non glielo si nascondeva – era soltanto un intermediario; attraverso lui si voleva colpire il papa e tutto il clero occidentale. Anche il mittente della lettera non era che un prestanome; dietro Leone d’Ochrida vi era il suo capo gerarchico, il patriarca di Costantinopoli, che agiva. Nessuno si lasciò ingannare: la lettera fu subito considerata un messaggio del Cerulario al papa Leone IX.
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  • LETTERA DI LEONE D’OCHRIDA (o Achrida)
  • Curioso messaggio in verità! Esso si presenta con un invito a negoziare, e fin dalle prime parole prende il tono dell’ultimatum, anzi quasi della dichiarazione di guerra.
  • Esso intende spiegare ai Latini quali ostacoli si oppongono all’unione, e lo fa in termini che rendono fin da principio impossibile quest’unione, giacché attira l’attenzione dei “Franchi” sulla sconvenienza delle loro pratiche, le quali sono il grande ostacolo all’accordo fra le due Chiese. L’uso del pane azzimo nella Messa, di carni sanguinolente, del digiuno sabatino, della soppressione dell’Alleluia in quaresima: ecco dei gravi errori, che mettevano i loro seguaci in contraddizione con la dottrina degli apostoli e con quella dei sette concili! Prima di qualsiasi negoziato bisognava correggere tutto ciò, bisognava mettersi d’accordo con la Chiesa greca nella vera ortodossia, se si voleva che non vi fosse più che un solo gregge sotto il bastone di Cristo. In tal modo i rappresentanti della cristianità greca si atteggiavano non già eguali dei capi della Chiesa latina, ma a dottori irrefragabili, rimproverando con ciglio altezzoso, impartendo lezioni dall’alto, ritenendosi unici detentori della verità. Certo “essi non volevano la morte del peccatore”; occorreva però che il peccatore senza indugio riconoscesse i propri torti. Ma c’è da meravigliarsi anche di più, se pensiamo alla pretesa gravità dei rimproveri fatti ai Latini: quelli erano dunque gli enormi errori che impedivano ogni unione fra cristiani! Duecento anni prima, Fozio aveva avanzato accuse di ordine dogmatico; ora si ripiegava su qualche quisquilia liturgica o su questioni di digiuno. Considerando pertanto il fondo e la forma di questo sedicente invito a trattare, non si può sfuggire dalla seguente conclusione: gli autori della lettera volevano la rottura; essi erano convinti che il loro ultimatum sarebbe stato respinto sdegnosamente. Alle esigenze del basileus, che li invitava ad entrare in comunione con Roma, essi avevano già la risposta bell’e pronta: era Roma stessa a rendere impossibile l’unione.
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  • RISPOSTA DI ROMA
  • La prima risposta della Sede Apostolica fu proprio quella che Michele e Leone si aspettavano. La missiva trasmessa da Giovanni di Trani era stata tradotta dal greco al latino dal cardinale Umberto che fu pure incaricato di redigerne la risposta, nella quale in più luoghi si manifesta il suo temperamento impetuoso. La lettera, che esordiva augurando “la pace agli uomini di buona volontà”, stabiliva molto bene le condizioni per una pace durevole fra le due Chiese; essa, infatti, conteneva una dimostrazione in regola dell’autorità della Sede Apostolica, della sua preminenza derivante dal diritto divino come dall’umano (né era dimenticata la famosa Donatio Constantini) e della sua infallibilità nelle questioni dottrinali. Al che si opponevano – diceva la lettera – le miserevoli pretese della Chiesa bizantina e le troppo numerose debolezze intellettuali e morali di molti suoi capi. Ed ora, ecco che questa Chiesa veniva a provocare quasi a singolar tenzone la propria Chiesa Madre, la Chiesa Romana, macchinando con ciò la distruzione di tutta la cristianità! Tuttavia, confidando nell’intervento del basileus, l’autore della lettera non abbandonava tutte le speranze; occorrendo, la “città custodita da Dio” avrebbe saputo emanciparsi dai cattivi pastori! Anzi, era ciò necessario? Non era meglio contare senz’altro sulla sottomissione del patriarca stesso? La lettera, che si apriva col messaggio di pace degli angeli, si chiudeva con un appello alla pace e alla concordia, ricollocando così la questione sul suo vero terreno, ed accennando appena ai meschini cavilli di dettaglio che la polemica cercava di inasprire.
  • Nel medesimo tempo in cui si schierava contro Costantinopoli, la curia si sforzava di allacciare buoni rapporti con Antiochia. Già al principio della primavera il papa aveva esternato al nuovo patriarca la gioia causatagli dalla sua lettera; in autunno, mentre Leone IX era angosciato in conseguenza della disfatta inflittagli dai Normanni a Civita, Umberto faceva intervenire presso il patriarca di Antiochia il patriarca di Aquileia e Grado, Domenico, che fino ad un certo punto dipendeva dall’impero bizantino. Domenico descrisse dunque a Pietro d’Antiochia, valendosi del suo titolo patriarcale al fine di trattare da pari a pari con lui, e, discutendo la questione degli azzimi, fece osservare al prelato orientale che Costantinopoli aveva recato alla Chiesa romana la più sanguinosa ingiuria, col pretendere che l’uso degli azzimi le impedisse di partecipare al Corpo di Cristo. Pietro, se pur le pretese alquanto ingenue di Grado al titolo patriarcale dovessero tornar poco di suo gusto, e se nella sua risposta, spedita nell’autunno del 1053, manteneva il punto di vista intransigente di Costantinopoli circa la questione degli azzimi, non proferì tuttavia alcuna parola tale da creare una situazione irreparabile; il modo stesso in cui egli insisteva perché la sua sinodica a Leone IX non rimanesse senza risposta (la lettera del papa non era ancora giunta a destinazione), attestava che, nonostante la seria divergenza sulla questione degli azzimi, Antiochia teneva a restare in comunione con Roma.
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  • UN PASSO INDIETRO DEL CERULARIO
  • Ora, al momento in cui Pietro inviava la sua lettera, le cose avevano preso a Costantinopoli una piega un po’ meno sfavorevole. L’arcivescovo Giovanni di Trani, inviato da Argiro subito dopo il disastro di Civita, doveva aver fatto al Sacro Palazzo una ben fosca pittura della situazione nell’Italia meridionale: se si volevano fermare i Normanni e salvare i possessi bizantini, era giocoforza porre tregua a tutte le discussioni ed assicurare l’unione tra le due Rome.
  • L’appello di Argiro fu inteso a Costantinopoli, da dove partirono immediatamente per l’Italia meridionale due lettere: l’una del basileus e l’altra del patriarca.
  • Per quanto possiamo giudicare, il Cerulario esprimeva temperatamente le sue idee; il fatto che egli non discutesse alcuna delle accuse mosse da Umberto nella prima risposta alla lettera di Leone di Ochrida ben dimostra del resto che egli non aveva ricevuto la violenta filippica del cardinale; sembra che all’ultimo momento il papa soprassedesse al suo invio. Checché ne sia, nella sua lettera il patriarca si doleva dei troppo lunghi dissensi che separavano le due Chiese; si dichiarava pronto a rimettere il nome del papa  sui dittici ed a invitare tutto l’Oriente a fare lo stesso, e naturalmente, in cambio, il nome del patriarca avrebbe dovuto essere proferito, almeno a Roma, durante le cerimonie liturgiche. Questo tono ironico non impediva a Michele di segnalare le difficoltà sussistenti, ma con moderazione, essendo animato dal desiderio di vedere riallacciati i legami fra i due grandi Imperi.
  • I medesimi sentimenti dominavano la lettera del basileus; agognando a cancellare anche le tracce di così lunghe e fatali discordie, Costantino dichiarava a Leone che tutti gli sforzi miravano a ristabilire la pace fra le due Chiese; egli avrebbe fatto tutto il necessario per fornire al vinto di Civita i soccorsi indispensabili e per sottrarlo alla penosa situazione in cui si trovava.

Queste due lettere dovettero pervenire a Benevento, dove Leone trascorse l’inverno, negli ultimi giorni di dicembre 1053 o proprio sui primi del 1054.

MISSIONE DI UMBERTO A COSTANTINOPOLI (1054)
Queste lettere indussero il papa a preparare l’invio a Costantinopoli di una legazione, incaricata di abbozzare al Sacro Palazzo e col patriarcato gli approcci relativi all’unione. La scelta di Umberto si imponeva. Anche questa volta fu Umberto a redigere le due lettere, destinate rispettivamente al basileus ed al patriarca.

  • La prima indugiava a lungo sulle questioni d’ordine politico, sorvolando su quelle di ordine religioso; l’atteggiamento dell’“arcivescovo” Michele dava luogo a qualche timore; i suoi recenti atti a Costantinopoli, i suoi anatemi contro gli azzimi, le sue gesta sulla giurisdizione dei “patriarchi” di Alessandria e di Antiochia non erano in nulla rassicuranti. La lettera invitava il basileus a far sì che tutte queste rimanessero pure apprensioni.
  • Quanto alla lettera al patriarca, pur rappresentando un progresso in fatto di moderazione rispetto alla risposta dell’anno precedente, era però sempre abbastanza dura. Sebbene si dichiarasse commosso dagli appelli del Cerulario alla concordia, il redattore della lettera pontificia non dissimulava le ragioni di malcontento che si avevano a Roma: l’irregolarità della promozione di Cerulario, le sue intrusioni nella giurisdizione delle grandi sedi – giustificate dal suo falso titolo di patriarca ecumenico, - infine e soprattutto i suoi violenti attacchi contro l’uso degli azzimi. Prendendo atto della promessa fatta da Michele di ristabilire per conto suo e di far ristabilire dagli altri il nome del papa nei dittici, la lettera non dimostrava una particolare soddisfazione; si trattava semplicemente di un omaggio dovuto: una Chiesa che ci passasse sopra e pertanto si sottraesse all’obbedienza romana, cadrebbe per ciò stesso al livello di conventicola di eretici e di sinagoga di satana! Tutte queste osservazioni, espresse con un tono abbastanza agro, erano appena addolcite dalle proteste finali di amicizia e di concordia. Forse, trattandosi di proposte di pace, si sarebbero potute adoperare espressioni più temperate; forse, se l’estensore fosse stato Leone IX, di proverbiale bontà, tali rivendicazioni della Chiesa Romana – giustissime in sostanza – avrebbero avuto un altro tono. Ma il temperamento integralista ed esclusivo di Umberto vi si manifestava senza ritegni. Che doveva accadere quando il cardinale fosse giunto a Costantinopoli?

UMBERTO A COSTANTINOPOLI
La legazione romana, passando per la Puglia, si era abboccata con Argiro, il quale non aveva mancato di informare Umberto sull’atteggiamento da prendere non appena arrivato: ciò spiega perché, giunti alla meta dal loro viaggio nella primavera del 1054, i legati ostentassero visibilmente di non aver missione che per Costantino. Certo, ad un dato momento, essi dovettero pur presentarsi al patriarca, ma in circostanze tali che Cerulario avrà poi buon gioco per incolparli anche di mancanza di riguardi; rappresentanti della Chiesa romana, si attribuivano la qualità di offesi e parevano attendere dal patriarca un segno di pentimento. Cattiva presentazione per negoziare la pace!
L’accortezza greca fece presto ad intralciarne i piani. Cerulario intendeva trattare con Leone IX da pari a pari: do ut des; egli avrebbe riconosciuto il papa come il papa avrebbe riconosciuto lui. Ora, nel documento che i legati gli rimettevano in suo nome, si trattava di ben alto. Era questo – pensò – il Cerulario quello spirito d’intesa con cui il Sacro Palazzo gli aveva assicurato di appianare tutte le difficoltà? E poi, quali garanzie aveva egli dalla missione di quei sedicenti legati? Non venivano essi direttamente da Argiro, suo nemico? Questa legazione non era altro che un tiro preparatogli dal catapano d’Italia; i legati non avevano alcun potere, le loro lettere nessuna autorità. Non c’era che da non tenerne conto.
Ciò era tanto più facile in quanto al patriarca venne presto la notizia della morte di Leone IX (19 aprile); il suo successore sarebbe stato, secondo ogni probabilità, nominato dalla corte germanica, e ci voleva del tempo. Che ne era in questo frattempo dei poteri dei legati, se pure ne avevano mai avuti? Non c’era che da lasciar logorare le loro forze nelle sterili polemiche in cui Umberto si compiaceva. Questi aveva appunto polemizzato con un monaco del monastero di Studion, Niceta Stetato, il quale aveva opposto al trattato Adversus Graecorum calumnias un libello sugli azzimi, sul digiuno del sabato e sul celibato ecclesiastico. La replica veemente del cardinale, che non risparmiava le ingiurie al suo contraddittore, mise in allarme il Sacro Palazzo, dove si continuava a contemplare l’idea di una riconciliazione con Roma.
Il basileus s’interpose e finalmente, dopo una disputa teologica fra i legati e Niceta, in presenza del sovrano, lo Studita fece ammenda onorevole e ricevette l’assoluzione delle sentenze emesse contro di lui.

IL COLPO DI SCENA DEL 16 LUGLIO 1054
Ma se il pugno del basileus poteva piegare la fronte di un monaco, era però impotente a costringere il patriarca ad entrare in relazione con i Romani. Questi finirono per comprenderlo e si risolsero di lasciare Costantinopoli, ma con un colpo teatrale. Il 16 luglio del 1054 sull’altare maggiore della Chiesa di Santa Sofia, dinanzi al clero e al popolo riuniti nell’ora del solenne pontificale e dopo aver protestato contro l’ostinazione del patriarca, deposero la bolla di scomunica contro il patriarca ed i suoi seguaci, redatta da Umberto in termini molto aspri. Poi uscendo dalla chiesa scossero, conformemente alla parola di Gesù, la polvere dai loro calzari esclamando: “Veda Iddio e ci giudichi”.
Documento assai curioso questa bolla di scomunica recante, più che tutti i precedenti documenti, l’impronta del cardinale Umberto: una veemenza che confina con la violenza e l’ingiuria, uno sciorinamento di erudizione storica di assai mediocre lega, accuse non sempre verificabili; e con questo certe precauzioni avvocatesche per lasciar credere che, nonostante la morte di Leone IX, i poteri dei legati non sono estinti. Tra le accuse mosse alla Chiesa costantinopolitana ve ne sono di quelle fin troppo fondate, certo; ma quante altre, invece, non hanno nemmeno la scusante della buona fede! E purtroppo da allora in poi le Chiese orientali giudicheranno dei reclami di Roma in base a questo documento privo di serenità; esso fa degno riscontro ai testi più o  meno ufficiali in cui i cristiani di lingua greca hanno accumulato le loro accuse, vere o false, gravi o leggere, contro la Chiesa romana.

PARTENZA DELLA LEGAZIONE ROMANA
Compiuta la loro manifestazione in Santa Sofia, i legati fecero i preparativi per la partenza, presero vari provvedimenti in favore della colonia latina e quindi si presentarono per prendere congedo dal basileus. La separazione fu cordiale; fu scambiato il bacio di pace; ricchi doni furono rimessi ai legati, sia per loro personalmente sia per San Pietro. Il lunedì 18 luglio l’ambasceria lasciava la città; ma non aveva ancora percorso quindici leghe sulla riva settentrionale del mar di Marmara che un corriere la raggiungeva, invitandola, a nome del basileus, a ritornare a Costantinopoli, dove infatti rientrava il mattino del 20 luglio.
Vi era forse nella mente dell’imperatore l’idea di un nuovo tentativo di riconciliazione? È probabile.. Avendo preso coscienza, appena partiti i legati, della bolla di scomunica, Costantino molto probabilmente dovette giudicare inconsistenti i motivi per cui  i legati rompevano col patriarca; spedì pertanto un messaggero che rapidamente raggiunse l’ambasceria romana il martedì. Ma al patriarcato il tentativo destò irritazione e subito pensò di doverlo assolutamente far naufragare. Per aizzare l’opinione pubblica contro questi Romani venuti ad insultare i Greci in casa loro bastò dare larga pubblicità alla bolla, commentandone al bisogno le espressioni, magari amplificandole; di modo che, quando fu annunciato il ritorno dei legati, l’effervescenza si mutò in sedizione. Di condurre i Romani fino al patriarcato o a Santa Sofia non era nemmeno da parlarne; davanti alla basilica la folla era in tumulto e lo stesso Sacro Palazzo venne assediato; nel gran tumulto si udivano voci che chiedevano la testa dei Romani.
Si ebbe a malapena il tempo di spedire a costoro l’ordine di partirsene al più presto; per calmare la folla e l’irascibile patriarca, l’autocrate non aveva più che un espediente: infierire contro i sedicenti complici dei Latini: il genero di Argiro e suo figlio furono condannati a perpetua prigionia. In pari tempo fu dato ordine di bruciare la bolla di scomunica, mentre Umberto ed i suoi compagni, con la scorta, riprendevano, in senso inverso e più rapidamente che mai, la strada percorsa nella mattinata.

 

REPLICA DI CERULARIO. L’EDITTO SINODALE
Restava ormai da dare un carattere ufficiale alle decisioni subitanee di quella tragica giornata. Il 24 luglio, il sinodo permanente, che comprendeva una dozzina di metropoliti e due arcivescovi, si radunava a Santa Sofia sotto la presidenza del patriarca ed emanava un editto sinodale di condanna dell’operato dei legati.
Questo documento narrava che degli uomini dell’Occidente (la regione delle tenebre) venuti nella “Città custodita da Dio”, fonte dell’ortodossia, avevano tentato di pervertirvi la vera fede, rimproverando ai greci di restare in comunione con i preti sposati e di non accettare “l’aggiunta” (il Filioque). Discussi poi questi capi d’accusa, l’Editto chiamava in causa i titoli di credito dell’ambasceria: in realtà, diceva, questi sedicenti legati non erano che dei mandatari di Argiro. Veniva poi la storia della bolla di scomunica e dei fatti svoltisi dopo che essa era stata deposta in Santa Sofia, fino all’ordine dato dall’imperatore, le sera del mercoledì, di bruciarla. A dire il vero, si erano limitati a bruciarne una copia, poiché era opportuno conservare quella autentica negli archivi “ad eterna vergogna e condanna permanente di coloro che così avevano bestemmiato il Signore”.
Affinché nessuno nella Chiesa greca lo ignorasse, Cerulario spedì anche a Pietro d’Antiochia, perché lo trasmettesse agli altri patriarchi, un breve sunto di tutti questi avvenimenti; qualche tempo dopo egli rivolgeva di nuovo al medesimo destinatario un manifesto più ampio, nel quale intendeva precisare la situazione della Chiesa greca di fronte a Roma. La sua idea fondamentale era che già da lungo tempo sussisteva la rottura fra l’Oriente e l’Occidente; essa risaliva al tempo del VI Concilio e di papa Vigilio, separatosi allora dai greci (anacronismo che Pietro d’Antiochia metterà caritatevolmente in conto allo scriba trascrittore della lettera; in realtà Vigilio venne a contrasto con i Greci nel V Concilio, 553, dove ci fu la condanna dei “Tre capitoli”, le false dottrine cristologiche di Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cirto e Iba d’Edessa). Tale stato di cose era del resto giustificato dai molteplici errori dei Latini; gravissima la questione degli azzimi, tuttavia fra gli occidentali vi era ben altro da riprendere: osservanze giudaizzanti, manducazione di carni sanguinolente, taglio della barba, mitigazione della quaresima col mangiare carne durante la prima settimana, ammissione dell’uso delle uova e dei latticini il venerdì e per contro digiuno del sabato; per i monaci poi il fatto di non conformarsi in materia di cibi ai precetti rigorosi dell’astinenza, e, in un altro ordine d’idee, il portare i vescovi l’anello.
Accuse più serie erano inoltre: l’aggiunta del “Filioque” nel Simbolo e la menzione dello Spirito Santo alla fine del Gloria in excelsis; l’interdizione del matrimonio ai preti; il permesso a due fratelli di sposare due sorelle; il fatto che nella Messa il celebrante fosse molto sovente solo a comunicarsi; l’immersione unica nel battesimo; l’uso del sale nelle cerimonie del catecumenato; il rifiuto di “adorare” le reliquie dei santi e perfino le immagini e di annoverare fra i dottori Gregorio Nazianzeno il Teologo, Basilio e Giovanni Crisostomo. “Gente che vive in questo modo, che si permette tutte queste incongruenze, come potremo noi ammetterla per ortodossa? Vada chi vuole fino ad un simile estremo! Quanto a me – concludeva il  patriarca – io non invidio questa bella compagnia, a chi la vuole!”.
Tale la requisitori compilata dal Cerulario contro Roma, davanti a tutta la Chiesa d’Oriente. Sebbene egli mantenga ancora la fictio dell’Editto sinodale che distingue fra la Santa Sede ed i suoi rappresentanti, quella che egli chiama in causa, al di sopra di Umberto, è pur sempre Roma. Fozio si era servito del medesimo procedimento nella sua enciclica dell’867, ma vi è questa differenza: Michele allunga ancora la lista delle accuse, facendo largo posto a quelle di ordine pratico, liturgico e cerimoniale. Le antiche accuse – che non hanno senso né portata che per il fatto di essere state rimasticate per troppo lungo tempo – si allineano in lista impressionante; ma ben più grave è l’insistenza con cui Cerulario si adopera a far valere l’idea che la rottura si perde nella notte dei tempi, che tutto si oppone alla riconciliazione, che del resto non è per nulla augurabile. Fra la Chiesa “ortodossa”, la sola qualificata per rappresentare Cristo quaggiù, e quella conventicola di eretici che costituisce la cristianità latina, quale intesa si potrebbe creare?
Il cristianesimo autentico non esiste più che nella grande istituzione che, sotto il governo del patriarca ecumenico e del basileus, conduce i fedeli al loro eterno fine.
Scompariva pertanto il ramoscello d’ulivo che il Cerulario ancora agitava nella lettera a papa Leone IX; egli, in quanto capo della Chiesa greca (giacché pretendeva dettar legge agli altri patriarchi), si ergeva di fronte alla Chiesa latina come solo rappresentante della vera religione di Gesù.

TENTATIVI DI MEDIAZIONE DI PIETRO DI ANTIOCHIA
Davanti a tale violenza, il patriarca di Antiochia rimase esterrefatto, e con mille precauzioni tentò di far presente al suo irascibile confratello che nell’elenco delle accuse mosse non tutto era di uguale importanza; in fin dei conti, tutte quelle questioni di barbe, di anello episcopale e magari di grasso e di strutto erano questioni più che secondarie. Difficile poi ammettere che i Latini non “adorassero” né reliquie né immagini; i pellegrini che venivano dall’Occidente non davano affatto questa impressione. Quanto ai gravamina più seri: azzimi, imposizione del celibato ecclesiastico, e mettiamo pure anche l’aggiunta del Filioque nel Simbolo, c’era modo di discuterne pacificamente. A dire il vero, l’atteggiamento dei Latini in siffatte questioni non sembrava sostenibile: ma non bisognava forse avere per essi pietà più che irritazione? Erano fratelli, in fondo; se la loro Chiesa, caduta presto sotto il giogo dei barbari, non aveva conservato l’ortodossia in tutta la sua purezza, aveva pure qualche scusa.

INTRANSIGENZA DI MICHELE CERULARIO
Ci voleva ben altro per il Cerulario! Impigliato per volontà del basileus nei negoziati con Roma, egli mai ne aveva desiderato il buon esito; lo paventava anzi. Approfittando dell’incapacità diplomatica di Umberto, egli era pervenuto ai suoi fini; gli approcci erano falliti, né c’era più da riprenderli. Tutta la Chiesa greca si sarebbe stretta intorno a lui. Egli aveva già partita vinta con Antiochia, né tutti quegli scrupoli avrebbero trattenuto Pietro dal regolare praticamente la sua condotta su quella di Costantinopoli; “Gerusalemme ed Alessandria avrebbero certamente sposato anch’esse la sua causa. In sostanza, poi, era questa in realtà una contesa? Dopo un intervallo di due anni si ritornava semplicemente allo statu quo ante. L’isolamento in cui Costantinopoli si compiaceva non sarebbe più turbato d’ora innanzi da quei vani rumori d’intesa con Roma; l’incidente era chiuso! Passate le vive emozioni del luglio 1054, le cose ripresero infatti a Costantinopoli il loro solito aspetto; quegli stessi turbamenti lasciarono così scarse tracce che gli storici bizantini – per ignoranza o per disprezzo – hanno tralasciato di parlarcene.

FINE DI MICHELE CERULARIO
Ciò che essi ci dicono di Michele è invece il prestigio di cui godette così a lungo nella città imperiale e di cui usò – ed abusò anche – nelle crisi politiche succedutesi a Bisanzio con ritmo vertiginoso, le quali causarono a breve scadenza la scomparsa della dinastia macedone e l’avvento dei Comneno. Nel gennaio 1055 moriva Costantino Monomaco; sua cognata Teodora usciva dall’ombra in cui era rimasta confinata e teneva il potere fino alla morte, il 30 agosto 1056. Sotto Michele VI Stratiotico, designato dalla vecchia imperatrice a proprio successore, il Cerulario divenne onnipotente; dopo aver assicurato la trasmissione dei poteri, sarà ancora lui a stroncare un tentativo di sommossa che minaccerà di travolgere il nuovo sovrano. Ben presto però, irritato dall’atteggiamento diffidente dello Stratiotico a suo riguardo, il Cerulario passerà all’opposizione e favorirà il complotto ordito a Pasqua del 1057 per mettere Isacco Comneno al posto del vecchio Michele VI; sarà sempre lui a prendere, come nel luglio del 1054, la direzione della sommossa, lui a costituire un governo provvisorio nell’attesa che Isacco entri in Costantinopoli, lui infine ad incoronarlo il primo settembre 1057.
Egli intendeva governare a suo talento il nuovo imperatore ma il Comneno non era uomo da subire un padrone. In capo ad un anno egli era ben deciso a disfarsi del patriarca.
Avvicinandosi il Natale del 1058, il Cerulario si era ritirato, come portava l’uso, in un monastero per attendere alla preghiera; ivi fu arrestato e tratto a bordo di una nave che lo portò nell’isola di Proconneso, nel mar di Marmara, poi in quella d’Imbros, allo sbocco dei Dardanelli. Invano si tentò di strappargli l’abdicazione; bisognò pensare a deporlo in piena regola, costituendo un tribunale ecclesiastico, da radunarsi in una città della Tracia. Psello, “console dei filosofi”, si fece un dovere di redigere la requisitoria, ma ci rimise la sua fatica, poiché la nave che conduceva il deposto patriarca al luogo del giudizio fu trascinata dalle correnti nel mar di  Marmara e dovette attraccare nel porticciolo di Madyte, pare molto distante dal luogo stabilito. Ed a Madyte moriva pochi giorni dopo il Cerulario, poco prima del Natale 1058, accasciato dalle emozioni d’ogni genere, dalle fatiche e dai maltrattamenti che non gli erano stati risparmiati. Ma, non appena scomparso, ecco il popolo spontaneamente canonizzarlo, sicché Isacco Comneno dovette far ritornare con gran pompa la salma del patriarca martire a Costantinopoli, dove egli stesso venne a renderle omaggio. Alcuni mesi più tardi Isacco abdicava, designando suo successore Costantino X Ducas, sposo a Eudocia, nipote per l’appunto del Cerulario. Cominciava l’apoteosi di Michele VII; il nuovo patriarca, Costantino Licude, istituì in onore di lui una festa annuale, ed in una di tali feste – forse già nella prima – lo Psello, dimenticando l’astiosa requisitoria da lui scagliata qualche mese prima contro il Cerulario, pronunciò uno sperticato panegirico per celebrare la santità e le gesta di colui del quale con tanto accanimento aveva chiesto la deposizione. In fin dei conti, il patriarca faceva una fine gloriosa.

 

Fonte:

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