Buddha Buddhismo Budda Buddismo

 

 

 

Buddha Buddhismo Budda Buddismo

 

La dottrina Buddhista

 

Il Buddha nacque intorno alla metà del VI secolo a.C. nella famiglia dei Sakya, I potenti, che capeggiavano la piccola confederazione dell’Uttarakosala. La sua posizione geografica, a ponte tra le montagne e la pianura gangetica, riusciva particolarmente vantaggiosa, e dal concorso di questo e di altri elementi favorevoli la terra dei Sakya traeva una condizione di fiorente benessere.
Siddhartha, colui che ha raggiunto il suo scopo, (questo è il nome di nascita del futuro Buddha), era figlio di Suddhodana, capo designato del clan oligarchico dei Sakya e di Maya.
La leggenda fiorì presto attorno alla figura di Siddhartha, rigogliosa soprattutto per gli anni dell’infanzia e della giovinezza ed estesa fino a comprendere gli eventi che precedettero il suo concepimento, sì che la biografia del Buddha si presenta come l’insieme di una tradizione piuttosto complessa a causa dell’e-suberante varietà di temi che via via si innestano nelle strutture portanti dell’intero racconto.
Narra dunque la leggenda che prima di nascere fra i Sakya il futuro Buddha risiedeva col nome di Svetaketu, colui che ha uno stendardo bianco, nel mondo dei Tusita, di quegli esseri felici che colgono in se stessi la pienezza della beatitudine. Fu qui che Siddhartha, consapevole del fatto che il fondo Karmico delle sue precedenti esistenze era totalmente esaurito, decise in piena coscienza e con preveggenza del futuro di scendere fra gli uomini, e scelse liberamente di nascere in India.
Il distacco dal mondo dei celesti e il concepimento nel grembo di Maya si colorano di manifestazioni fantastiche: immenso il corteo di divinità che lo accompagnano al momento della sua partenza, miracoloso il suo penetrare nel seno di Maya sotto forma di elefante bianco a sei zanne, miracolosa la trasparenza del grembo della madre.
«Appena nato, il Bodhisattva posa i piedi sulla terra piana e, rivolto verso il nord, fa sette passi, protetto da un parasole bianco. Osserva all’interno tutte le regioni e dice con la sua voce da toro: "Sono il più alto del mondo, sono il primogenito del mondo; questa è la mia ultima nascita; per me non vi saranno ormai più nuove esistenze"». L’espressione "io sono il più alto del mondo" non significa altro che la trascendenza spaziale del Buddha. Egli ha raggiunto la cima del monhjdon attraverso i sette piani cosmici che corrispondono notoriamente ai sette cieli planetari.
Il mito della nascita esprime con la più netta precisione che, appena nato, il Buddha trascende il cosmo e abolisce lo spazio e il tempo. Il simbolismo della trascendenza è messo in luce dalle diverse maniere in cui il Buddha fa i sette passi. Sia che non tocchi il suolo, sia che dei loti germoglino sotto i suoi piedi, sia che cammini sul piano, egli non è insudiciato da nessun contatto diretto con questo mondo. Osserviamo che i sette passi del Buddha sono analoghi all’ascesa al cielo dello sciamano siberiano per mezzo delle tacche praticate nella betulla cerimoniale, oppure alla scala a sette gradini salita dall’iniziato nei misteri di Mitra. Tutti questi riti e miti hanno una struttura comune: l’universo è concepito con sette piani sovrapposti (cioè sette cieli planetari); la sommità può essere costituita dal nord cosmico, dalla stella polare o dall’empireo, che sono formule equivalenti dello stesso simbolismo del Centro del Mondo; l’elevazione al cielo più alto, cioè l’atto di trascendere il mondo, avviene vicino ad un centro, poiché proprio in un centro avviene la rottura dei livelli e quindi il passaggio della terra al cielo.
La principale differenza fra i sette passi del Buddha e i rituali bramanico, siberiano o mitriaco consiste nel loro orientamento religioso e nelle loro diverse implicazioni metafisiche. Il mito della nascita esprime il trascendimento di questo mondo sudicio e doloroso da parte del Buddha. I rituali bramanico e sciamanico mirano ad un’ascensione celeste destinata a far partecipare al mondo degli dei e ad assicurare una condizione eccellente dopo la morte, oppure mirano a ottenere una grazia dal Dio Supremo. Ma la struttura di questi motivi è identica: si trascende il mondo attraverso i sette cieli e raggiungendo il vertice cosmico, il palo. Trascendendo il mondo l’uomo restaura una situazione primordiale: cioè la compiutezza dell’inizio del mondo, la perfezione del primo istante, quando nulla era stato insozzato, nulla era stato logorato perché il mondo era appena venuto all’esistenza.
Sette giorni dopo la nascita di Siddhartha, Maya morì e il bimbo fu affidato, fino all’età di sette anni, alle cure della zia materna Mahaprajapati Gautami, seconda moglie di Suddhodana.
A sedici anni, invitato a scegliersi una sposa, acconsentì alle sollecitazioni che gli venivano fatte, ma a malincuore. Sposò una sua cugina di nome Yasodhara.
Le pensose considerazioni di Siddhartha sulla vecchiaia, sul dolore e sulla morte, sono il punto di partenza di tutto il pensiero buddhista, mentre la riflessione sull’asceta si fa suggestiva indicazione della strada da battere per giungere alla Verità.
Decise allora di lasciare la sua vita agiata, compiendo la grande partenza, Siddhartha visse il suo volontario esilio diventando Sakyamuni, l’asceta di Sakya: nell’umiltà della vita ascetica da lui abbracciata, egli volle sciogliere ogni rapporto con la famiglia, conscio com’era che la vita familiare con gli inevitabili suoi legami affettivi e passionali altro non è che uno stato di impurità.
Giunto a Vaisali si mise alla scuola di Arada Kalama celebre maestro la cui dottrina, detta della "sfera del nulla", e la cui ricerca di una conciliazione tra il Samkhya e il Vedanta assurgono quasi a simbolo di quei fermenti speculativi che caratterizzano il mondo spirituale anteriore di poco o coevo all’insegnamento buddhista. Non soddisfatto di questa dottrina Siddhartha si recò allora nel Magadha, a Rajagrha divenne discepolo di un altrettanto celebre guru, Udraka Ramaputra. Non pago nemmeno di questa dottrina, Siddhartha riprese il cammino seguito da cinque monaci, Ajnata Kaundinya, Bhadrika, Vaspa, Asvajit e Mahanaman, ansioso di poterli illuminare.
Si fermò a Uruvilva e qui abitò per sei anni, dandosi alle più terribili macerazioni, inibendosi le stesse funzioni fisiologiche al punto di conseguire una condizione di morte apparente. Il logorio dell’organismo non approdava ad una maggior luce dello spirito, ma aveva per unico effetto l’umiliazione del corpo e semmai spostava a strati più profondi quella esistenza istintiva, quella sete di vivere che ostacola la conoscenza della verità suprema. I cinque monaci delusi dalla improvvisa rinuncia alle mortificazioni fisiche da parte del loro maestro lo abbandonarono dirigendosi a Benares.
L’attesa di Siddhartha è abbastanza strana perché non è l’attesa da un Dio, è più un’intuizione che sarebbe arrivata una certa risposta, ma come, da chi? Questo il Buddha futuro non lo sa.
La felicità non è un fatto tanto sociale o rituale, bensì un fatto del cuore una purificazione interiore. Siddharta arriva presso Bodhi Gaya, il luogo dove si trova l’albero dell’illuminazione, della saggezza. In una notte Siddharta trova la via per raggiungere la liberazione dalla sofferenza e dal dolore. I testi hanno distinto quella notte in quattro vigilie, quattro tappe. E’abbastanza facile trovare nelle grandi religioni il tema della notte: la notte della discesa del corano, la notte della fuga          dall’Egitto, la notte di Natale e la notte della risurrezione del Cristo.
Nelle grandi esperienze religiose la notte ha una certa complicità, è il momento della grande fecondità spirituale oltre che naturale. La notte di fa incontrare con il trascendente, con il divino che incute anche un pò paura.
Nella prima parte di quella notte, che segnò il supremo e totale risveglio, Siddhartha percorse i quattro stadi della meditazione che lo portarono per gradi al raggiungimento della non triste, non lieta, equilibrata, saggia e perfetta purezza liberando lo spirito dai legami con il mondo sensibile.
Nella seconda egli rivide in solo istante e in ogni dettaglio le infinite precedenti esistenze sue e degli altri e la miseria legata a queste.
Nella terza infine intuì la serie delle cause che provocano il succedersi delle esistenze, stabilì la legge della produzione condizionata.
In quella notte il Buddha è stato illuminato, anche se per molto tempo egli ha riflettuto sulla vita, sulla gioia e sul dolore, ha introiettato; questa luce gli ha mostrato tutto il divenire del’universo, l’ha visto con gli occhi della coscienza immedesimandosi del divenire universale, assumendo una coscienza che si dilata ed arriva fino ai confini dell’universo, una coscienza personale che si integra con una coscienza cosmica. Passato, presente e futuro sono stati colti contemporaneamente, il Buddha ha così colto quello che caratterizza ogni tipo di esistenza umana, ovvero il dolore, l’in-felicità. Cogliendo i meccanismi dell’esistenza, le dinamiche psicologiche, si accorge che se c’è il dolore è perché nasce dal desiderio. C’è un desiderio, una sete universale che accomuna tutti gli esseri, le forze naturali: c’è un attrarsi dei corpi a livello cosmico. Il desiderio ti fanno vedere le cose in maniera sbagliato, è chiaro allora che per eliminare l’ignoranza bisogna eliminare i desideri.
Se l’uomo rinasce ed è ancora al mondo è perché l’uomo ha avuto in desiderio di rinascere. Nasce così il dharma buddista.
Da quella notte Siddharta viene chiamato Buddha, l’illuminato, che è il nome che esplica l’evento cruciale del’esistenza di Siddharta. Non si parla di missione perché il Buddha non viene mandato da nessuno. Anzi dopo quella notte il Buddha, secondo alcune leggende, è incerto se comunicare quella esperienza agli altri oppure no. C’è addirittura il tentatore, Mara, una specie di nostro Satana che cerca di  convincere Buddha a non diffondere la sua esperienza, ma Buddha decide il contrario per compassione nei confronti degli uomini. "... Io certo, o malvagio, non entrerò nel nirvana finché questa mia santa pratica di vita non sarà prospera, fiorente, estesa, nota a molti, universale, ben accolta dagli dei e dagli uomini".
Il Buddha accetta dall’induismo la legge del Karma e del Samsara insistendo soprattutto su un punto: la impermanenza universale, niente è stabile, niente riamane, tutto si modifica; da qui la negazione di un io permanente, di un anima stabile permanente.
Non accetta dall’induismo gli dei, esseri anche loro soggetti alla legge del samsara, anche gli dei supremi vivono in un certo stadio del cammino samsarico che hanno bisogno di rinascere per liberarsi, anche loro devono raggiungere il nirvana. Inoltre il Buddha non accetta più la scruti, in qualche modo diventa un eretico perché non accetta i libri sacri; trasforma la sua dottrina in un’etica, in una psicologia, in una filosofia che cerca il senso ultimo delle cose. Ma nello stesso tempo mantiene il carattere di religione perché c’è un modo di essere non condizionato ed assoluto che è il nirvana.
A Benares il Buddha fa il suo primo discorso e ritrova i suoi compagni che lo avevano precedentemente abbandonato e che diventano ora i suoi primi discepoli.
Nel discorso di Benares sono contenute le quattro nobili verità, che è il dharma buddista (non è più il dharma indù) e  il duplice sentiero.
Tra la morte del  Buddha e i primi testi scritti passano circa cinque secoli, si sono formate diverse tradizioni orali dalle quali sono nate più redazioni scritte del messaggio originario del Buddha.
Il Buddha condannò, per la loro intrinseca e ingenita inutilità, ogni discussione filosofica, così come aveva rifiutato le pratiche ascetiche e le penitenze corporee parimenti disadatte, e in tutto, ai fini della chiaroveggenza. Il determinante che il Buddha attribuisce a quel tipo di conoscenza che deriva da "esperienza vissuta" evidenzia ulteriormente l’atteggiamento pratico della dottrina, d’altra parte già sufficientemente comprovato dalla determinazione di lasciare inevase talune domande poste dai discepoli e di lasciare insoluti non pochi punti oscuri e ambigui della dottrina stessa. "E che cosa vi ho esposto, o monaci? Vi ho esposto: questo è il dolore; vi ho rivelato: questa è la causa del dolore; vi ho rivelato: questa è la cessazione del dolore; questo è il cammino che conduce alla cessazione del dolore. E perché o monaci, vi ho rivelato tutto ciò? Perché è profittevole, perché promuove la santità della vita e conduce     all’allontanamento del mondo, all’assenza di passioni, alla cessazione, alla pace, alla più alta conoscenza".  Il dolore è la tragica costante di ogni momento dell’esistenza e di ogni modo d’essere, è realtà onnipresente e immanente, la cui inflessibile legge non può certo essere mitigata dalla composta e serena unificazione upanishadica con l’atman".           
1a verità: La vita è dolore, non per questo il Buddha è pessimista perché lo ha cercato e trovato la soluzione a questa situazione. La nascita è dolore (va compresa alla luce della teoria del samsara), la morte è dolore, la sofferenza, il gemito, l’abbandono e la disperazione sono dolore.
Tutto è passeggero, tutto e impermanente e quindi ogni felicità sfugge sempre. Anche quando sei felice tu sei consapevole che questa felicità passerà presto.
"Questa forma è frusta, piene di malattie, fragile; questo assieme putrescente si disfa; la vita, infatti, confina con la morte".
Tutte le cose sono transitorie, si dice, in quanto combinate, e questa loro condizione di transitorietà, che le fa appunto necessariamente soggette a dissolversi, è fonte di dolore: Ciò che è transitorio è dolore, tutto è transitorio, quel che è transitorio è dolore, tutto è dolore.
I cinque khandha[le forme (rupa), le sensazioni (vedana), le percezioni (sañña), le disposizioni psichiche (sankhara) e la coscienzaintellettiva (viññana)] sono dolore. Non c’è un io sostanziale, stabile e permanente. Ma io vedo, amo, soffro, sì tu dici io, ma è un fascio di emozioni che si succedono continuamente, questi sono i khandha, fasci dinamici di conoscenza, di percezione, sempre in divenire. Questi cinque gruppi, queste espressioni molteplici e varie di quella realtà che noi chiamiamo io, ma che non sono io: questo è dolore.
Quando tu dici "io ieri ho incontrato", non è vero perché quell’io non c’è più e non c’era nemmeno ieri, era un divenire continuo delle tue capacità di incontro e di conoscenza (riassumibili nei cinque khandha) anch’esse in continuo divenire. I buddhisti portano l’esempio della candela: la fiamma non è sempre la stessa fiamma, il combustibile cambia continuamente, quello sei tu: apparentemente sei sempre lo stesso in realtà tu divieni sempre, non esiste un io permanente.
Il Buddha non vuole fare metafisica, il problema da risolvere urgentemente è quello della felicità qui ed ora, se è vero quindi che il dolore nasce dal desiderio, senza fare ontologia, siamo pratici per risolvere il problema. Affrontare il problema del dolore è quello che preme al Buddha, non ricercarne l’origine, spiegarne i meccanismi e le cause prime. Se tutto passa è inutile eliminare i desideri se non ti convinci che non c’è una radice stabile dei desideri e la radice sarebbe l’io. Non ha senso che tu continui a desiderare, ad aggrapparti perché in realtà non c’è nessuno che desidera sia perché non c’è nulla a cui aggrapparsi stabilmente, tutto i tuoi appigli sfuggono. Si corre il rischio di prendere per essere ciò che non è, per io ciò che non è io, sostanza ciò che non è sostanza.
Togli qualsiasi desiderio e sarai felice, felice di che cosa? Il Buddha dice che non si può essere felici di una cosa perché ogni cosa muta continuamente.
Prevale nel Buddha una teologia, se così si può dire, negativa: la felicità non è questo non è quello. La negazione dell’io da parte del Buddha è soprattutto ascetico spirituale che ontologica, quindi è inutile, che noi cerchiamo di contrapporci con la nostra ontologia occidentale perché il buddhismo è su un altro livello.
Il buddhismo ha dunque negato, fin dalle sue più lontane origini, l’esistenza sia di un atman personale e permanente, sia l’esistenza -propugnata dal teismo induista- di un dio unico (Isvara), supremo, eterno, onnipotente e onnisciente creatore e reggitore dell’universo, sia l’esistenza di quel dio impersonale, metafisico che il brahman.
Già nell’Induismo c’era una concatenazioni tra le azioni, la legge del karma, tutto questo avviene    all’interno di un ordine cosmico, sociale, morale, che è il dharma indù. Qui invece non c’è il dharma indù, dove allora si concentra tutta la capacità di propulsione che mette in movimento tutto               l’universo? Nell’atto umano. Anche qui c’è la legge del karma, ma solo questa. Da qui esce tutta la concatenazione del divenire non solo della tua vita individuale. Il divenire cosmico è fondato sul-      l’ignoranza, che mette in movimento molte cose senza averne retta visione. In questo modo ci si forma una cattiva coscienza. Nessuno si sostituisce al tuo atto, non c’è un Dio che ripara per te, la solidarietà si traduce solo in responsabilità.
L’atto umano occupa il posto di Dio creatore, salvatore, riconciliatore. Non c’è una riserva ontologica, metafisica di personalità che rimane, per modificare un atto bisogna compierne un altro.
Se l’atto è così importante allora bisogna analizzare minuziosamente l’atto che non è solo esteriore ma anche interiore.
Gli atti che rafforzano e radicano l’esigenza di nuove nascite sono quelli cattivi, da una parte            l’umanità va avanti in forza di un male che si perpetua, il male delle cattive scelte, dall’altra la possibilità di nascere è data soltanto dall’ignoranza, struttura intrinseca che se nasciamo non possiamo eliminare in quanto la nascita è strettamente legata all’influsso del cattivo karma.
Il karma è l’inesorabile maturazione di ogni atto volitivo che, compiuto in un’esistenza, predetermina automaticamente un momento correlato in una esistenza futura. Realizzando il principio della causalità morale, la legge karmica si contrappone al fatalismo esasperato delle correnti deterministiche che individuava nella natura stessa delle cose o in una cieca casualità le cause efficienti di una destino predeterminato, indipendentemente dalla volontà dei singoli e neppur minimamente modificabile dall’in-tervento umano. Soltanto l’azione compiuta senza partecipazione di volontà o istintivamente, per ignoranza o per coazione dovuta a fatti esterni, risultando moralmente indifferente non può determinare effetti corrispondenti capaci di influenzare le esistenze future.
Alle azioni materiali conseguiranno rinascite tra uomini e dei, longevità e benessere, mentre le azioni cattive determineranno rinascite nel mondo degli animali, esistenze brevi, malattie, miseria.
"Ogni essere vivente è l’erede delle proprie azioni, l’erede dei propri atti. I suoi atti sono la matrice della quale ha tratto origine; egli è legato ad essi, ed essi sono il suo rifugio. Egli sarà l’erede di qualsiasi azione compia, buona o cattiva".
"Ovunque un essere vivente venga alla luce, ivi i suoi atti verranno a maturazione; e dovunque gli atti di lui verranno a a maturazione ivi egli raccoglierà il frutto dei suoi atti tanto in questa vita, quanto nella vita successiva o in altre esistenze future".
L’eredità del passato condiziona un ordine prestabilito delle cose ma non nega tuttavia la libertà umana che potrà e dovrà tradursi in nuove propensioni, in nuovi impulsi destinati a maturare il nuove retribuzioni degli atti. Resta da stabilire come possa un essere raccogliere i frutti di un’esistenza anteriore e, se tutto è impermanente e destinato ad estinguersi, che cosa sopravviva del passato e dei fenomeni costituenti per trasmigrare da un’esistenza all’altra. Quale soluzione offre il buddhismo a questa indubbia aporia che consegue alla negazione dell’io? Anche il buddhismo ammette che i fattori psicofisici che formano la personalità di ognuno si dissolvono al momento della morte. Ma per effetto del karma upacita (accumulato), cioè in forza delle azioni che l’individuo ha compiuto, si determina immediatamente un nuovo gruppo di Khandha. Il nuovo organismo psicofisico così determinatosi, non è identificabile con         l’organismo precedente, ma non è nemmeno un qualcosa di diverso in quanto è il continuatore della sua personalità; si tratta per tanto di una successione di stati concatenata, di una corrente che non ha soluzione do continuità, perennemente mutevole, e in cui i singoli elementi sono condizionati da quelli che rispettivamente li precedono. Nel  passaggio dall’uno all’altro di questi stati non c’è soluzione di continuità perché nell’attimo stesso in cui si interrompono i khandha di una vita sorgono quelli partecipi di una nuova nascita: l’ultimo stato di questa esistenza condiziona dunque il primo di una vita futura.
Né più né meno di  quanto accade, a livello umano, in un bambino che cresce fino a diventare uomo adulto: di quest’ultimo non si potrà dire che sia identico al bambino di un tempo, ma neppure si potrà affermare che derivi da quello. La successione dei vari stati di coscienza, la continuazione cioè della vita e del dolore ad essa connaturato, sarà interrotta unicamente con l’estinzione del desiderio e del karma grazie all’ot-tenimento della scienza, vidya, e col conseguente raggiungimento del nirvana.
Mentre l’induismo dà importanza al tuo passato, il buddhismo dà importanza al presente che se è vissuto fino in fondo ti dà la possibilità di raggiungere l’illuminazione.
2a verità: L’origine del dolore è la sete, il desiderio che porta a nascere di nuovo, conduce alla ricerca dei piaceri mondani.
3a verità: La cessazione della sete, è la via per sconfiggere il dolore.
Il secondo momento della dottrina dell’illuminazione che didatticamente ha assunto la forma di una diagnosi medica in quattro tempi, e che comprende riconoscimento della malattia, eziologia e diagnosi, giudizio sul metodo terapeutico, prescrizione del rimedio, va dunque alla ricerca dell’origine del dolore e la identifica in una eterna sete di vivere che affonda le sue radici nei desideri dei sensi e nell’ignoranza che ottenebra le facoltà intellettive. La formulazione così concisa di queste due proposizioni apparve fin dai tempi della più antica tradizione oscura e non esauriente, è già nei primi testi canonici si sentì la necessità di completarla con la dottrina della produzione condizionata (paticcasamuppada), con la legge cioè delle dodici cause (nidana) ricordata anche come l’augusto metodo.
Questa concatenazione logica di categorie correlate che racchiude nella dinamica della propria forma tutta la realtà del mondo, rappresenta senza dubbio il punto centrale ma anche più oscuro di tutta la dogmatica buddhista. La fondatezza dei dubbi che tormentarono il Maestro a questo riguardo è largamente provata dalle molteplici e differenti interpretazioni che di tale dottrina le varie scuole hanno dato in epoche diverse. "...esistendo che cosa, c’è vecchiezza e morte? (...) Ed egli così pensò: quando ci sia nascita ci sono vecchiezza e morte (...) che cosa esistendo, c’è la nascita? (...) quando esista l’esistenza c’è la nascita (...) che cosa esistendo, c’è l’esistenza? (...) quando esista l’attaccamento c’è l’esistenza (...) che cosa esistendo, c’è l’attaccamento? (...) quando esista la sete c’è l’attaccamento (...) che cosa esistendo, c’è la sete? (...) quando esista la sensazione c’è la sete (...) che cosa esistendo, c’è la sensazione? quando esista il contatto c’è la sensazione (...) che cosa esistendo c’è il contatto? quando esistano i sei organi c’è il contatto (...) che cosa esistendo, ci sono i sei organi? (...) quando esista l’individuo ci sono i sei organi (...) che cosa esistendo, c’è l’individuo? (...) quando esista la coscienza c’è l’individuo (...) che cosa esistendo c’è la coscienza? (...) quando esistano le predisposizioni c’è la coscienza (...) che cosa esistendo, ci sono le predisposizioni? (...) quando esista l’ignoranza".
"Solo per brama contendono re con re, principi con principi, sacerdoti con sacerdoti, cittadini con cittadini, contende la madre col figlio, il figlio con la  madre, il padre col figlio, il figlio col padre, contende fratello con fratello, fratello con sorella, sorella con fratello, amico con amico".
4a verità: La  via si esplica nell’ottuplice sentiero. Gli otto sentieri devono essere percorsi per raggiungere il distacco totale dei desideri, la liberazione consiste in una parte negativa: non più sete, non più attaccamento, non più ignoranza strutturale, non più rinascita; parte positiva del nirvana: felicità, beatitudine eterna totale ed infinita.
- Retta fede  - Retto pensiero  - Retta parola  - Retta azione  - Retto sistema di vita      -  Retto sforzo  - Retta memoria  - Retta meditazione.
Questi otto sentieri devono essere percorsi per raggiungere il totale distacco dai desideri e solo allora possiamo dire di essere liberi, ma chi è liberato? Nessuno se per chi intendi dire persona, sostanza, anima; la liberazione però c’è e consiste in una parte negativa: non più desideri, non più sete e da una parte positiva: felicità, beatitudine.
- Retta fede, retta visione: significa avere ben presente qual’è lo scopo che ci prefiggiamo, aver compreso il dharma buddhista; avere visione del progetto di vita buddhista. Non basta avere la visione perché mi devo affidare al Buddha, non posso sapere a priori se la sua via è efficace, devo avere fiducia in una persona che mi indica una strada percorsa da lui stesso. Il buddhismo è sperimentale è ortoprassi, bisogna provare per stabilire l’efficacia del dharma.
- Retto pensiero: liberarsi dal desiderio e dal piacere fisico, dalla collera e dall’ira e il non danneggiare gli altri. C’è una moralità molto esigente: il desiderio non rende chiara la visione perché il piacere ti lega al mondo fenomenico.
- Retta parola: è la sincerità, non parlare per nulla e fuori luogo, evitare la stupidità, cercare di essere autentici il più possibile senza mai cadere nella banalità.
- Retta azione e condotta: non uccidere, non rubare, non commettere atti impuri, donare ai poveri, condurre una vita sessuale regolata.
- Retto sistema di vita: riguarda il modo con cui ti guadagni da vivere, il lavoro che compi, alcuni potrebbero impedire il tuo cammino di liberazione. Per esempio l’astrologia e la divinazione sono occupazioni che impediscono tale cammino perché spingono ad affidarsi alle stelle e non alle proprie forze. La liberazione è faticosa e deve essere conquistata a caro prezzo.
- Retto sforzo: compiere il bene evitando il male, ma non basta bisogna anche prevenire il male in tutte le attività dell’uomo. Ci si rende conto che la pratica di vita buddhista non riguarda soltanto l’interiorità dell’uomo, si concretizza in struttura sociale, politica, cultura.
- Retta memoria: il ricordo è importante, bisogna ricordare il dharma buddhista, che l’io non esiste. Non è memoria storica, potremmo dire che è memoria ontologica.
- Retta meditazione: la meditazione nel mondo buddhista è molto importante perché è sempre collegata con le tecniche di autocontrollo psicologico e fisiologico.
Un’opinione largamente condivisa, considera la quarta verità come la formulazione di un’etica buddhista suffragata dagli innumeri esempi edificanti contenuti nelle parabole e nei racconti delle vite del Buddha: etica che potrebbe essere raccolta sotto le tre categorie ricorrenti con maggior frequenza:
a- Rettitudine (l’etica, non c’è religione senza moralità): parola-azione-sistema di vita.
b- Meditazione (disciplina mentale): sforzo-ricordo-concentrazione.
c- Saggezza: fede-proposito.
E’facile rilevare come i fattori etici e tecnici siano contemporaneamente presenti e si integrino a vicenda, reciprocamente necessari ed essenziali nell’ottuplice sentiero che porta alla soppressione del dolore.

Il primo gruppo comunitario di una certa consistenza è forse rappresentato dai sessanta monaci ai quali il Buddha affidò il compito di predicare la dottrina e di cercare nuovi adepti, ma il nucleo più antico dell’ordine lo formarono praticamente quei pochi monaci che per primi si unirono al Buddha per ascoltarne gli insegnamenti seguendolo in una vita errante non diversa, in fondo, da quella seguita da tanta parte dei religiosi indiani d’ogni tempo.
I suoi regolamenti si trovano codificati nel Vinaya-pitaka e in special modo nel Patimokkha, i cui precetti e i cui divieti risalgono verosimilmente, nella loro origine e nella loro definizione, a quelle prime adunanze per le confessioni pubbliche che il Buddha teneva con precisa periodicità insieme con i suoi seguaci.
L’entrata nella Comunità era aperta a tutti: contrariamente a quanto avveniva nel rigido esclusivismo bramanico non si ponevano qui limitazioni di casta o di condizioni sociali. Ne risultava di conseguenza una composizione socialmente e culturalmente eterogenea che metteva fianco a fianco nobili, uomini di ventura che avevano conquistato il dominio su città e regni, mercanti arricchiti, banchieri e gente di umilissima estrazione. Il solo fattore che conta non è la nascita ma il comportamento dell’individuo, l’onestà della sua fede, la purezza dei suoi atti: "Non domandare [a quale] stirpe [si appartiene], chiedi della condotta: dal legno invero nasce il fuoco".
Ciò non toglie che il buddhismo primitivo abbia più volte messo in luce una certa propensione per il mondo dei nobili, tra i quali d’altra parte veniva reclutando la maggior parte dei suoi seguaci. Le sole persone ad essere escluse dall’ammissione nella Comunità erano i soldati, quelli che non avevano ancora compiuto i vent’anni, i debitori, gli uomini non liberi, i criminali, i giovani cui mancava l’assenso paterno, i colpiti da particolari malattie come lebbra, tumori, tisi, epilessia e infine chi non era in possesso di tazza per le elemosine e di vestiti del tipo prescritto.
Chiunque fosse vincolato a particolari situazioni familiari e sociali e non potesse di conseguenza abbracciare in maniera più completa la vita monastica, poteva pur tuttavia vivere nello spirito della Legge buddhista come zelatore laico (upasaka), se professava la sua venerazione alla "Triade delle gemme" cioè al Buddha, alla Legge (dharma), alla Comunità (Samgha).
A questa imprescindibile professione di fede, alla quale non seguiva alcun periodo di noviziato e che non toglieva al neofito, per una sorta di sorprendente compromesso, la possibilità di continuare ad adorare le divinità adorate nella sua terra d’origine doveva accompagnarsi l’osservanza di cinque norme disciplinari:
non uccidere, non rubare, astenersi dall’incontinenza, non mentire, astenersi dalle bevande inebrianti.
Si poteva aggiungere, per una più intensa partecipazione dell’upasaka alla disciplina monastica, l’impegno a osservare il digiuno per un giorno e una notte intera.
I laici dovevano inoltre contribuire, nei limiti delle proprie possibilità, con donazioni e con offerte di terreni, di fabbricati, di alimenti, di abiti, al mantenimento dei monaci e all’assistenza ai sofferenti, ai malati e in modo particolare agli agonizzanti. L’osservanza di questi doveri morali e materiali determinava il raggiungimento di una intima serenità e di una perfezione di vita destinate a creare i presupposti per un progressivo miglioramento nelle ulteriori esistenze e per il conseguimento della liberazione finale.
Per i monaci la cosa era logicamente assai più complessa. La struttura della Comunità si fondava su due tipi di ordinazioni, che in origine dovettero essere conferite insieme e solamente dal Buddha in persona.
La prima di queste equivaleva, per così dire, all’ordinazione preparatoria e segnava l’atto ufficiale di rinuncia da parte del novizio ai vincoli del mondo, sanciva la sua partenza (samanera) da esso.
La seconda, che teneva dietro al periodo del noviziato, consacrava l’arrivo (upasampada), l’entrata nel numero dei bhikkhu.
Nella pabbajja, il novizio con atto unilaterale recitava per tre volte consecutive la formula rituale: "Io mi rifugio nel Buddha, nella sua dottrina, nel suo Ordine", egli si impegnava a mantenere una scrupolosa osservanza dei dieci precetti inderogabili: non uccidere - non rubare - astenersi dall’incontinenza - non mentire - astenersi dalle bevande inebrianti - non mangiare fuori dalle ore stabilite - non danzare, non cantare, non assistere a spettacoli - non curarsi di abbellire il proprio corpo con ghirlande, profumi ed unguenti - non valersi di scanni o letti alti o sontuosi - non accettare oro, argento, denaro.
Il novizio doveva procurarsi, con scelta del tutto libera e privata, due patroni tra i monaci che appartenevano alla Comunità da almeno dieci anni: l’upajjhaya, il precettore che aveva il compito di formalo e l’acariya, il maestro che aveva il compito di istruirlo.
Il novizio doveva possedere le tre vesti prescritte e la ciotola per  elemosinare il cibo. Terminato il periodo di noviziato, l’aspirante monaco sollecitava la propria definitiva assunzione nella Comunità e, alla presenza di un capitolo di almeno dieci monaci, si svolgeva allora una cerimonia semplice.
Il candidato veniva sottoposto ad una precisa indagine mediante i quali i monaci si assicuravano che non esistesse alcuna causa impediente. Fissata l’osa esatta dell’assunzione si dovevano pronunciare dinanzi al nuovo monaco le quattro regole che rappresentavano la manifestazione esteriore dell’austerità monastica:
• Nutrirsi unicamente di quanto gli veniva dato in elemosina.
• Vestirsi di stracci raccolti tra i rifiuti.   
• Dormire ai piedi di una albero.
• Servirsi di orina di vacca quale rimedio di qualsiasi malanno.
I doveri essenziali nella vita del monaco erano rappresentati dalla povertà, dalla castità, dalla non-violenza e dal divieto di attribuirsi eventuali sovrumane perfezioni
La loro indifferenza per i beni mondani era un insegnamento per i non-credenti e un esempio valido per quanti già nutrivano fede buddhista; la loro questua era il mezzo traverso il quale gli altri uomini, debitori del grande dono dell’insegnamento della dottrina, potevano mettere in atto la propria generosità, mentre le umiliazioni cui di tanto in tanto andavano incontro erano la via per la quale essi potevano piegare il proprio orgoglio
Il monachesimo buddhista non è questione di vocazione, è questione di cammino esperienziale nel progresso spirituale verso l’illuminazione.
Un monaco poteva uscire dalla Comunità senza che lo seguisse nessun sentimento di condanna o di risentimento da parte dei suoi confratelli con i quali poteva anzi continuare a mantenere rapporti di stretta amicizia. Libera infatti era stata la sua scelta di assunzione nella Comunità, libera doveva essere la sua decisione di uscire dall’Ordine.
In seno alla Comunità non esisteva una distinzione gerarchica: la sola forma di gerarchia accettata corrispondeva unicamente alla diversa anzianità di assunzione nell’Ordine e valeva a distinguere i monaci in decani e in giovani. I monaci non si applicavano ad alcuna forma di attività materiale e dedicavano tutte le loro energie agli esercizi spirituali e alla pratica della meditazione.
Il Buddha aveva accondisceso senza particolare entusiasmo alla creazione di una Comunità femminile, convinto com’era che nelle donne si assommano tutte le forze dell’infatuazione che ottenebra le menti. Comunque, anche dopo la fondazione, la Comunità delle monache non ebbe mai grande importanza, essa doveva sottostare a quella maschile. L’ordinazione delle religiose seguiva la stessi prassi prescritta per quella maschile.
Alle monache fu imposta una disciplina più severa di quella che era osservata dai monaci, esse dovettero sottostare a 500 regole (il doppio rispetto a quelle per i monaci).
Nella gerarchia venivano sempre dopo l’ultimo monaco. Esse dovettero indossare non tre vesti, come i monaci, ma cinque. Siddhartha avrebbe detto che il buddhismo doveva durare mille anni, ma che con l’introduzione delle monache nell’ordine sarebbe durato solo cinquecento anni.
Il buddhismo come tutte le altre religioni universali ha subito nel corso della storia una evoluzione che lo ha portato a dare vita a diverse forme a secondo delle diverse aree religiose.
Come abbiamo visto nel buddhismo originario il Buddha non è considerato in Dio e pertanto non gli venne attribuito nessuna forma di culto. Gotama si distinse sempre dal dharma che è eterno, anche come Buddha si presento mai come salvatore bensì come indicatore di una via da seguire per giungere alla salvezza. Il suo sforzo non è stato indirizzato alla spiegazione del divino, una dottrina per il Buddha non è tanto valida per la verità ontologica che contiene, quanto per la qualità della vita che risulta dalla sua applicazione.
La tendenza verso la divinizzazione del Buddha cominciò a prevalere nel periodo della dinastia Maurya (317-180 a.C.). Il termina Buddha indica il personaggio storico Gotama,. E’pure chiamato Bhagavat, Signore, un termine che generalmente indica una persona superiore rispetto ad un’altra. Col passare del tempo questo secondo appellativo fu usato per indicare non il Buddha storico quanto quello ideale, in quanto tale, "Corpo del Dharma", il Buddha è oggetto di fede ed è visibile agli occhi della fede.
Il buddhismo Mahayana, Grande veicolo, che sorse verso gli inizi dell’era cristiana nell’area settentrionale dell’Asia (Cina, Corea, Giappone e Tibet), ricorse alla dottrina dei tre corpi del Buddha. Secondo questa interpretazione Gotama storico non è altro che una manifestazione visibile e temporale del Buddha assoluto ed eterno. Il Bhagavat vai visto nella sua forma spirituale e assoluta e non nella sua forma materiale e contingente:
Dharma-kaya è il Buddha considerato in sé, la stessa verità impersonale, assoluta ed eterna.
Nirmana-Kaya è la persona storica e temporale del Buddha che è apparsa nel mondo per          aiutare tutti gli esseri viventi a salvarsi.
Sambhoga-Kaya è la persona viva e concreta del Buddha e nello stesso tempo eterno ed           universale, dotato di saggezza infinita, è il dharma eterno vivente e personificato.
Anche nel buddhismo avviene, come nelle altre religioni indiane, una tensione tra Dio personale e verità impersonale, il sentimento popolare e la disquisizione filosofica, la via della saggezza e quella della devozione.
Il Mahayana si sarebbe sviluppato sotto lì influsso della devozione popolare. I laici hanno sempre presentato tre esigenze: spirituali, mitologiche e magiche.
Nasce così l’ideale del Bodhisattva, che nel buddhismo primitivo indicava colui che rea predestinato a diventare Buddha in una esistenza successiva, invece qui nel Mahayana si intende un essere che ha percorso le dieci bhumi, le dieci perfezioni. Il seguace del Mahayana invece di puntare sulla moralità si concentra sugli sforzi per produrre la bodhi, il risveglio, l’illuminazione, in attesa che con la morte avvenga la totale estinzione degli aggregati dell’esistenza.
Il Bodhisattva rinuncia volontariamente ad entrare nel nirvana per restare al servizio dei fratelli, così facendo egli rende compartecipi gli altri esseri dei meriti delle sue azioni. I fedeli buddhisti si rivolgono loro per ottenere grazie favori, possiamo quasi dire che è la bhaktimarga buddhista, il fedele riesce a sentire questa figura molto più vicina e concreta in ordine alla propria salvezza.
La denominazione "Grande veicolo" tende pertanto a sottolineare una superiorità di ideali, di dignità, di programmi nei confronti delle precedenti dottrine praticate dal Hinayana cioè dal "Piccolo veicolo".
Il momenti  di rottura è tradizionalmente fatto risalire all’epoca dello scisma di Mahasanghika intorno al 340 a.C.. Più elastici nell’interpretazione delle norme disciplinari, Mahasanghika avevano elaborato per la prima volta alcuni aspetti di quell’ideale di Bodhisattva destinato a divenire nel suo contrasto col termine arhat uno degli elementi di maggior differenziazione tra le due grandi correnti buddiste. Il devoto appartenente     all’antica scuola buddhista non mirava che conseguire lo stato di arhat, perché questo significava per lui la soppressione del karman, l’interruzione del ciclo delle rinascite, la realizzazione in vita del nirvana. Questa aspirazione alla non-esistenza, che tende esclusivamente alla propria personale salvezza, può in parte giustificare l’accusa di egoismo che fu imputata al Hinayana.
L’arhat, ossessionato dal turbinio del samsara, si proponeva come solo e unico fine l’interruzione di questo inarrestabile flusso di esistenze; il Bodhisattva invece, col preciso scopo di soccorrere il maggior numero di esseri, rinuncia eroicamente al suo diritto di entrare nel nirvana; in questo ideale si esaltano due virtù fondamentali già note e rimarcate per altro nel buddhismo più antico: la benevolenza, maitri e la compassione, karuna. In questo senso di tolleranza, di sopportazione, di universale benevolenza, è la base di quella maitri il cui raggiungimento costituiva uno degli esercizi principali del bhiksu. La virtù della karuna che sa far rivivere dentro l’individuo con eguale intensità il dolore provato dagli altri, è da considerarsi alla base di tutto l’edificio buddhista, che dal resto trae la sua stessa ragione di essere proprio dall’intuizione del dolore universale. Il sentimento di amore universale che il Bodhisattva nutre nel proprio intimo per tutte le creature resta costante anche nei confronti di un nemico, coerente con una logica che solo in apparenza può sembrare paradossale.
L’antica legge del karma considerava il merito come personale: ciascuno ha il suo karma, la pena o la ricompensa dei suoi atti. La novità che il Mahayana trae dalla dottrina del karma consiste in questo: colui che è arrivato ad un grado elevato di saggezza non deve più conservare per se stesso    l’energia e la forza del karman. Deve saperla condividere. Ecco la teoria secondo cui                         l’illuminazione può essere trasferita a tutti gli esseri. Il Bodhisattva con la sua luce è luce per gli altri. E’la dottrina del trasferimento dei meriti. Nel cosmo è presente la scintilla del Buddha che permette di orientare ogni uomo verso la salvezza, è la "buddhittà", una dottrina buddhista che assume un’impronta gnostica. Inoltre è chiaro che i Bodhisattva sono visti come dei salvatori, per questo all’interno del buddhismo si innesca il culto dei santi, delle reliquie e delle immagini che tanto influenzerà l’arte buddhista.
Hinayana, "Veicolo Inferiore", è la denominazione del buddhismo dell’Asia Meridionale, Sri Lanka, Birmania, Laos, Cambogia e Thailandia.
Si chiama anche Thera-vada o "Dottrina degli Anziani", cioè la formulazione del buddhismo secondo la tradizione antica. Questa forma di buddhismo è più intenta all’ammaestramento morale e alla disciplina monastica che alle speculazioni metafisico-religiose e alle realizzazioni mistiche, proprie del Mahayana.
E’un buddhismo più vicino a quello predicato dal Buddha e vissuto dalle prime comunità cristiane. La base della scuola è data dalle quattro verità, dall’ottuplice sentiero e dalla legge della produzione condizionata. La figura tipica di questa corrente, il modello ideale per i laici e l’arhat, "il degno".
Il raggiungimento di questo stato spirituale si basa sulla conoscenza, jnana, delle cose, del dolore, della concupiscenza e l’acquisizione della certezza di essere liberato; la conoscenza sul mondo delle forme e del dolore che lo caratterizza e sul mondo senza forma.
Il buddhismo si è diffuso in periodi di profondi cambiamenti sociali, nei quali si era alla ricerca di modi e valori nuovi, in cui si formavano nuove culture. Là dove esisteva una religione organizzata, l’avanzata del buddhismo è stata più lenta e più tardi il buddhismo è stato riassorbito o accantonato, come in India e in Cina. Gli artefici della diffusione furono molteplici. I semplici buddhisti, i commercianti, i coloni, i viaggiatori ebbero un ruolo importante ovunque. La loro testimonianza esplicita, il loro sostegno ai monaci e alle attività buddhiste, la loro situazione socio-culturale privilegiata crearono simpatia, attirarono adepti e facilitarono la formazione dei primi nuclei.
Il monastero era un mezzo di unità e fedeltà. Il frazionamento delle sette è maggiore là dove la comunità mancava e si secolarizzavano come nei paesi mahayana specialmente in Giappone.
In ogni cultura si è operata una simbiosi tra buddhismo e religione locale, per cui si può parlare di buddhismo birmano, lao, thai ecc.. Anche teoricamente questo processo non è abusivo.
L’adattamento eccessivo è una delle cause della scomparsa del buddhismo in India e del suo indebolimento in Cina, esso ha avuto bisogno di secoli per diventare religione popolare e per influenzare profondamente i diversi aspetti della cultura dei diversi paesi. Il buddhismo per imporsi ha avuto bisogno delle conversioni delle masse e dell’appoggio delle autorità politiche.

 


Majjhima Nikaya, III, 123.

M. Eliade, Miti, sogni e misteri, Rusconi, Milano 1976, pag. 129-133.

O. Botto, Buddha e il buddhismo, Mondadori, Milano 1984, cap. I.

O. Botto, Buddha e il buddhismo, op. cit., pag. 21.

Mahaparinibbanasutta, III, 7 e 8.

Samyutta Nikaya, V, 437 e sg..

O. Botto, Buddha e il buddhismo, op. cit., pag. 58.

Dhammapada, 148.

  O. Botto, Buddha e il buddhismo, op. cit., pag. 64.

Anguttara Nikaya, X, 206.

Ibidem, III, 33.

O. Botto, Buddha e il buddhismo, op. cit., pag. 65-70.

Lalitavistara, ed. Lefmann, pag. 346.

Majjhima Nikaya, XIII.

O. Botto, Buddha e il buddhismo, op. cit., pag. 72-76.

G. Favaro, La tradizione religiosa buddhista, ISSRM, Pro manuscripto, Milano 1992, pag. 12-14.

O. Botto, Buddha e il buddhismo, op. cit., pag. 84-85.

Suttanipata, III, 4,8.

O. Botto, Buddha e il buddhismo, op. cit, pag. 109-121.

G. Favaro, La tradizione religiosa buddhista, op. cit., Milano 1993, pag. 39.

G. Favaro, La tradizione religiosa buddhista, op. cit., pag. 43-46.

O. Botto, Buddha e il buddhismo, op. cit., cap. V.

G. Favaro, La tradizione religiosa buddhista, op. cit., pag. 46-47.

G. Favaro, La tradizione religiosa buddhista, op. cit.. pag. 58-61.

 

http://www.liceomeda.it/new/documenti/materialedidattico/religione/buddismo.doc

 

Buddha Buddhismo Budda Buddismo

Buddha - Buddhismo

Di solito, dovendo parlare del Buddha Sakyamuni, si comincia raccontando la storia del principe Siddharta:della sua nascita accompagnata da segni portentosi, della sua vita in reggia, del suo incontro con dolore, sofferenza, povertà, vecchiaia e morte; poi si passa all'abbandono di reggia, moglie, figlio, genitori e amici, alla vita nella foresta, alle grandi rinunce e al loro abbandono, e finalmente all'illuminazione. Certo, visto che non volevamo parlarne, questi accenni potevamo anche non metterli, ma poi abbiamo capito che oltre  ai suoi illuminanti discorsi, Sakiamuni ha lasciato testimonianza della sua illuminazione soprattutto col suo esempio, con la sua lunga vita di monaco errante, con la sua umile veste e la sua ciotola e con le tasche vuote di ogni "ricchezza".
Prima della buddhità, suo scopo era raggiungere l'illuminazione, e una volta raggiuntala non ha fatto altro che predicare, e qui casca l'asino. La maggior parte dei commentatori, considera questa parte della sua vita di predicazione come "parole", discorsi, ovvero sutra, dimenticando che si può vivere anche rinunciando a vivere per sé. Sì, sotto l'albero della bodhi, Sakyamuni è scomparso, è esploso e si è fatto voce, è divenuto sentiero e specchio immacolato su cui ognuno poteva osservare la propria ignoranza e trascenderla. Il Buddha, uscito dal tempo definitivamente, scavalcato lo spazio perentoriamente, è divenuto porto di un Presente vuoto di ogni essenza di individualità, perché padre di ogni forma impermanente. Non più onda, presa coscienza di essere il vasto oceano, ha visto la "inesistenza" di ogni onda, la scomparsa di ogni apparente individualità. Il tempo di un'alzata di cresta, un po' di schiuma, e l'onda è scomparsa, per dar vita ad un'altra onda che a sua volta scomparirà per…Ma anche l'oceano è un'onda nel vasto mare degli oceani infiniti, anch'essa apparenza di un mare più vasto. Ogni cosa è impermanente, quindi vuota di . Ed oltre tutto questo - direte voi -  c'è secondo ilBuddha un Creatore, un Dio, una Causa Prima?  Ebbene, su questo punto l'Illuminato non si è mai pronunciato, e se qualcuno gli poneva una precisa domanda sulla verità ultima, rimaneva in silenzio. Un sacco di ipotesi sono state fatte sul suo silenzio, ma alla fin fine tutte sono riconducibili a tre ipotesi: 1) Il Buddha non conosceva la verità ultima, dunque non poteva parlarne, e per onestà non ne ha mai parlato; 2) Il Buddha conosceva la verità ultima, ma non ha voluto parlare per qualche motivo che non ha rivelato; 3) Conosceva la verità ultima, ma non ne ha potuto parlare (non dare le perle ai porci) o perché è impossibile parlarne. La maggior parte degli studiosi pone l'accento sul fatto che egli abbia focalizzato l'attenzione sulla sofferenza e sui modi per ottenerne la cessazione, e questo è anche vero, ma ad un filosofo occidentale tale tipo di filosofia risulterà insoddisfacente, perché in altri termini, non rispondendo alla domanda cruciale, il Buddha non ha mai parlato di metafisica. Però su questa sua scelta, diversamente dalla questione fondamentale, si è pronunciato: le chiacchiere che vanno oltre il "reale" e fenomenico non servono  assolutamente a niente, fanno solo perdere tempo e litigare. E qui non aveva tutti i torti, perché dopo la sua morte ogni monaco (si fa per dire) si è fatta la sua brava setta buddhista, interpretando a modo suo le parole del maestro. Più o meno la stessa cosa è accaduta in tutte le altre grandi e piccole religioni.
A questo punto del discorso nasce spontanea una domanda. Nel corso dei tempi l'uomo si è evoluto sia fisicamente, sia emotivamente, sia mentalmente: è possibile anche una evoluzione, per così dire, spirituale? E' cioé possibile che, come accaduto per esempio con la scienza e in genere quindi per la fisica, vi possa essere una evoluzione nella metafisica? In altre parole, è possibile che le ultime religioni, le ultime filosofie siano le migliori?  Capisco la portata della domanda, e so che probabilmente ad essa non può essere data alcuna risposta soddisfacente, ma dal momento che è nata occorre dare una risposta, e la risposta deve necessariamente accadere, perché essa è come l'effetto di una causa, e tale causa è la stessa domanda. Abbiamo sfiorato la legge del Karma, ma di essa parleremo più in là. La risposta che diamo è semplice: la Verità Ultima (o Prima, se volete) è oltre ogni possibilità umana: l'infinito non può essere definito, perché la definizione sarebbe un assurdo, un paradosso. Le religioni sono tutte buone, anche le sette lo sono. Però, a nostro parere, esse conducono il ricercatore sincero fino ad un certo punto della montagna da scalare, perché quando il sentiero comincia a farsi stretto bisogna procedere in fila indiana. Ma non finisce qui: quando la scalata presenterà le prime difficoltà, la gran massa degli scalatori rinuncerà, e solo un piccolo gruppo di temerari e decisi a tutto "rischierà". Infine, l'ultimo tratto sarà percorso da pochissimi, ma a quel punto la religione avrà esaurito il suo compito ed il solitario comincerà a "colloquiare" personalmente col Divino. Sì, noi crediamo ad una Causa delle Cause, perché le leggi immutabili della Natura riteniamo non possano essere casuali. Anche il solo pensiero della non esistenza di una Causa iniziale, in una comunità di uomini crea caos, disordine, nerume: tutto è possibile e lecito e lo scopo della vita é quello di poter fare quello che si vuole. Ma per noi non è così. Se un giorno dovessimo esplodere come Buddha lì sotto l'albero della Bodhi, prima di cominciare a parlare e divulgare ci penseremmo un tantino: rimarremmo ancora un bel po' sotto quell'albero, fino al superamento di quella illuminazione. Ci resteremmo forse per tutto il tempo della nostra vita terrena, ed un attimo prima di morire, se nulla dovesse accadere, ci inventeremmo un Dio Creatore e ribattezzeremmo tutti i nostri amici creature. Al meglio non c'è fine.
Ma torniamo al Buddha, uno dei più grandi esseri, una delle onde più alte di questo nostro unico oceano esistenziale, e al buddhismo, una delle religioni più pacifiche e più pratiche esistenti. Pensate, cinquecento anni prima della nascita del Maestro Gesù, veniva predicato l'amore universale, il rispetto verso ogni essere vivente (cosa, vegetale, animale o uomo), e la possibilità che ogni singolo individuo ha di raggiungere con le sue forze l'illuminazione. Pensate, il succo di quarant'anni di predicazione del Buddha è tutto racchiuso nel suo primo discorso, quello fatto a Sarnath vicino Benares, che contiene l'essenza del suo pensiero e traccia a grandi linee quello che dopo la sua morte verrà chiamato buddhismo. Attenzione però, due secoli dopo la morte del Buddha si possono rinvenire non meno di diciotto versioni della dottrina buddhista (Rhys Davids, citato da Dadhakrishnan pag. 340 - La Filosofia indiana vol.1 - Vidya), per cui nei testi buddhisti non c'è una parola che possa essere fatta risalire con sicurezza a Gautama Sakyamuni (H. Zimmer - Filosofie e religioni dell'India - Mondadori, pag.381). Quindi, quando parliamo di buddhismo ricordiamoci delle tante scuole esistenti e della distanza di tempo che separa l'insegnamento scritto dai seguaci da quello impartito oralmente dal Maestro. I Canestri della Legge (Pitaka) scritti nel 241 a.C. sono gli scritti più attendibili del buddhismo antico. Essi sono le più autentiche e autorevoli testimonianze dell'insegnamento del Buddha attualmente esistenti (Radhakrishnan op. cit.). Ma torniamo al sermone di Benares, al discorso che l'Illuminato tenne ai suoi cinque compagni di ascesi: Questa, o monaci, la nobile verità sul dolore: la nascita è dolore,  la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l'unione con ciò che non si ama è dolore, la separazione da ciò che si ama è dolore. Dolore è non raggiungere ciò che si desidera. I cinque legami sono dolore.  Questa, o monaci, la nobile verità sull'origine del dolore: la bramosia che si rinnova ad ogni rinascita, la ricerca del piacere nelle cose terrene e l'avidità, la bramosia del divenire e dell'essere, la bramosia dell'impermanenza. Questa, o monaci, la nobile verità sulla cessazione del dolore: l'eliminazione della bramosia attraverso l'annullamento dei desideri, la rinuncia totale al desiderio, il distacco assoluto da tutto ciò che si desidera. Questa, o monaci, la nobile verità sulla cessazione del dolore: il nobile ottuplice sentiero - retta visione, retta risoluzione, retto parlare, retto agire, retto modo di sostentarsi, retto sforzo, retta concentrazione, retta meditazione. (Enciclopedia delle religioni Garzanti - pag. 91). Il buddhismo è nato da qui. Come si vede, non esiste ombra di metafisica alcuna, perché Sakyamuni parte da considerazioni fisiche e non metafisiche (sofferenza e dolore nel nascere, nel crescere e nel morire, ecc.), ma non solo. La semplicità dei suoi discorsi, che nell'originale sono di una noia mortale perché pieni zeppi di ripetizioni, nasce anche per contrastare le fumose dottrine spirituali, i numerosissimi riti, la pessima morale che nei tempi in cui visse imperversavano. Secondo la sua dottrina non c'era assoluto bisogno di quel tipo di "preti" del suo tempo, né era necessario massacrare tante povere bestie in riti che non avevano alcun senso, e neppure occorreva rivolgersi ad una infinità di dei, che secondo la sua visione partecipavano al ciclo delle rinascite e non erano per nulla immortali. Insomma si scagliò contro ogni dogma, contro ogni superstizione e contro ogni gerarchia ecclesiastica: l'ignoranza era la sola vera causa della sofferenza umana, e ogni uomo, chiunque egli fosse, poteva sconfiggerla attraverso le regole dell'ottuplice sentiero. Questa è stata la vera rivoluzione del Buddha. Non è affatto vero che si sia scagliato contro l'induismo. Chi ha letto anche superficialmente le Upanishad sa bene come il pensiero buddhista ne è un derivato, un innesto, un adattamento: il Buddha medesimo ammette che il dharma che ha scoperto mediante l'autodisciplina è il sentiero antico, la via ariana, il dharma eterno. Egli non ha quindi creato un nuovo dharma quanto riscoperto una norma antica: la venerabile tradizione che viene adattata per venire incontro alle esigenze particolari dell'epoca (Dadhakrishnan, pag. 356,357). Il buddhismo dunque, almeno quello antico, è figlio delle Upanishad e quindi dell'induismo. Basta pensare al Karma, al Nirvana, all'avversione contro il ritualismo, alla vita come sofferenza, alla vita ascetica, ecc. Certo il Buddha mette l'accento sul dolore e sulla sofferenza in modo quasi ossessivo. Il suo primo discorso non parla d'altro. Ma tale accento è giustificato: l'uomo deve capire che tale sofferenza è superabile, quindi dando risalto al dolore, riceverà risalto anche l'ottuplice sentiero che guiderà oltre ogni sofferenza. Il desiderio di esistere, di vivere, viene "creato" attraverso i desideri di tutti i giorni, che come una droga chiedono dosi sempre più massicce, che come un calore innaturale creano una sete inestinguibile. Basta leggere i discorsi del Buddha per rendersi conto di quanto egli considerasse veramente il desiderio un veleno mortale, la causa di infinite e penose rinascite. Per chi non ha tempo e modo di leggere i lunghi e snervanti (a causa delle continue ripetizioni) integrali sutra (discorsi), vi sono in commercio delle ottime antologie (vedi per es. della Rusconi, nella collana breviario, Buddha).
Nel Sutra-Pitàca, nel Suttapitaka Dighanikàya, nel Dìgha Nikàya, nel Samyutta Nikàya, nel Dhammapada,…, ne parla spesso. Le miserie della condizione umana, con i suoi eterni desideri, che creano bisogni di gran lunga superiori alla possibilità dell'uomo di soddisfarli, non possono farci sentire che la vita è una sventura (op. cit. pag. 359)… Ora, questa è la nobile verità sull'origine del dolore. In verità, è l'ardente desiderio che è accompagnato dai piaceri sensoriali e che cerca soddisfazione ora in un modo ora in un altro - vale a dire il desiderio della gratificazione dei sensi o il desiderio di prosperità - che causa il rinnovarsi del divenire(Op. Cit. pag. 361, vedi nota pag. 467n° 47).  Il desiderio dunque sembra essere, paradossalmente, ciò che tiene le redini della nostra esistenza, e allo stesso modo in cui un burattinaio muovendo i fili dei suoi burattini fa fare loro quel che vuole, essi ci portano a spasso per il mondo or di qua e or di là. Vincere i desideri è vincere la sofferenza bloccando il penoso ciclo delle rinascite. Certo, sentir parlare oggi di soppressione dei desideri, dopo quello che Freud ci ha raccontato, è un po' pericoloso, ma anche in questo caso ci viene in aiuto la psicologia del Buddha: la sua è la via di mezzo, quella della moderazione, del buon senso, della razionalità. Vista da questa ottica, la cosa appare superabile: è come smettere di fumare. Inoltre l'antico adagio taoista dice che sapere che abbastanza è abbastanza, significa avere sempre a sufficienza.  Qualcuno asserisce che la via della rinuncia e quella della sfrenatezza siano la stessa cosa, ma noi condividiamo il pensiero di moltissimi grandi maestri di spiritualità: il fuoco non può essere spento con la benzina!
Poco prima della morte il Buddha tenne il suo ultimo discorso. Con esso dava una magnifica sintesi di tutti i suoi insegnamenti:…In tutto l'universo, visibile ed invisibile, non esiste che un unico e solo potere, senza principio, senza fine, senza altra legge che la propria…tale potere uccide e salva senza altra mira che quella di attuare il Destino. Morte e dolore sono le spole del suo telaio. Amore e vita ne sono i fili. Ma non state a tentar di misurare l'Incommensurabile a parole…: chi interroga si sbaglia, chi risponde si sbaglia. (Maurice Percheron - Buddha - Mondadori 1961, pag. 35) . L'Illuminato invita i suoi discepoli a non temere nulla dagli dei, che come ogni essere vivente, essendo sottoposti alla legge del Karma, nascono, .crescono e muoiono. Raccomanda soprattutto di coltivare solo puri pensieri e di non macchiarli con malevolenza, avidità e collera. Ma dice anche di sorvegliare le labbra come se fossero le porte di un palazzo abitato da un re. (idem pag. 36). Il desiderio di tornare a vivere su questa terra, il desiderio di rinascita può essere vinto solo nella vita successiva a quella in cui si sono vinti egoismo, mala fede, dubbio, odio e avidità. In questa ultima vita sarà vinto anche il desiderio del Nirvana, e si potranno pertanto seguire le ultime vie: retta purezza, retto pensiero, retta estasi. Per ultimo, invitò i suoi discepoli ad osservare l'impermanenza del suo corpo morente: tutto ciò che è composto è votato alla distruzione. (idem).
Il Buddha è ateo e nichilista? Prima di dare una risposta a questa domanda, invitiamo a leggere i suoi discorsi, la sua vita, e, perché no, anche le leggende su di lui. Dal nostro punto di vista, il buddhismo non è affatto una religione atea,  anche se lo sembra molto. Il problema è uno solo: può il sentiero del Buddha essere percorso da ognuno di noi per raggiungere il Nirvana? Stando alla storia del buddhismo, la risposta non può che essere positiva. Noi riteniamo che i sentieri proposti da tutte le religioni siano buoni e che tutti conducano al Nirvana, ma siamo pure convinti che esse possono costituire  grande veicolo solo fino ad un certo punto: a cominciare da certe altezze della montagna, il grosso veicolo non è più adatto ed i sentieri diventano "personali", occorre dunque un piccolo veicolo. Quando il discepolo prediletto Ananda chiese istruzioni sull'ordine monastico, il Buddha rispose: Siate luce a voi stessi; siate rifugio a voi stessi; non affidatevi a nessun rifugio esterno; aggrappatevi saldamente alla Verità quale unica luce; aggrappatevi saldamente alla Verità quale vostro unico rifugio; non cercate rifugio in altri che in voi stessi (Radhakrishnan, pag. 419). Nel Mahaparanibbana Sutta il Buddha dichiara di avere predicato la verità senza distinguere fra  dottrine esoteriche ed essoteriche, e di non avere trattenuto nel suo pugno alcun segreto, perché a suo parere, la segretezza appartiene a tre categorie: alle donne, ai sacerdoti, alle false dottrine (confr. Op. Cit. Pag. 430). Prima di chiudere con il buddhismo antico, due parole sul Nirvana. Radhakrishnan ci informa che esso è il diventare uno con la realtà eterna, cosa che il Buddha non ammette in maniera esplicita (440),  e riportando una frase dello stesso Buddha dal Samyutta Nikaya III 109 ci informa che secondo Shakyamuni, pensare che il Nirvana sia l'annientamento è "una malvagia eresia".  Ma è giunto il momento di parlare delle tre principali correnti del buddhismo, o tre veicoli (Yana): Hinayana, Mahayana, Vajrayana, rispettivamente  Piccolo veicolo, Grande veicolo, veicolo di Diamante. L'Hinayana, nota anche come scuola del Sud è detto Piccolo veicolo proprio da quelli del Mahayana. Esso è più diffuso nell'Asia meridionale, e le sue scritture sono redatte nella lingua pali. E' composto di monaci che osservano rigide norme disciplinari. All'interno dell'Hinayana i due più importanti indirizzi di pensiero sono la Scuola degli anziani o Theravada (elaborata dai compilatori del canone pali, detti appunti Sthaviravadin, i cui più importanti maestri sono Buddhaghosa e Anuruddha - e la scuola dei Sarvastivadin, il cui principale maestro è Vasubandhu.
Ovviamente si è già capito che il Piccolo veicolo sta ad intendere che il monaco Hinayana "viaggia" da solo, a differenza degli appartenenti al Mahayana che "viaggiano" in gruppo. Come noi la pensiamo sul viaggio lo abbiamo detto con l'esempio della scalata: la fase iniziale è mahayanica e quella finale hinayanica. Ma entriamo un po' nei particolari. Il Buddha aveva detto che tutte le cose sono prive di un sé. Gli Hinayana superarono questo problema sostenendo che ogni essere fenomenico deve essere considerato un flusso di elementi che sono essi stessi effimeri…il cosiddetto individuo non è che il flusso di una tale sequenza causale, mai completamente ciò che era un momento prima o ciò che sarà un momento dopo, e tuttavia non del tutto differente. Viene fatto l'esempio della fiamma di una lampada: all'inizio della notte, a metà e alla fine, essa non è la stessa fiamma, ma neppure un'altra (Zimmer, pag. 417). Gli Hinayana sono un po' fenomenalisti: non esiste il pensatore, ma solo il pensiero; non esiste l'attore, ma solo l'azione, e così via. In ultima analisi i solitari Hinayana erano più vicini agli originali insegnamenti del maestro, non per nulla essi ritengono di essere gli ortodossi del buddhismo. Una sorta di paradosso accade invece con il Mahayana, che finendo con l'adorare ciò che il Buddha aveva arso - Dio, anima, riti e liturgia - sfocia in una religione di divinità (Percheron, pag. 112). E' così che il buddhismo si confonderà sempre più con il Brahmanesimo: aprirà le porte alla metafisica, e piano piano cederà il posto a Vishnu e Shiva. Comunque, la sistemazione definitiva del Mahayana si ha con Nagarjuna (2° sec. d.C.), uno dei più grandi filosofi e maestri dell' India e forse in assoluto: la realtà non può essere definita,  ad essa ci si puo riferire soltanto negativamente come "vuoto assoluto"(enciclop. Garzanti , pag. 95). Voler spiegare in poche righe il pensiero di Nagarjuna sarebbe impossibile, pertanto rimandiamo gli interessati alle sue opere o alle pagine che sia Zimmer che Radhakrishnan gli dedicano. Quest'ultimo, da pag. 658 a pag. 681 vol. 1° della sua citata opera.
Il Vajrayana è diffuso in Giappone e in Tibet.
Ma dopo aver parlato (in generale di correnti) schematizziamo meglio la cosa parlando di scuole o di sistemi filosofici.
Quattro sono le scuole: due della corrente Mahayana, la Madhyamika (fondatore Nagarjuna) e la Yogacara ("fondatori" Asanga e Vasubhandu - e due della corrente Hinayana, la Vaibhasika e la Sautrantika. Dalla Yogacara derivano due scuole giapponesi, la Hossoshu, e la Tendai. Di quest'ultima, la principale scrittura era il "Sutra del loto della buona legge".  Da essa derivano due altre scuole, la Yodo e la Nichiren che fanno riferimento allo stesso sutra. Analoghe dottrine riprogongono  le nuove religioni: Reiyukai, Rissho Koseikai , Soka Gakkai. Ricordiamo infine l'amidismo, basato sul culto del Buddha Amida.
Ma qui ci fermiamo, dopo aver ricordato il buddhismo zen (nato in Cina e cresciuto in Giappone), la cui popolarità è talmente vasta, che ci sembra quasi superfluo parlarne. Le correnti e le sette del buddhismo sono tante, troppe. Come introduzione, questo breve saggio può anche andare. Per chi volesse approfondire, consigliamo i due volumi di Radhakrishnan La filosofia Indiana ed. Vidya, e raccomandiamo di leggerli entrambi, nonostante il buddhismo sia trattato in un solo volume, perché per capire meglio il Buddha occorre conoscere almeno per sommi capi la filosofia indiana a lui precedente e quella a lui contemporanea. L'autore, avendo anche studiato in occidente ed essendo un buon conoscitore della nostra filosofia, in questa sua opera riesce a tracciare degli interessanti parallelismi fra oriente e occidente filosofico. Consigliamo inoltre di leggere Saman Suttam il canone del Jainismo ed. Mondadori, poiché esso presenta l'essenza di questa religione molto affine al buddhismo, ma probabilmente più antica di esso. Chi volesse andare ancora più in profondità, può attingere alle bibliografie delle opere citate nel corso del saggio. Buon approfondimento. Grazie, Nat.

 

Fonte: http://www.taozen.it/saggi/Buddha-buddhismo.doc

 

Buddha Buddhismo Budda Buddismo

 

Il buddismo
tratto da C. Gobbetti “Nel Silenzio del Mistero” da p. 547 - 560

§ 488. Generalità
Il movimento buddista nasce in India nella regione del Gange, ad opera di Buddha il quale, pur facendo derivare dall'induismo alcuni concetti come l’irrealtà del mondo, la sanzione dei nostri atti, la trasmigrazione delle anime, proclamò il suo distacco dalle teorie dei testi sacri indù detti Veda, operando una riforma “religiosa” e una rivoluzione sociale: basta con i Bramini (i sacerdoti indù)! Basta con le caste! Egli, pur conservando le nozioni vediche di Karma e di Samsara  (testi sacri dell’induismo), rifiutò quelle di Atman. Poiché non vi è una particolare riflessione teologica su Dio alcuni definiscono il  buddismo non una religione.  
Per Buddha non esiste l’io, né sul piano individuale, né su quello universale; non c'è quindi l'identificazione Atman - Brahman insegnate dalle Upanishad.
Tale dottrina (dharma) dell’anatta è del tutto fondamentale e specifica del buddhismo.
L'originalità del Buddha consiste nel mostrare la causa della sofferenza, come essa può essere soppressa e, ottenendo la fine della sofferenza, come entrare nel Nirvana.
Alcuni considerano il buddismo come la prima religione di “liberazione universale”.

 

§ 489 Vita di Buddha (verso il 560 - 480 a.C.)
Nacque ai confini del Nepal in una regione himalayana da una ricca famiglia dei Sahkya, una stirpe che dominava il paese e che aveva come capostipite leggendario il Re Okkava.
Non è figlio di re, come molte leggende lo presentano, ma di un raja, cioè di un capo eletto dai maggiorenti cui era affidato il potere di governare.
Gli viene imposto il nome di Siddharta (“quegli che ha raggiunto lo scopo”) e di Gautama (“appartenente al ramo dei Sahkya”), ma in seguito verrà indicato con altri appellativi, sui quali emerge quello di Buddha, che significa: l'Illuminato, il Risvegliato.
Siddharta Gautama dovrebbe avere tutto per essere felice: fu allevato in mezzo alle comodità e al lusso principesco di una famiglia molto agiata; doni eccezionali, una sposa incantevole dalla quale ebbe anche un figlio.
Tuttavia, nonostante le precauzioni del padre affinché non fosse mai turbato da nulla nella sua vita, un giorno incontra un vecchio decrepito (la vecchiaia); un'altra volta un ammalato che urla (la sofferenza); poi un cadavere che viene condotto al rogo (la morte). Ben presto Siddharta Gautama comprese che la vecchiaia, la sofferenza e la morte erano la sorte comune di ogni uomo.
Un quarto incontro gli indicò il rimedio: fu un monaco mendicante, vestito di cenci, da cui traspariva una serena dignità. Desideroso di conoscere le cause della miseria presente nel mondo, a circa 29 anni prese la sua decisione: di notte, senza rumore, lasciò la sua dimora, la sua sposa addormentata, suo figlio appena nato; abbandonò tutto e tutti per condurre vita eremitica fra i Shakyamouni. Diventò monaco Shakya, alla ricerca di una soluzione all'enigma della vita.
Insoddisfatto delle risposte di altri maestri, dopo digiuni estenuanti, capì che la conoscenza della salvezza poteva trovarla solo nella meditazione personale.
Sei anni più tardi, fermatosi ai piedi di un albero di fico, in una notte di Luna piena del mese di maggio, raggiunse l'illuminazione.
Capì di aver scoperto il segreto del dolore universale. A poco a poco, tutto si schiarì, si coordinò, s'illuminò con l’intuizione delle Quattro Nobili Verità sul dolore, sull'origine del dolore, sulla soppressione del dolore, sulla via che porta alla soppressione del dolore. Gautama diventò Buddha: il chiaroveggente, l’illuminato, il saggio. Ogni persona illuminata è un “Buddha”.
Dopo diverse esitazioni, il Buddha Siddharta si decise a rendere gli altri partecipi della sua esperienza spirituale, dando inizio ad una lunga predicazione itinerante. Il punto di partenza è il celebre “Discorso di Bénarès”.
Le conversioni si moltiplicarono anche tra i Bramini. Buddha raggruppò i suoi convertiti in comunità. A 80 anni, stanco e felice, si coricò sul fianco destro e arrivò alla liberazione del Nirvana. Prima di morire, fu circondato dai suoi seguaci tra i quali il discepolo prediletto Ananda, al quale lasciò le sue ultime disposizioni. Dopo la morte di Buddha ( 486 a.C.), iniziò il lungo cammino del buddismo come un vero e proprio movimento religioso.

§ 490 La dottrina di Buddha
La dottrina buddista si fonda sulle Quattro Nobili Verità, che Buddha intuì sotto l'albero della Bodhi (illuminazione), il cui contenuto essenziale è nel “Sermone di Bénarès”.

  • La prima verità: tutto è dolore.
  • Emerge il carattere negativo dell'esistenza; la nascita avviene nel dolore; la malattia è dolore; la vecchiaia è dolore, la morte è dolore, la separazione da ciò che si ama è dolore; l'impossibilità di soddisfare i propri desideri è dolore. Tutto è dolore. Motivo? La risposta è nella prossima verità.
  • La seconda verità: l’origine del dolore è il desiderio.
  • Insegna che il dolore ha origine nella “sete” (il desiderio) del piacere, nella sete dell'esistenza, nell'attaccamento agli esseri e alle cose. L’origine della sofferenza è causata dalla dipendenza di tutto ciò che è instabile, fragile, non duraturo.
  • La terza verità: eliminare il desiderio.
  • Insegna che la sete dell'esistenza può essere eliminata distruggendo totalmente il desiderio, rinunciandovi. La causa prima del ciclo dell’esistenza e del dolore, è la non conoscenza (ignoranza) della dottrina delle quattro verità. Ogni fenomeno ha una causa che è l'effetto di una causa anteriore: perciò è condizionato e dipendente. Ogni individuo è condizionato dalla sua catena di esistenze precedenti: il samsara (il circolo della vita; sam - sar  girare intorno; nascita morte rinascita).
  • La quarta verità: il nirvana.
  • Indica la via per raggiungere la salvezza, il nirvana che è l’estinzione del dolore e della catena delle esistenze: mediante tecniche ascetiche buddiste. Il nirvana è l’annullamento del Karman (la forza dell’azione che ci lega al ciclo delle rinascite)

Dopo la presa di coscienza delle tre Verità, gli strumenti per liberarsi dal dolore e dalla catena delle esistenze vengono presentati in quello che viene denominato l'Ottuplice Sentiero :

  • La Retta Fede, cioè l'incondizionata adesione alle quattro verità;
  • La Retta Risoluzione, cioè l'impegno a tenere lontano da sé ogni desiderio, odio o malizia;
  • La Retta Parola, cioè l'astensione dalle parole false;
  • La Retta Azione, cioè l'astensione dall'uccidere esseri viventi, dal furto e dall'adulterio;
  • Il Retto Comportamento di vita, cioè la pratica di tutte le norme che riguardano il parlare e l'agire;
  • Il Retto Sforzo, cioè la volontà di incrementare le qualità buone;
  • Il Retto Ricordo, cioè la condizione della mente priva di confusione che aiuta a perseverare nella via di salvazione e a non cedere ai desideri;
  • La Retta Concentrazione, cioè il raccoglimento della mente che disperde la falsa concentrazione e conduce allo stato di abolizione della coscienza e della non coscienza.

La liberazione non dipende soltanto dalla conoscenza della ignoranza, ma anche dalla osservanza delle norme (sìla) di comportamento.

§ 491 La vanità
Buddha nega l'io, l'anima individuale, l'Atman; “lo stesso spirito è un'illusione”. Il mondo in cui viviamo non ha alcuna realtà. E' un oceano di instabilità, d’irrealtà, non è durevole, è fragile. Tutto è vano.
Osserviamo ora che cosa scrive la Bibbia nel libro del Qoèlet:
“Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità.
Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole?”
(Qoelet 1,2 - 3)
Non si può intravedere una lontana similitudine nel significato di tali versetti biblici con la riflessione spirituale buddista?

§ 492 “Il nirvana”: la salvezza.
Nell’induismo la liberazione o salvezza era il moksha, che si otteneva con il dharma, la condotta umana. Ora, nel buddismo, si parla di salvezza intesa come nirvana, che si ottiene con l’estinzione di ogni desiderio o dipendenza.
Buddha definisce il nirvana: “la fine delle rinascite, l'estinzione, il non essere; è vuoto e infinito come lo spazio per gli uccelli...” Il nirvanaè un pensiero buddista intraducibile nei termini della nostra cultura occidentale. Talvolta è stato erroneamente inteso come una specie di “paradiso” o come una condizione ultraterrena.
In realtà il nirvana è proprio una non condizione, anche se deve essere inteso positivamente. Il Nirvana indica l'annullamento del karma, che è la forza prodotta dalle azioni che legano l'uomo al ciclo delle rinascite.
Il nirvana è anche l’annientamento con tutti i legami dell'esistenza. E’ la liberazione da ogni dipendenza che è la causa del dolore. Nel buddhismo si può raggiungerlo con il “risveglio” (bodhi) inteso come “illuminazione”: tutto è relativo. Le cose, il mondo, perfino la stessa persona pensante sono parziali, non completi, limitati e dipendenti.
Il nirvana è una specie di “coscienza universale” che tuttavia non conosce altro che sé (non essendoci altra realtà).
In psicanalisi il “principio del nirvana” è spesso usato per indicare la tendenza a spegnere quanto più possibile una eccitazione psichica.
In realtà il nirvana è il raggiungimento della beatitudine cosmica, lo stato dei “Santi”. Nell’induismo viene chiamato “la realizzazione”, l’illuminazione o l’unione con il divino.
Non si tratta di “spegnere un’eccitazione psichica”, ma di superarla (trascenderla). E’ la vittoria sull’Io (l’Ego).

§ 493 Il culto
Non vi è una organizzazione all'interno di una struttura gerarchica.
I buddisti venerano alcune divinità, ma le ritengono inferiori al Buddha che ogni mattina invocano così:
- mi rifugio nel Buddha
- mi rifugio nel Dharma (= Dottrina)
- mi rifugio nel Sangha (= Comunità).
Sono i tre "gioielli" per raggiungere la liberazione e la beatitudine celeste.
Di fronte alle numerose statue di Buddha, il fedele si inchina, si inginocchia e, postosi a gambe incrociate, preferisce meditare. Riflette sulla propria vita, confessa il male e promette di evitare la menzogna e di osservare i cinque comandamenti: non uccidere, non rubare, non disordinare sessualmente, non essere falso, non bere prodotti inebrianti. 
Standosene del tutto immobile, ripetendo i brani dei testi sacri, il fedele cerca di allontanare dalla mente ogni pensiero fino a raggiungere uno stato di perfetta pace e serenità interiore.

 

§ 494 Comunità monastiche
Il monaco (bonzo) deve fare un noviziato: gli si radono la barba e i capelli, indossa un abito particolare, accetta la regola della comunità e la direzione di un precettore.
Finito il noviziato, il postulante, che deve avere almeno vent'anni, dopo l'approvazione dell'assemblea diventa Bhinksu. Accetta allora la regola della povertà monastica: non possedere che nove cose: tre panni per vestirsi, una cintura, un ago, un rasoio, un filtro, un ventaglio, una tazza per mendicare il cibo.
Egli si impegna ad osservare quattro doveri: castità assoluta, non uccidere neanche un animale, non rubare, non vantarsi di perfezione spirituale.
Trascorrerà la sua vita in un'atmosfera di silenzio.
Ogni quindici giorni il monaco si accusa pubblicamente dei suoi peccati lievi; le trasgressioni dei suoi quattro doveri lo portano all'espulsione.
Lo stato di bonzo è il cammino che porta più sicuramente al Nirvana, mentre i laici che osservano la legge e praticano la carità (più particolarmente verso i bonzi) possono sperare in una rinascita più piacevole.
Cap. 7  Il cattolicesimo e le religioni orientali
§ 495.  Buddismo e cristianesimo
Ci si trova in difficoltà quando si tratta di distinguere da ciò che è la storia reale di Buddha, scritta quattro secoli dopo la sua morte, da ciò che è la leggenda.
I Vangeli canonici e le lettere di S. Paolo sono stati accuratamente studiati dal punto di vista storico, critico, archeologico ed esegetico; inoltre tali testimonianze sono state scritte pochi anni dopo la morte di Gesù.
Buddha porta l'uomo all'esclusione del dolore (“la salvezza”) mediante l’eliminazione dei desideri o delle dipendenze. Dinanzi alla sua statua serena e tranquilla, il buddista deve riflettere sul discorso di Benares: la dimenticanza mediante l'ascesi.
Per i cattolici, Cristo libera dal peccato mediante la Grazia: quello speciale dono che sostiene gli sforzi umani e li impreziosisce.
Davanti al crocifisso il cristiano dovrebbe riflettere sul discorso delle beatitudini: la redenzione opera dell'amore.
Il male “peccato”, secondo il cristianesimo, è la mancanza d'amore fra gli uomini che si allontanano da Dio, sono la superbia e l’orgoglio.
La liberazione, secondo i cattolici, avviene mediante alcuni speciali doni di Cristo e la volontà dell'uomo di amare Dio. E' accertato da testimoni del tempo che Gesù guarì i paralitici, la lebbra e, soprattutto, che è risorto.
La fede in Gesù nasce dal fatto che è risorto; la salvezza (la liberazione e la resurrezione) è l’intima comunione con l’Essere Supremo: il “Padre”.
§ 496. L’induismo e il buddismo secondo la Chiesa Cattolica
Riportiamo e sottolineiamo ora come la Chiesa Cattolica considera l’induismo e il buddismo:
“... nell'induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza.
Nel buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l'aiuto venuto dall'alto.
Ugualmente, anche le altre religioni del mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l'inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine, precetti di vita e riti sacri.
La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni.
Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.
Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è « via, verità e vita » (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose.
Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi.”
Concilio Ecumenico Vaticano II Nostra Aetate n. 2 (28 ottobre 1965)

Cap. 8  La creazione a confronto
§ 497 La scienza, il pensiero indiano e il cristianesimo
Nella sezione dedicata ai due “racconti” biblici sulla creazione, ci siamo limitati a presentare solo quello che scrive l’Antico Testamento nel libro Genesi, senza presentare le novità dottrinali “scoperte” per mezzo di detti e fatti di Gesù e dei suoi apostoli.
Tralasciamo il Corano, il testo sacro dei musulmani, poiché il breve accenno della creazione ad opera di Allah in sei giorni è un chiaro riferimento dipendente dalla Bibbia.
Il Corano dunque, non aggiunge particolari nuovi e interessanti rispetto a quelli della Bibbia, anche se molti altri riferimenti biblici sono fortemente travisati e distorti.
Il pensiero della creazione cambia totalmente nella meditazione degli antichi testi sacri indù detti “I Veda”.

  • La dottrina indiana della creazione è varia e complessa, poiché il legame di Dio con la natura è espresso in vari modi.
  • La “creazione” fu pensata sia come generazione di Dio, sia come costruzione da “materiale” preesistente, sia come emanazione (continuazione o divulgazione divina), sia come opera “magica”.
  • Nel pensiero indiano del samkhya, che distingue e ben separa la natura materiale (prakrti) dallo spirito (purusa), la creazione avviene invece per l’evolversi della materia primordiale (prakrti), e si scandisce, ciclicamente, nei ritmi di espansione e di “riassorbimento”.
  • Secondo il buddismo, sebbene non si possa parlare di vera e propria creazione, neppure di anime eterne, il cosmo comprende una serie di mondi ognuno dei quali ha una sua evoluzione spontanea e ciclica.
  • I mondi sono articolati nelle tre sfere: del desiderio, delle forme, senza forme.
  • Gli esseri nascono, muoiono e rinascono secondo la legge del Karman che regola la causa degli eventi.
  • Secondo la dottrina cristiana l'universo fu creato dal nulla (ex nihilo), da parte di un libero atto di Dio, chiamato perciò il Creatore.
  • Dio pronuncia la sua parola e le cose si fanno presenti.
  • Rispetto alle sue creature, Dio si mantiene distaccato e indipendente (trascendente).
  • Dio è anche colui che prepara le condizioni per realizzare il suo progetto storico d’amore o di salvezza: la “divinizzazione” del Creato.
  • La creazione è, in ultima analisi, incompatibile con il pensiero orientale secondo cui Dio, nel dar luogo all'universo, avrebbe fatto uso di materia preesistente, o di una derivazione del cosmo da Dio per emanazione.
  • Tuttavia è interessante osservare le riflessioni dottrinali sui detti e i sui fatti di Gesù di Nazareth, i quali confermano il pensiero che la creazione è la dimostrazione della potenza di Dio “Figlio” (la forza della “Parola” di Dio, il Verbo...), ma anche che “Dio ha parlato per mezzo del suo Figlio”.
  • Che cosa significa questo? 
  • Secondo il pensiero cristiano, durante la creazione il nome di Dio è unito a quello di Cristo.
  • Credete che il discorso sia finito così?
  • Osserviamo che cosa continua a rivelare.
  • Occorre ricordare che Cristo è anche considerato il primogenito e il preesistente di tutte le creature, attraverso il quale tutto è stato fatto. Vale a dire che la creazione, secondo i cristiani, è opera non del Padre, neppure dello Spirito Santo, ma del Figlio, la forza della Parola detta anche la seconda “persona” della Santissima Trinità, che si è anche incarnata nell’uomo storico di Gesù di Nazareth.
  • Il discorso è molto complesso; ci limitiamo a ricordare che la creazione è un’opera distaccata da Dio per mezzo della forza della sua Parola, la stessa che si è incarnata in Gesù per “divinizzare” o salvare il mondo da una situazione di peccato (ciò che distacca l’uomo da Dio). (vedi: Cristo e la creazione § n. 406)
  • Oggi la discussione sulla creazione è sempre più abbandonata dai moderni studiosi di Dio (teologi), che hanno posto una chiara distinzione fra l’aspetto di competenza della scienza che indaga sul come Dio ha creato il mondo e sull’aspetto della fede, la quale indaga sullo scopo della creazione (il perché, conoscereil progetto di Dio attraverso i detti e i fatti di Gesù, comprendere la volontà di Dio nei riguardi dell’uomo e della creazione).

Terminiamo questo articolo ricordando che è possibile un confronto “analogico” tra cristianesimo, pensiero indiano e la scienza.
Osservate le seguenti affermazioni.

  • Il vangelo di Giovanni inizia meditando sulla creazione con il famoso versetto in cui si afferma che “In principio vi era il Verbo” (la forza dellaParola” di Dio successivamente chiamato “il Figlio” nel mistero della Trinità).
  • Gli ebrei  composero nell’Antico Testamento un inno a Dio Creatore (Gn 1 - 2,4b), la creazione viene presentata iniziando così: “E Dio disse...”.
  • Nella spiritualità orientale si crede che in principio vi era la forza della Parola, espressa con il grande suono orientale OM da cui proviene il cosmo. Nell’induismo, nel buddismo e nel giainismo il suono OM (=AUM) è anche la parola mistica per eccellenza, che rappresenta la forza della totalità del divino o dell’assoluto (il Brahman). Come tale è anche il mantra per eccellenza (una parola carica di forza e di potenza) e fa parte di quasi tutti gli altri mantra. Viene usato nella pratica yoga, insieme agli esercizi di respirazione, atteggiamenti di meditazione, ecc.
  • La scienza moderna ritiene che in principio vi era la forza di un grandesuono”: il famoso “boato” del Big Bang. Di che cosa si tratta?
  • A partire dal 1920 Edwin Hubble (1889 - 1953) iniziò a studiare le galassie dell’universo con i potenti telescopi di quel tempo. Osservò che le galassie sono formate da miliardi di stelle, e che sono lontane dalla Terra centinaia di milioni di anni luce. Ma la scoperta più sensazionale fu che esse si allontanano l’una dall’altra a una data velocità.
  • Se l’universo si espande come un palloncino che si gonfia, pensò Hubble, conoscendo la velocità di espansione è possibile risalire indietro nel tempo fino a calcolare l’epoca nella quale tutto l’universo era concentrato in un piccolissimo spazio e si stabilì che l’universo fosse nato da un Big Bang, cioè da un gigantesco scoppio, avvenuto circa quindici miliardi di anni fa. Big Bang deriva dall’inglese e significa grande esplosione o colpo secco.
  • Nel 1953 i fisici americani Penziaz e Wilson scoprirono che il rumore di fondo nella comunicazione via radio a onde ultracorte, era in realtà il “radiodisturbo” proveniente dallo spazio, l’eco del Big Bang.
  • Oggi quel disturbo viene chiamato “radiazione fossile”.
  • Il cosmo, secondo la scienza, si sarebbe quindi formato in seguito a una grande esplosione, che segnerebbe l’inizio dell’allontanamento delle galassie da un unico punto iniziale.

Che dire in una prospettiva di dialogo fra le diverse religioni e la scienza?
Scienza, spiritualità orientale e Cristianesimo, affermano che in principio vi era la forza di un grande suono; boato; della misteriosa “Parola” (di Dio?).
Lasciamo ai grandi studiosi tale risposta. Se ogni disciplina del sapere umano ricerca con umiltà la verità, arriverà un giorno in cui la scienza e tutte le religioni si troveranno in comune accordo perchè la verità è una sola, si tratta di scoprirla nei suoi diversi nomi velati dall’orgoglio umano.

Cap. 9   Alcune religioni orientali minori
§ 498 Lo zen. Generalità
E’ una setta buddista nata in Cina e affermatasi anche in Giappone durante il periodo Kamakura (1185-1333). Lo zen realizza, nei termini della cultura nazionale giapponese, lo strumento salvifico della meditazione contenuto nel buddismo indiano e rielaborato dal buddismo cinese.
La meditazione indiana e l'elaborazione cinese si proponevano di conseguire la fuga dal mondo e si svolgevano pertanto in senso antisociale. Con la meditazione zen accade tutto il contrario: essa viene assunta proprio in funzione sociale. Lo spirito dello zen ha compenetrato tutta la cultura giapponese, dando onore ai samurai (divenne di fatto la loro religione), esaltando la gentilezza dei rapporti sociali (indicativa è la cerimonia cha-no-yu, in cui si offre e si beve il tè), e influenzando profondamente i diversi campi della cultura e dell'arte giapponese, fino a incidere su taluni aspetti del costume.

§ 499 Il taoismo. Generalità
Si tratta di un movimento filosofico-religioso cinese sorto nel VI sec. a.C. Con il buddismo e il confucianesimo, il taoismo è una delle tre religioni fondamentali della Cina. Ha seguaci anche in Giappone. E’ molto importante distinguere il taoismo filosofico che ha un altissimo livello spirituale dal taoismo religioso popolare ricco di superstizioni e di riti. Il fondatore del taoismo sembra essere Lao-tzù (o Lao-Tse, il “Vecchio Maestro”) vissuto attorno il 500 a.C., autore del più antico testo filosofico cinese del taoismo: il Tao-te-ching. 
Le altre opere del taoismo che merita ricordare sono: il Chuang-tzù e il Lieh-tzù. Il taoismo esalta l'individuo e la sua libertà, ed essendo in contrapposizione con il confucianesimo, la religione della burocrazia statale, esercitò una vasta influenza su tutta la cultura cinese. Come espressione religiosa, il taoismo si  collega direttamente alla religione popolare.  Il legame stretto con la mentalità popolare, portò i filosofi taoisti ad appoggiare e spesso a organizzare le rivolte contadine contro i funzionari confuciani. Ciò fu la causa di numerose persecuzioni da parte del potere. La grande persecuzione scatenata dagli ultimi imperatori della dinastia T'ang portò al declino del movimento (IX sec.), che tuttavia sopravvisse come religione popolare.
Il Tao è una voce cinese, che significa strada o retto cammino, ma è anche il primo principio dell'ordine cosmico che sta all'origine di ogni cosa e da cui derivano i due opposti ying e yang e tutte le creature dell'universo. 
Il Tao viene indicato con un cerchio diviso in due metà che rappresentano:

  • lo yang le forze della luce, del Sole, l'elemento “maschile”, la forza positiva della vita;
  • lo ying  le forze delle tenebre, della terra, l'elemento “femminile”, la forza negativa della vita.

Dalla fusione di questi due elementi, o forze contrapposte, trae origine la vita dell'intero universo. Il taoismo predica il ritorno alla natura onde sottrarsi agli inganni della vita politica feudale; il miglioramento del proprio io, mediante l'isolamento dalla vita sociale, praticando il “non agire” e cercando di raggiungere l’immortalità.
Il “non agire” non è passività, ma libertà dagli interessi terreni, dall'attaccamento passionale. Verso il V sec. il movimento appare ben consolidato con mitologia e culto propri.
Esiste una triade taoista, i Tre Puri:

  • il Puro Giada (il sovrano del Cielo);
  • il Puro Superiore (il regolatore dell'alternanza cosmica ying - yang e del flusso del tempo);
  • il Puro Supremo (è lo stesso Lao-tzù, il quale dimora nel terzo “Cielo”; è l’oggetto di culto in quanto ha predicato agli uomini la dottrina salvifica).

Vi sono varie liturgie con molti elementi di magia e superstizione: vi è la liturgia della pioggia, del fuoco ecc. Tali liturgie erano presiedute dai bonzi.

 

§ 500. Il Taoismo e il cristianesimo
Nell’opera Tao-te-ching vi sono considerazioni molto interessanti per la comprensione di Cristo.
Nel cristianesimo l’umiltà è una delle virtù più importanti. Tuttavia il cristianesimo che si vede non appare molto umile e dobbiamo riconoscere che tale studio è poco sviluppato, mentre nel taoismo è al centro della riflessione filosofica. Umiltà è verità.
Si è umili se si è se stessi davanti alle cose come sono.
In un certo senso un taoista è un povero di spirito simile a quelli di cui si parla nelle beatitudini del vangelo. Per capire l’amore occorre che il mondo agisca su di noi; occorre essere aperti, quieti, lasciare che le cose agiscano su di noi.
Gli occidentali sono ammalati di attività: se non fanno qualcosa di produttivo sembra loro di non vivere. Il taoista nel suo vivere la quiete, quella che ai nostri occhi sembra passività, è in realtà pienamente attivo.
Vi è una forza nelle cose e nel mondo che, se ci adeguiamo, spinge verso uno sviluppo armonico. Se la si vuole contrastare, o forzare, causa danni. I taoisti chiamano la forza insita nelle cose o nel mondo “Tao” (la Via); i cristiani la potrebbero chiamare “Provvidenza”.
Secondo il teologo Cattolico Riches, Gesù doveva seguire la sua Via, il suo Tao, non i ragionamenti umani del mondo, nè seguire le vie del mondo.
La sua morte in croce potrebbe essere considerata, per i taoisti, l’atto più passivo della sua Via (il Tao) nel suo significato più positivo, per i cristiani l’atto più salvifico.
In occidente è impensabile considerare la passività, la quiete, come potere e potenza in termini positivi e perfino salvifici. Per il taoista è un presupposto indispensabile per vivere serenamente.
Ma sia il cristiano che il taoista potrebbero essere d’accordo con l’affermazione “chi vince perde e chi perde vince”. Il potere è pericoloso, falsifica la propria visione della realtà, favorisce l’orgoglio e la presunzione. Nella Chiesa terrena il potere favorisce l’arroganza, la presunzione e l’orgoglio. Il potere è solo il Tao, la Via (Dio). Alcuni autori confrontano i testi taoisti con la spiritualità di alcuni famosi Santi (ad esempio S. Teresa del bambin Gesù). Il taoismo ha molto da insegnare ai cristiani riguardo l’umiltà.
Si è spesso voluto vedere nel taoismo una religione popolare (contadina), che tuttavia non avrebbe mancato di ispirare filosofi e persone d'alta cultura, fermo restando una specie di frattura tra la teoria di questi (aspetto filosofico) e la pratica delle masse (religiosità popolare).


La liberazione, salvezza per i cattolici, è il recupero nell'uomo di quella sua originale immagine del Dio/amore che è stata poi offuscata dall'egoismo e dal peccato originale originante.

Quest’ultima, nel sistema filosofico del vedanta, è la teoria che ha avuto più fortuna tramite la categoria della maya (il potere in cui l’Essere Supremo può far sorgere e scomparire ciò che vuole).

“Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio...”. Ebrei 1,1

Per una eventuale riflessione su chi sia il Cristo sono interessanti questi versetti del Nuovo Testamento: “In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che il Padre fa, anche il Figlio lo fa.” (Gv 5,19);
“Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. Lc 10,22;
Secondo la dottrina cristiana, l’unico Dio esistente è considerato con tre particolari “caratteristiche” chiamate comunemente “persone”, o ipostasi per i teologi, che insieme formano la famosa Santissima Trinità del “Padre” (il pensiero progetto di Dio, la sua iniziativa), del “Figlio” (la potenza creatrice, la forza della Parola, la destinazione della volontà di Dio) e dello Spirito Santo (la forza dell’ “amore”, il legame tra il Padre e il Figlio...).

  Il suono viene pronunciato con la bocca prima e dopo la preghiera e la lettura dei testi sacri scomponendolo secondo la fonetica sanscrita nelle tre lettere A,U,M, considerate i simboli delle tre realtà psicofisiche: mondo sensibile, mondo delle immagini, mondo della causalità.

Edwin Hubble, è un astronomo statunitense che si occupò soprattutto di nebulose extragalattiche; nel 1923 riuscì a misurare la distanza dalla Terra di una nebulosa a spirale (quella di Andromeda) e quindi a dimostrare che oggetti di quel tipo sono sistemi esterni alla nostra Galassia; nel corso di ricerche statistiche sulla loro distribuzione, scoprì la fascia sull'equatore della Via Lattea nella quale non si possono osservare galassie esterne, a causa dell'assorbimento dovuto al materiale galattico. Intorno al 1940 formulò la relazione velocità-distanza per le galassie, di grande importanza in cosmologia. Compilò infine una classificazione delle galassie, tuttora valida.

Big bang è così chiamata la teoria scientifica della formazione dell’universo: si crede in una grande esplosione iniziale. E. Hubble ne ha fornito il supporto teorico e sperimentale.

Zen.c’han” e “pali”, risale al sanscrito dhyana, contemplazione.

Samurai. Sono i “guerrieri” del periodo feudale. La rigida disciplina cui i samurai si sottoposero sviluppò le virtù della lealtà, dell'onore, del coraggio e della sobrietà, finché, con l'apporto di elementi tratti dal confucianesimo, si giunse nel sec. XVII a una vera e propria codificazione di questo sistema etico col Bushido (la via del guerriero).

Tao. Fenomenologicamente si potrebbe intendere il tao come un “ordine naturale” contrapposto all'“ordine culturale”, oppure come un principio dinamico (una specie di potenzialità assoluta) irriducibile pertanto alle forme del divenire, che presuppongono il principio stesso.

Pierre Riches: Note di catechismo, coll. Uomini e religioni Oscar Mondadori pp. 132 - 134.

Il confucianesimo pone la salvezza individuale in una “restaurazione” dell'Impero, su nuove basi di comportamento politico religioso, mentre il taoismo pretende di “rigenerare” l’individuo e la società, svincolandoli dall’ “ordine imperiale” e vincolandoli (o adeguandoli) all' “ordine cosmico”, o a un principio cosmico chiamato Tao. Il Confucianesimo è una religione filosofica e soprattutto politica nota per il riordino di antichissime filosofie cinesi ad opera di Confucio nella Cina del sec. V a.C. E’ nata per rispondere a un'esigenza d'ordine sociale, in un periodo di confusione e incertezza per una grave crisi politico-sociale. I libri canonici sono detti ching e sono degli antichi testi con resoconti annalistici, riti, miti, poesie, ecc. Il fine ultimo del confucianesimo lo si può osservare in questa affermazione: “Chi governa mediante la propria virtù è come la stella polare che è fissa al suo posto e tutte le stelle la onorano” (dai Dialoghi di Confucio, II, 1). Il regno deve essere governato con saggezza e con giustizia. La realtà suprema del confucianesimo era l'Impero. Riportiamo due famose massima di Confucio:
“Non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te stesso”, (Confucio, Dialoghi, XII, 2).
«Soltanto chi possiede jen è capace di amare e di odiare la gente» (Confucio, Dialoghi, IV, 3). Lo jen viene solitamente tradotto come “virtù umanitaria” o “umanità”, è qualcosa che rende “umana” la convivenza tra gli uomini; può essere inteso come “amore” per gli uomini.

 

Fonte: http://www.governolo.it/Dispense/2_quadrimestre/-%203%20Sup%20Buddismo%20tratto%20da%20Nsm.doc

 

IL BUDDHISMO

 

1. Premessa

Il Buddhismo nasce essenzialmente come una filosofia, un insegnamento sul senso della vita e del mondo. Poiché in esso originariamente non si fa riferimento ad una o più divinità supreme, sarebbe forse più corretto non considerarlo come una vera e propria religione. Tuttavia, la presenza dominante della dimensione soteriologica1 e la profonda venerazione di cui i fedeli hanno ben presto fatto oggetto il suo fondatore, fanno sì che il Buddhismo venga considerato non ingiustificatamente tra le grandi religioni.

 

2. BUDDHA

Fondatore del Buddhismo è il principe Siddhàrta, della nobile famiglia Gautàma, appartenente alla tribù guerriera dei Sakya. Nasce intorno al 560 a.C. a Lumbini, presso Kapilavàstu, città dell'India settentrionale di cui suo padre Suddhodana era il signore. Cresce nel lusso e negli agi della corte, riceve un'ottima educazione e primeggia negli studi. Per precisa volontà di Suddhodana, la sua gioventù trascorre tra piaceri e divertimenti, in una sorta di isola felice dalla quale le imperfezioni e le sofferenze del mondo reale sono bandite. Il matrimonio con Yasodhara e la nascita del figlio Rahula completano un quadro idilliaco.
La vita di Siddharta subisce una svolta decisiva quando, malgrado l’impegno del padre, egli viene a contatto con le miserie umane incontrando un vecchio, un malato e un funerale. Profondamente colpito dall’esperienza del dolore e della caducità, prova un senso di insoddisfazione per l’esistenza condotta sino ad allora. Un quarto incontro con un monaco gli appare come la risposta alle inquietudini che lo turbano: decide di abbandonare la famiglia e le ricchezze per diventare un pellegrino in cerca della verità sulla sofferenza e la vita dell’uomo.
Si reca presso maestri di saggezza che lo guidano negli studi, ispirati soprattutto alle Upànishad ; in seguito, in compagnia di cinque discepoli, pratica per sei anni l'ascesi più rigida, ritenendo che attraverso le mortificazioni corporali sia possibile consentire alla mente di penetrare con maggiore chiarezza le verità più recondite. Dopo essersi sottoposto ad esercizi penitenziali molto severi (ad esempio un digiuno tanto prolungato da provocare la caduta dei capelli), si rende conto della loro inutilità e li abbandona per adottare uno stile di vita più ragionevole.
La seconda grande svolta, quella decisiva, si verifica durante una notte trascorsa in meditazione, quando raggiunge l’Illuminazione sul dolore, sulla sua origine e sugli strumenti atti a liberarne l'uomo. Superata la tentazione di tenere per sé la scoperta della via che porta alla salvezza, Siddharta comincia ad insegnare ciò che ha appreso dalla sua straordinaria esperienza. I primi a seguirlo sono i compagni che avevano condiviso con lui la vita ascetica, ai quali rivolge la cosiddetta “Predica di Benares”, il discorso in cui riassume i concetti fondamentali della propria dottrina.
Malgrado l’opposizione di non pochi avversari, Siddharta, che i discepoli chiamano Buddha, con la sua predicazione, talvolta accompagnata da eventi prodigiosi, riscuote grande successo ed ottiene numerose conversioni in tutte le classi sociali nel corso di una lunga serie di viaggi. Tornato a Kapilavastu, vi incontra il padre Suddhodana e il figlio Rahula e, per accontentare la matrigna Mahaprajapati desiderosa di essere sua discepola, vi fonda il ramo femminile dell’ordine. Nascono così varie comunità di fedeli composte da religiosi e da laici, che dopo la sua morte, avvenuta forse nel 480 a.C., conservano e diffondono la dottrina da lui elaborata.

 

3. LA DOTTRINA (DHARMA)

La dottrina buddhista ha un carattere pratico più che teoretico, è cioè volta ad indicare concretamente un efficace cammino di salvezza. Siddharta diffida dei procedimenti logici troppo raffinati dei filosofi, che vogliono raggiungere la conoscenza per via deduttiva e si perdono in dispute prive di costrutto. Ciò che conta nella vita dell’uomo non è tentare un’impossibile dimostrazione dell’eternità o dell’infinità del mondo, ma conoscere ed applicare la teoria che conduce alla liberazione dal dolore.
Il nucleo della dottrina è costituito dalle cosiddette Quattro Nobili Verità:

1. L'universalità della sofferenza
Il punto di partenza della riflessione di Buddha è una constatazione: la vita umana è sofferenza. Certo esistono anche esperienze piacevoli o gioiose, ma esse si rivelano in ultima analisi illusorie, perché legate a realtà passeggere, destinate, come tutte le cose di questo mondo, a corrompersi e a scomparire. A partire dalla nascita, dunque, e soprattutto in occasione della malattia, della vecchiaia e della morte, tutto è dolore.
Nell'ottica buddhista, la conoscenza di questa grande verità non deve indurre alla disperazione, ma costituisce soltanto il primo passo verso la salvezza.

2. L'origine della sofferenza: il desiderio
Ogni uomo è soggetto ad una forza interiore che Buddha chiama “sete” (tanha in lingua Pali), ad un desiderio che induce a cercare soddisfazione nelle realtà mondane: è sete di godimento, di ricchezza, di eternità, di legami con altre persone. Queste cose tuttavia, soggette alla legge del divenire, sono precarie, non durano, e non possono quindi spegnere l’impulso che spinge a ricercarle. Ciò è dimostrato dal fatto che coloro che si fanno condizionare dal desiderio non sono mai soddisfatti della loro esistenza e si rivolgono continuamente a qualcosa di diverso.
E’ la “sete” a provocare il fenomeno delle rinascite: la vita non si esaurisce con la morte fisica, ma si prolunga in  esistenze successive, attraverso rinascite in nuovi esseri dotati di caratteri che dipendono dalle scelte effettuate nelle vite precedenti. La Legge eterna del Karman, o della Retribuzione, stabilisce infatti che gli individui ricevano nell’esistenza futura, per ogni loro atto positivo o negativo, un compenso o un castigo; così chi agisce bene sarà un essere migliore, un uomo di grande qualità, saggio e longevo, mentre chi agisce male patirà difficoltà e sofferenze, o addirittura rinascerà in un animale. L’essere capace di comportarsi bene, affrancandosi gradualmente dal dominio delle cose materiali, migliorerà di vita in vita la sua condizione, sino ad ottenere la fine del ciclo delle rinascite (detto samsara) e l’ingresso nel nirvana .

3. La liberazione dalla sofferenza: l'eliminazione del desiderio
Per vincere la sofferenza è necessario sottrarsi al desiderio che ci mantiene legati alle cose. Solo così è possibile spezzare la catena delle rinascite che tiene avvinto l'uomo all'esistenza terrena. Quando il processo di affrancamento dal desiderio è completo, si raggiunge la beatitudine suprema, costituita dal nirvana: è la meta finale, lo stato di totale liberazione dai condizionamenti, che pone fine alle rinascite e conduce alla felicità.
Il concetto non è di facile definizione, anche perché nei testi buddhisti viene prevalentemente descritto attraverso connotazioni negative: assenza di sensazione, dolore, malattia e morte, cessazione del desiderio e della sofferenza, fine del ciclo delle rinascite (già il senso etimologico di nirvana è indicativo: estinguere una fiamma con un soffio). Non si tratta però di una distruzione totale, perché in questo caso il risultato sarebbe semplicemente il nulla. Bisogna piuttosto pensare all’eliminazione di tutti i condizionamenti ai quali vanno soggetti gli esseri nella loro dimensione individuale, i quali si aprono così ad un’esistenza illimitata. Dal superamento dei legami con questo mondo, dunque, deriveranno una tranquillità assoluta e definitiva e un’indescrivibile beatitudine.

4. La via che conduce al nirvana: l'Ottuplice Sentiero
I pur gravi condizionamenti provocati dal karman non compromettono la libertà degli esseri: chiunque, volendolo, può giungere al nirvana. A tal riguardo Buddha propone ai discepoli di seguire l'Ottuplice Sentiero, che consiste nel rispetto dei seguenti precetti:
1) Retta Fede: credere nelle Quattro Nobili Verità.
2) Retta Intenzione: voler seguire la via del distacco per raggiungere il nirvana.
3) Retta Parola: dire sempre la verità e non danneggiare gli altri con le parole.
4) Retta Azione: evitare i peccati e non danneggiare gli altri con le proprie azioni.
5) Retto Sistema di vita: esercitare soltanto mestieri ed attività compatibili con una esistenza onesta.
6) Retto Sforzo: impegnarsi seriamente per superare ogni ostacolo sulla via delle Quattro Verità.
7) Retta Attenzione: affrontare nel modo giusto ogni situazione mantenendo un pieno dominio di se stessi.
8) Retta Concentrazione: esercitare un controllo sempre più efficace della propria mente attraverso la meditazione, e giungere così alla conoscenza della verità.
Chi percorre fino in fondo l'Ottuplice Sentiero raggiunge lo stato di arhat (santo), che garantisce la fine delle rinascite e l’ingresso nel nirvana.

 

4. LA COMUNITA' (SANGHA)

Non è possibile parlare del Buddhismo senza trattare della comunità, che insieme a Buddha ed al Dharma costituisce la Triplice Gemma, cioè il nucleo degli elementi che lo caratterizzano in modo essenziale. Secondo una tradizione che appare nel complesso degna di fede, sarebbe stato lo stesso Buddha a fondare le prime comunità, basate sull'ideale di un pieno egualitarismo. A differenza di quanto accade nell'Induismo, non sono ammesse limitazioni legate alle caste e, almeno in linea di principio, l'ingresso nel Sangha è aperto a tutti.
Sin dai tempi antichi costituiscono la comunità buddhista due grandi componenti: i laici ed i monaci (o bonzi).

- I laici
Sono tenuti a rispettare le Cinque Regole fondamentali della morale:
1) Non uccidere: tutela non solo l'uomo, ma tendenzialmente tutti gli esseri viventi.
2) Non rubare: esprime non soltanto l'obbligo di astenersi dal furto, ma anche la necessità di evitare un eccessivo attaccamento alle cose in nome di una generosità che deve estendersi a tutti.
3) Non avere relazioni sessuali illecite: evitare rapporti sessuali al di fuori del matrimonio.
4) Non mentire: oltre al divieto di affermare il falso, prescrive anche che ci si astenga da qualsiasi uso malvagio ed offensivo della parola.
5) Astenersi da alcool e stupefacenti: bisogna evitare qualsiasi sostanza che diminuisca il controllo di se stessi.
Ai fedeli laici è inoltre richiesto di utilizzare i propri beni per fornire aiuto materiale ai monaci ed agli ammalati.

- I monaci
Sono coloro che abbandonano la vita mondana per aderire più profondamente alla dottrina di Buddha.
Superato un periodo di noviziato che li prepara alla vita religiosa, entrano a far parte a tutti gli effetti dell’ordine. Non esiste una struttura gerarchica, in quanto l’unico criterio che stabilisce una distinzione tra i membri è quello dell’anzianità di ingresso nello stato monastico. Le comunità femminili, la cui fondazione risale allo stesso Buddha, non hanno lo stesso rilievo di quelle maschili e sono ad esse subordinate.
I monaci sono tenuti ad una disciplina ferrea, codificata in norme che tutti devono rispettare puntualmente. Lo scopo del codice comunitario è quello di favorire il distacco completo dalle cose e dal proprio io, condizione indispensabile per accedere al nirvana.
Dieci sono le regole basilari. A quelle previste per i laici se ne aggiungono altre cinque specifiche per i monaci:
1. Nutrirsi solo nel periodo stabilito: fino a mezzogiorno.
2. Astenersi da balli, canti e spettacoli.
3. Rinunciare a cosmetici e ornamenti.
4. Rinunciare a seggi e letti alti e lussuosi.
5. Rifiutare denaro e preziosi.
Più in generale, si può dire che i valori fondamentali ai quali i bonzi devono ispirarsi siano i seguenti:
1. Povertà: le proprietà personali devono essere limitate a semplicissimi oggetti di uso quotidiano, quali le vesti indossate, un ago, la ciotola per il cibo; il solo mezzo ordinario di sostentamento è l’elemosina dei fedeli, alla quale il monaco deve affidarsi per l’unico pasto giornaliero.
2. Celibato: perché rapporti sessuali, matrimonio e paternità creano vincoli che rafforzano i legami con il mondo.
3. Mortificazione: consiste nel combattere i desideri corporali; si esprime soprattutto nel digiuno.
4. Non-violenza: tale principio, già presente tra le Cinque Regole fondamentali dei laici, viene portato alle estreme conseguenze (ad esempio, i monaci filtrano l'acqua prima di berla, per evitare di inghiottire inavvertitamente eventuali insetti); da ciò deriva l’atteggiamento tollerante dei buddhisti nei confronti delle altre religioni.
5. Aiuto reciproco: è in un certo senso la versione in positivo del principio precedente; invita a mantenere un atteggiamento di benevolenza ed amore nei confronti di ogni creatura.
Quanto all’aspetto liturgico, le cerimonie del Buddhismo delle origini sono poche:

  • Il giorno di digiuno ogni primo giorno della settimana lunare, accompagnato a settimane alterne dalla confessione pubblica dei peccati.
  • La segnalazione pubblica dei peccati dei monaci da parte dei loro confratelli, una volta all’anno, prima del periodo delle peregrinazioni.
  • L’anniversario di nascita, illuminazione e ingresso nel nirvana di Buddha, alla luna piena che cade tra aprile e maggio.

Più dei riti comunitari caratterizza fortemente la religiosità buddhista l'esperienza della meditazione. Essa consiste in una concentrazione assoluta della mente, che si ottiene gradualmente seguendo l'Ottuplice Sentiero ed acquisendo una particolare tecnica. Attraverso la meditazione i fedeli possono giungere alla conoscenza della verità ed alla definitiva liberazione dai condizionamenti del mondo, e cioè al nirvana.

 

5. GLI SVILUPPI STORICI

Come molte religioni, anche il Buddhismo ha conosciuto nel corso della sua lunga storia crisi e divisioni, che hanno dato origine a svariate sette e correnti. Noi ci limitiamo a ricordarne due tra le più storicamente rilevanti.

1. Hinayana o Theravada
E’ la scuola più antica, che ritiene di ispirarsi direttamente all’insegnamento originale di Buddha. Il nome Hinayana, che significa letteralmente “Piccolo Veicolo”, le venne attribuito in senso dispregiativo dagli esponenti dell’indirizzo Mahayana; attualmente si preferisce definire questa tradizione con il termine Theravada (“Dottrina degli Anziani”), che indicava inizialmente una corrente formatasi nel IV secolo a.C., l’unica delle antiche scuole ad essere sopravvissuta sino ad oggi. E’ presente soprattutto nello Sri Lanka e nel Sud-Est asiatico.
Il Buddhismo Theravada ammette come testi normativi soltanto quelli più antichi, contenuti nel Canone in lingua Pali definito nel Concilio di Rajagrha (477 a.C circa) poco dopo la morte di Buddha, e completato nel II Concilio di Pataliputra (244 o 243 a.C.) durante il regno di Asoka Maurya (274-236 a.C). Il Canone è detto Tripitaka (“Tre Canestri”), in quanto si compone di:

  • Canestro della disciplina monastica (Vinaya–Pitaka): comprende tra l’altro le 227 regole cui devono uniformarsi i monaci.
  • Canestro dei sermoni (Sutra-Pitaka): pronunciati da Buddha e dai suoi primi seguaci sulla dottrina.
  • Canestro della legge (Abhidharma-Pitaka): riprende i concetti espressi nel Canestro dei sermoni esponendoli in maniera più organica

Al centro della dottrina theravada è la figura dell’arhat (santo), colui che, compiuto l’itinerario di salvezza indicato da Buddha, dopo la morte non rinascerà più ed entrerà nel nirvana. Il raggiungimento di tale traguardo richiede impegno personale e costante applicazione nella meditazione. La condizione ideale è quella del monaco.

2. Mahayana
Mahayana significa “Grande Veicolo”, in quanto i seguaci di questa corrente ritengono l’interpretazione dell’insegnamento di Buddha che essa propone migliore di quella hinayana. Sviluppatosi come movimento organico all’inizio dell’era cristiana su basi concettuali risalenti ad un’epoca precedente (forse già al Concilio di Vaisali del 377 a.C. circa), il Buddhismo Mahayana si è diffuso ampiamente nell’Asia Centro-Occidentale, in particolare in Cina, Korea e Giappone.
Pur considerando il Canone Pali riconosciuto dal Theravada come la base della dottrina buddhista, il Mahayana non lo ritiene la fonte esclusiva, ma annette importanza anche ad altri testi. Ciò gli conferisce in generale un carattere meno tradizionalista e più aperto al confronto con la modernità.
La figura ideale di riferimento è quella del bodhisattva (“colui la cui essenza è la saggezza”), che si differenzia dall’arhat per un aspetto di grande rilievo: mentre il santo theravada, che ha meritato la liberazione dalle rinascite con la propria condotta, entra nel nirvana dopo la morte, il bodhisattva rinuncia temporaneamente al nirvana, al quale pure avrebbe diritto, per continuare ad offrire alle altre creature il proprio aiuto in vista della salvezza. Si può quindi affermare che, mentre la virtù cardinale dell’arhat è la saggezza, quella del bodhisattva sia la compassione (karuna), la capacità di farsi carico delle sofferenze altrui. I seguaci del Mahayana ritengono che tale modello di comportamento sia più fedele all’insegnamento di Buddha, il quale, una volta scoperta la via della salvezza, non la percorse subito ma decise altruisticamente di comunicarla agli altri.
Nei confronti dell’Hinayana, inoltre, il Buddhismo Mahayana è più indulgente sul piano disciplinare, rivaluta il ruolo dei laici e delle donne e ammette quali pratiche religiose centrali, oltre alla meditazione, anche i riti e le preghiere di invocazione ai bodhisattva. Emerge anche una notevole evoluzione nell’interpretazione della figura di Buddha: non più soltanto un uomo che ha raggiunto autonomamente la verità e la salvezza, ma una manifestazione dell’Assoluto; si verifica quindi la divinizzazione di Buddha, che diventa oggetto del culto popolare. La distanza dall’”ateismo” hinayana è evidente.

 

6. BUDDHISMO E CRISTIANESIMO

Ogni confronto tra Buddhismo e Cristianesimo deve tener presente che le due religioni sono espressioni di tradizioni culturali molto diverse tra loro, si potrebbe dire di universi separati, e quindi riconoscere che il rischio di incomprensioni – non foss’altro che per i problemi legati all’interpretazione dei termini utilizzati – è elevato. Tuttavia, enunciata per sommi capi la dottrina buddhista, non ci sottraiamo ad un sia pur elementare tentativo di metterla in parallelo con quella cristiana, che consenta di definire le principali somiglianze e differenze.
Come il Cristianesimo, il Buddhismo sostiene che la vita dell'uomo non si può ridurre all'aspetto puramente materiale, ma propone ai credenti un cammino di crescita e di perfezionamento spirituale. Ciò determina da parte di entrambe le religioni l'esaltazione di valori quali l'amore vicendevole, la benevolenza universale, la rinuncia al piacere immediato in vista di una meta più elevata. Così si esprime la Dichiarazione Nostra Aetate, il documento del Concilio Vaticano II che tratta delle relazioni tra la Chiesa e le religioni non-cristiane: «Nel Buddhismo [...] viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetto, o di pervenire allo stato di illuminazione suprema» (n.2).
Molto profonde sono d'altro canto le differenze.
Fondamentale è quella legata alla diversa concezione della divinità: l'idea di un Dio personale e trascendente, artefice della salvezza dell’uomo in forza della propria infinità bontà, tipica del Cristianesimo e delle grandi religioni monoteistiche, è assente dalla dottrina buddhista, che come abbiamo visto, nella versione hinayana, propone un itinerario di salvezza essenzialmente umano, privo di un rapporto diretto con un essere supremo.
Dal punto di vista metafisico, inoltre, la dottrina dell’impermanenza dell’io è inconciliabile con l’idea di persona propria della visione cristiana e occidentale .
Le altre differenze sono in sostanza conseguenze di queste. Ci limitiamo a ricordarne alcune, che la trattazione precedente ha già fatto emergere:

  • L'assenza nel Buddhismo di una rivelazione divina.
  • La Legge del Karman e la teoria delle rinascite.
  • La svalutazione da parte del Buddhismo del mondo materiale, che invece nella concezione cristiana è essenzialmente buono perché creato da Dio e coinvolto nella redenzione operata da Gesù.

 


La parola "soteriologia" deriva dai termini greci sotèria = salvezza e logìa = discorso, e significa "dottrina che riguarda la salvezza". Il Buddhismo è in effetti una via per liberarsi dal dolore e raggiungere la salvezza.

Fanno parte dei Veda; sono i testi sacri indù che dedicano maggiore attenzione all'interiorità.

Cioè "il Risvegliato", colui che ha ricevuto l'illuminazione.

Cfr. Oscar Botto, Buddha e il Buddhismo, Mondadori, Milano, 1989, p.65

Occorre precisare che nella visione buddhista non trova spazio il concetto di “io” inteso come realtà personale autosussistente, come soggetto unitario e stabile, in quanto ogni essere sarebbe l’unione temporanea di fattori fisici e psichici, raggruppati nei cinque skhandha (aggregati): materia, sensazioni, percezioni e idee, attività psichica (ragionamento, fede, volontà), coscienza. Ciò che a noi appare come un individuo, quindi, è soltanto una mutevole combinazione di elementi diversi, destinata a disgregarsi al momento della morte. In questo modo si giunge a negare l’esistenza di un principio vitale e spirituale che sopravviva al corpo, quello che nel linguaggio filosofico occidentale è detto “anima” (anche nella tradizione induista trova spazio l’idea dell’anima individuale, il cosiddetto atman personale; il rifiuto di tale concetto da parte di Buddha viene pertanto definito anatman, cioè assenza di anima).
La dottrina dell’impermanenza dell’io è uno snodo problematico della dottrina buddhista. Innanzitutto contrasta con la percezione di se stessi in quanto esseri reali e individuali, che a molti appare ovvia. In secondo luogo sembra introdurre una contraddizione con un altro pilastro buddhista: come è possibile sostenere la Legge del Karman, se non si ammette una sostanza personale permanente che rappresenti l’elemento di continuità tra una vita e l’altra? In che modo le colpe e i meriti accumulati potrebbero influenzare un’esistenza successiva, se nulla resta dell’essere che l’ha vissuta?
La risposta a tali obiezioni va cercata nella causalità insita nella Legge del Karman e nell’immediatezza del passaggio da un’esistenza ad un’altra: con la morte, gli aggregati che compongono un essere si dissolvono, ma subito, per effetto del karman (costituito dalle azioni delle vite precedenti), si formano altri skhandha che producono un nuovo soggetto. L’individuo così generato non è del tutto identico al precedente, ma, ereditandone in qualche modo i caratteri, non è neppure assolutamente differente. Tra gli esempi che la tradizione buddhista propone per illustrare il fenomeno, citiamo quello della lampada accesa durante la notte: la fiamma che essa origina alla fine della notte è diversa da quella che ardeva all’inizio o a metà, ma la lampada è la stessa (Cfr. Oscar Botto, cit., pp.70-71).
A conferma delle difficoltà logiche connesse ad una simile visione, possiamo ricordare che a partire dalla prima metà del III secolo a.C. la setta dei Vatsiputriya elaborò il principio di “persona” (pugdala), come soggetto permanente che sopravvive alla morte e, portando con sé le conseguenze delle azioni precedenti, passa a successive esistenze. Si trattava, in sostanza, di un recupero del concetto induista dell’atman individuale, che semplificava la comprensione della Legge del Karman, ma venne considerato al pari di un’eresia da gran parte delle altre correnti buddhiste.

D’altro canto, se si parte dal presupposto che l’io non esista, il nirvana non può comportare l’estinzione del soggetto individuale, ma piuttosto dell’illusione della sua esistenza. Cfr. nota precedente sulla dottrina dell’impermanenza dell’io.

Cfr. Oscar Botto, cit., p.88.

Cfr. Idem, pp.148-151.

Il termine "trascendenza" indica la totale differenza, la sostanziale alterità di Dio nei confronti del mondo e delle creature, che viene affermata, seppure in modi parzialmente diversi, dalle tre religioni di ceppo abramitico (Ebraismo, Cristianesimo ed Islamismo).

Cfr. nota n.5 di p.2.

Fonte: http://www.liceoparodi.it/DOCENTI/arnuzzo/BUDDHISMO.doc
Autore del testo : non indicato nel documento di origine del test

 

Buddha Buddhismo Budda Buddismo

BREVE SAGGIO SUL BUDDHISMO.

 

Molti pensano al Buddhismo come ad una filosofia più che come ad una religione.

Personalmente ritengo che si tratti di opinioni sbagliate,mi sembrerebbe più adeguato dire che il Buddhismo offre una via filosofica per arrivare a Dio.

 

 

IL BUDDHA

 

Fondatore di questa religione fu Siddharta Gautama Sakyamuni, figlio del principe Sakya di Kapilavastu (Nepal).

Siddharta era un principe venuto al mondo con grandi progetti, possedeva infatti tutti e trentadue segni fisici dell'illuminato, la madre Maya morì dandolo alla luce, ma anche questo era stato previsto.

I Brahmani della corte dei Sakya riferirono al principe che suo figlio aveva due possibili strade davanti a se: diventare un grande sovrano o diventare illuminato.

Siddharta visse una vita tranquilla dedicata allo studio dei Veda fino a quindici anni, quando accortosi delle malattie morali e fisiche del mondo, abbandonò il suo palazzo per affrontare la sannyasy, ovvero diventare asceta.

Si unì ad un gruppo di sannyasa nella foresta dove affrontò lunghi digiuni e automortificazioni corporali senza raggiungere il risultato sperato.

Abbandonò i suoi compagni asceti che gli dissero che era troppo debole interiormente.

Siddharta pensava che le automortificazioni non portassero a niente e che ci voleva una via più concreta per il raggiungimento del Bodhi (illuminazione).

Si ritirò in perfetta meditazione sotto ad un albero di fico (albero dell'illuminazione) per quarantanove giorni nei quali arrivò a comprendere la natura delle quattro nobili verità:

 

  1. La nobile Verità della sofferenza: l'uomo è nato per soffrire
  2. La nobile Verità delle cause della sofferenza: l'uomo che vive di passioni, di desideri, di terrene paure, è destinato a soffrire
  3. La nobile Verità dell'estinzione della sofferenza: l'uomo che elimina le cause della sofferenza, è sicuro di vedere una fine ad essa
  4. La nobile Verità della via che porta alla fine della sofferenza: Il Dharma è la via sicura per l'estinzione della sofferenza.

 

Egli si risvegliò ed era il Buddha, era giunto alla comprensione del sublime significato della vita umana e della sofferenza degli uomini. Era propriamente definibile Cosciente, Intelligente.

L'illuminazione avuta dal Buddha era una totale insensibilità riguardo le questioni materiali, l'estinzione dei desideri e delle passioni lo aveva portato in uno stadio di superiorità, aveva attraversato il fiume che divideva la vasta regione dell'ignoranza dalla piccola isola della vera conoscenza.

Aveva raggiunto quello che Platone chiamerebbe l'iperuranio, il bello fu che lo trovò dentro di se e non in un qualche posto aldilà del cielo (lo stesso Platone dice che chi cerca L'assoluto con il capo per aria non troverà mai le risposte che cerca, che sia un modo per dirci di guardare dentro di noi? un modo per dirci che in realtà Dio è dentro di noi? Chissà...)

Qualunque cosa fosse, Buddha la trovò.

Ora inizia un po' la parte mitica della sua storia, pare che non fosse in grado di esprimere questa sua sensazione di illuminato (il vero essere non è esprimibile, e l'illuminazione di cui godono i Buddha è il vero essere, perché è immutabile, è impossibile infatti che un illuminato ritorni indietro, perché ciò che sa non glielo permetterebbe mai, la sua conoscenza è tale da non poter ritornare allo stato pienamente umano, la sua conoscenza è pura,completa ed immutabile)

Brahma, il Dio creatore del mondo materiale, secondo nella catena dei maestri spirituali dopo Krisna,suo creatore, maestro ed amico, disse a Buddha che avrebbe potuto parlarne liberamente, perché ora gli era stato dato il potere di farlo.

Buddha tenne il primo discorso sul Dharma ai cinque asceti che lo avevano offeso e che divennero suoi primi discepoli.

Il Dharma è la Dottrina, il caposaldo del mondo, tutte le cose ruotano intorno al Dharma, seguire il Dharma è il modo migliore per uscire dall'incubo del samsara.

Per samsara si intende il ciclo delle rinascite che ogni individuo subisce come ciclo di purificazione a seconda del suo Karma, ovvero a seconda delle azioni compiute in vita, una donna che abortisce, ad esempio, si reincarnerà per 100 volte in un feto che verrà a sua volta abortito, tanto per far capire...

Il Dharma è il veicolo per l'illuminazione, l'illuminazione ci porta al di fuori della soggezione al samsara, questo si può riassumere nel concetto di Nirvana: stato della mente pura,non contaminata.

Buddha ebbe a suo seguito miriadi di monaci che a loro volta fondarono migliaia di monasteri in tutta l'India.

Morì per un avvelenamento da cibo, i suoi resti sono contenuti nelle stupa, che si trovano in vari monasteri sull'Himalaya indo-nepalese.

 

BREVI MOMENTI DI ALTISSIMA ILLUMINAZIONE (STRALCI DI DHAMMAPADA CON SPIEGAZIONE)

 

Ogni cosa è dominata dalla mente,

è guidata dalla mente,

è costituita dalla mente.

Se qualcuno parla o agisce

con mente corrotta

la sofferenza lo seguirà,

come la ruota di un carro

segue il piede di un bue.

 

Spiegazione: Nei primi tre versi di questo passo è interessante notare un'analogia con la teoria delle idee di Platone a parte questo, è ovvio che se penso solo cose brutte, agisco di conseguenza e sono destinato a soffrire.

 

« Egli mi ha ingiuriato,egli mi ha offeso,

egli mi ha battuto,egli mi ha spogliato... »

in coloro che covano un simile rancore,

l'odio non cessa mai.

 

Spiegazione:Il rancore è causa dell'odio, ambedue poi,sono concausa della sofferenza più atroce: il rodersi il fegato per questioni personali, colui che aspira all'illuminazione non dovrebbe curarsi dei torti altrui, in quanto egli deve mantenere sempre un atteggiamento di distaccata noncuranza di fronte all'ignoranza altrui.

 

Nel mondo l'odio

non si placa odiando

solo l'amore può porre fine all'odio

questa è la Legge eterna.

 

Spiegazione: ecco cosa io personalmente intendo per Dharma: Amore, verso ogni forma divinità chiunque essa sia e qualunque sia il suo atteggiamento nei nostri confronti.

 

Meditativo, perseverante,

sempre diligente

il saggio ottiene il nirvana,

pace suprema.

 

Spiegazione: colui che con diligenza e fermezza medita sulla propria natura,arriva al fine ultimo di questa natura:il Nirvana.

 

Viviamo dunque felici,

liberi da odio

in mezzo agli uomini che odiano

rimaniamo liberi dall'odio

in mezzo a coloro che odiano.

 

Spiegazione: l'isolamento non è la via, dobbiamo vivere la nostra vita contrapponendo all'odio altrui il nostro amore.

 

La vittoria provoca odio

perchè lo sconfitto giace

sofferente,

Chi ha raggiunto la calma,

vive serenamente

avendo superato

vittoria e sconfitta.

 

Spiegazione: chi è veramente saggio, non ha bisogno di vittorie che porterebbero gli altri a soffrire.

 

Questa “cosa” è finita, ho preferito dare più spazio al succo del discorso piuttosto che pensare a come sono oggi organizzati i buddhisti, queste parole spiegano il buddhismo ed io penso di averlo capito grazie a questo altissimo libro che è il Dhammapada, infatti nessun saggio mi aveva mai fatto cogliere ciò che ho colto grazie al Dhammapada.

 

 

 

Autore: Japhy Smith

 

Fonte: Questo testo è stato scaricato da: http://www.portalefilosofia.com

 

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