I celti in italia riassunto

 

 

 

I celti in italia riassunto

 

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I celti in italia riassunto

I CELTI

 

Indice

  1. Presentazione
  2. Gli insediamenti
  3. Le abitazioni
  4. Società e cultura
  5. I guerrieri celti
  6. I Druidi
  7. Il Bardo
  8. I primi Celti in Italia
  9. L’arte celtica
  10. Religione
  11. Il calendario celtico
  12. Cronologia
  13. I dialetti neoceltici
  14. La condizione della donna

 

1. Presentazione

I Celti non si possono definire né un singolo popolo né una razza, ma si può parlare piuttosto di una stratificazione di popoli diversi che si fusero insieme con un lento processo durato più di mille anni, in un periodo che si può situare tra il terzo e il secondo millennio avanti Cristo. Questo grande "popolo" che giunse a estendere il suo dominio sulla quasi totalità dell'Europa rimase lontano dai riflettori della storia sino al IV secolo avanti Cristo quando, valicate le Alpi, la marea delle tribù celtiche iniziò a riversarsi improvvisamente sui grandi stati mediterranei. La quasi totale assenza di notizie disponibili, il loro numero sterminato, l'aspetto feroce con cui si mostrarono, il corpo gigantesco e le consuetudini barbare dei loro guerrieri, contribuirono a creare l'alone di timore e mistero che sarebbe rimasto abbinato per sempre alla civiltà celtica, anche quando i suoi ultimi eserciti erano già stati sconfitti da tempo.Agli occhi ben più civili di Greci e Romani, le orde clamanti di guerrieri celti, in movimento con mogli, figli, carri e bestiame, parvero improvvisamente sorgere dal nulla, come un terribile e spaventoso incubo che incise profondamente nell'inconscio collettivo di quelle società. Quando i Celti irruppero a sud delle Alpi, facendo la loro prima comparsa nella storia scritta, erano già una nazione poliedrica e composita, con più di mille anni di storia alle spalle; una cultura al culmine del proprio splendore e della propria potenza.
2. Gli insediamenti

VILLAGGIO CELTICO

Presso le nazioni celtiche, la maggioranza della popolazione viveva in villaggi, o cascine isolate, che erano dislocati al centro dell'area da essi coltivata, circondati da vaste foreste e distribuiti con scarsa densità su di un territorio molto vasto. Caio Giulio Cesare, nel De Bello Gallico, ci ha lasciato una ricca descrizione di vici e oppida formati da agglomerati di semplici abitazioni, la cui struttura a pianta circolare o rettangolare, era fondamentalmente sempre la stessa.                                                                                  I vici erano villaggi non cinti da mura, composti da case isolate, fabbricate con pietra saldata con argilla, e con tetti in paglia o assi. L'oppidum era una piazzaforte, per metà fortezza e per metà villaggio, ed era adibito a rifugio temporaneo per la popolazione dei dintorni nei periodi di crisi, e a residenza permanente per quel nucleo di guerrieri e di artigiani che formavano il seguito del Principe. In pratica, l'oppidum era una sorta di recinto fortificato, posto sulla sommità di ripide colline o in altri luoghi forti di facile difesa, come la confluenza di due fiumi, promontori su scogliera, limitare di altipiani, ecc. Ogni popolo celtico possedeva, di fatto, diversi di questi oppida. La nascita di questi si rivela come il risultato di un’impresa di tipo coloniale e non come quello di un’evoluzione dell’abitato, con la progressiva trasformazione di insediamenti particolarmente ben situati in agglomerazioni di tipo urbano. Da Cesare sappiamo che la sola nazione degli Elvezi si estendeva su 400 vici e una dozzina di oppida.
3. Le abitazioni
La maggior parte delle fondamenta di case celtiche, ritrovate nell'Europa centrale, sono parzialmente incassate nel terreno per profondità che vanno da mezzo metro a più di un metro. In esse, alcuni gradini in pietra conducevano all'interno, ove sui lati si allungava una specie di profonda panca che di notte diveniva un letto. Al centro della casa, in una fossa o in una piccola alcova laterale, era ricavato il focolare che non restava mai spento, essendo al contempo fonte di calore e di luce in quelle abitazioni ove le uniche aperture erano la porta e il foro centrale del tetto da cui usciva il fumo. Solitamente a pianta rettangolare (Europa Orientale), talvolta ovale o circolare (Gallia occidentale e isole Britanniche), le tipiche capanne celtiche presentavano due pali portanti verticali, eretti lungo l'asse principale della casa a 4-6 metri l'uno dall'altro. Questi dovevano sostenere il trave di colmo principale, su cui veniva costruita tutta la struttura del tetto. Inizialmente le abitazioni dei Celti furono realizzate con le pareti in cannicciato e fango; in segiuto divennero invece abituali le pareti in pietra a secco o a palizzata di tronchi, uniti da chiodi o da graffe in ferro, e poi imbiancate a calce.                                                                                                                       
Nelle zone paludose dell'Irlanda le fattorie rotonde venivano erette su isole artificiali o palafitte dette crannogs (dall'irlandese crann = albero) mentre nelle praterie irlandesi sorgevano un po' ovunque dei caratteristici fortini circolari, con spesse mura in pietra a secco, chiamati raths.
OPPIDA

4. Società e cultura
Avvicinarsi alla civiltà celtica per la prima volta è un po' come fare un salto nel buio, poiché quello che ci si apre dinnanzi è un mondo alieno, basato su leggi e valori profondamente diversi dai nostri. Tra la nostra capacità di comprensione e il mondo celtico si frappone il baratro, sia della cultura greco-latina sia dell'influenza cristiana, che viziano, in modo sotterraneo ma determinante, la nostra interpretazione dell'esistenza.  I Celti vivevano in un modo completamente diverso da quello attuale e possedevano un differente concetto di cosa fosse il sapere. La nostra concezione aristotelica della realtà pone l'accento sul "come" avvengono i fenomeni mentre un celta, dinanzi a un qualsiasi fenomeno naturale, non si sarebbe chiesto "come è avvenuto", bensì "perché". La filosofia aristotelica divide tutto in categorie e sillogismi, un ordine artificiale di pensiero che ben si adattava alla mentalità pratica dei romani che lo trasferirono negli ordinamenti civili e militari. Per il celta invece, le strutture portanti del pensiero erano di tutt'altro genere. La loro posizione non era quella della scienza greca e romana di conquista della natura e dominio delle sue leggi. Per la filosofia celtica era ben più importante capire perché accadessero le cose, penetrare "il mistero del destino umano" per comprenderlo e abbandonarsi con entusiasmo all'inarrestabile flusso del Wyrd, il fato celtico. Nella civiltà celtica gli uomini non combattevano la natura, ma vi erano completamente immersi e se ne riconoscevano parte essi stessi. Da questa disposizione di spirito discende tutto uno stile di vita, (un'etica, una filosofia, una religione, un'arte, una storia) profondamente diverso da quello Greco-Romano. Proprio da queste diverse radici prende avvio il mistero del genio artistico dei Celti; un'arte indifferente alla bellezza classica, alla geometria esatta, alla riproduzione veristica della realtà, un'arte volta invece alla ricerca della libertà e dell'emozione. Il celta viveva in comunione permanente con gli astri del cielo, con il vento, con gli alberi e i fiori, con gli uccelli che cinguettano e il cervo che bramisce. Un tale uomo non avrebbe mai capito il disprezzo per il mondo della natura che mostra talvolta la nostra civiltà. Inoltre, sempre ad accentuare questa differenza di concezione del mondo della cultura classica, la civiltà celtica, considerata gruppo indoeuropeo parente stretto di latini, achei e dori, si distingue da essi per il suo arcaismo.                                                                                                                                             Non si può dire che quella celtica sia una civiltà cui manchi la nozione di stato; al contrario, come quella dei Germani, forte del suo individualismo e della sua libertà, è una civiltà che si sviluppa su una via antitetica al concetto di stato autocrate e centralizzatore. Molte delle sue usanze caratteristiche, come la conservazione e l'ostentazione delle teste dei nemici uccisi, il patto di sangue, la struttura sociale basata sul clan famigliare, invece, collegano la società celtica alle epoche più antiche, di esperienze comuni a tutti i popoli indoeuropei prima della differenziazione.    I Celti si godevano la vita. Il cibo e le feste erano importanti e si considerava l’ospitalità un segno di nobiltà. Questa stessa ospitalità si trova anche oggi nelle Highlands della Scozia.
La cultura celtica veniva trasmessa a voce; la storia e gli avvenimenti non erano scritti ma ricordati sotto forma di versi. La cultura d’istruzione dei Celti comprendeva sia la religione che la geografia, sia la filosofia che l’astronomia. I loro oratori erano famosi in tutta l’Europa e servirono anche da insegnanti per i figli dei Romani. 
5. I guerrieri celti
STATUETTE
Per tutta la lunga storia dei popoli celtici, i guerrieri utilizzarono le rapide incursioni finalizzate al bottino, le guerre tra tribù e le faide tra clan vicini, come altrettante occasioni per l'affermazione del proprio valore e della propria abilità personale. I guerrieri erano l'anima e il nerbo del popolo celtico. Non si trattava di una casta chiusa, ma dell'insieme di uomini liberi, abilitati a portare un'arma. Contadini e artigiani potevano di volta in volta rientrare, all'occorrenza, nei ranghi dei guerrieri. Solo un minimo numero di essi prestava regolarmente servizio come clienti. Per un celta la morte non era nulla di più del passaggio dalla vita a un'altra realtà, mentre la fama del proprio eroismo e il rispetto dei propri pari, rappresentavano la più alta forma di immortalità raggiungibile da un guerriero.  I Celti, normalmente, non avevano forze armate permanenti. Quando un pericolo si profilava all'orizzonte, i Galli convocavano un'assemblea di tutti gli uomini armati. Da quella riunione emergevano per acclamazione le proposte strategiche generali per fronteggiare il pericolo; purtroppo, salvo rare eccezioni, le bande armate così mobilitate agivano poi per tribù e per clan, rendendo sempre difficile la coordinazione tattica e la coesione fra i vari reparti.
Appena diversa era la situazione nei territori italici e dei Balcani dove, vivendo in terra occupata, con un popoloso substrato di indigeni, conquistati ma non ancora assimilati e in stretta vicinanza con potenti nemici quali etruschi e romani, i guerrieri Celti rimanevano costantemente in "servizio".
Dallo studio dei testi tramandatici dagli autori contemporanei, pare che le grosse bande di guerrieri e gli eserciti dei Celti fossero composte principalmente da una massa di fanti affiancati da gruppi più o meno numerosi di cavalieri.  La cavalleria era reclutata tra l'aristocrazia guerriera che, per censo, poteva permettersi il mantenimento della cavalcatura ed eventualmente fornirla anche ai propri clienti (ambacts), cioè i guerrieri giurati portatori di lancia e scudo che componevano il seguito personale di un nobile in battaglia come ai banchetti, e che si erano impegnati a seguirlo ovunque, persino nella morte. Ci è così giunta descrizione di guerrieri sopravvissuti che si suicidano al termine della battaglia per seguire la sorte del proprio signore.                                                               Dalla statuaria greca di Pergamo, come da ritrovamenti della Gallia, risulta che il cavaliere celta era talvolta ricoperto da una cotta di maglia ad anelli stretti (di cui i Romani riconoscevano ai Celti l'invenzione), protetto da un lungo scudo ovale e armato da una lunga lancia con lama a foglia, da un corto pugnale con l'elsa decorata e dalla spada lunga legata al fianco.                                           La reputazione di coraggio e di ferocia dei guerrieri Celti è giunta sino a noi tramite le descrizioni sconcertate quando non addirittura terrorizzate delle loro stesse vittime, e riportate nelle cronache storiche delle grandi civiltà mediterranee.Veniamo così a sapere che, nelle situazioni disperate, anche le donne combattevano con uguale ferocia a fianco dei loro uomini.                                                                                                          Lo storico greco Diodoro Siculo, così descrive l'impressionante aspetto dei guerrieri Celti:
"Sono alti di statura, con una muscolatura possente sotto la pelle chiara. Di capelli sono biondi, non solo per natura, ma anche perché se li schiariscono artificialmente lavandoli con acqua e gesso, pettinandoli poi all'indietro sulla fronte e verso l'alto. Taluni si radono la barba, altri ostentano sulle guance rasate dei grandi baffi che coprono l'intera bocca e fungono da setaccio durante in pasto, per cui vi restano imprigionati pezzi di cibo." E proprio nell'aspetto dei Celti risiedeva la loro arma migliore. Essi atterrivano letteralmente i propri nemici con l'abbigliamento, il clamore e il feroce atteggiamento sprezzante verso la morte, che assumevano in battaglia. Il loro ardore selvaggio, la lucida follia guerresca che troveremo ancora nei berserker vichinghi, avevano il potere di terrorizzare i più civili avversari greci e romani. Gli scrittori romani definirono furor questo stato di bramosia del sangue, di pazzia guerriera che travolge il combattente che si lancia così in cerca del nemico, totalmente indifferente delle ferite che potrà riportare.
All'animo calcolatore e pratico del romano, nulla doveva sembrare più alieno, incomprensibile e quindi inquietantemente spaventoso di questa irrazionale e incontenibile sete di sangue, tanto che il furor gallico fu sempre temuto da soldati e ufficiali delle legioni.    I Celti non brillarono mai molto per la disciplina o per l'organizzazione tattico-logistica, finendo sempre per superare con la pura forza del coraggio situazioni che gli eserciti più rigidamente strutturati delle altre civiltà, affrontavano con il metodo. Le fortificazioni nemiche venivano affrontate d'impeto, scalandone i contrafforti con scale di legno, mentre un cerchio di guerrieri le bersagliava di sassi e frecce impedendo l'attività dei difensori. Se sorpresi in movimento, i Celti formavano una linea difensiva con i pesanti carri a quattro ruote su cui trasportavano insieme alla famiglia tutti i loro averi.                                                                La consuetudine di collezionare le teste dei nemici per mostrare il proprio valore colpì gli storici Greci e Romani che li definirono barbari. Eppure, presso di loro, la guerra raggiunse un livello di ritualità quasi cultuale, sublimandosi negli scontri individuali e sempre alla ricerca di una dimostrazione del proprio valore personale che, finita l'epoca dei grandi eserciti di massa, riaffiorerà nella mistica e nell'etica del Cavaliere errante del medioevo permeando di sé tutta la cultura europea e l'ideale di eroe guerriero sino ai nostri giorni. Sempre Diodoro Siculo, a proposito del tumultus gallico, l'insieme di urla, strepiti e sfide con cui i Galli si lanciavano sul nemico, ci riferisce che all'inizio di uno scontro, già disposti in linea di battaglia, i guerrieri Celti avanzavano nella striscia di terreno che divideva i due schieramenti per sfidare a duello i campioni della parte avversa. "Brandiscono le armi e urlano in modo da intimorire il nemico. Se però uno di questi accoglie la sfida, i compagni dello sfidante erompono in canti frenetici che esaltano le imprese dei padri e il loro proprio valore, mentre l'avversario viene dileggiato e offeso con l'intento di fargli perdere il controllo prima dello scontro." (Diodoro V-29) La ritualità dello scontro si rifletteva anche sulla visione magico fantastica che i Celti avevano del mondo.Le loro spade erano spesso decorate con elaborati intrecci vegetali e animali fantastici dal valore magico-esoterico. Il doppio filo di queste lunghe lame permetteva di colpire meglio di taglio che di punta, cosa questa molto difficile negli scontri ravvicinati. Sulla schiena, o al braccio libero, il guerriero celta portava spesso uno scudo, in legno e cuoio, con un umbone in metallo lavorato. Alla cavalleria si affiancava in epoca arcaica (ma nelle isole Britanniche ancora fino ai tempi di Cesare) una schiera di carri da guerra a due ruote.
La letteratura epica irlandese (che risale per tradizione orale, direttamente alla prima epoca del Ferro) ci ha lasciato delle descrizioni precise e dettagliate di come venivano usati in battaglia questi carri veloci, solidi, leggeri e letali. Nel Ciclo dell'Ulster ci viene raccontato come Cu Chulainn si avvia al suo ultimo scontro sul suo carro, armato di lancia e spada, affiancato dal suo auriga che gli regge le lance di riserva e manovra la fionda. E nello splendore del suo eroismo guerriero, l'unica cosa che pare preoccuparlo è quella di riuscire a morire in piedi, dopo aver ucciso il maggior numero possibile di avversari. Dopo le sfide e gli scontri dei singoli campioni, gli eserciti dei Celti si lanciavano all'attacco generale. Negli scontri, la massa dei semplici guerrieri appiedati era provvista solo di armi offensive, non potendosi permettere né le costose cotte di maglia né i preziosi elmi elaborati dell'aristocrazia e talvolta neppure uno scudo. Guidati dall'assordante suono dei tamburi e dei Lir (le lunghe trombe di guerra dei Celti chiamate anche carnix) i guerrieri si lanciavano disordinatamente sul nemico con furia e strepiti ma per lo più senza una tattica precisa, o meglio, con l'intento di travolgere il nemico unicamente con il peso della forza bruta. E nell'eccitazione della battaglia il vero obiettivo era quello di dar mostra del proprio valore facendosi notare dal proprio signore per gli atti di coraggio compiuti. La quantità e la qualità del bottino di guerra portato al nemeton (santuario) della tribù, era il metodo usato per misurare questo valore. E tra il bottino, uno dei pezzi per lungo tempo più ricercati, oltre ad armi e gioielli, furono le teste dei nemici più valorosi.
ARMATURA  e POMOLO

 

6. I Druidi
Poco ci resta delle conoscenze dei Druidi, e quel poco è stato offuscato da secoli di mistero e mistificazione. A quest'opera di occultamento hanno senz'altro contribuito storici e commentatori degli ultimi due secoli portati più a descrivere, come la definisce Piggott, la storia come vorremmo che fosse piuttosto che non la storia come è stata.  Quello che effettivamente conosciamo sui Druidi si ricava dalle fonti dei contemporanei, storici e geografi greci e latini, dalla letteratura irlandese e gallese giunta sino a noi attraverso il filtro e la trascrizione dei monaci tra il IX° e il XIII° secolo della nostra era; dalle tracce scoperte in varie fonti circa l'antica religione celtica, e non ultimo dai reperti archeologici sulla civiltà celtica nel suo insieme. Le prove archeologiche provenienti da scavi di oppida, tombe e luoghi di culto, ci parlano di credenze, cerimonie religiose, rituali e raffigurazioni artistiche di Dei, di cui è possibile dedurre delle ricostruzioni, tanto più attendibili quanto più suffragate da un attento esame delle fonti contemporanee prima, e poi dal corpus mitologico leggendario giunto sino a noi attraverso le saghe epiche irlandesi e gallesi.                                                                                                                       Per capire realmente l'unicità del Druidismo bisogna prima comprendere la società celtica, la sua struttura e la sua mitologia. I Druidi furono al tempo stesso molto di più e qualcosa di meno dei sacerdoti di una religione "druidica" o "celtica" come alcuni storici moderni li hanno dipinti. Officianti, sacrificatori, e aruspici durante le cerimonie sacre, essi furono anche giudici, medici, maghi, poeti, rappresentando la vera memoria storica di un popolo che non utilizzava di fatto la scrittura. I Druidi erano un'espressione viva e vitale della società celtica primitiva, legati a filo doppio con quella particolare struttura sociale, e con lo spegnersi degli stati celtici indipendenti furono condannati a scomparire.  Per meglio capire questo concetto fondamentale bisogna rifarsi alla "ideologia tripartita" degli indoeuropei come sviluppata e mirabilmente analizzata da George Dumézil. Tutte le società indoeuropee, all'inizio della loro storia, sono accomunate da una tripartizione della società in tre funzioni. La prima, è la funzione sacrale della sovranità, del sacerdozio e della giustizia. La seconda è la funzione guerriera, propria dei nobili e dei possidenti di terre o di bestiame. Nella terza, la funzione produttiva di beni materiali o spirituali, sono compresi i contadini, gli allevatori, gli artigiani e gli artisti. Questo vale per gli Achei e i per Dori della Grecia, come per i Latini che fondarono Roma, per i Germani delle pianure del Nord come per i primi regni dell'Iran. Inoltre questa tripartizione delle tre funzioni principali, dalle società si riflette anche nella mitologia e nelle religioni di tutti i popoli indoeuropei. La maggior parte di questi popoli possiede una letteratura mitologica che descrive un pantheon di cinque divinità, suddivise nelle stesse tre divisioni funzionali: Regalità, Guerra, Produzione. Nell'India antica dei Veda, Mithra e Varuna incarnano la sovranità nelle sue due manifestazioni di "terribile potere giudicatore" e "paterno potere protettore". Indra rappresenta invece la forza guerriera, mentre due gemelli Ashvin rappresentano la proprietà e la ricchezza. Presso gli antichi Latini troviamo la triade Giove, Marte e Quirino rappresentante le stesse tre funzioni. In Grecia, Giove, Athena e Apollo rivestono lo stesso ruolo e, nei tempi più antichi, si sacrificava tre volte nel nome di Athena: come Sovrana, come Vittoriosa, come Dispensatrice di salute e prosperità, riportando così a cinque il numero delle divinità principali. Presso i Celti sotto vari nomi di divinità tribali, si ritrovano le stesse funzioni. Taranis-Omigos-Dagda, simbolo della regalità simbolizzato dalla ruota e dall'arpa. Belenos-Teutates sono due aspetti guerrieri cui si affianca Brigit dai molti aspetti (Morrigan la guerriera, Epona portatrice di fertilità e protettrice degli animali, Brigit-Belisana protettrice di poeti e artisti). E infine Lug-Lev, dio delle arti e dei Mestieri, Signore dei Tuatha De Danann nella mitologia irlandese, diviene sul finire della civiltà celtica, il dio globale: artista medico e guerriero.
DIVINITA’
Tale fu dunque anche la struttura iniziale delle società proto celtiche che si amalgamarono con i popoli di cultura megalitica già residenti in Europa ai tempi del loro arrivo. Da questa fusione nacque una diversificazione del tutto originale che marcò la differenza dei Celti dagli altri popoli di ceppo indoeuropeo. I Druidi rappresentano dunque un caso unico nella storia dei popoli originatisi dal comune ceppo indoeuropeo. Espressione profonda e rappresentativa di uno spirito libero, legato alla natura, nel tempo si dimostrarono ad un tempo il principale e il più profondo legame tra le innumerevoli tribù celtiche, finendo inevitabilmente per scomparire quando questo tessuto sociale venne a mancare: in Europa continentale, con la perdita dell'indipendenza e con la progressiva romanizzazione delle principali nazioni celtiche, in Irlanda, molto più tardi con l'avvento del Cristianesimo.  Ovviamente, le loro conoscenze non andarono perse in un colpo solo, ma sbiadirono progressivamente. Con la scomparsa del suo ruolo centrale nella società, il potere del Druido si scisse progressivamente nei due aspetti di semplice cantore e poeta, più o meno accettato dal potere cristianizzato, e in quello di mago dei boschi, ultimo custode di reminiscenze del sapere tradizionale, isolato ai confini della società.  Ai tempi dello splendore della civiltà celtica, invece, ai Druidi corrispondeva una ben precisa connotazione di prestigio religioso e sociale simile a quella di altri popoli di origine indoeuropea. Tali ad esempio sono ancor oggi i Bramini tra gli indù, la cui figura risale ancora alle invasioni ariane dell'India, verso il secondo millennio avanti Cristo.                                                                       Al duplice ruolo sociale e religioso che li accomuna ai Druidi, i Bramini hanno però aggiunto una diversificazione trasformando il loro ruolo in una casta ereditaria chiusa, mentre presso i Celti non esistevano caste, bensì ruoli funzionali, che permettevano pur sempre una certa libertà di mobilità sociale da una funzione all'altra. Questo aspetto era ancora più accentuato presso i Druidi, che pur essendo principalmente gli insegnanti dei figli delle classi nobili, accettavano alle loro scuole itineranti qualsiasi ragazzo realmente dotato che desiderasse istruirsi.
7. Il Bardo
In una società senza scrittura ove la memoria storica, il sapere tecnico e la genealogia (così importante per i popoli celtici), erano riportati esclusivamente dalla tradizione orale, Bardi e Ovadi godettero di una particolare importanza e considerazione sociale; rappresentanti dei due rami inferiori della scuola druìdica, a essi erano demandati la Poesia e il Canto.  La struttura ritmica del verso allitterativo rende più semplice la memorizzazione e grazie alla letteratura irlandese, vero fossile storico per il particolare isolamento di cui godette sino al Medioevo, disponiamo con gli antichi poemi epici irlandesi, di un ottimo esempio di come dovessero essere quelli dei loro cugini continentali. Grazie all'opera dei Bardi, il sapere orale e la memoria storica di un popolo di guerrieri si poté perpetuare con relativa facilità.  In Irlanda, il poeta di rango minore si chiamava Filid. Il rango maggiore, equivalente del Pen Bard continentale, era l'Ollav di primo rango che, per prepararsi al suo compito, doveva dimostrare di conoscere a memoria almeno 350 poemi. A un apprendista, l'Ollav di dodicesimo rango, ne erano richiesti solo sette.

8. I primi Celti in Italia
Il famoso "Periplo di Silace" (viaggiatore e geografo greco 522-485 a.C.) attesta la presenza di indigeni di lingua celtica insediati in Italia dell'Est già dal VI secolo. Con il nome di "Periplo del Mare interno" o "Periplo di Silace" si indica un testo che racconta della storia del viaggio lungo le coste del Mediterraneo compiuto dal viaggiatore greco. Perduto l'originale, il testo fu riscritto un secolo dopo dallo pseudo-Silace col titolo "Periplo del Mediterraneo" (338-335) che ci descrive le tribù celtiche presenti sulla costa appena sotto gli insediamenti dei Veneti in una data che, considerando le date note della vita di Silace, deve aggirarsi attorno al 490 a.C.                                 Per quanto riguarda le Alpi Occidentali, è con la fioritura della cultura di Golasecca e la ripresa frequentazione di valichi come il San Bernardino, che si producono alcuni tra i più antichi reperti archeologici di certa attribuzione celtica della zona pedemontana compresa tra Bergamo e il Canton Ticino.                                                                                                                                                  Da alcuni cenni imprecisi di storici classici come Livio e Polibio si ha notizia del fatto che in Italia esistevano genti di stirpe celtica già molto prima delle grandi migrazioni del V° e del IV° secolo avanti Cristo. Ce lo confermano pure alcune tombe sparse e altri reperti della prima Età del Ferro ritrovati sparsi un po' ovunque in tutto l'arco alpino italiano, ma soprattutto lo sottolineano le ultime interpretazioni dei dati sulla cultura di Golasecca, certamente protoceltica e contemporanea a quella di Hallstatt.
TOMBA CELTICA
La Cultura di Golasecca si diffuse, tra l'Età del Bronzo finale e la prima Età del Ferro, in una zona compresa tra il Sesia e l'Adda, con una serie di insediamenti collinari e pedemontani posti intorno ai laghi alpini del Canton Ticino. Sul finire della Preistoria, quest'area della attuale Lombardia era punto di transito e di contatto con la cultura celtica di Hallstatt a Ovest, con quella dei Campi d'Urne nel Nord continentale e con gli Etruschi al Sud. Inizialmente concentrati in zona pedemontana e poi dilagati in tutta l'area dei laghi, qui si svilupparono numerosi agglomerati abitativi di una cultura originale, i cui reperti più antichi oggi disponibili sono databili a partire dal IX secolo avanti Cristo.
9. L’arte celtica

VASO TERRACOTTA

Sul finire del secondo millennio avanti Cristo l'arte del bronzo è ampiamente padroneggiata dai fabbri europei come dimostrato dalla estrema raffinatezza dei decori presenti sui reperti archeologici di quell'epoca. Nel periodo finale dell'Età del Bronzo e nella prima Età del Ferro, l'Europa Centrale ed Occidentale è dominata dalla cultura del popolo dei Campi d'Urne. Verso il 700 a.C. si sviluppa nel cuore continentale dell'Europa la antica cultura celtica di Hallstatt, caratterizzata da un'arte ornamentale semplice e rettilinea con moduli geometrici elementari.                                                                     Verso il 450 a.C. compare in tutta l'Europa un'arte nuova, uno stile omogeneo caratterizzato da una predilezione per le linee curve e le spirali, che prende il nome di "cultura di La Tène", dal nome della piccola spiaggia lacustre, presso Neuchâtel in Svizzera, ove furono scoperti i primi reperti.            Pur con variazioni regionali, la cultura di La Tène dura sino alla conquista delle Gallie Transalpine da parte di Caio Giulio Cesare che portarono la maggior parte del mondo celtico sotto l'influenza romana, dando quindi l'avvio al successivo sviluppo detto Gallo-Romano. Nelle isole Britanniche il maggiore isolamento dalla civiltà romana permise una più lunga sopravvivenza dell'impronta originale celtica che, in alcuni casi come l'Irlanda e il nord della Scozia, si protrasse sino al Medioevo.                                                                                                                                      L'arte Celtica è la testimonianza più profonda ed autentica che gli antichi Celti ci hanno lasciato circa la loro mentalità ed il loro mondo spirituale. In essa è racchiusa l'essenza di una cultura originale che per quasi un millennio fu comune alle popolazioni insediate in quell'area d'Europa compresa tra il Mare del Nord ed il fiume Po, dall'Oceano Atlantico ai Carpazi.                             Prima a seguito degli scambi commerciali con Etruschi, Fenici e Greci, poi a causa della romanizzazione della Gallia e della Britannia, l'arte celtica si alimentò con prestiti orientali (quali la palmetta e il loto) che sviarono a tal punto le analisi degli studiosi, da farla considerare a lungo come una semplice emanazione marginale dell'arte classica. Le componenti essenziali dell'arte celtica contengono sin dagli inizi un limitato gruppo di simboli di base (spirali, triskel, croci cerchiate, svastiche, greche, intrecci vegetali e figure zoomorfe) che sono ripetuti e intrecciati tra loro infinite volte e secondo moduli codificati che portano alla costruzione di intricati pannelli e sofisticati decori artistici su ogni tipo di oggetto, sia prezioso sia di uso comune.

CROCE CELTICA

 

Solo in tempi moderni, grazie ad un'evoluzione del gusto artistico che ha permesso di apprezzare anche forme estranee al classicismo greco-romano, si è giunti a rivalutare appieno il simbolismo, il gusto per l'equivoco e per l'indeterminato, la stilizzazione, la predilezione per una libera rappresentazione delle figure che portò gli artisti celtici a giocare con linee e profili, anche a discapito delle forme naturali. Verso la seconda metà del V° secolo a.C. compaiono armi e oggetti quotidiani decorati con incisioni a compasso detto "Primo Stile", ma è con l'inizio del IV° secolo a.C. che si può parlare dello sviluppo di una nuova corrente artistica detta "Stile Vegetale Continuo", o di Waldalgesheim, dove protagonisti divengono il viticcio ed il decoro vegetale, andando a sostituire progressivamente le composizioni di semplici elementi geometrici. Se consideriamo alcuni esempi di bande decorate a fregi tipiche di questo stile, notiamo subito alcune caratteristiche peculiari: l'abile utilizzo della simmetria; il permanere dell'utilizzo di elementi del primo stile accanto a motivi vegetali come palmette, foglie, tralci e viticci; un concatenarsi ossessivo di motivi vegetali ripetuti. Elemento interessante di quest'arte fu il suo doppio livello di decorazioni e quindi di lettura simbolica di questa arte decorativa peculiare ove elementi vegetali e corpi di animali fantastici si assottigliano gradualmente, trasformandosi in nastri che si interlacciano tra loro con variazioni infinite che danno luogo ad uno stile artistico inconfondibile. Se si osservano i vari reperti archeologici, in particolare le armi, si nota subito una loro possibile suddivisione in base all'evidenza delle decorazioni, esiste evidentemente un livello macroscopico, che dà una lettura d'insieme dell'opera artistica celtica, con decorazioni vistose che declamano a tutti la ricchezza e la conseguente importanza sociale del possessore dell'oggetto in questione. Ma accanto ad esso vi è anche un secondo livello microscopico, caratterizzato da composizioni di minuscoli motivi decorativi secondari, pressoché invisibili ad un'osservazione superficiale.  Queste rappresentazioni a duplice scala, una estetica ed una visibile solo per il proprietario, chiariscono il significato non solo ornamentale, ma anche magico-simbolico degli elementi decorativi presenti su spade, elmi, scudi, pugnali, come pure su stele ed oggetti votivi. Gioiello tipico ed emblema di status sociale, il torque (detto anche torc o torquis - vd. figura 7 di torque del 3/400 a.C., ritrovato in una sepoltura di guerriero del bacino della Marna, in Francia) era un collare ad anello in oro, in bronzo o più raramente in argento. Forse perché legato al potente simbolismo della sacralità delle teste, il torque ricevette le più grandi cure dagli artigiani celtici, ben più di braccialetti, spille o fibbie. Aperti o chiusi, con estremità ingrossate, a globi o decorate a testa d'animale; col corpo liscio, attorcigliato o intarsiato, nella realizzazione dei Torques per Principi e guerrieri fu profusa tutta l'abilità e la fantasia di quegli artisti. Ciò che spesso si trascura di sottolineare è l'innegabile apporto all'Arte Celtica dato dall'area italiana (Gallia Cisalpina) e prova ne sono vari importanti ritrovamenti che hanno dato il loro nome a interi Stili della storia culturale dei Celti. Alcuni Autori avanzano l'ipotesi che il motivo stesso dei fregi a intreccio a bande sia stato creato negli atelier di artigiani celtici stanziati in centro Italia e poi da lì rapidamente diffuso in tutta Europa. D'altronde non si deve dimenticare che il primo millennio fu un periodo di rapidi e frequenti spostamenti di mercanti, tribù e persino di interi popoli. Dopo gli stanziamenti di genti celtiche in buona parte della penisola italica sul limitare del primo millennio, le infiltrazioni come le migrazioni continuarono ininterrottamente, in modo più o meno limitato, sino alle nuove grandi ondate migratorie del V secolo a.C. quando sul substrato celtico precedente vennero a stratificarsi le grandi nazioni dei Boi, degli Ambroni, dei Senoni, provenienti dalle Gallie Transalpine ove avevano lasciato dei parenti (le loro tuatha originarie) e con cui intrattennero per lungo tempo fitti contatti con scambi sia culturali sia commerciali. È quindi più che probabile che anche le nuove mode e i nuovi stili artistici circolassero ampiamente insieme alle merci e agli artigiani itineranti per l'universo celtico che nel periodo a cavallo tra il IV e il III secolo a.C. si estendeva ormai dal Mediterraneo al Baltico, dall'Atlantico ai Balcani. Si è detto dell'arte celtica che essa sia stata caratterizzata dalla contaminazione delle forme viventi ad opera del simbolo inorganico; certo è che di essa non si può dire che sia arte naturalistica. Trattando figurazioni zoomorfe o vegetali, l'artista celta compie una deformazione sistematica, quasi si sforzasse di evitare coscientemente la rappresentazione realistica della natura.
VASO ROSSO
10. Religione
SACRIFICIO
Presso i Celti e i Barbari in generale, non esisteva l'ideale di perfezione o di peccato, così come lo concepivano i Cristiani. Per i Celti la morale significava semplicemente il rispetto delle tradizioni e dei costumi tribali. La religione dei Celti, come la maggior parte delle religioni antiche, aveva due aspetti: uno esoterico e uno popolare. Sacerdoti e custodi della religione celtica furono i Druidi.       Il livello popolare era costituito da una mitologia accessibile e da una serie di riti che avevano pian piano inglobato anche alcuni elementi arcaici risalenti al neolitico e provenienti da culti solari tellurici e lunari.  Si è creduto erroneamente per lungo tempo che le pietre erette (menhir), le tombe a camera megalitiche (dolmen), i grandi cerchi (cromlech) e gli allineamenti di pietre giganti fossero tutti monumenti eretti dai Druidi; ma oggi sappiamo che essi furono eretti almeno un millennio prima dalle grandi culture del neolitico. I Druidi si limitarono a utilizzarli.
MENHIR
Ogni popolo in Gallia si sceglieva un proprio nume protettore attribuendogli parimenti un nome particolare, così che, analizzando le caratteristiche degli oltre trecento Déi celtici di cui si trova almeno una volta menzione epigrafica, alla fine si ha l'impressione di ritrovarsi dinanzi a molte divinità doppione, simili per attributi, ma celate sotto nomi diversi.
11. Il calendario celtico
Giulio Cesare nel suo De Bello Gallico ci narra che i Celti contavano il tempo segnando le notti passate da un dato evento e non i giorni come facciamo noi. Essi, inoltre, dividevano l'anno in due sole stagioni: la stagione dei mesi neri (l'inverno) e quella dei mesi luminosi (l'estate).  I Celti, figli della notte, facevano iniziare l'anno nei mesi neri, l'inverno, con la festa sacra di Samhain.
Samhain (la notte che precede l'alba del 1° Novembre), indicata anche come Trinox Samoni era la festa più importante dell'anno celtico, la festa sacra per eccellenza che si protraeva per tre notti. Tra l'altro era considerata la notte in cui le porte dell'Altromondo si schiudono permettendo il transito tra i due piani della realtà. A Samhain, il tempo umano viene sospeso dall'intervento del Sacro, e questo rende possibile l'intrusione del fantastico nel reale.
Imbolc (la notte che precede l'alba del 1° Febbraio) era la festa delle greggi. Alle pecore monta il latte e il peggio dell'inverno sta passando. Corrisponde ai Luprecales romani festa della fertilità e di purificazione dalle "impurità" dell'inverno. La Festa di Imbolc non scompare, ma viene poi assorbita dalla festa cristiana della Candelora.
Beltane (la notte che precede l'alba del il 1° Maggio) è la festa dedicata al "Fuoco di Bel" come dice il nome, che richiama il Belenus Gallico, dio della Luce, segna la fine dell'Inverno e l'inizio dell'estate. Con l'annuncio della buona stagione, Beltane, per un popolo guerriero come i Celti, segnava anche l'inizio delle scorrerie e delle glorie d'armi.
Lughnasadh (la notte che precede l'alba del 1° Agosto) è la festa dell'Estate detta anche "assemblea per Lug". Durante i giochi e i banchetti in onore del Dio Lug avvenivano scambi commerciali e promesse di matrimonio; Lughnasadh era soprattutto il periodo delle assemblee plenarie del popolo, momento in cui venivano dibattute le cause ed emessi i verdetti.
Anche a un'osservazione superficiale, appare subito evidente come tutte le feste principali dei Celti cadessero una quarantina di giorni prima delle date di inizio astronomico delle stagioni, a conferma di un'evoluzione culturale dei Celti che da tempo si era ormai disgiunta dalle più antiche tradizioni dei primi agricoltori-cacciatori strettamente legati al ciclo stagionale. Il concetto di "tempo" non aveva infatti per i Celti lo stesso significato che ha per noi oggi o per le civiltà Greca e Romana a loro contemporanee. Per i Celti, il tempo non era un assoluto, ma una variabile, una continua commistione tra tempo umano e tempo mitico, una variabile soggettiva dotata di una valenza filosofico-religiosa. Tra i molteplici compiti del Druido, saggio della Tribù, vi era dunque anche quello importantissimo di studiare gli astri, calcolare il calendario, stabilire i tempi migliori per la semina e per il raccolto, per mantenere la vita della tuatha in armonia con i ritmi divini.
12. Cronologia
1000-800 a.C. - Primi insediamenti protoceltici di Golasecca (Como). Contemporaneamente si sviluppa in Austria la Cultura di Hallstatt.
520 a.C.- Lo scoppio di lotte tribali nel tratto superiore del Danubio porta alla devastazione degli insediamenti della valle del Rodano. L'interruzione dei commerci e lo Stato di Guerra permanente portano, verso il 450 avanti Cristo, alla fine della cultura di Hallstatt.
400 a.C. - Inizia la seconda grande invasione celtica in Italia settentrionale. Insubri, Boi, Senoni, invadono la pianura Padana sovrapponendosi a popolazioni celtiche già insediate da tempo e si scontrano con gli Etruschi.
390 a.C. I Celti sconfiggono i romani nella battaglia di Allia, comandati dal generale Brennus della tribu dei Senoni (un appellativo che denotava un titolo cerimoniale piuttosto che un nome), e si aprono la via per Roma.
388 a.C. - La nazione dei Senoni compie una spedizione contro Chiusi. La città etrusca di Melpun viene distrutta.
387 a.C. L'armata dei Celti saccheggia Roma, la prima di una serie di terribili distruzioni della città.
386 a.C. - I Romani subiscono una pesante disfatta alla confluenza del Tevere con l'Allia, Roma viene saccheggiata dai Galli.
385 a.C. - I Senoni si installano nel Piceno colonizzandolo nel 322 avanti Cristo. Polibio ci riferisce di un trattato di pace dei Senoni con Roma.
367-363 a.C. Una serie di invasioni Celtiche finanziate da Siracusa.
358 a.C. Un trattato e siglato dai Romani e dalle tribu' latine contro i Celti.
354 a.C. I Romani si alleano con i Samniti contro i Celti.
334 a.C. I Celti della Padania siglano un trattato con i Romani.
299 a.C. Una minaccia d'invasione di altre tribu' Celtiche conosciute come i Gaesati che vivono in aree montane meno fertili e favorevoli .
295 a.C. - Una coalizione di Senoni, Etruschi e Sanniti si ribella a Roma e viene distrutta a Sentinum.
294 a.C. - Arretium (Arezzo) viene presa e distrutta dai Celti.
283 a.C. In risposta alla disfatta dei Senoni, i Boii formano un'enorme armata con l'aiuto di alcuni Etruschi e marciano contro Roma.
278 a.C. - Brenno ferito a Delfi, si suicida a Eraclea. Una parte dei Celti, i Galati, proseguono le loro scorrerie oltre i Dardanelli stanziandosi al fine nel territorio che da loro prese il nome di Galizia. Il resto dell'orda celtica di Brenno viene sconfitta da un'armata macedone.
277 a.C. - Una parte delle tribù celtiche dell'esercito di Brenno in ritirata, i Bastarni, occupa una zona dell'attuale Bulgaria formando il regno di Tylis.
278-270 a.C. - I Galati servono prima come mercenari presso Nicomede, poi si danno ai saccheggi sino alla loro sconfitta finale da parte del Selucide Antioco I°, imperatore di Siria, che li sottomette confinandoli nel territorio che ancor oggi porta il loro nome.
268 a.C. - Con la fondazione della colonia di Ariminum (Rimini), inizia da parte romana l'esecuzione di un vasto piano di conquista dei territori Celtici in Italia. I primi a pagarne le conseguenze furono i Boi, stanziati da Bologna a Rimini.
268-267 a.C. - La fondazione di Sena Gallica segna la romanizzazione dei Senoni che scompaiono come tribù celtica.
230 a.C. - Attalo, reggente di Pergamo, dopo aver debellato totalmente un attacco dei Galati, fa realizzare una serie di grandi gruppi marmorei per eternare la sua vittoria. Oggi ne rimangono solo alcune copie romane tra cui il famoso "Galata morente" esposto a Roma presso il Museo Capitolino.
225 a.C. - Cinquantamila fanti e venti cinquemila cavalieri Celti varcano le Alpi e vengono sconfitti e massacrati dalle armate romane nella battaglia di Talamone (a nord di Orbetello) descrittaci dettagliatamente settanta anni dopo da Polibio (Storie, II-27)
222 a.C. - Gli Insubri vengono debellati a Clastidium sulla riva del Po. La loro capitale, Mediolanum (Milano), diviene colonia Romana. Stessa sorte seguono, nel 218 avanti Cristo, Placentia (Piacenza), roccaforte dei Boi, e Cremona sempre degli Insubri.
217 a.C. - Forti contingenti celtici aiutano l'armata di Annibale a sterminare le legioni romane presso il lago Trasimeno e nel 216 a Canne.
216 a.C. I Boii sconfiggono seccamente un esercito romano.
197 -196 a.C. - I Cenomani vengono sottomessi da Roma.
191 a.C. - Cadono le ultime resistenze sul campo dei Boi. Nel 189 la loro roccaforte di Bologna diviene colonia Romana. Nel 189 lo diviene quella di Modena e nel 183 è la volta di Parma, segnando così la fine del grande ramo italico del popolo dei Boi.

13. I  dialetti neoceltici
I dialetti neoceltici che si parlano oggi nella Valle Padana hanno caratteristiche così nette e distinte dall’italiano che, seguendo i limiti dell’area in cui sono parlatati, si può delimitare esattamente il territorio abitato, oggi come allora, da genti Celtiche. Esso va dalla catena delle Alpi al Mar Ligure fino a Pontremoli e da qui a Senigallia seguendo la dorsale dell’Appennino.  La civiltà celtica ha dominato per più di mille anni un vasto mercato comune europeo e la sua influenza sulla cultura europea - sia culturale, linguistica o artistica - si scopre di nuovo. Gli antichi dialetti celtici sono gli antenati delle lingue gallesi e gaeliche di oggi.
14. La condizione della donna
Pur essendo quella celtica una civiltà di origine indoeuropea come quelle greca, romana, germanica, slava, trace, iberica, armena, iranica e ittita, e molte altre, il ruolo della donna ed il suo peso sociale all'interno di queste culture era spesso profondamente diverso. Lontana dall'essere confinata come le sue contemporanee romane nel gineceo o ridotta in schiavitù come in certe civiltà poligame, la donna celta godeva di ampie libertà e i suoi ambiti erano considerati tanto privati che neanche i curiosi storici greci ebbero la possibilità di esservi ammessi. Ma da Diodoro Siculo sappiamo per esempio che esse erano tanto coraggiose e altezzose quanto gli uomini, e Ammiano Marcellino rende ancora meglio questa idea di nobiltà e forza affermando che intere schiere di guerrieri non avrebbero potuto tener testa ad un solo gallo che avesse chiamato in suo aiuto la moglie! Che le donne celtiche fossero anche temibili regine e guerriere ce lo conferma anche lo storico romano Dione Cassio con la descrizione della celebre Boadicea, che guidò i britanni in una coraggiosa rivolta contro i romani: "Boudicca era alta di statura, con uno sguardo che incuteva paura, una voce roca e una massa di capelli rosso brillante che le scendeva fino alle ginocchia. Portava una collana d'oro dagli anelli intarsiati, una veste variegata e, sopra questa, un manto chiuso da una fibbia. Stringeva nella mano una lunga lancia, che incuteva timore a quanti la osservavano”. Boadicea diede filo da torcere agli invasori conquistando diverse oppida romane come Colchester, sede del governatorato, distruggendo Londinum (Londra), occupando Verulasimium (St. Albans nell'Hertshire) e quando le cose girarono al peggio si diede la morte per veleno, negandosi al nemico per entrare nella leggenda. La donna celta aveva proprietà e domini, che manteneva anche in caso di divorzio (la società celtica di 25 secoli fa già contemplava questa istituzione) e che all'interno del matrimonio le potevano anche permettere di essere l'elemento dominante della coppia. Ciò nonostante era in vigore presso alcune rare popolazioni il sacrificio rituale della sposa in caso di morte del marito, soprattutto se quest'ultimo era di alto rango, allo scopo di condividerne il destino nell'aldilà. Un esempio di questo costume lo si trova nel campo funerario di Hohmichelle, nella Germania meridionale. Il matrimonio era, infatti, soprattutto un contratto che legava due famiglie o due domini e non una questione di sentimenti, tant'è che nell' irlandese precristiano lo stesso termine che designava sia il matrimonio che il contratto era "caratrad", che significava "amicizia". L'attuale  termine "pòsadh" per indicare il matrimonio infatti deriva dal latino sponsus, mentre il termine utilizzato allora per indicare l'amore era "serg", ovvero "languore", ma anche "malattia" ad indicare una vera e propria affezione dell'animo. Il letto era insomma per la donna celtica non tanto un luogo di piacere quanto quello del dovere coniugale. E' interessante notare che per quanto riguarda il costume del matrimonio, presso i Celti non esisteva l'equivalente della conferreatio romana e non vi erano esigenze riguardo la purezza, o verginità, della sposa od altre qualità particolari. Nelle società indoeuropee la monogamia era un regola giuridica che non conosceva eccezioni, benché il concubinaggio, che comunque non metteva mai in causa il patrimonio individuale della sposa, e la poliandria, cioè la possibilità per una donna di avere più amanti, erano conosciuti, praticati a volte per necessità e più o meno tollerati. Ciò in effetti rispondeva soprattutto ad esigenze di sopravvivenza, poiché spesso gli uomini, decimati da guerre continue, erano in numero talmente esiguo che allo scopo di assicurare la continuità di certe famiglie come di certi clan e la sopravvivenza stessa della tribù dovevano in qualche modo adattarsi ed unirsi in matrimonio con più donne, molto spesso vedove. Mentre la poliandria, di cui si ha qualche traccia storica, sembrava soprattutto un' usanza sociale in vigore presso alcuni popoli, soprattutto sulle isole, essendo motivo di orgoglio e di grande onore per una fanciulla concedersi di sua spontanea volontà ai guerrieri più coraggiosi. La posizione della donna celta, che a tutti gli effetti era uguale a quella degli uomini, la poneva però anche nell'obbligo di servire come guerriero, ed a quanto riferitoci dagli autori latini e greci che ne parlarono, queste temibilissime guerriere ispirarono o perlomeno rafforzarono il mito greco delle Amazzoni, senza dimenticare che altre donne guerriero, le celebri Valkirie, erano già presenti da molto tempo anche nella mitologia nordica. Le guerriere celte continuarono per lungo tempo a combattere anche dopo la conquista romana e a dispetto del cristianesimo. In Irlanda per esempio le donne proprietarie di beni fondiari erano obbligate per legge al servizio di leva e tale costume resistette fino alla sua abolizione con l'editto di Tara nel VII secolo. Nella mitologia celtica e soprattutto in quella irlandese, di cui ci resta più ampia testimonianza, non è azzardato dire che tra i temi più fecondi vi erano quelli che esaltavano la femminilità, e la stessa letteratura latina e greca è ricca di aneddoti sulla fedeltà, devozione, intelligenza e bellezza delle donne celtiche.  Persino Cesare, ben conosciuto per la sua misoginia, esaltò il coraggio e la devozione delle donne che durante gli assedi di Avaricum e Bratuspantium, così come in quello più celebre di Alesia, con il petto nudo ed i seni in vista lo supplicavano di risparmiare le loro città. Insomma, una figura quella della donna celta che se immaginata come vuole la tradizione, libera, sicura di sé, bellissima e armata di lancia o della grande spada celtica, forse oggi potrebbe incutere qualche fondato timore agli uomini moderni, abituati da molti secoli ormai a una donna sottovalutata e subordinata dalle convenzioni e dalla religioni a ruoli sociali di secondo piano.

 

Fonte: http://www.latinitas.altervista.org/doc/storia02.doc

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