Globalizzazione

 


 

Globalizzazione

 

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La globalizzazione

È un fenomeno reale e recente che riguarda la progressiva apertura dei mercati nazionali all'estero dando così origine ad un mercato globale che varca i confini nazionali e che condiziona pesantemente con il suo andamento le singole economie nazionali (vi siete mai chiesti perché se cadono le borse asiatiche anche a Milano ne risentono?). La parola deriva dalla fusione di due termini distinti integrazione ed economia globale. Essa denota quindi quel processo tramite il quale aumentano e si intensificano i rapporti di ciascuna nazione nei confronti di molte altre. Quindi non significa come molti credono mondo senza confini, senza frontiere nazionali né mercato unico mondiale. Per molti secoli la competizione economica tra gli stati si è facilmente tramutata in conflitto militare. Nel secondo dopoguerra invece le tendenze all'avvicinamento dei mercati si sono accentuate al punto tale che a partire dagli anni 80 si è cominciato a parlare di globalizzazione. L'industrializzazione ha imposto l'apertura degli scambi e ha dato avvio alla mobilità territoriale di persone e tecnologie destinata a divenire sempre più intensa. Il contributo più grande è avvenuto con la rivoluzione informatica e soprattutto dalla possibilità di integrare i sistemi informatici con quelli delle telecomunicazioni. Oggi è possibile inviare in ogni parte del mondo un numero infinito di informazioni, grazie alla rete telematica internet. Questa possibilità di collegare in pochi secondi luoghi distanti migliaia di chilometri ha finito per condizionare anche sistemi di produzione e di commercializzazione in quanto viene eliminato il contatto diretto fra produttore e consumatore, permette alle imprese di avere sedi anche in paesi diversi pur non perdendo mai di vista il loro operato mantenendosi in collegamento con le loro varie filiali. L'opportunità di accedere ai mercati mondiali fa mutare anche lo spirito concorrenziale delle imprese che non si trovano più a competere soltanto con quelle dello stesso territorio. La globalizzazione ha l'effetto più importante nella finanza mondiale e possibile infatti grazie alle reti telematiche spostare capitali, acquistare titoli o venderli o effettuare qualsiasi azione speculativa digitando pochi tasti.
Purtroppo la globalizzazione non ha portato solo riscontri positivi all'interno delle nostre società. La globalizzazione ha portato gli stati più ricchi ad arricchirsi sempre di più a discapito di chi povero lo è ancora e lo sta diventando maggiormente (o meglio, i soldi finiscono nelle mani dei pochi ricchi che gestiscono il commercio di materie prime con l'occidente dei paesi in via di sviluppo). La globalizzazione non ha effetti infatti solo nella commercializzazione ma anche nel campo del lavoro: per molte imprese occidentali il trasferimento di molti stabilimenti produttivi in regioni asiatiche in modo tale da poter sfruttare la forza lavoro meno costosa. La globalizzazione ha dato tanto e ha migliorato tanto ma ci ha portato ad essere tutti uguali. Al di là delle singole manifestazioni c'è da dire che questo fenomeno condiziona ogni contesto della vita quotidiana: una stessa bevanda viene consumata a New York come a Pechino, uno stesso zainetto viene utilizzato a Milano come Singapore; uno stesso paio di scarpe viene venduto a Sidney come a Bankok. E lo stesso fenomeno e riscontrabile anche per la cosi detta fabbrica cultura le quella che si occupa della vendita di programmi televisivi cosi vengono veicolati non solo le conoscenze ma anche le mode i fenomeni sociali e anche le credenze religiose. Tutto questo ha portato alla nascita di un "villaggio globale" all'interno del quale le diverse società fino a ieri distinte per culture, tradizioni, credo e mode diverse vengono accomunate .Per non dimenticarci poi di un problema che sta facendo discutere: i reati globali. Lo straordinario sviluppo tecnologico del cyberspazio e la globalizzazione hanno indotto a parlare di un globalismo giuridico. Quest'ultimo dovrebbe contrastare la frammentazione della sovranità dei singoli stati incapaci di disciplinare attività che si svolgono fuori dai loro confini e fra l'altro colpire le attività illecite che una globalizzazione senza norme favorisce e alimenta. Nessuna giurisdizione statale è in grado di affrontarla. Il governo della legge che ha caratterizzato le democrazie liberali da solo non è più sufficiente. Esso ha infatti confini limitato ai singoli stati. Il principio della territorialità che è alla base del diritto è messo in crisi proprio dalla globalizzazione economica che rimane pericolosamente senza disciplina. Si stanno tentando di trovare delle soluzioni per tutelare gli stati più poveri dalla sovranità degli stati più forti.


Fonte: http://ipertestiscuola.altervista.org/letteratura/temi/globalizzazione.zip

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Globalizzazione

 

La globalizzazione dell'economia - Sintesi

 

Come spesso accade ai termini che "vanno di moda", la parola globalizzazione è intesa in molti sensi. Prevalentemente, globalizzazione viene utilizzata in senso stretto nella sfera economica per indicare che i diversi "attori" economici (imprese, lavoratori, capitali, merci) recitano sempre più spesso su un unico "palcoscenico" mondiale. "In una prospettiva storica (...) nel confronto concorrenziale nei mercati internazionali possono essere individuate quattro distinte fasi: l'era coloniale
Ma si può parlare anche di una integrazione a livello politico, tecnologico, sociale e culturale. In molti casi queste altre globalizzazioni sono concepibili come collegate alla globalizzazione economica: ad esempio, ci si può chiedere come l’integrazione del mercato mondiale porti a ripensare il ruolo dello stato. O si può notare come lo sviluppo delle tecnologie dell'informazione e delle tecnologie dei trasporti abbia consentito la globalizzazione economica.
Globalizzazione è anche un’ideologia, una visione del mondo. Provocatoriamente lo studioso di media Dennis De Keerckhove dice che "la globalizzazione è in primo luogo una questione di psicologia, non di economia". E anche Fantozzi e Narduzzi affermano che "non bisogna avere l'impressione che tutto sia mosso e controllato dall'economia, dalle esigenze dell'economia. [...] Oltre all'economia, coinvolti nel cambiamento globale sono gli uomini con le proprie passioni, le proprie aspirazioni e istituzioni, con i propri modelli di convivenza ideale, giusta ed equa che sia. Dietro la globalizzazione ci sono anche le forze di sempre del cambiamento umano: le religioni, la cultura, la tecnologia. Presumere che tutto si muova perché lo vuole l'economia non solo è riduttivo, ma anche inesatto." (Il mercato globale, Mondadori, 1997, p. 9)

 

Integrazione delle economie mondiali

La globalizzazione si è ritagliata un ruolo di protagonista nella politica e nella società dei singoli paesi. Essa sta cambiando il nostro modo di vivere, lavorare, consumare, trascorrere il tempo libero.
Per globalizzazione si intende il movimento che induce le economie verso un’integrazione sempre più accentuata.
La liberalizzazione progressiva degli scambi commerciali e dei movimenti di capitali sta trasformando l’economia in un unico mercato mondiale: frontiere e barriere economiche e finanziarie non hanno quasi più alcun senso e sempre meno caratterizzano l’azione politica.
All’interno del mercato globale vanno perdendo significato molte delle peculiarità che hanno caratterizzato l’epoca dei capitalismi nazionali, perché globalizzazione significa anche convergenza verso un modello uniforme di economia di mercato.
Spesso nel dibattito politico e culturale ci si chiede che valore – positivo o negativo - abbia la globalizzazione. Probabilmente questa domanda è un po’ oziosa: non possiamo scegliere se salire o meno sul tram della globalizzazione. Può piacere o non piacere, ma essa è un fatto con cui le generazione presenti e future dovranno vivere; detto altrimenti, il movimento che sospinge il mondo verso la globalizzazione è irreversibile e ineluttabile: tutte le forze vive dei diversi paesi sono costrette a uniformarsi se non vogliono cadere nell’inefficienza e nella povertà.
Quando uno stato tenta di porre le sue regole alle imprese o ai capitali, questi fuggono verso paesi dalle legislazioni più morbide. "La globalizzazione [...] non è più una scelta, ma un imperativo, sia per il sistema-paese che per le imprese. E la rapidità di adattamento alla filosofia e alle logiche dell'economia globale si presenta ormai come un fattore premiante e fonte di vantaggi competitivi." (Riccardo Varaldo, L'imperativo globale (natura e implicazioni della globalizzazione), in Andrea Piccaluga [a cura di], Mercato e competizione globale, Guerini e Associati, 1997, p. 23)
Va bene, ma questa inevitabile globalizzazione crea ricchezza? Per gli economisti del Fondo monetario internazionale "non c'è dubbio che la globalizzazione contribuisca enormemente alla prosperità globale. Una gran parte del mondo e un grandissimo numero di paesi indipendenti partecipano a tale processo. [...] La globalizzazione non configura pertanto un "gioco a somma zero" con alcune economie che guadagnano a spese dei sacrifici e delle perdite subite da altri paesi. Se le politiche economiche adottate soddisfano i requisiti richiesti da mercati concorrenziali su scala mondiale, allora tutti i paesi potranno sviluppare meglio i propri vantaggi competitivi, porsi su un sentiero di crescita potenziale e partecipare pro quota ai benefici di un'economia mondiale resa più prospera." (International Monetary Fund, World Economic Outlook, a Survey by the Staff, Washington (DC), maggio 1997, p. 3)
Tuttavia il dibattito pubblico non può non notare anche gli aspetti negativi che colpiscono certi paesi o certe fasce di lavoratori (soprattutto quelli poco qualificati), ad esempio gli effetti portati dalla deindustrializzazione sulla disoccupazione nei paesi europei e sui salari reali negli USA; o lo sfruttamento del lavoro dei minori e degli adulti in molti paesi in via di sviluppo (vedi Correggia: Scarpe da campioni, sudore da schiavi e Chierici: L'altra faccia del pallone).

 

Bauman: Un termine ambiguo?

"La parola "globalizzazione" è sulla bocca di tutti; è un mito, un'idea fascinosa, una sorta di chiave con la quale si vogliono aprire i misteri del presente e del futuro; pronunciarla è diventato di gran moda. Per alcuni, "globalizzazione" vuol dire tutto ciò che siamo costretti a fare per ottenere la felicità; per altri, la globalizzazione è la causa stessa della nostra infelicità. Per tutti, comunque, la "globalizzazione" significa l'ineluttabile destino del mondo, un processo irreversibile, e che, inoltre, ci coinvolge tutti alla stessa misura e allo stesso modo. Viviamo tutti all'interno della "globalizzazione", ed essere "globalizzati" vuol dire per ciascuno di noi, più o meno, la stessa cosa. 
Tutte le parole in voga hanno un destino comune: quante più esperienze pretendono di chiarire, tanto più esse stesse diventano oscure. Quanto più numerose sono le verità ortodosse che esse negano e soppiantano, tanto più rapidamente si trasformano in norme che non si discutono. Spariscono le varie pratiche umane che il concetto tentava all'inizio di mettere in luce, e ora il termine sembra "individuare alla perfezione" "i fatti", o la qualità "del mondo reale", con l'ulteriore pretesa di immunizzarsi da qualsiasi critica. Il termine "globalizzazione" non fa eccezione alla regola."
 (Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione, Laterza, 1999, p. 3)

 

Il passato prossimo dell'economia mondiale

Sintetizziamo le principali fasi attraversate dall'economia mondiale dopo la fine della seconda guerra mondiale:
lo sviluppo delle economie industriali nel secondo dopoguerra;
la crisi petrolifera dei primi anni Settanta e l'ascesa di nuovi protagonisti dell'economia mondiale, i paesi produttori di petrolio e le nuove economie industriali del Sud-Est asiatico;
il crollo del Muro di Berlino, che ha dato un impulso decisivo all'integrazione economica mondiale.
Sviluppo delle economie industriali nel secondo dopoguerra
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale e per 30 anni, vi è una continua espansione dell’industria nelle economie avanzate del mondo occidentale. Di conseguenza, materie prime e greggio del Terzo Mondo affluiscono nel Primo Mondo in cambio di manufatti. A quel flusso di materiali ne fa seguito uno di uomini, in cerca di lavoro meglio pagato. Questo contribuisce a frenare l’aumento del costo del lavoro, favorendo così la crescita industriale delle economie di mercato del Nord.
In questi decenni si verifica - a un ritmo ancora più rapido - l’industrializzazione delle economie pianificate del Secondo Mondo, sostenuta dalla vasta dotazione naturale dell’Unione Sovietica, dal carbone polacco e dalle barriere doganali elevate a difesa delle industrie dell’Est.
Crisi petrolifera e nuovi protagonisti
Fra il 1975 e il 1982 la situazione cambia. Si ha un ristagno dell'economia mondiale, anche per la brusca impennata dei prezzi del greggio, che provoca la recessione nel Primo e nel Terzo Mondo. Lo sviluppo continua solo nelle economie pianificate e nei paesi esportatori di greggio.
La recessione arresta le migrazioni: i lavoratori del Sud e quelli del Nord conoscono la disoccupazione. Il capitale affluisce più copiosamente ai paesi di recente industrializzazione (NIC), perché le multinazionali e gli industriali locali cominciano a sfruttare la loro forza lavoro a basso costo e sufficientemente qualificata. I NIC vendono al Nord prodotti industriali in cambio di servizi, e le industrie non competitive del Nord declinano.
I flussi di materiali e di uomini dal Sud al Nord ristagnano o cessano del tutto, perché i paesi dell’OPEC hanno bisogno di manodopera per espandere la produzione locale destinata all’esportazione, e perché le attività del quinto ciclo di Kondratiev, basate sulle conoscenze, cominciano ad espellere dal Nord le vecchie attività industriali standardizzate, ad alto impiego di lavoro o di materiali.
I paesi petroliferi diventano un punto focale del globo, ed attirano dal 1975 al 1985 correnti di immigrati. Fiumi di petrodollari scorrono da questi paesi e finiscono nelle banche di Londra, Zurigo, Francoforte; da qui vanno ad alimentare le finanze mondiali.
Crollo del Muro e integrazione economica mondiale
Gli anni Ottanta e Novanta si sono caratterizzati come periodo di grandi cambiamenti strutturali nell’economia del mondo che accompagnandosi alla contemporanea crescita delle moderne tecnologie dell'informazione e del trasporti, prefigurano l’imporsi in tempi ravvicinati di nuovi assetti e nuovi equilibri a livello mondiale. Ecco i fenomeni più rilevanti.
a) Il primo è la reindustrializzazione del Nord. In effetti nelle economie di mercato, specialmente dell’Europa occidentale oltre al Giappone (1,5%-6%), si ha una crescita dell’industria più rapida che nelle economie pianificate (2%) e nei paesi del Terzo Mondo (0,8%).
b) Il secondo fenomeno è lo slittamento verso Est del baricentro economico mondiale, caratterizzato da un indebolimento della storica configurazione incentrata sul Nord Atlantico e da un rafforzamento della localizzazione industriale sul Pacifico (con la statunitense Seattle ideale capitale di un impero comprendente i paesi del NAFTA - Stati Uniti, Canada e Messico - legati da accordi commerciali alle economie emergenti del Sud-Est asiatico - in primo luogo Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Indonesia, Filippine, Thailandia - e dell’America Latina). Questo fenomeno è dovuto:
ad una più netta differenziazione all’interno del Sud fra Asia da una parte, dove altri paesi (Thailandia, Malaysia, Cina) si uniscono alla "banda dei quattro" (Hong Kong, Corea, Singapore e Taiwan) in rapido sviluppo industriale, Africa e America Latina dall’altra;
ad un’analoga tendenza all’interno del Nord, dove l’Unione Sovietica e l’Europa orientale ristagnano, l'Unione europea si sviluppa lentamente, e il Giappone e l’Ovest degli Stati Uniti conoscono una più rapida espansione economica.
c) Il crollo dei regimi comunisti che ha prodotto l’affermarsi del modello capitalistico (spesso nelle sue forme più marcatamente liberistiche) come modello economico mondiale.
Il sistema capitalistico si allarga a comprendere la stessa Cina che, pur mantenendo un’organizzazione sociale e politica di tipo comunista, ha di fatto adottato un modello di sviluppo tale da immettere in quel circuito l’area più popolata del pianeta. La smilitarizzazione e la ristrutturazione politica ed economica dei paesi del vecchio patto di Varsavia stanno aprendo completamente questi mercati al commercio mondiale, creando così una più stretta interdipendenza fra Primo, Secondo e Terzo Mondo, già cominciata con l’apertura della Cina nel 1978.
d) Vi è la creazione di aree economiche regionali di libero scambio - come il Mercosur - che attraggono investimenti da parte delle grandi aziende interessate ad essere presenti in ciascuno di quei mercati; alla crescente sensazione di riduzione delle distanze fisiche, cui contribuiscono tanto la diminuzione del costo relativo dei trasferimenti, quanto lo sviluppo delle comunicazioni; all’imporsi in tutto il mondo del modello consumistico e dello stile di vita dei paesi occidentali, "veicolati" attraverso la diffusione su scala mondiale dei loro prodotti "simbolo" (Coca-Cola e McDonald's rappresentano solo gli esempi più eclatanti della tendenza alla creazione di un’unica cultura di massa planetaria, favorita dallo sviluppo delle comunicazioni che, portando tecniche e strumenti della persuasione pubblicitaria negli angoli, più remoti del globo, riesce ai vedute travolgere "confini culturali" millenari).
e) Negli ultimissimi anni, rapporti d’interdipendenza industriale più stretti e più complessi caratterizzano le economie di mercato. Esplode lo scambio di prodotti industriali fra Europa occidentale, America settentrionale, Giappone e Australia, con la conseguente continua intensificazione della concorrenza fra le aziende.
(F.E. Ian Hamilton, Un'economia mondiale in continua trasformazione, in Robert Bennett - Robert Estall [a cura di], La sfida del cambiamento globale, Franco Angeli, 1996, pp. 89-90.)

 

Un fatto nuovo?

La globalizzazione non è un processo totalmente nuovo. Se vogliamo, il mondo ha cominciato a globalizzarsi già al tempo delle scoperte geografiche e della costituzione di imperi coloniali. Già personaggi come Marco Polo e Cristoforo Colombo sono autenticamente globali.
Ricorda Touraine che un secolo fa il commercio estero contribuiva per il 45% alla ricchezza nazionale della Gran Bretagna, in confronto al 25% - 30% negli USA odierni.
In che cosa consiste la specificità della globalizzazione rispetto ai fenomeni di internazionalizzazione dell'attività economica, vecchi almeno quanto il capitalismo, o forse addirittura quanto le conquiste coloniali.
La quantità fa la qualità
Quello che è cambiato è la crescita esponenziale delle relazioni e delle interdipendenze tra i paesi del mondo. Sta diventando sempre più vero il detto settecentesco per cui "il battito d'ali di una farfalla a Parigi provoca un cataclisma in Cina".
In particolare, l'attuale globalizzazione è frutto di un processo che, nel corso degli ultimi due secoli, ha portato a una progressiva integrazione delle forze economiche, finanziarie, sociali e culturali. Infatti siamo passati da una industrializzazione a livello locale alla sua internazionalizzazione, e quindi ormai alla globalizzazione. In tale periodo le strutture politiche, economiche e finanziarie degli Stati sono diventate sempre più interdipendenti e le diverse culture nazionali hanno subito un processo di reciproca osmosi.
Il divorzio tra economia e territorio
Il capitalismo moderno era nato nell’orizzonte e sotto la protezione degli stati nazionali. È vero che nell'ultimo secolo progressivamente si è affermato il principio della libera circolazione delle merci, ma era molto meno frequente che assieme ai prodotti espatriassero i capitali e il lavoro. Anche nell'assetto economico internazionale che nasce a Bretton Woods si tiene ferma la centralità delle funzioni economiche dello stato nazionale.
(Stefano Cingolani, Touraine. Come liberarsi dal liberismo Intervista ad Alain Touraine, "Corriere della Sera", 11 marzo 1999)
"La novità dell'attuale epoca di sviluppo è la globalizzazione del capitalismo, vale a dire la sottrazione della forza e delle logiche del capitale al controllo sociale delle comunità nazionali. Oggi l'economia è globale in un senso in cui la politica non lo è. Viene così meno il vincolo stabile fra stato, territorio, popolazione e ricchezza - "la ricchezza senza nazioni", appunto." (Angelo Zamagni, Globalizzazione, nuovo ordine mondiale, società civile transnazionale, in Angelo Detragiache, Globalizzazione economica, finanziaria e dell'informazione, SEI, 1998, p. 196)

 

Thurow: Il futuro del capitalismo

Le forze nascoste
"Per comprendere la dinamica del nuovo mondo economico, può essere utile prendere in prestito dalle scienze naturali due concetti: la tettonica delle placche dalla geologia e l'equilibrio punteggiato dalla biologia. In geologia i fenomeni osservabili, come i terremoti e le eruzioni dei vulcani, sono provocati dal movimento invisibile delle placche continentali galleggianti sul nucleo di piombo fuso della Terra. La crisi economica messicana è stata tanto inattesa e violenta quanto un'eruzione vulcanica. Le ristrutturazioni aziendali scuotono le "fondamenta" dell'uomo (le aspettative circa il proprio futuro economico) tanto quanto potrebbe farlo un terremoto.
Ma i vulcani o i terremoti non si possono comprendere osservandoli e basta. Il geofisico deve sondare in profondità fino a individuare le forze generate sotto la superficie terrestre dalle placche continentali. Allo stesso modo, nessuno può capire ciò che è successo in Messico considerando semplicemente gli errori grossolani commessi dai dirigenti politici nella sua capitale. Coloro che si ritrovano improvvisamente in mezzo a un terremoto economico non sanno spiegarvi perché si è scatenato, allo stesso modo di chi si ritrova in mezzo a un terremoto vero e proprio.
Ma la tettonica delle placche provoca anche i cambiamenti più lenti, quasi impercettibili, che trasformano radicalmente la superficie della Terra in tempi che la geologia considera brevi. Secondo la teoria della tettonica delle placche, ciò che appare statico (la superficie della Terra) è in realtà in costante movimento. La placca continentale indiana spinge contro quella eurasiatica, e il maggiore massiccio montuoso del mondo per dimensioni e volume, il Nanga Parbat nell'Himalaya, si innalza di oltre 60 centimetri ogni cento anni. In un tempo relativamente breve avrà luogo un evento molto significativo: il Nanga Parbat diventerà la montagna più alta e più estesa della Terra.
Allo stesso modo, nella "tettonica delle placche" dell'economia, la superficie economica della Terra, cioè la distribuzione del reddito e della ricchezza, sembra statica, ma in un lasso di tempo relativamente breve (poco più di un ventennio) ciò che è appena percettibile nello spazio di un solo anno (una diminuzione inferiore all'1% dei salari reali dei lavoratori senza compiti direttivi) modifica radicalmente la distribuzione del potere d'acquisto. Entro la fine del secolo i salari reali di questi lavoratori saranno ritornati ai livelli di cinquant'anni prima, nonostante il fatto che nello stesso periodo il PIL pro capite sia più che raddoppiato.
Sotto questo rimodellamento totale della superficie economica della Terra (un processo ormai in fase avanzata) e sotto i fenomeni più spettacolari e appariscenti dei terremoti e dei vulcani economici, si muovono le cinque placche economiche che esercitano, al pari di quelle geologiche, una forza irresistibile.
Per comprendere dove tali forze stanno portando e cosa occorre fare per adattarsi al cambiamento, è necessario prendere a prestito dalla biologia evoluzionistica il concetto di equilibrio punteggiato. Di norma, l'evoluzione procede così lentamente da non essere rapportabile alla scala temporale umana. Le specie che si collocano in cima alla catena alimentare, quelle che hanno maggiori possibilità di sopravvivenza, diventano di solito sempre più dominanti, più numerose e forti.
Ma di tanto in tanto succede qualcosa che i biologi conoscono come "equilibrio punteggiato". L'ambiente si modifica all'improvviso, e quella che era la specie dominante si estingue rapidamente mentre un'altra prende il suo posto. L'evoluzione compie un salto di tipo quantistico. La selezione naturale, che di norma opera sui margini del sistema, ne modifica in modo radicale e repentino il nucleo centrale.
L'esempio più noto è naturalmente quello dei dinosauri, che hanno dominato la superficie della Terra per 130 milioni di anni, ma a un tratto si sono del tutto estinti (o sono diventati uccelli?). Le teorie più recenti ipotizzano che una cometa sia entrata in collisione con la superficie terrestre vicino alla penisola dello Yucatán, con tale violenza da provocare l'eruzione di alcuni vulcani dall'altra parte del pianeta. Una nube persistente di polvere sulfurea avrebbe distrutto l'ambiente in cui i dinosauri potevano vivere. Per motivi ancora non chiari, i mammiferi erano in grado di affrontare queste nuove condizioni e diventarono la specie dominante sulla Terra. Ma qualunque cosa sia successa, è successa in fretta, sovvertendo totalmente i destini di chi avrebbe dovuto dominare e di chi si sarebbe dovuto estinguere.
Periodi di equilibrio punteggiato si possono osservare anche nella storia umana. Per esempio gli eserciti napoleonici, nonostante fossero passati quasi duemila anni, non erano in grado di muoversi più velocemente di quelli di Giulio Cesare: entrambi dipendevano infatti dai cavalli e dai carri. Ma settant'anni dopo la morte di Napoleone i treni a vapore raggiungevano velocità superiori ai 160 chilometri orari. La rivoluzione industriale era già a buon punto e l'era economica basata sull'agricoltura, antica di migliaia di anni, in meno di un secolo era stata sostituita dall'era industriale; e un sistema sociale, il feudalesimo, che era stato il più adatto a sopravvivere per centinaia di anni, venne rapidamente sostituito dal capitalismo.
I sistemi biologici, sociali o economici fanno il loro ingresso nelle fasi di equilibrio punteggiato con strutture in lenta evoluzione, ma consolidate. Ne escono con caratteri radicalmente mutati, che nuovamente intraprendono un lento processo di evoluzione. I requisiti necessari per essere un vincitore all'inizio di una fase dì equilibrio punteggiato differiscono notevolmente da quelli necessari alla fine. Durante tali fasi di equilibrio punteggiato tutto è in movimento, il disequilibrio diventa la norma, e l'incertezza regna dappertutto.
Oggi il mondo sta attraversando un periodo di equilibrio punteggiato provocato dai movimenti simultanei di cinque placche economiche. Alla fine ne emergeranno nuove sfide con nuove regole che richiederanno nuove strategie. Alcuni giocatori attuali si adatteranno e impareranno a vincere le nuove sfide. Saranno coloro che comprenderanno il movimento delle placche tettoniche economiche. Diventeranno gli individui, o le imprese, o i paesi in cima alla catena alimentare, i più adatti alla sopravvivenza. Da un punto di vista storico-economico, si potranno considerare l'equivalente dei mammiferi.
Le cinque placche tettoniche
1. La fine del comunismo
Con la fine del comunismo, quel terzo dell'umanità e quel quarto delle terre del pianeta che erano sotto il controllo di tale sistema entreranno a far parte del vecchio mondo capitalista. Coloro che erano abituati a vivere sotto il comunismo vivranno in un mondo in cui i criteri che determinano il successo o il fallimento saranno molto diversi, ma coloro che già vivevano sotto il capitalismo scopriranno che l'assimilazione di questa massa umana e geografica determinerà profondi cambiamenti nella struttura del loro mondo economico.
2. Un passaggio tecnologico verso un'era dominata da industrie ad alto contenuto di energie intellettuali umane
Nelle società industriali del XIX e del XX secolo la maggior parte delle industrie avevano una collocazione geografica "naturale", stabilita per così dire da Dio. Tale collocazione era determinata dalla disponibilità di risorse naturali e dal possesso di capitale. Il carbone poteva essere estratto solo laddove ne esistevano giacimenti; i grandi complessi portuali dovevano essere costruiti dove esistevano insenature adatte. I prodotti che richiedevano principalmente l'impiego di manodopera erano fabbricati nei paesi poveri; i prodotti per cui era necessario un alto impiego di capitale, nei paesi ricchi.
Viceversa, le industrie ad alto contenuto di energie intellettuali umane non hanno una sede predeterminata da condizioni naturali. Sono libere da qualsiasi vincolo geografico e possono insediarsi in qualsiasi angolo della Terra. I soggetti economici dominanti saranno in grado di creare, mobilitare e organizzare le capacità intellettuali che ne determineranno la collocazione.
3. Una situazione demografica completamente nuova
La popolazione mondiale è interessata da fenomeni di crescita, migrazione e invecchiamento. Nei paesi più poveri si assiste a un'esplosione demografica. La spinta della miseria nei luoghi di origine e l'attrazione esercitata dai livelli di benessere presenti all'estero spingono decine di milioni di persone a trasferirsi dai paesi poveri a quelli ricchi, proprio quando la forza lavoro non qualificata non è più necessaria al ricco mondo industriale. A livello mondiale si sta sviluppando inoltre una nuova classe di persone, un vastissimo gruppo di anziani, relativamente benestanti, la maggior parte dei quali non lavora e dipende per una larga misura del proprio reddito dalla previdenza sociale pubblica.
4. Un'economia globale
Le trasformazioni in corso nella tecnologia, nei trasporti e nelle comunicazioni stanno creando un mondo in cui qualunque cosa può essere prodotta e venduta ovunque sulla faccia della Terra. I confini che separano le diverse economie nazionali diventano sempre più evanescenti. Ciò di fatto accresce il disaccordo tra grandi imprese internazionali con una visione globale e governi nazionali che privilegiano il benessere dei "propri" elettori. Le differenze tra paesi aumentano, aumentano i blocchi commerciali a livello regionale e l'economia globale è sempre più interconnessa.
5. Un'era in cui non esiste una potenza dominante in senso economico, politico o militare
Le regole del sistema mondiale degli scambi sono sempre state scritte e imposte dalle potenze economiche che lo dominavano, la Gran Bretagna nel XIX secolo e gli Stati Uniti nel XX. Ma nel XXI secolo non vi sarà alcuna potenza dominante in grado di concepire, organizzare e imporre le regole della sfida economica. Il mondo economico unipolare dominato dagli Stati Uniti non esiste più: a esso è subentrato un mondo multipolare, ma attraverso quali meccanismi può avvenire la messa a punto, l'organizzazione e il mantenimento della sfida economica in queste condizioni? [...]


Un'epoca di equilibrio punteggiato
Quando la tecnologia e l'ideologia non sono in sintonia tra loro, il magma economico comincia a scorrere. Le placche tettoniche vengono violentemente scagliate le une contro le altre, i vulcani entrano in eruzione, i terremoti scuotono la crosta terrestre, si formano montagne, si scavano vallate. Quella che un tempo era la specie in cima alla catena alimentare, la più adatta alla sopravvivenza, pur dibattendosi disperatamente nel tentativo di ritornare in un fiume che ha cambiato corso, precipita verso l'estinzione. Il corso dei fiumi si modifica; l'acqua scorre in nuove direzioni. Si affaccia sulla scena un periodo di equilibrio punteggiato.
La superficie economica della Terra, la distribuzione del reddito e della ricchezza, è riplasmata in modo radicale. I perdenti economici sono rigurgitati in un vulcano sociale chiamato fondamentalismo religioso. Un terremoto economico scuote l'economia messicana. L'economia cinese è in ascesa; quella giapponese è in declino. In tutto il mondo la crescita subisce un netto rallentamento. I salari reali diminuiscono per la maggior parte dei cittadini americani. L'Europa non riesce a creare posti di lavoro per i suoi giovani. Le strategie economiche che prima avevano successo (incentrate sui bisogni della classe media) ora sono destinate a fallire. Nessuno sa che cosa i consumatori decideranno di comprare o no servendosi della spesa elettronica. I massimi dirigenti delle maggiori società perdono il posto a un ritmo mai visto prima. Si affaccia sulla scena un periodo di equilibrio economico punteggiato.
Si presenta un mondo nuovo di zecca con opportunità nuove di zecca. Se le placche economiche non possono essere risospinte indietro per ricreare l'ambiente di un tempo, il loro movimento inarrestabile può essere però compreso, e le nostre azioni e istituzioni possono essere modificate garantendoci una nuova prosperità.
[...] I periodi di equilibrio punteggiato schiudono molti territori nuovi e inesplorati. Sono tempi esaltanti. In tempi normali, quando quasi tutto l'esplorabile è stato esplorato, la geografia non è così interessante. Il modo forse migliore di rappresentare ciò che si presenta davanti a noi è immaginare di essere Colombo. Nelle Indie Orientali si può fare fortuna, e siete convinti di conoscere un modo nuovo per arrivarci, navigando verso ovest invece di viaggiare via terra verso est. Come Colombo, possedete una mappa ma, al pari della sua, essa è per metà coperta dalla scritta «terra incognita». Verso ovest il mondo è quasi del tutto sconosciuto, ma bisogna comunque costruire una nave che regga tempeste di inaudita violenza; deve essere dotata di vele che la lancino a tutta velocità verso la sua poco chiara destinazione, e deve avere a bordo le giuste quantità di acqua e cibo per un viaggio di durata ignota.
Quali saranno le dinamiche del nuovo mondo verso cui stiamo per salpare?"
 (Lester Thurow, Il futuro del capitalismo, Mondadori, 1997, pp. 8-12, 21-22)

 

Sperare in una società planetaria

La società del Ventunesimo Secolo sarà certamente una società planetaria, unificata, universale. Lo annunciano in modo inequivocabile i processi di globalizzazione, che già hanno caratterizzato l’ultimo scorcio del XX secolo.
Come avverrà il processo di globalizzazione? Sarà eccessivamente marcata la separazione tra vincenti e perdenti, inclusi ed esclusi? Sarà un processo nel quale i forti e i ricchi lo diventeranno ancora di più, mentre i popoli poveri continueranno a non avere opportunità di sviluppo?
Siamo in cammino verso un nuovo ordine economico mondiale, alla ricerca di un equilibrio diverso tra Nord e Sud, tra paesi in via di sviluppo e paesi già sviluppati, legati paradossalmente da un unico destino.
La coscienza e lo sviluppo dei diritti fondamentali dell’uomo e delle relazioni internazionali tra i popoli esigono un nuovo ordine giuridico mondiale, nel quale diritti e doveri siano garantiti da un’autorità sovranazionale effettiva (vedi Il difficile ruolo dell'ONU).
Nello stesso tempo, l’avvento dell’era atomica ha tolto significato all’esistenza di blocchi militari e ideologici contrapposti, imponendo la creazione di un nuovo ordine politico mondiale, dove la pace si fondi non su un assurdo equilibrio delle armi e dei missili, o sulla paura, bensì su una cultura nuova di solidarietà e fratellanza.
Infine è nato il bisogno impellente di stabilire un ordine mondiale della comunicazione e dell’informazione che, attraverso le nuove tecnologie, diffonda cultura e notizie, in modo da servire alla comprensione tra i popoli e alla crescita morale di tutta l’umanità.

 

Capitalismo

Il capitalismo è un sistema economico di produzione e distribuzione di beni e servizi caratterizzato dall'insieme di questi fattori:

  • sistematica applicazione di capitali alla produzione;
  • scissione tra proprietà e lavoro;

principio della divisione del lavoro;
prevalenza della proprietà privata del capitale;
concorrenza tra i produttori;
importanza del lavoro salariato: il lavoratore dipendente vende il suo tempo di lavoro a un prezzo contrattato;

  • importanza del settore industriale e dell'applicazione della tecnologia alla produzione.

I diversi studiosi valorizzano di volta in volta alcuni di questi caratteri.
Obiettivo del capitalismo sarebbe la massimizzazione del profitto e il suo reimpiego non tanto per il consumo quanto per investimenti destinati allo sviluppo ulteriore dell’attività produttiva (accumulazione del capitale). L’economia capitalistica è perciò molto più dinamica ed espansiva di quelle preesistenti e anche di quella socialista.
Per Marx ne Il capitale lo sfruttamento della forza-lavoro dell’operaio è la base dello sviluppo del capitalismo: il capitalista utilizza l’operaio oltre il tempo necessario alla produzione di beni per la riproduzione della forza-lavoro e si appropria del plusvalore (approssimativamente, la differenza tra il valore prodotto dall’operaio e la remunerazione che gli viene corrisposta). Dagli anni Trenta il termine diviene di uso comune anche tra gli economisti non socialisti. 
Nonostante le previsioni negative formulate da Marx e dagli altri teorici socialisti, il capitalismo si è dimostrato un sistema economico flessibile e adattabile, capace di creare ricchezza, ma anche di distribuirla. Importanti per temperare gli squilibri e le asprezze del capitalismo sono stati l'intervento statale nell'economia e l'azione delle organizzazioni dei lavoratori.
Dopo il crollo dei regimi comunisti del 1989 non vi sono sistemi economici alternativi. Il problema è semmai individuare le prossime evoluzioni del capitalismo e definire quali regole vadano stabilite per regolare il mercato globale.
(Sergio Ricossa, Dizionario di Economia, Utet, 1982, voce Capitalismo.
Enciclopedia dell’Economia, Garzanti, 1992, voce Capitalismo)

 

PIL

La sigla sta per prodotto interno lordo e designa il valore complessivo dei beni e servizi che vengono prodotti in un paese in un anno.
Il PIL viene oggi considerato l'indicatore più adeguato a valutare l'attività economica di un paese. Fino a qualche anno fa in alcuni paesi si preferiva usare come misura dello sviluppo economico il PNL. Il PIL non tiene conto del possesso delle risorse produttive; ad esempio, la produzione della filiale estera di una multinazionale viene considerata parte del PIL del paese in cui la filiale in questione opera.
La formula per calcolare il PIL è: consumi privati + investimenti + spesa pubblica + saldo della bilancia dei pagamenti (esportazioni - importazioni). Vi sono diverse varianti nel calcolo del PIL: ad esempio, può essere espresso a prezzi costanti (al netto dell'inflazione) oppure correnti (includendo la componente dell'inflazione).
È impossibile quantificare il PIL in misura esatta: esiste, infatti, in tutti i paesi, un'economia sommersa che, per definizione, sfugge agli statistici così come agli esattori delle tasse.
I diversi settori dell'economia (agricoltura, industria e servizi), contribuiscono alla determinazione del PIL in misura differente. Nella maggior parte dei paesi industrializzati, al PIL contribuiscono per il 60-70% i servizi, per il 25-40% il settore industriale e per meno del 5% quello agricolo. In Italia la composizione del PIL è, in base a dati del 1996, la seguente: per il 3,3% proviene dal settore agricolo, per il 28,2% da quello industriale, di cui un 23% proveniente dal comparto manifatturiero; e per un 68,5% da quello dei servizi.
(Voce Prodotto interno lordo, in Enciclopedia Microsoft Encarta 99, Microsoft Corporation, 1998)

 

PNL

Il prodotto nazionale lordo è il valore monetario del flusso totale annuale dei beni e dei servizi di una nazione.
Il PNL viene comunemente misurato sommando le spese personali, le spese pubbliche e le spese d'investimento effettuate dai cittadini di un paese sia all'interno del paese sia nel resto del mondo. Il PNL può anche essere calcolato sommando tutti i redditi percepiti dai produttori operanti nel paese: salari e stipendi, profitti, interessi, rendite. Entrambi i metodi producono lo stesso risultato.
Molti paesi industrializzati utilizzano invece quale principale indicatore dell'attività economica il PIL, che esclude i redditi di residenti provenienti da investimenti all'estero - che sono invece inclusi nel PNL.
(Voce Prodotto nazionale lordo, in Enciclopedia Microsoft Encarta 99, Microsoft Corporation, 1998)

 

Reddito pro capite

Il PIL pro capite è un indicatore attendibile del tenore di vita di un paese. Esso viene calcolato dividendo il PIL per il numero di abitanti.
Se la crescita del PIL avviene a un tasso superiore a quello della popolazione, il tenore di vita del paese registra un miglioramento, e viceversa. In base a dati relativi al 1996 il PIL pro capite italiano è di quasi 20.000 dollari statunitensi, quello del Giappone di quasi 35.000, quello statunitense di circa 25.000.
Tuttavia il PIL pro capite non tiene conto delle differenze del costo della vita nei vari paesi: alcuni ritengono preferibile valutare il tenore di vita sulla base del PIL espresso in termini di parità di potere d'acquisto (PPA).
Un altro indicatore della qualità della vita è l'Indice di Sviluppo Umano.
(Voce Prodotto interno lordo, in Enciclopedia Microsoft Encarta 99, Microsoft Corporation, 1998)

 

Parità di potere d'acquisto

Si tratta di un modo di comparare gli andamenti delle economie dei due paesi più raffinato rispetto a quello che fa riferimento al semplice valore di cambio. Se si volesse paragonare gli stipendi medi di un operaio del settore tessile in Italia e negli USA si potrebbe ad esempio renderli omogenei dividendo lo stipendio dell'italiano espresso in euro per il valore ufficiale del dollaro al mercato dei cambi. Ma una moneta può essere sopravvalutata o sottovalutata, e questo falserebbe la comparazione.
Si potrebbe invece scegliere un paniere di prodotti rappresentativo dei consumi normali di un cittadino e acquistabile negli Stati Uniti al prezzo di cento dollari. Quanti euro occorrerebbero per acquistare in Italia lo stesso paniere? Il valore ottenuto mi servirebbe per fissare un rapporto di cambio tra le due monete più realistico perché basato sul costo della vita.
Il tasso di parità di potere d'acquisto è dunque quello che assicura lo stesso potere nell'acquisto di merci ad ogni moneta dei due paesi in esame.
(Gérard Lafay, Capire la globalizzazione, Il Mulino, 1998, p. 15)

 

Indice di Sviluppo Umano

Un importante indicatore della qualità della vita è l'Indice di Sviluppo Umano (ISU), proposto nel 1990 dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo programmato (UNDP). Questo indice prende in considerazione di tre parametri fondamentali.
Il livello di alfabetizzazione della popolazione adulta, in particolare il numero delle iscrizioni alle scuole primarie, secondarie e terziarie.
La durata media della vita, che nel 1994 era in media di 74,1 nei paesi industrializzati e di 77,8 anni in Italia.
Il PIL reale pro capite, che in Italia è di 19.363 dollari.
Secondo l’ottavo Rapporto sullo sviluppo umano 1997, l’Italia si trovava al 21° posto nel mondo.

 

Tecnologia ed economia

I processi di globalizzazione sono influenzati ampiamente e in vario modo dallo sviluppo tecnologico. L'alto tenore di vita di cui gode l'Occidente è dovuto in gran parte al progresso tecnico, che ha portato il lavoro umano, la terra e le macchine a livelli di produttività impensabili.
Le tecnologie dell'informazione accelerano e moltiplicano i flussi comunicativi tra tutte le aree del pianeta. In particolare, Internet, ad esempio, è fondamentale per la creazione di un mercato mondiale dei capitali, nel quale le transazioni sono ininterrotte e avvengono a velocità istantanea.
Le tecnologie dei trasporti riducono i costi e i tempi di movimentazione di persone e cose.
Dal canto loro le tecnologie di miniaturizzazione ridimensionano i prodotti e li rendono più facilmente trasportabili.

 

Lo sviluppo tecnologico

"La tecnologia influisce sull'attività industriale in vari modi. Direttamente, crea nuove industrie come quella del computer e nuovi processi produttivi come quello dell'ossigenazione dei rottami di ferro nelle miniacciaierie, grazie alle quali cambia anche la localizzazione degli impianti siderurgici.
Gli stessi prodotti possono trasformare radicalmente i modi di lavorare: un tempo furono gli autoveicoli a rivoluzionare i trasporti, oggi sono i computer a rivoluzionare tutte le attività. Indirettamente, l'innovazione modifica i materiali, il capitale e lavoro utilizzati nella produzione; e modifica la natura e le caratteristiche delle aziende, comprese le dimensioni e la localizzazione.
Esistono due concetti correlati alla tecnologia che possono contribuire a comprendere meglio le trasformazioni globali dell'industria: alludiamo ai cicli di Kondratiev e al ciclo di vita del prodotto.
I cicli di Kondratiev
Nel 1925 il russo Kondratiev osserva che lo sviluppo delle economie di mercato è caratterizzato da onde o cicli lunghi 50-55 anni. Negli anni Trenta l'austriaco Schumpeter scopre che queste onde corrispondono a cicli di innovazione. Sono le nuove tecnologie che caratterizzano queste onde, e che permettono la creazione di nuove industrie, anche in nuove localizzazioni diventate più vantaggiose.
Ogni ciclo consiste di quattro fasi: espansione, recessione, depressione e ripresa.
Il primo ciclo di Kondratiev (1770-1825) corrisponde ai primi sviluppi, naturalmente in Gran Bretagna, della siderurgia basata sul carbon fossile e dell'industria tessile basata sul vapore. Queste nuove tecnologie causarono la concentrazione dell'attività industriali, fino a quel momento frammentate e disseminate in un numero sterminato di piccole officine e laboratori, in grandi fabbriche localizzate sul carbone.
L'applicazione del vapore ai trasporti ferroviari e marittimi sostenne il secondo ciclo (1825-1880) creando, sempre in Inghilterra, nuovi impianti industriali non solo sui bacini carboniferi ma anche in centri come Crewe, Derby o Swindon.
Il terzo ciclo (1880-1930) sostenuto dall'invenzione dell'elettricità, del telegrafo, del telefono e del motore a scoppio, e dallo sviluppo dell'industria petrolchimica, interessò soprattutto gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, con conseguente passaggio del primato industriale dalla Gran Bretagna all'Europa e agli Stati Uniti.
Il quarto ciclo (1930-1980) sostenuto, oltre che dall'ulteriore sviluppo della petrolchimica, da industrie ad alta tecnologia come quella televisiva e hi-fi, aerospaziale, delle fibre sintetiche e dell'elettronica, ha interessato soprattutto gli Stati Uniti, la Germania e il Regno Unito.
Oggi viviamo in un quinto ciclo innovativo che sta dando vita ad un'economia dell'informazione, che sfrutta l'energia immateriale del cervello umano per la ricerca e lo sviluppo (R&S) in campi come servizi per l'industria (per esempio, software), come la biotecnologia e la robotica, e lega direttamente la costosa R&S all'industria. In queste nuove attività gli Stati Uniti hanno un temibile rivale nel Giappone. La recessione degli anni Settanta fu il risultato congiunto dell'aumento dei prezzi del greggio e della transizione dal quarto al quinto ciclo. La chiusura di parecchie fabbriche nei paesi sviluppati è in parte dovuta alla concorrenza dei NIC e di alcuni produttori del Terzo Mondo, ma è stata accompagnata da un continuo sviluppo dei servizi, tanto da indurre qualcuno a parlare di "società post-industriale".
Ciclo di vita
Se la teoria del ciclo di Kondratiev mira a spiegare lo sviluppo di intere economie, il concetto del ciclo di vita del prodotto riguarda le singole industrie. Questo concetto si basa sul presupposto che la creazione e lo sviluppo di un prodotto nuovo avviene in un paese avanzato perché esso dispone delle competenze, dei capitali e dei servizi di supporto necessari.
Col crescere della domanda mondiale di tale prodotto, la produzione diventa standardizzata, consentendo la produzione in grandi impianti con manodopera semiqualificata e quindi a basso costo.
Questo favorisce la diffusione di tale produzione prima nel resto del mondo occidentale e poi nei NIC e nel Terzo Mondo, forti della loro manodopera a basso costo. Si arriva così allo stadio di maturità del prodotto, che contribuisce a spiegare la diffusione mondiale delle industrie tipiche dei quattro precedenti cicli di Kondratiev (tessili, calzaturificio, piccoli elettrodomestici, prodotti in plastica), ma spiega anche l'odierna reindustrializzazione del Nord."
(F.E. Ian Hamilton, Un'economia mondiale in continua trasformazione, in Robert Bennett - Robert Estall [a cura di], La sfida del cambiamento globale, Franco Angeli, 1996, pp. 93-94)

 

Nuove tecnologie commercializzate entro il 2010

 

"1. Premessa
In generale, i tassi di cambiamento dell'alta tecnologia stanno accelerando. Si può stimare che tutta la conoscenza tecnologica di cui disponiamo attualmente sia soltanto una piccola frazione di quella disponibile nel 2050. Ormai, il livello di sviluppo tecnologico di una nazione dovrebbe essere misurato da aggregati quali il numero di mainframe, PC, telefoni, fax e fotocopiatrici installati, nonché da quello dei robot operativi.
2. Computer più potenti e con impieghi più estesi
Potenza e velocità di funzionamento dei computer continuano ad aumentare. Si stima che già per il 2000 il PC medio avrà almeno 50 volte la potenza dei primi personal dell'Ibm e almeno 100 quella dell'Apple II originale. Inoltre, i computer e i sistemi di comunicazione si stanno rapidamente aprendo la strada nella sintesi delle informazioni e dei processi decisionali.
3. Biologia e genetica
La mappatura dei genoma umano è lo sviluppo più rilevante prevedibile in quest'area. I progressi nella biochimica e nell'ingegneria genetica saranno accelerati dall'integrazione con i computer, i laser e la produzione computerizzata; potrebbero, tuttavia, essere rallentati da preoccupazioni etiche.
4. Supermateriali
È già possibile progettare nuovi materiali a livello delle molecole. Le prospettive sono illimitate, perché il numero delle molecole è praticamente infinito. Ad esempio: ceramiche ottenute da composti di silicio, carbonio, ossigeno, azoto, alluminio e zirconio e caratterizzate da leggerezza, resistenza alla corrosione e all'attrito e con bassa conduttività; fibre composte in boro e carbonio, molto superiori ai materiali tradizionali in termini di rapporto peso/resistenza; polimeri di vario tipo.
5. Fonti energetiche ad alta densità
Sviluppo di fonti energetiche portatili e non costose per alimentare gli onnipresenti apparati elettronici: batterie a lunga e lunghissima durata, generatori basati sul calore umano, sistemi di controllo (per esempio, nei parcheggi) alimentati da energia solare e così via.
6. Tv ad alta definizione digitale
La digitalizzazione accoppiata all'alta definizione renderà la qualità dell'immagine riflessa sullo schermo tv analoga a quella di uno schermo cinematografico. È una realizzazione già in atto; manca solo la definizione di uno standard.
7. Miniaturizzazione
Un PC potrà essere ridotto alle dimensioni di un calcolatore tascabile e potrà incorporare un fax, un telefono e altri congegni per raccogliere e trasmettere informazioni.
8. Produzione intelligente
I clienti potranno collegarsi direttamente agli impianti di produzione e farsi creare prodotti su misura (si pensi in proposito all'abbigliamento e all'arredamento).
9. Cura della salute
A causa dei crescenti costi dei lavoro ospedaliero, i robot interverranno in attività di supporto alla medicina e alla chirurgia. Sono alle porte una serie di nuovi farmaci: per curare l'emicrania, per la prevenzione controllata delle nascite, per la riduzione dei colesterolo e della glicemia, per ridurre l'impulso a bere e a fumare. Anche la prevenzione dell'invecchiamento sta ricevendo una forte spinta. Rilevanti gli sviluppi della telemedicina. Stanno per entrare in funzione numerose nuove modalità per diagnosticare e curare le malattie.
10. Veicoli a carburante fluidi
I veicoli a combustione interna disporranno di due carburanti, uno per l'accelerazione e l'altro per la velocità di crociera. In effetti, i diversi tipi di carburante potranno essere anche più o molti più di due.
11. Edutainiment
Come l'infotainment, si tratta di un neologismo risultante dalla combinazione di entertainment con, in questo caso, education. La generazione che avrà vent'anni nel 2010 apprenderà soprattutto attraverso l'informatica; l'accento sarà sulle modalità educative che possono rendere l'apprendimento un gioco.
12. Riciclaggio di prodotti utilizzati
Come l'avvento di materiali sintetici, è stimolato dalla necessità di contenere l'impiego delle risorse non rinnovabili. Per esempio, un'automobile ormai inutilizzabile come tale può essere interamente riciclata in tutte le sue parti - metalli, plastica, gomma eccetera (attualmente, è l'industria automobilistica tedesca quella più avanti in questo sviluppo)."
(Antonio Martelli, Il mondo nel 2010, Il Sole 24 Ore libri, 1997, p. 180. Sintesi da Malcolm Abrams - Hamet Bernstein, More Future Stuff: Over 250 Inventions that will Change your Life by 2001, Penguin Books, 1991; Marvin Cetron - Owen Davis, 50 Trends Shaping the World, "The Futurist", settembre-ottobre 1991; Harold Linstone - Ian Mitroff, The Challenge of the 21st Century, Managing Technology and Ourselves in a Shrinking World, State University of New York Press, 1994; Douglas Olesen, The Top 10 Techonologies of the Next 10 Years, "The Futurist", settembre-ottobre 1995.

 

Muovere bit: le tecnologie dell'informazione

 

Le tecnologie dell'informazione hanno un ruolo decisivo nell'attuale ciclo economico (cfr. I cicli di Kondratiev): sono esse che ne rappresentano l'elemento tipico. Sono esse che rappresentano la risorsa determinante per il controllo di tutte le altre (materie prime, forza militare, risorse umane, etc.).
Sono molti gli aspetti dell'economia (e della vita quotidiana) modificati dall'impressionante crollo dei costi e dei tempi di trasmissione delle informazioni. Ne citiamo alcuni.
Lo sviluppo dell'informatica e della telematica è il supporto indispensabile per la costituzione di imprese mondiali. Le attività produttive delle aziende possono essere dislocate su un'area globale perché al loro interno filiali, unità produttive, livelli gerarchici possono scambiarsi informazioni a distanza; perché possono comunicare facilmente con clienti e fornitori ovunque situati;
L'attuale rapidità delle comunicazioni permette di muovere istantaneamente informazioni e di denaro, consentendo l'espansione a livello mondiale delle attività bancarie e finanziarie.
Nuovi centri finanziari si affermano, come Hong Kong e Singapore: prima dell'introduzione dei servizi bancari e delle operazioni in titoli "a ventiquattro ore" queste erano centri finanziari mondiali di secondo ordine, grazie al fatto che operavano nelle ore in cui la borsa di Tokyo era già chiusa e Londra non era ancora aperta.
Lo sviluppo di questi servizi internazionali ha favorito l'investimento di imprese straniere nell'industria non solo di Hong Kong e Singapore ma anche nei NIC asiatici più vicini come Taiwan, Indonesia, Malaysia e Thailandia.
L'aumento dei flussi di trasmissione delle informazioni tramite la televisione, Internet, la telefonia, la radiofonia (ma anche attraverso l'istruzione e il turismo) fa sì che ogni parte del mondo viene coinvolta nel processo di comunicazione e assimilazione di idee, mode, propensioni di consumo. In un mondo culturalmente più uniforme si possono affermare imprese che si rivolgono a un mercato globale: dalla Coca-Cola alla Kodak, dalle grandi industrie auto-mobilistiche ai canali tematici globali.
L'automazione aumenta la produttività del lavoro umano. Nelle industrie delle economie industriali è sempre meno richiesto il lavoro manuale e sempre più pregiato il lavoro qualificato dei knowledge workers, i nuovi feudatari della società dell'informazione.

 

Muovere atomi: lo sviluppo dei trasporti

 

Il processo di globalizzazione è stato favorito dallo sviluppo tecnologico nel settore dei trasporti (come dai progressi nelle telecomunicazioni). Questo ha comportato un abbassamento dei costi e dalla riduzione dei tempi nei trasporti, grazie al quale un numero sempre crescente di aziende riesce a perseguire le proprie strategie in diversi paesi del globo e a combinare i vantaggi che ciascuno di essi può offrire.
Anzitutto la diffusione di prodotti più leggeri, compatti e costosi, come le calcolatrici tascabili o i computer, ha diminuito i problemi dei trasporti e ha limitato l'incidenza dei costi di movimentazione sul prezzo delle merci. Ma in generale i trasporti sono diventati più veloci, meno costosi, più flessibili e più adatti al trasferimento di prodotti molto deperibili o molto voluminosi. Due particolari innovazioni nei trasporti hanno assunto un ruolo importante ai fini della trasformazione dell'industria globale.
a) La containerizzazione ha consentito un trasporto multimodale, ossia realizzato attraverso la successione di più tipi di trasporto: nave, automezzo, ferrovia. a norma, di dimensioni e capacità standard. Per inciso, un container è un box realizzato in lega di alluminio dalle misure standard di 6 m x 2,4 m x 2,4 m e che può contenere circa 20 tonnellate di merci. Il sistema dei container e l'integrazione rendono i trasporti più rapidi e meno costosi, soprattutto perché riducono il tempo di carico e scarico delle merci.
b) Significativo anche l'utilizzo di giganteschi aerei da trasporto. Questo ha favorito la localizzazione delle industrie a tecnologia avanzata che producono articoli leggeri e costosi in prossimità degli scali aeroportuali, come ad esempio nella valle del Tamigi, a Washington, a Singapore o presso la capitale taiwanese Taipei.
Tutto questo ha avuto conseguenze molto importanti sull'industria.
Il primo risultato è che la localizzazione degli impianti produttivi non è più un elemento determinante, semmai solo un fattore favorevole alla riduzione dei costi delle merci.
È quindi possibile procedere a una separazione geografica delle diverse fasi del processo produttivo e delle diverse funzioni industriali, fenomeno molto evidente nel caso dell'industria automobilistica. Questo avviene in particolare per le multinazionali che sfruttano i vantaggi che ciascuna localizzazione offre ad ogni funzione. Perciò il management e la ricerca e sviluppo sono dislocate in regioni metropolitane come quelle di New York, Londra, Parigi o Tokyo; in questi centri dove si esercitano funzioni di controllo a livello nazionale e mondiale si richiedono capacità professionali molto specializzate e si offrono redditi elevati. La produzione può essere collocata ad esempio nei NIC e nel Terzo Mondo: soprattutto se si tratta di produzioni standardizzate che richiedono una forza lavoro scarsamente qualificata e offrono redditi bassi.
Trasporti e comunicazioni più rapidi significa che "il tempo è ancora più denaro". Questo ha favorito un'altra novità del mondo dell'industria, e cioè il just in time, che riduce i volumi ed i costi delle scorte di materiali e di componenti. Una conseguenza di questo fatto è stata, sia nelle economie avanzate che nei NIC, la formazione di concentrazioni di subfornitori in aree centrali ma meno congestionate, a poche ore di viaggio dai principali stabilimenti di assemblaggio.

La facilitazione degli spostamenti riguarda anche le persone. Il pianeta sembra agevolmente e rapidamente percorribile da un capo all’altro. La facilità e la relativa economicità con cui oggi ci si sposta da una parte all’altra del mondo hanno determinato un incremento senza precedenti degli spostamenti internazionali, non solo migratori. In poche ore, con un onere sopportabile anche da molti abitanti dei paesi più poveri del mondo, è oggi possibile trasferirsi da e verso qualunque parte del pianeta.
L’abbattimento del costo dei trasporti aerei è dipeso sia da una domanda crescente da parte degli utenti, soprattutto per effetto di un turismo ormai proiettato su tutto il pianeta, sia da una offerta crescente e concorrenziale da parte delle diverse compagnie.
 (F.E. Ian Hamilton, Un'economia mondiale in continua trasformazione, in Robert Bennett - Robert Estall [a cura di], La sfida del cambiamento globale, Franco Angeli, 1996, pp. 91-93)

 

Aspetti della globalizzazione economica

 

Il processo di integrazione delle economie mondiali tocca tutti i principali aspetti dell'economia:

  • la finanza (mercato mondiale dei capitali);
  • il commercio (moltiplicazione degli scambi internazionali);
  • la produzione (ascesa delle multinazionali);
  • il lavoro (globalizzazione e occupazione);
  • il consumo (consumatore e mercato).

Bibliografia

Libri
Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione, Laterza, 1999.
F.E. Ian Hamilton, Un'economia mondiale in continua trasformazione, in Robert Bennett - Robert Estall [a cura di], La sfida del cambiamento globale, Franco Angeli, 1996.
Gérard Lafay, Capire la globalizzazione, Il Mulino, 1998.
Antonio Martelli, Il mondo nel 2010, Il Sole 24 Ore libri, 1997.
Lester Thurow, Il futuro del capitalismo, Mondadori, 1997.
Riccardo Varaldo, L'imperativo globale (natura e implicazioni della globalizzazione), in Andrea Piccaluga [a cura di], Mercato e competizione globale, Guerini e Associati, 1997.
Angelo Zamagni, Globalizzazione, nuovo ordine mondiale, società civile transnazionale, in Angelo Detragiache, Globalizzazione economica, finanziaria e dell'informazione, SEI, 1998.
Articoli
International Monetary Fund, World Economic Outlook, a Survey by the Staff, Washington (DC), maggio 1997.
Sergio Ricossa, Dizionario di Economia, Utet, 1982, voce Capitalismo.
Enciclopedia dell’Economia, Garzanti, 1992, voce Capitalismo.
Siti Internet e CD-ROM
Enciclopedia Microsoft Encarta 99, Microsoft Corporation, 1998, voci Prodotto interno lordo, Prodotto nazionale lordo

 

Fonte:http://www.peradam.it/peo/ipercorso/globalizzazione/Glob-800/globalizzazione/word-globalizzazione.doc

LA GLOBALIZZAZIONE Il futuro prossimo di un piccolo pianeta
autore: Giuseppe “Peo” Scaglione

 

Perdenti: il Sud del mondo - Sintesi

 

Se è probabile che la globalizzazione presenti cumulativamente vantaggi per l'economia mondiale, ciò non significa però che tutte le persone interessate potranno ricavare gli stessi vantaggi o che non vi siano anche alcune conseguenze negative per l’intera umanità.
La domanda su chi siano i vincenti e i perdenti nel processo della globalizzazione può essere affrontata sia nel grande gioco delle economie nazionali sia nell'ambito dei singoli paesi. Gruppi, individui o intere nazioni potrebbero rimanere esclusi dal sistema globale, e quindi dalle opportunità di benessere e di comunicazione che esso offre. Andiamo verso un mondo sempre più diviso?
Il sottosviluppo non è un problema nuovo. Se ne parlava già negli anni Cinquanta o Sessanta, quando i processi di globalizzazione non erano così avanzati.
Se guardiamo i dati statistici, non è tanto che i paesi poveri stiano diventando più poveri in senso assoluto, ma che si ampliano i dislivelli tra i paesi del Nord del mondo, i paesi produttori di petrolio, i paesi di recente industrializzazione (che fino a pochi decenni fa appartenevano al Terzo Mondo) da una parte, i paesi del Quarto mondo che rimangono poverissimi ed esclui dalla speranza di beneficiare dei vantaggi del mercato globale dall'altra.
Quali sono le cause del sottosviluppo? I critici della globalizzazione incolpano del sottosviluppo la mondializzazione dell'economia; altre cause possono essere rintracciate nella sovrappopolazione, nella frequente presenza di guerre locali, nella inadeguatezza delle élites politiche ed economiche, nel peso rappresentato dal debito estero.
Quali possono essere le vie d’uscita dal sottosviluppo? Le proposte sono molte, e spaziano dalla valorizzazione del ruolo delle organizzazioni non governative alla lotta contro il digital divide, dal condono del debito estero allo stabilirsi di un commercio equo e solidale, dal controllo delle nascite all'utilizzo delle biotecnologie per accrescere la produzione agricola.

 

I perdenti

Il cambiamento in corso rischia di accentuare ancora di più le differenze tra i paesi ricchi e i paesi poveri. Se gli imprenditori avranno sempre più la possibilità di localizzarsi dove preferiscono, la gran parte delle imprese opererà negli ambienti più favorevoli, cioè negli ambienti in cui è più facile lo scambio culturale e più immediati sono i contatti con l’innovazione.
Secondo alcuni, questo tipo di ambiente sarà offerto da quei paesi che già ora sono ricchi e sviluppati. Secondo altri, l'elemento decisivo sarà la qualità della formazione dei lavoratori.
Tuttavia la frontiera tra vincenti e perdenti nel processo della globalizzazione passa anche all'interno dei paesi ricchi. Secondo Pirani, la nascita del movimento "no-global" in Occidente si spiega anche col timore che la globalizzazione ci sottragga "un po' di quel grasso accumulato che ci ha consentito di prosperare, d'indebitarci senza crollare, di mantenere equilibri sociali, magari con un'alta disoccupazione ufficiale, senza eccessive lacerazioni". (Mario Pirani, Dopo le proteste le regole per l'economia mondiale, "La Repubblica", 30 agosto 2001)

  1. l’interazione con la tecnologia è ovunque e coinvolge ogni momento della vita delle persone, ma non tutti lo vivono allo stesso modo. Esistono vari livelli di partecipazione ai flussi della comunicazione. A persone capaci di creare o di reperire informazioni in modo efficiente ed efficace si contrappone un’umanità che si limita ad avere un rapporto passivo con la globalità;
  2. la flessibilità può comportare che dei lavoratori siano trasferiti frequentemente da un'impresa all'altra, da un settore all'altro, da una regione all'altra: e questo non ha costi trascurabili. Passare da un settore all'altro può comportare forti differenze di reddito: il salario medio orario 1992 negli USA era di 20,68 dollari per le manifatture di sigarette e di 5,29 dollari nell'industria alimentare;
  3. una concorrenza accanita provocare danni nell’ambiente. La forte spinta a tagliare i costi può portare un’impresa a omettere azioni come il controllo sulla sicurezza nei posti di lavoro, la depurazione degli scarichi, le verifiche sulla sicurezza dei prodotti, laddove questo gli sia consentito dalla "distrazione" degli organi statali o dalle lacune legislative.

 

Fantozzi-Narduzzi: Verso un mondo sempre più diviso?

"Visto dalla prospettiva di un cittadino dell'Africa nera, ad esempio, lo scenario della globalizzazione dell'umanità suscita timori e prefigura ruoli ancora più penalizzanti di quelli attuali. La paura di essere relegati definitivamente in un angolo, lontani e, irreversibilmente, in disparte rispetto allo sviluppo, non è sicuramente il frutto dell'immaginazione di chi già oggi si sente fuori dal gioco. Anzi le recenti crisi politico-etniche del Ruanda e, successivamente, del Burundi e dello Zaire offrono la rappresentazione più esplicita del concreto pericolo di esclusione che minaccia un intero continente. Fino a quando il controllo del mondo era organizzato sulla base della contrapposizione ideologica tra due diverse filosofie, crisi come quelle ricordate non sarebbero mai state abbandonate a se stesse dalla comunità internazionale. Ogni singolo tassello, ogni singolo paese aveva una sua funzione sulla scacchiera del confronto internazionale tanto per i social-marxisti, quanto per i capitalisti. La crisi politica, o meglio il pericolo dell'insorgere di una crisi, avrebbe attivato tutta una serie di decisioni finalizzate a non perdere la posizione acquisita ovvero a conquistarla. Un dato comunque era certo: qualcuno si sarebbe messo in moto per interagire con la crisi.
Oggi, invece, la fine della contrapposizione ideologica lascia intere regioni del pianeta abbandonate al proprio destino: una comunità politica internazionale ancora fragile e alla ricerca di procedure operative efficaci non trova la forza di intervenire quando in causa non ci sono interessi economici di primo piano o implicazioni politiche delicate. Se in causa c'è solo o quasi la sofferenza umana è più probabile che nulla si muova e a poco servano i richiami all'azione delle autorità morali. Ci si abitua a convivere anche con le immagini di morte e privazione, che puntualmente le televisioni diffondono, e a capire che con quelle regioni le possibilità di business divengono sempre meno allettanti. In questo modo, però, il distacco tra aree del mondo si accentua, la globalizzazione integra solo alcune parti del pianeta, mentre il resto convive con una precarietà sempre più pericolosa." (Augusto Fantozzi - Edoardo Narduzzi, Il mercato globale, Mondadori, 1997, pp. 6-7)
"Il più grande paradosso dell'epoca contemporanea è senz'altro rappresentato dal trade-off esistente tra crescita economica e redistribuzione della ricchezza. Più cresce il reddito mondiale, più si allarga il gap tra paesi del benessere diffuso e paesi della disperazione. Nord e Sud del mondo sono, contestualmente, sempre più vicini sul piano della comunicazione e dell'informazione e sempre più lontani per le risorse disponibili.
Prese da vicino e con un minimo di attenzione, le statistiche globali sono, da questo punto di vista, raccapriccianti. Circa un miliardo e mezzo di persone in 100 diversi paesi vivono negli anni Novanta con redditi inferiori a quelli del passato. Oltre ai paesi dell'OCSE, solo in Cina, nel resto dell'Asia e in India si assiste a un effettivo miglioramento delle condizioni di vita. Se nei paesi ad elevato sviluppo umano l'aspettativa media di vita attesa è di 73,8 anni, lo stesso indice scende a soli 56 anni per i paesi a più basso sviluppo umano ed è solo di 39,2 anni nella Sierra Leone. E se gli abitanti dei 57 paesi a più alto sviluppo umano potevano disporre nel 1993 di un PIL reale pro capite, cioè per singolo abitante, di 14.922 dollari, i cittadini dei 48 paesi a più basso sviluppo umano guadagnavano mediamente nello stesso anno solo 1.241 dollari che scendono a soli 420 nel caso dell'Etiopia o a 530 per il Mali. Nel Terzo mondo, poi, solo il 32% della popolazione dispone di servizi sanitari e meno del 70% può consumare acqua potabile. Complessivamente nei paesi in via di sviluppo ancora oggi 790 milioni di individui non godono di assistenza sanitaria e un miliardo e 280 milioni non dispongono di acqua potabile. E a tutto ciò si aggiunge il fatto che i paesi più poveri devono anche fare i conti con il costo finanziario dell'indebitamento contratto per finanziare lo sviluppo. Nel suo libro, The Politics of International Economic Relations, Joan Spero ricorda qualche cifra del fardello finanziario che opprime i paesi del Terzo mondo. Nel 1987 il rapporto tra debiti e prodotto interno lordo era mediamente del 37,6, ma saliva addirittura sopra il 70%, 76,2 per la precisione, nel caso delle economie africane a basso reddito. Dieci anni prima per gli stessi paesi dell'Africa il valore del rapporto era ancora inferiore al 30%.
Probabilmente nessuno coltiva l'illusione di poter far convivere ancora per molto pacificamente una realtà del genere. Gli sforzi compiuti in favore dei paesi più poveri dalle organizzazioni internazionali già rappresentano un importante punto di partenza. Il problema è che la dualità si sta riproducendo con altrettanta rapidità anche nelle società affluenti. È l'emergere della società della conoscenza, con le conseguenze che abbiamo già analizzato, il maggiore responsabile della "terzomondizzazione" delle società ricche. In esse ormai convivono con sempre maggiore indifferenza sacche crescenti di miseria e di professionisti che possono permettersi di tutto. Le statistiche americane, ad esempio, riferite al 1992 indicano che in quell'anno ben 36,9 milioni di americani potevano essere classificati come poveri e di questi circa il 40% è costituito da bambini. Il Regno Unito è il paese in cui il rapporto tra i redditi del 20% della popolazione più ricca e quelli del 20% della meno abbiente sfiora le dieci volte. Solo nella Russia post-comunista, tra i paesi a maggiore sviluppo umano, il gap tra ricchi e poveri è ancora più ampio: 11,4. In Italia lo stesso valore è stato, prendendo a riferimento i dati del periodo 1980-93, di sei volte. Ma neppure uno Stato sociale generoso nell'offerta di servizi sociali riesce più a nascondere le conseguenze in termini di depauperamento subito da una parte della popolazione. Il dramma è che questa situazione tenderà ad esasperarsi. Con la fine del lavoro, i nuovi poveri diventeranno sempre di più."
(Augusto Fantozzi - Edoardo Narduzzi, Il mercato globale, Mondadori, 1997, pp. 95-97)

 

I mondi economici

Per misurare lo sviluppo economico si ricorre al valore del prodotto nazionale lordo (PNL), cioè il valore complessivo della produzione di un paese. Si tratta d’una misura che indica l’enorme divario che esiste oggi fra paesi ricchi e paesi poveri. Ad esempio un abitante degli Emirati Arabi Uniti guadagna in un giorno quello che un cambogiano guadagna in un anno.
Gran parte dell’Africa, dell’America latina, dell’Asia meridionale è irrimediabilmente povera. Il PNL pro capite annuo è inferiore ai 240 dollari in 24 paesi dell’Africa nera e dell’Asia meridionale. Al vertice vi sono gli Emirati Arabi Uniti (16.250 dollari pro capite) e gli USA (14.900 dollari) che guidano un gruppo di 33 paesi con un reddito almeno tre volte superiore alla media mondiale.
Queste enormi differenze dimostrano l’esistenza di diversi "mondi economici". Per descrivere il fenomeno geografi ed economisti hanno fatto ricorso alla nota ripartizione in "tre mondi".

  1. Il Primo Mondo, costituito dalle economie industrializzate di mercato, è guidato dagli Stati Uniti e si organizza nell'alleanza militare della Nato e in quella economica dell'OCSE.
  2. Il Secondo Mondo era fino al 1989 quello delle economie pianificate relativamente industrializzate guidate dall’Unione Sovietica, organizzate militarmente nel Patto di Varsavia ed economicamente nel Comecon.
  3. Il Terzo Mondo è formato dalle ex colonie dei paesi europei, affrancate dopo il 1945 ed ha costituito per tre decenni il campo di battaglia delle lotte economiche, militari e politiche tra i due blocchi contrapposti.

Negli ultimi anni, anche a causa dei processi di globalizzazione, questa ripartizione ha cominciato a diventare inadeguata. Dalla massa del Terzo mondo si sono distaccati alcuni paesi che presentavano un buon livello d'istruzione, stabilità politica e un basso costo del lavoro, i NIC, che hanno rapidamente accresciuto i loro livelli produttivi, e poi anche di reddito e di consumo. Altri paesi, in particolare quelli dell'OPEC, si sono arricchiti con i proventi delle esportazioni delle materie prime. Si è cominciato perciò a distinguere un Terzo e un Quarto mondo, quest'ultimo confinato in un sottosviluppo caratterizzato forse irrimediabilmente da fame, analfabetismo, sottooccupazione.
(F.E. Ian Hamilton, Un'economia mondiale in continua trasformazione, in Robert Bennett - Robert Estall [a cura di], La sfida del cambiamento globale, Franco Angeli, 1996, pp. 83)

 

Terzo Mondo

L'espressione Tiers-Monde è stata coniata nel 1952 dal geografo Alfred Sauvy per analogia con il Terzo Stato francese della vigilia del 1789: designa la condizione di una maggioranza che è garantita da minori diritti e che è unita da una comune rivendicazione nei confronti del sistema capitalistico, ritenuto più o meno direttamente responsabile del sottosviluppo. Il termine viene diffuso nel clima della Conferenza di Bandung del 1955 nella quale 29 paesi dell'Asia e dell'Africa si presentano per la prima volta uniti e coscienti dei loro comuni problemi sulla scena politica internazionale e danno vita al movimento dei paesi non allineati.
Il nuovo termine riscuote una grande fortuna forse proprio per la sua genericità ed indeterminatezza: "i sociologi lo usavano per indicare le società nelle quali permanevano modelli di vita tradizionali o nelle quali il processo di modernizzazione era ai primi stadi; per gli economisti, indicava tutti i paesi non industrializzati e quindi anche i paesi europei più poveri; per i geografi, designava invece l'Asia, l'Africa e l'America Latina; per gli storici, si riferiva solo ai paesi ex-coloniali; per i politici, infine, il riferimento d'obbligo del termine era al movimento dei non allineati che comprende anche paesi europei come, ad esempio, la Jugoslavia." (Giuseppe Scidà, Terzo Mondo e divisione internazionale del lavoro, in "Dimensioni dello sviluppo", n. 2, 1986, p. 34)
Forse il significato più diffuso di Terzo mondo è quello che si riferisce ai paesi accomunati da condizioni di arretrato sviluppo economico, basso livello dei redditi e dei risparmi, dipendenza dall'estero, malnutrizione, analfabetismo, sovrappopolazione, instabilità politica e spesso anche dall'esperienza del dominio coloniale.
In realtà Terzo mondo si riferisce a situazioni molto diversificate. Anzi, parlare di Terzo mondo può essere fuorviante, perché può nascondere una generalizzazione e un'estensione a tutti i paesi non industrializzati di analisi, teorie e giudizi che in realtà traggono origine dall'esame di particolari paesi o circoscritte aree geografiche.
Tali diversità si sono accresciute negli anni. Si può parlare ancora di Terzo mondo? Questo si è frammentato in un insieme di aree molto differenziate per livelli di sviluppo e in competizione tra loro per stabilire rapporti economici privilegiati con il Primo mondo: paesi produttori di petrolio, paesi di recente industrializzazione, paesi produttori di materie prime, Quarto mondo, paesi in via di sviluppo.
Differenti per razza, religione, cultura e geografia, i paesi del Terzo Mondo hanno spesso interessi contrapposti. Cionondimeno la maggioranza di essi ha concordato in questi anni sull'importanza dell'istituzione di un nuovo ordine economico internazionale che, mediante una combinazione di aiuti e accordi commerciali, attuasse un trasferimento di ricchezza dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo.

 

Paesi produttori di petrolio

Il tendenziale aumento dei prezzi petroliferi negli ultimi 25 anni ha garantito ad alcuni paesi – in buona parte quelli appartenenti all’OPEC – un accumulo più o meno grande di petrodollari. Alcuni tra loro, come gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar, hanno scalato la classifica del reddito pro capite.
In parte la liquidità ottenuta tramite l’esportazione di petrolio è stata investita in infrastrutture e impianti industriali. Le politiche di sviluppo hanno richiesto in molti casi risorse umane che sono state fornite da paesi più poveri del Terzo Mondo. Ad esempio, nei paesi petroliferi della penisola arabica è molto forte l’immigrazione da paesi asiatici poveri come lo Sri Lanka, il Pakistan, la Palestina, le Filippine.
Ma la diversificazione produttiva è ancora scarsa. Il petrolio resta pressoché l'unico prodotto esportato da questi paesi.
Un altro punto debole è in genere l’insufficienza dell'agricoltura nei soddisfare i bisogni alimentari nazionali. Questi paesi sono ancora legati dall’andamento dei prezzi della loro unica grande risorsa.


Stato

Riserve di greggio

Arabia Saudita

175

Kuwait

72

Russia

68

Iran

60

Messico

55

Emirati Arabi

32

USA

31

Iraq

30

(in miliardi di barili)

Paesi di recente industrializzazione

 

Dal Terzo mondo si sono differenziati alcuni paesi di recente industrializzazione, tra cui le cosiddette Tigri dell’Asia, il Brasile e il Messico.
Spesso questi paesi hanno beneficiato dei processi di decentramento dei processi produttivi posti in essere da gruppi multinazionali interessati a sfruttare le particolari condizioni di abbondanza di forza-lavoro a basso costo, relativamente qualificata e produttiva.
D’altra parte gli imprenditori locali sono spesso riusciti ad allargare la loro produzione investendo il mercato internazionale con merci ad elevato contenuto di lavoro e competitive nei prezzi. Talora questi paesi si sono già liberati dalle loro condizioni di arretratezza raggiungendo livelli di produzione e reddito paragonabili a quelli dei paesi occidentali.
Altri stati, come la Cina, l’Indonesia e l’India, si sono incamminati più tardi sulla strada della creazione di industrie manifatturiere per l’esportazione ma vantano tassi di crescita del PIL molto elevati.

 

Paesi produttori di materie prime

Un gruppo assai consistente è rappresentato da paesi produttori di materie prime (escluso il petrolio) che hanno un reddito pro capite intermedio. Le economie di questi paesi si basano prevalentemente sul settore agricolo ed estrattivo.
Generalmente questi paesi si specializzano nella produzione per l’esportazione di un unico minerale o prodotto agricolo, da cui traggono la gran parte dei loro introiti in valuta estera: lo zucchero per Cuba, il cacao e il caffè per la Costa d’Avorio, il Cacao per il Ghana, i minerali di ferro per la Mauritania, rame per lo Zambia, bauxite e allume per la Giamaica. Solo di rado in questi paesi si sono stabilite delle industrie di trasformazione.
Questa situazione di dipendenza da uno o pochi prodotti rende tali paesi dipendenti dalle flessioni della domanda o dalle imprevedibili fluttuazioni dei prezzi nei mercati internazionali, dominati dai paesi sviluppati.
Accanto all’economia orientata all’esportazione vive poi un settore tradizionale, legato all'economia di sussistenza, costituito dai piccoli appezzamenti agricoli contadini, dall'artigianato e dalle piccole industrie locali, dall'attività commerciale locale.
I livelli della tecnologia, della produttività e dei redditi risultano normalmente elevati nel settore export-oriented e bassi in quello tradizionale.

 

Quarto mondo

L’espressione Quarto Mondo designa quella quarantina di paesi senza speranza di sviluppo che non hanno né sviluppo industriale una significativa presenza di materie prime. Essa è stata coniata per evidenziare le profonde differenze che intercorrono tra i paesi che venivano definiti genericamente Terzo Mondo.
Nei paesi del Terzo Mondo vi sono vari strati di persone povere le quali, tuttavia, potrebbero in molti casi migliorare la propria condizione se il reddito prodotto fosse meglio redistribuito; nei paesi di questo quarto gruppo non ha molto senso parlare di redistribuzione del reddito perché il suo livello è talmente basso che sarebbe sempre insoddisfacente.
Ci sono molti modi per identificate i paesi meno avanzati. Essi hanno un prodotto nazionale lordo pro capite inferiore ai 100 dollari annui, cosa che mostra la debole capacità di un'economia di produrre beni e servizi di qualsiasi genere. Il settore industriale rappresenta non più del 10% del PIL: cosa che mostra la prevalenza di un’agricoltura estremamente arretrata. Il terzo indicatore è costituito dal tasso di alfabetizzazione della popolazione di età superiore ai 15 anni inferiore al 20% il che segnala una sostanziale assenza di risorse umane minimamente qualificate da impegnare in un processo accelerato di sviluppo.
La maggior parte di questi paesi appartengono all’Africa subsahariana. È questa la regione che sembra avere le peggiori prospettive future. Diverse condizioni, dalla situazione turbolenta alla mancanza di infrastrutture, dalla scarsa qualificazione della forza lavoro all’assenza di materie prime rendono questi paesi poco appetibili per un eventuale decentramento delle produzioni che impiegano molta forza lavoro e poca tecnologia. Si tratta quindi di nazioni che dipenderanno nei prossimi anni dall’aiuto dei paesi ricchi anche solo per la semplice sopravvivenza della loro popolazione.
In Africa 25 milioni di persone su 700 vivono con l'AIDS (0,6 nell'Asia orientale, 1,8 nell'America Latina). La speranza di vita alla nascita è di 47 anni (69 nell'Asia orientale, 70 nell'America Latina).
Nel primo anno di vita muoiono 92 bambini ogni 1000 nati (35 nell'Asia orientale, 30 nell'America Latina). Sono analfabete 26 giovani donne ogni 100 (4 nell'Asia orientale, 6 nell'America Latina).
(Giuseppe Scidà, Terzo Mondo e divisione internazionale del lavoro, in "Dimensioni dello sviluppo", n. 2, 1986, pp. 34-50.
Terzo Mondo, Enciclopedia Microsoft Encarta 99, Microsoft Corporation.
World Bank - Annual report 2001)

 

Paesi in via di sviluppo

L’espressione "paesi in via di sviluppo" equivale a quella di Terzo Mondo ma presenta una connotazione ottimistica. Sottesa ad essa vi è la fiducia che tutti i paesi in diverse posizioni e con differenti velocità siano incamminati in un processo di sviluppo economico.
La storia degli ultimi decenni ha dimostrato che ciò è solo parzialmente vero. Accanto ad alcuni paesi che hanno conosciuto uno sviluppo economico fondato sul possesso di materie prime (anzitutto il petrolio) o su processi di industrializzazione accelerata vi sono i paesi del cosiddetto Quarto mondo che non mostrano significativi segni di uscita da una condizione endemica di miseria.

 

Il conflitto Nord - Sud

Molti studiosi vedono l'imminenza e l'inevitabilità di un conflitto tra Nord e Sud del mondo. Le sue cause scatenanti sarebbero sia l'ineguale distribuzione delle risorse nel pianeta, sia la pressione demografica dei paesi cosiddetti sottosviluppati. "Non è neppure lontanamente prospettabile una situazione in cui una parte del mondo gode di uno stabile equilibrio sociale e di benessere diffuso, mentre l'altra parte del pianeta, addirittura più significativa sul piano numerico, si trascina in una vita di miseria accompagnata alla non occupazione e all'assenza di servizi sociali. Neppure le frontiere più sofisticate nell'intercettare i disperati in cerca di una meta o le decisioni poliziesche più imponenti sarebbero in grado di evitare una massiccia migrazione dalle aree della disperazione alle regioni del benessere e della tranquillità." (Augusto Fantozzi - Edoardo Narduzzi, Il mercato globale, Mondadori, 1997, pp. 95-97.102-103)
Quale rapporto avremo tra Occidente (800 milioni, stabili) e mondo non occidentale (quasi 5 miliardi, in decisa crescita)? Vi è il serio pericolo di una frantumazione del mondo in settori antagonistici.
Il mondo non occidentale completerà gradualmente il processo di occidentalizzazione nella cultura, nella tecnologia, nell’economia e nelle istituzioni politiche o risponderà con una crisi di rigetto?
Verso la prima direzione spingono l'economia di mercato e l'uniformazione tecnologica, verso la seconda i fattori etnico-religiosi, cui la fine delle ideologie ha dato nuovo peso.
Il Giappone e Singapore sono finora tra i pochi esempi di una conciliazione possibile tra una cultura non occidentale e sistemi politici, tecnologici ed economici di derivazione occidentale. Il conflitto tra valori occidentali e valori tradizionali è già in atto in paesi islamici (come l'Algeria o la Giordania), che hanno governi laici insidiati da masse integraliste.

 

Sud del mondo

Al posto della suddivisione tra Primo, secondo, Terzo e Quarto mondo, molti osservatori preferiscono una semplice bipartizione in Nord e Sud (ufficializzata dalla Commissione indipendente sui problemi dello sviluppo economico). Nord e Sud diventano quindi sinonimi di "ricco" e "povero", di "sviluppato" e "sottosviluppato". La coppia Nord-Sud viene introdotta in un rapporto dell’ex cancelliere tedesco Willy Brandt dal titolo Nord-Sud, un programma per la sopravvivenza.
In riferimento alle migliori condizioni di vita che caratterizzano buona parte delle regioni settentrionali del globo, il Nord designa l'insieme dei paesi ad alto sviluppo industriale e tecnologico e quindi dotati delle maggiori ricchezze. Il Nord del mondo comprende il Nordamerica, il Giappone e l'Europa occidentale; ma anche le repubbliche nate dalla dissoluzione dell'Unione sovietica e l'Europa orientale. Esso non è semplicemente una
connotazione geografica, in quanto comprende anche paesi australi come l'Australia, la Nuova Zelanda, il Sudafrica. Il Nord ospita un quarto della popolazione mondiale; in compenso, possiede l'80% del reddito e il 90% della produzione industriale. Le nuove tecnologie appartengono in buona parte al Nord, che "controlla una grossa aliquota degli investimenti e del commercio mondiale delle materie prime e dei prodotti industriali. Per questa ragione [...] il Nord domina il sistema economico mondiale con le sue regole [...] regolamentazioni [...] istituti commerciali, monetari e finanziari." (Independent Commission in International Development Issues, 1980, pp. 31-32.
Al Nord si oppone il Sud, come complesso dei paesi più poveri e arretrati. Si tratta di paesi tradizionalmente definiti Terzo mondo e accomunati da condizioni di arretrato sviluppo economico, basso livello dei redditi e dei risparmi, dipendenza dall'estero, malnutrizione, analfabetismo, sovrappopolazione, instabilità politica e spesso anche dall'esperienza del dominio coloniale.
(F.E. Ian Hamilton, Un'economia mondiale in continua trasformazione, in Robert Bennett - Robert Estall [a cura di], La sfida del cambiamento globale, Franco Angeli, 1996, pp. 83. Voce Nord, Gedea multimediale, De Agostini, 1995)

 

Hobsbawm: L’Occidente vincerà molte battaglie, non la guerra

"Se si concepisce un qualunque conflitto aperto tra gli stati del Nord e del Sud del mondo, la schiacciante superiorità tecnica e la ricchezza del Nord è destinata a vincere, come ha dimostrato senza mezzi termini la Guerra del Golfo.
Persino il possesso di pochi missili nucleari da parte di un qualche paese del Terzo Mondo – ammesso che abbia anche i mezzi per mantenerli operativi e per lanciarli – è molto improbabile che costituisca un deterrente efficace, poiché gli stati occidentali, come hanno dimostrato Israele e la coalizione impegnata nella guerra del Golfo, sono in grado di scatenare un attacco preventivo contro nemici potenziali, troppo deboli per rappresentare ancora una minaccia seria.
Dal punto di vista militare il Primo mondo può tranquillamente considerare il Terzo Mondo come una "tigre di carta", per usare una locuzione cara a Mao Tse-Tung. Tuttavia è diventato sempre più chiaro nella seconda metà del Secolo breve che il Primo mondo può vincere battaglie, ma non guerre contro il Terzo mondo, o meglio è diventato chiaro che anche l’eventuale vittoria in una guerra non garantisce il controllo di quei territori. Il vantaggio più importante di cui si giovava l’imperialismo, cioè la disponibilità delle popolazioni locali, una volta conquistate, a lasciarsi governare pacificamente da pochi occupanti, è scomparso."
(Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, 1995, p. 649)

 

Il sottosviluppo

"I paesi sottosviluppati [...] sono quelli caratterizzati da un minor reddito pro capite, una minore efficienza produttiva, una organizzazione economica meno complessa e curata, una ricerca tecnico-scientifica meno progredita, un più basso grado di industrializzazione, i consumi della popolazione meno ricchi e variati, e perfino la demografia diversa, a causa di più elevati tassi di natalità e mortalità. Il sottosviluppo di cui si parla è economico, ma è indubbio che le sue manifestazioni oltrepassano i confini dell'economia." (Sergio Ricossa, Dizionario di Economia, Utet, 1982, voce Sottosviluppo)
Il sottosviluppo è un fenomeno storico che riguarda gli ultimi due secoli. Prima esistevano paesi ricchi e paesi poveri, ma le differenze non erano così marcate. È stato lo sviluppo di alcuni paesi seguito alla rivoluzione industriale a far sì che si possa parlare di sottosviluppo.
Le differenze tra paesi ricchi e poveri non si vanno attenuando. "Con l'attuale sistema di aiuti allo sviluppo ci vorranno cinque secoli per eguagliare il reddito pro capite del terzo mondo a quello del mondo industrializzato", e quindi per eliminare il sottosviluppo (Jan Tinbergen, I mutamenti dell'ordine internazionale e le risorse naturali, "Innovazione e materie prime", 1992, n. 2)
I numeri che misurano il sottosviluppo sono impressionanti. Secondo S. George, condirettore del Transnational Institute di Amsterdam la differenza di ricchezza tra Nord e Sud era di 30:1 nel 1965 e ora è di 70:1.
Il 20% più ricco dell’umanità possiede l’86% della ricchezza (il 70% nel 1965). Mentre il 20% più povero dispone dell’1,3% della ricchezza del mondo. Secondo un calcolo di Jeremy Rifkin, presidente della Foundation of Economic Trends, 366 persone detengono il 40% delle ricchezze del mondo.
1,3 miliardi di persone vivono con meno di 1 $ al giorno e 800 milioni soffrono la fame.
Negli ultimi 25 anni 200 milioni di persone sono morte a causa della fame, più del quadruplo rispetto ai morti della Seconda guerra mondiale.
(Sergio Ricossa, Dizionario di Economia, Utet, 1982, voce Sottosviluppo.
Sebastiano Mosso, Globalizzazione, una sfida per la pace: solidarietà o esclusione?, "La Civiltà Cattolica", n. 3570, 20 marzo 1999, p. 560)

 

La povertà

Per milioni di persone che vivono nelle zone più povere del mondo è problematica la stessa sopravvivenza.
790 milioni di persone - uno su cinque nei paesi in via di sviluppo - non hanno ancora un'alimentazione sufficiente a soddisfare i loro bisogni nutrizionali di base giornalieri. Nonostante la popolazione del mondo negli ultimi 30 anni sia fortemente aumentata (più del 70%), grandi progressi sono stati fatti per incrementare la qualità e la quantità dell'approvvigionamento alimentare mondiale e per migliorare lo stato nutrizionale delle popolazioni.
La proporzione delle persone vivono in uno stato cronico di sottoalimentazione è stata ridotta di metà (dal 36 al 18% nel 1995-97). Non tutte le persone hanno beneficiato dello sviluppo; mentre alcuni paesi hanno fatto grandi progressi, la fame è aumentata in altri, specialmente in quelli che di già avevano le difficoltà più gravi nel nutrire la loro gente.
15 milioni di bambini che muoiono ogni anno per cause legate alla malnutrizione.
Nel 2001 1 miliardo e 200 milioni di persone non dispongono neppure di un dollaro al giorno. Nell'Africa sub-sahariana e nel sud dell'Asia, il 48 e il 40% della popolazione, rispettivamente, hanno meno di un dollaro al giorno. In America Latina la crescita economica è risultata incerta; in questa area il 16% della popolazione vive tuttora con meno di un dollaro al giorno. In Estremo Oriente, la percentuale dei poveri è scesa tra il 1987 e il 1998 dal 27 al 15%.
La povertà porta masse di profughi ad abbandonare i paesi di origine alla ricerca di migliori condizioni di vita (vedi Cause dell’immigrazione).
La fame è collegabile a cause come la sovrappopolazione, la disoccupazione, le guerre, le crisi economiche, le catastrofi naturali. Mentre nel Nord del mondo un settimo della popolazione mondiale detiene i quattro quindi della ricchezza, consuma il 70% dell'energia globale e l'85% del legno del pianeta.
Chi analizza il problema della povertà si trova però di fronte a un problema di definizione del concetto di povertà. Se il concetto non è chiaro, non sono attendibili nemmeno le misure della povertà che di volta in volta vengono fornite.
Che cosa si intende per povertà? Qual è la soglia sotto la quale si diventa poveri?
Il concetto di povertà utilizzato nelle statistiche è multidimensionale (non comprende solo il reddito) e relativo (dipende dal benessere del singolo paese).
(FAO - Nutrire la mente, combattere la fame
World Bank - Annual report 2001)

 

Quando si è poveri?

Che la povertà esista, è un dato di fatto. Che esistano paesi ricchi e poveri, pure. Ma i problemi (statistici) cominciano quando si vuole determinare che cosa si intende per povertà. Ad esempio, quando ci si chiede se la globalizzazione accresce o riduce la povertà, occorre possedere un concetto di povertà. Se il concetto non è chiaro, non sono attendibili nemmeno le misure della povertà che di volta in volta vengono fornite.
Un concetto multidimensionale
Il premio Nobel indiano Amartya Sen ha influenzato moltissimo gli studi recenti sulla povertà.
Secondo l'economista, la misura della povertà va rapportata al vivere bene e alla libertà di vivere bene.
La variabile usata per misurare la povertà è stata quasi sempre il reddito. Dato che il denaro è strumentale a un buon tenore di vita, è vero che il basso reddito riduce la possibilità di vivere la vita che desideriamo.
Ma questo non è l'unico criterio per deteerminare la povertà. La povertà è un fenomeno multidimensionale e volerlo esprimere con un solo indicatore è fortemente riduttivo.
Ad esempio, la libertà dipende anche dal fatto che una persona sappia leggere e scrivere: l'analfabeta non può leggere i giornali né scambiare idee in forma scritta.
Un concetto relativo
La povertà dipende dal potere d'acquisto garantito dalle entrate. Un reddito di 10 dollari giornalieri è assolutamente insufficiente per sopravvivere in Italia, inserisce nella classe dei benestanti in un paese del Terzo Mondo.

La povertà dipende anche dal metro di giudizio che si usa: in un paese ricco, in cui si soffrono minori privazioni, si tenderà ad avere un diverso criterio di misura per valutare se una persona ha la libertà di vivere come desidera. Essere poveri in un paese industrializzato non comporta, in generale, di dover rinunciare ad alcuni consumi essenziali. In un paese in via di sviluppo la povertà, in assoluto, riguarda quasi l'intera popolazione, seppure la misura relativa finisca per essere fortemente ridimensionata per la definizione che riportiamo di seguito.
È povera una famiglia di due componenti la cui spesa per consumi sia pari o inferiore al consumo medio nazionale pro capite.
(Amartya Sen, La difficile misura della povertà, "Il Sole 24 Ore" - supplemento duemila, 03 novembre 1999.
Istat - Glossario)

 

Ricossa: Numeri che ingannano

"[...] Il Worldwatch Institute aggiorna (inventa?) ogni anno le statistiche, tra le quali ognuno seleziona quelle, che gli danno ragione e ignora, le altre. E per avere ragione, i catastrofisti dell'ecologia selezionano le cifre più catastrofiche: «Al terzo millennio si affacciano 840 milioni di uomini malnutriti».
Se la previsione "scientifica" non funziona, si ricorre alla previsione allusiva: «Siamo già oggi a 840 di uomini malnutriti, figuriamoci nel 2100, quando la popolazione mondiale sarà il doppio». Si lascia nel vago la definizione di malnutrito. Si lascia nel vago la definizione di doppio: dieci milioni di abitanti, forse 12, chissà. Si lascia nel vago la causa, o le cause, dell'asserita malnutrizione. Però, continuando ad alludere, si accostano artatamente i numeri. I malnutriti sono 840 milioni, gli ipernutriti (?) sono 600 milioni. I politici egualitaristi sono autorizzati a dedurre che gli ipernutriti sono la causa della fame degli altri.
Gli egualitaristi amano ragionare come se, per dare di più a qualcuno, si debba togliere a qualcun altro. È il sofisma economico più antico. "L'86% dei consumi globali si deve al 20% della popolazione più ricca". Ergo, la popolazione più ricca è fatta di ladri. Si ignora la possibilità che la popolazione più ricca abbia anche prodotto, oltre che consumato, l'86% dei consumi globali. Prodotto da sé, senza rubare ai più poveri. Magari prodotto più dell'86% dei beni di consumo. E poi: si tratta solo di consumi privati o anche di consumi pubblici? E da chi è formata questa popolazione più ricca? E quella meno ricca è povera o così così?
Talvolta si rasenta la truffa: "Le 225 persone più ricche del mondo possiedono un patrimonio di oltre mille miliardi di dollari, pari al reddito annuale del 47% più povero della popolazione mondiale (2,8 miliardi di persone)". Qui si confronta un patrimonio, cioè uno stock di ricchezza, con un reddito, cioè un flusso. In un'economia perfettamente egualitaria occorrerebbe lo stesso, per produrre un certo reddito annuale, una ricchezza di almeno quattro o cinque volte quel reddito. Chi abbia una ricchezza o un patrimonio costituito, per ipotesi, da un'obbligazione che frutti un reddito del 5%, possiede un capitale pari a venti volte il relativo reddito annuo. Non si può escludere che il patrimonio delle 225 persone più ricche del mondo sia costituito principalmente da fabbriche, uffici, magazzini, macchinari, beni di investimento, senza i quali la parte più povera della popolazione mondiale sarebbe ancora più povera.
Un ulteriore confronto demagogico è il seguente: "Per dare acqua e strutture igieniche a chi ne è privo, occorrerebbero nove miliardi di dollari. Per dare a tutti alimentazione e sanità di base occorrerebbero 13 miliardi di dollari. Le spese militari nel mondo sono 780 miliardi di dollari".
Supponiamo che le stime siano attendibili (eroica supposizione). Che morale trarre? Che un mondo senza guerre sarebbe migliore. Bella scoperta! Purtroppo le guerre o i pericoli di guerra ci sono. E non sempre sono deprecati. Per esempio: una grande religione, quella islamica, predica notoriamente la "guerra santa" contro gli "infedeli". Per secoli, la religione cristiana adottò principi analoghi. E il comunismo fu, forse è, sotto questo aspetto, una religione (atea). Le statistiche riferite in ogni caso significano nulla. Sarebbe più interessante, ma ci si astiene: dal confronto, distinguere tra popoli che spendono per la guerra dopo aver provveduto in modo decente ad acquedotti, strutture igieniche, sanità di base, alimentazione e popoli che spendono per la guerra sacrificando tutto il resto.
Popoli e governi: è una favola che i poveri siano costretti a guerre di liberazione dallo sfruttamento dei ricchi. Certo, al mondo capita un po' di tutto. Ma la mania di attribuire allo "sfruttamento" la parte di protagonista in ogni fenomeno di malessere umano, è un falso storico. Per giunta, è una mania che semina odio tra i popoli, quando invece sarebbero utili sentimenti di solidarietà. La povertà dei popoli è legata al sottosviluppo economico. Per passare dal sottosviluppo allo sviluppo non esistono ricette sicure.
Si deve ammettere, tuttavia, che non ci si sviluppa per caso. Condizione necessaria, sia pure non sufficiente, è che lo sviluppo deve essere voluto. Si deve ammettere altresì che vi sono popoli e Governi i quali non vogliono lo sviluppo. Non vogliono la povertà e non vogliono nemmeno quello sviluppo economico che potrebbe liberarli dalla povertà. Non c'è da stupirsi. Lo sviluppo, come lo conosciamo, è un modo di vita adottato dall'Occidente a partire dalla fine del Settecento. È stato adottato con grandi fatiche e grandi critiche. La stessa cultura occidentale si è più volte ribellata allo sviluppo. Perché sorprendersi, allora, se popoli, e Governi di cultura non occidentale sono contro lo sviluppo?
Essere contro lo sviluppo all'occidentale vuol dire, tra l'altro, essere contro il consumismo e a favore di un'austerità variamente definita o lasciata nell'indeterminatezza. I "verdi" sono contro il consumismo per ragioni ecologiche, altri "austeri" lo sono per ragioni morali. Ma lo sviluppo all'occidentale, capitalistico, di mercato, è inevitabilmente consumistico. Il capitalismo di mercato o è consumistico o non è affatto.
Quindi, di nuovo, certi accostamenti statistici sono ingannevoli. Si legge: "Al terzo millennio si affacciano 840 miliardi di uomini malnutriti. Per dare a tutti un'alimentazione adeguata occorrerebbero 13 miliardi di dollari. La spesa annuale per i cosmetici negli Statì Uniti è di otto miliardi di dollari". Scandalo! Proibiamo i cosmetici, e in breve cessa il problema della fame nel mondo. Ebbene no, non è così. E chi si affaccia al terzo millennio, con simili bubbole in testa fa un cattivo servizio agli affamati.
Gli Stati Uniti, campioni di sviluppo capitalistico, non hanno solo il primato nell'uso dei cosmetici. Hanno pure quest'altro (copio pari pari dalla letteratura corrente): "All'inizio del Novecento ogni agricoltore americano produceva cibo sufficiente per nutrire altre sette persone; oggi lo stesso agricoltore può sfamarne 96". Togliete lo sviluppo capitalistico, togliete i cosmetici, e scemate la disponibilità di grano americano esportabile in tutto il mondo. L' "economia dei cosmetici" fa del bene agli affamati. Il che forse è un paradosso, ma un importante paradosso, che lo sarebbe ancor più se l' "economia dei cosmetici" fosse più diffusa sulla Terra. Fosse più capita. Fosse meno osteggiata. Invece, nemmeno la catastrofe dell'economia opposta, quella sovietica, ha insegnato granché a coloro i quali non vogliono imparare dai fatti. O hanno una convenienza egoistica a fingere di non imparare.
La meravigliosa svolta tecnologica avvenuta nel campo delle telecomunicazioni non impedirà alle anime candide di essere menate per il naso, come si è sempre verificato. Anzi, saranno menate con moto accelerato. Anche questo si chiama "progresso", con licenza dei "verdi". Che sia un progresso "sostenibile" o no, lo ignoro. "Sostenibile" appartiene al gruppo delle parole tutta forma e niente sostanza. Bisognerebbe raccoglierle in un apposito, gigantesco dizionario, dove la voce PIL farebbe la parte del leone."

(Sergio Ricossa, I profeti di un mondo al contrario, "Il Sole 24 Ore" - supplemento duemila, 03 novembre 1999)

 

Cause del sottosviluppo

Perché il Terzo Mondo non ha imitato l’Europa del XIX secolo sulla strada della rivoluzione industriale? Le risposte vanno ricercate in un insieme di molte cause.

  • Incrementi demografici insostenibili. Una crescita demografica a ritmi attorno al 3% annuo divora tutti gli incrementi produttivi. Solo per mantenere il livello di vita occorre una notevole accumulazione di capitale.
  • Diminuzione dei prezzi delle materie prime. In particolare, il grosso calo dei prezzi avvenuto tra il 1979 e il 1982 ha innescato la spirale del debito estero che ancora oggi grava su molti paesi poveri. Le materie prime sono spesso la risorsa su cui molti paesi basano le loro speranze di sviluppo.
  • Militarizzazione delle relazioni internazionali. Già il rapporto Brandt mostrava come le questioni della pace e dello sviluppo siano intrecciate. Molti paesi del Terzo Mondo dilapidano nelle spese militari buona parte dei loro bilanci.
  • Necessità di risorse umane e finanziarie. La tecnica moderna è enormemente più complessa di quella che veniva impiegata durante la rivoluzione industriale. La nuova tecnica è strettamente collegata con la scienza e necessita di tecnici e quadri qualificati per essere utilizzata. Complessità della tecnica significa anche costo delle tecnologie e dei macchinari, e quindi notevole entità degli investimenti per realizzare l’industrializzazione. La strada per lo sviluppo dovrebbe cercare tecnologie più appropriate all’ambiente naturale, culturale e sociale, che ad esempio assorbano molta forza lavoro e abbiano una bassa intensità energetica.
  • Apertura dei mercati. Nel Terzo Mondo la creazione di industrie locali deve combattere contro la concorrenza dei prodotti importati. Se in un ottica generale la liberalizzazione dei commerci crea sviluppo economico, nello specifico essa conviene ai paesi che hanno sistemi economici forti e consolidati e danneggia le industrie giovani che rischiano di essere stritolate dalla concorrenza di competitori molto più attrezzati.
  • Arretratezza dell’agricoltura. La causa principale determinante il blocco dello sviluppo è stata la mancata modernizzazione agricola: "la condizione necessaria al verificarsi di una rivoluzione industriale è una preesistente, o quanto meno contemporanea, rivoluzione agricola" (W.A. Lewis) Secondo Guelfi per creare sviluppo occorrerebbe la messa a coltura di nuovi terreni; l’impianto di colture adatte al terreno e alle abitudini alimentari; un aumento dei rendimenti della terra e dell’allevamento grazie a nuovi sementi, concimi, fecondazione artificiale del bestiame, biotecnologie e altro.
  • Diminuzione del costo dei trasporti. Esso subisce un vero e proprio crollo, riducendosi a un decimo per i trasporti marittimi e a un ventesimo per quelli terrestri. Le conseguenze sono la scomparsa di una barriera protettiva per le industrie nascenti, l’incentivazione alla specializzazione della produzione agricola; l’incentivazione della possibilità di uno sfruttamento minerario senza creare un’industria di trasformazione.
  • Corruzione delle élites locali. Gli alti livelli di corruzione presenti in molti paesi del Terzo Mondo sono dovuti molte volte all’insufficienza dei salari dei burocrati ma anche allo scarso senso di lealtà verso stati che non sono molto radicati nel sentire comune. Questo stato di cose rende meno convenienti gli investimenti e più complessa l’azione degli operatori esteri. Secondo uno studio della Banca Mondiale un alto livello di corruzione può abbassare il tasso di crescita di un paese dallo 0,5 all'1% e ridurre gli investimenti stranieri almeno del 5%.
  • Fattori culturali e religiosi. Dai tempi degli studi di Max Weber sul rapporto tra etica protestante e sviluppo del capitalismo, sociologi e storici dell'economia cercano i nessi tra la visione del mondo di un popolo e il suo sviluppo economico. I valori confuciani (lavoro, ricerca del benessere mondano, armonia sociale) sembrano ad esempio più propizi allo sviluppo della fede islamica, che comporta spesso diffidenza verso le tecnologie occidentali, rifiuto di un controllo delle nascite.

(Paul Bairoch, Lo sviluppo bloccato. L’economia del Terzo Mondo tra il XIX e il XX secolo, Einaudi, 1976.
Carlo Guelfi, Il dialogo Nord-Sud e i suoi problemi, in Nuove questioni di storia contemporanea, Marzorati, 1993, vol. III, pp. 137-183.
Giuseppe Muti, La corruzione, "Omicron", maggio 2000)

 

La sovrappopolazione

"Non si può passare inosservati per il mondo, quanto meno si sarà inclusi in una statistica" (Elias Canetti)
Il mondo dell’integrazione crescente nel quale siamo destinati a vivere è anche un mondo sovrappopolato. Uno sguardo retrospettivo alla situazione demografica dell’umanità non è confortante. Nel 1650 la popolazione del mondo era di circa 540 milioni di abitanti. Il primo miliardo è stato toccato due secoli fa. Il secondo dopo la prima mondiale. Il terzo all’inizio degli anni Sessanta. Il quarto, il quinto e il sesto miliardo di popolazione si sono succeduti secondo una cadenza sempre più rapida: nel 1973, nel 1987 e nel 1998. Negli ultimi venti anni la popolazione mondiale è aumentata del 60%.
Le tendenze demografiche ci dicono che questa crescita proseguirà, sia pure in modo asimmetrico: il settimo miliardo dovrebbe essere raggiunto prima del 2010 e l’ottavo dopo il 2020. I paesi industrializzati hanno un ritmo di aumento molto basso - appena l’1% all’anno – e comprendono poco più di 700 milioni di uomini. Se si tiene conto che vi sono oltre 3 miliardi di persone in paesi poveri nei quali la popolazione cresce a un ritmo superiore al 3%, non può meravigliare che la popolazione della Terra negli ultimi anni stia crescendo più rapidamente del previsto.
In un mondo sovrappopolato si sta stretti. Prende corpo il timore che non vi sia pane per tutti. Scattano meccanismi offensivi, di aggressività gratuita, e nello stesso tempo si notano atteggiamenti negativi di difesa negli individui e nei gruppi sociali che ostacolano i processi di assimilazione e di integrazione.
Alcuni autori – come Livi Bacci - chiedono però di evitare una visione idraulica dei fenomeni demografici, per cui la popolazione in eccesso si sposterebbe da un luogo all’altro un po’ come l’acqua in un sistema di vasi comunicanti. Occorre un approccio sistemico ai processi di immigrazione che consideri tutta la varietà delle cause che mettono in moto i migranti. In fondo, solo una minoranza tra gli abitanti dei paesi sovrappopolati sceglie di emigrare.
(Massimo Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino, 1998, p. 253. Franco Ferrarotti, Oltre il razzismo, Armando, 1992, pp. 30-32)

 

Tendenze demografiche nel mondo

Tendenze attuali
L’evoluzione della popolazione del mondo si attua secondo due curve molto diverse.
a) Alla fine del XX secolo gran parte del mondo sviluppato si trova nella fase della cosiddetta seconda transizione demografica, attorno al livello di crescita zero della popolazione.

  • I livelli di fecondità sono bassi (legati al tasso di mortalità), ben al di sotto di quel numero di 2,1 figli per donna che assicura l’equilibrio della popolazione;
  • la speranza di vita (connessa al tasso di natalità), è alta e tende ad aumentare ancora;
  • vi è una nuova popolazione che affluisce tramite l’immigrazione.

La combinazione di questi tre fenomeni porta a:

  • una sostanziale stabilità della popolazione, con una tendenza alla diminuzione nel medio e lungo periodo (l’ONU prevede che la popolazione europea scenderà di 600.000 unità tra il 2010 e il 2020);
  • un aumento in valore assoluto e relativo del numero degli anziani.

b) Il Terzo mondo sta percorrendo una traiettoria molto diversa. I tassi di crescita della popolazione, in precedenza bassi, sono aumentati man mano che

  • la mortalità (soprattutto quella nel primo anno di vita) si è ridotta per l’introduzione delle moderne tecniche della medicina e il miglioramento dell’igiene pubblica;
  • i tassi di natalità non sono contemporaneamente diminuiti.

In India, ad esempio, le nascite e le morti ammontavano nel 1941 entrambe al 4,5%. 50 anni dopo il tasso di natalità è sceso al 2,9% mentre il tasso di mortalità è crollato allo 0,9%. Ne consegue perciò un tasso di crescita della popolazione del 2% annuo. Ecco perché quel paese è destinato probabilmente a divenire il più popoloso del mondo.
Questo è particolarmente evidente nei paesi a sviluppo minimo, i quali presentano un valore di fecondità elevatissimo (oltre i 6 figli per donna) (vedi Indicatori demografici per continente). Ciò determina una impetuosa crescita della popolazione, incompatibile con qualsiasi ipotesi di sviluppo economico e di tutela ambientale. Paradossalmente si può dire che l’applicazione accelerata della medicina occidentale in società a risorse alimentari stabili ha avuto conseguenze negative per lo sviluppo di quei paesi.
Previsioni a 25 anni
I dati sulla popolazione a qualche lustro possono essere previsti con una certa precisione. Ad esempio, nel 2020 la popolazione superiore ai 20 anni appartiene a generazioni nate entro il 2000, e quindi già note nel loro numero.
La crescita della popolazione presenta una certa forza d’inerzia. Se anche una popolazione passa da una fecondità elevata a una fecondità di rimpiazzo (quella necessaria a compensare le morti), essa continuerà a crescere per un certo periodo, in quanto nei decenni successivi entreranno in età riproduttiva i molti nati recenti che - anche se procreeranno pochi figli a testa, produrranno comunque un incremento in valore assoluto rilevante.
Le previsioni ONU qui riportate ipotizzino che

  • la fecondità dei paesi meno sviluppati declini da 3,83 figli per donna (1985-90) a 2,45 (2020-25);
  • la speranza di vita cresca nello stesso periodo da 60,5 a 71,3 anni;
  • nei paesi più sviluppati vi sia una leggera ripresa della fecondità, con un passaggio da 1,83 a 1,93 figli per donna;
  • nei paesi più sviluppati vi sia un aumento della speranza di vita da 74 a 78,6 anni.

La popolazione mondiale, che ha raggiunto nel 1998 i 6 miliardi, dovrebbe oltrepassare i 7 miliardi nel 2010 e gli 8 nel 2022. Tale incremento sarà dovuto per il 97% ai paesi meno sviluppati, ossia in quelli meno attrezzati per nutrire, alloggiare, educare, occupare e curare questa nuova popolazione. Vi saranno 2 miliardi di cittadini in più in paesi il cui reddito giornaliero è al di sotto di 2 dollari. (vedi Popolazione: andamento per aree e continenti)
La ripartizione della popolazione mondiale sta dunque cambiando velocemente. Nei 75 anni dal 1950 al 2025 il peso dei paesi più sviluppati sulla popolazione mondiale sta scendendo dal 33,1% al 14,9%; se consideriamo l’andamento per aree e continenti, l’Europa dal 21,8% all’8,7% - mentre l’Africa accresce il suo peso dall’8,9% al 18,0%.
Parallelamente, muta la Hit Parade dei paesi più popolosi. Nazioni europee come la Francia, il Regno Unito e l’Italia, che si collocavano attorno al 10° posto nel 1950, spariscono dalla classifica dei primi 20. Cresce invece il peso demografico delle nazioni asiatiche: non solo dei giganti India e Cina, ma anche di paesi come il Pakistan, l’Indonesia, il Bangladesh, l’Iran, il Vietnam.
È difficile prevedere che cosa accadrà in seguito: si entra nel campo della concorrenza tra modelli teorici. Non è detto che la popolazione mondiale raggiunga un equilibrio tra nascite e morti, né sappiamo quando questo esattamente accadrà. Tuttavia si può dire che esistono le premesse perché la popolazione mondiale arrivi a 10-11 miliardi di abitanti alla fine del XXI secolo.
(Massimo Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino, 1998, pp. 253-262. Lester Thurow, Il futuro del capitalismo, Mondadori, 1996, p. 96.
Paul Bairoch, Lo sviluppo bloccato. L’economia del Terzo Mondo tra il XIX e il XX secolo, Einaudi, 1976, pp. 235 e ssg.

Corrado Bonifazi, L’immigrazione straniera in Italia, Il Mulino, 1998, pp. 34-40)

 

Ricchi e poveri: ripartizione della popolazione mondiale

 

 

anno

popolazione

incremento annuo

ripartizione%

 

ricchi

poveri

mondo

ricchi

poveri

mondo

ricchi

poveri

mondo

 

1900

563

1071

1634

 

 

 

52,57

65,54

100

 

1920

654

1203

1857

0,76

0,58

0,64

54,36

64,78

100

 

1930

727

1309

2036

1,06

0,84

0,92

55,54

64,29

100

 

1940

794

1473

2267

0,88

1,18

1,07

53,90

64,98

100

 

1950

809

1711

2520

0,19

1,5

1,06

47,28

67,90

100

 

1960

911

2110

3021

1,19

2,1

1,81

43,18

69,84

100

 

1970

1003

2695

3698

0,96

2,46

2,02

37,22

72,88

100

 

1980

1080

3364

4444

0,74

2,22

1,84

32,10

75,70

100

 

1990

1143

4141

5284

0,67

2,08

1,73

27,60

78,37

100

 

2000

1186

4972

6158

0,37

1,83

1,53

23,85

80,74

100

 

Valutazioni Nazioni Unite (1920-2000) e Livi Bacci (1900), in Massimo Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino, 1998, p. 188.

 

Popolazione: andamento per aree e continenti

 

Area

1950

1975

2000

2025

 

 

 

ammontare in milioni

Mondo

2520

4077

6158

8294

 

Paesi sviluppati

809

1044

1186

1238

 

Paesi meno sviluppati

1711

3033

4972

7056

 

 

 

 

 

 

 

Africa

224

414

832

1496

 

America del Nord

166

239

306

370

 

America Latina

166

320

524

710

 

Asia

1403

2406

3736

4960

 

Europa

549

676

730

718

 

Oceania

13

21

31

41

 

 

 

distribuzione percentuale

Mondo

100

100

100

100

 

Paesi sviluppati

32,10

25,61

19,26

14,93

 

Paesi meno sviluppati

67,90

74,39

80,74

85,07

 

 

 

 

 

 

 

Africa

8,89

10,15

13,51

18,04

 

America del Nord

6,59

5,86

4,97

4,46

 

America Latina

6,59

7,85

8,51

8,56

 

Asia

55,67

59,01

60,67

59,80

 

Europa

21,79

16,58

11,85

8,66

 

Oceania

0,52

0,52

0,50

0,49

 

 

 

incremento medio annuo percentuale

Mondo

 

1,9

1,6

1,2

 

Paesi sviluppati

 

1,0

0,5

0,2

 

Paesi meno sviluppati

 

2,3

2,0

1,4

 

 

 

 

 

 

 

Africa

 

2,5

2,8

2,1

 

America del Nord

 

1,5

1,0

0,8

 

America Latina

 

2,6

2,0

1,2

 

Asia

 

2,2

1,8

1,0

 

Europa

 

0,8

0,3

-0,1

 

Oceania

 

2,1

1,6

1,1

 

(Nazioni Unite, in Massimo Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino, 1998, p. 258)

 

I 20 paesi più popolosi del mondo

 

 

1950

2025

ordine

paese

popolazione

paese

popolazione

 

1

Cina

555

Cina

1526

 

2

India

358

India

1392

 

3

Stati Uniti

152

Stati Uniti

331

 

4

Russia

103

Pakistan

285

 

5

Giappone

84

Indonesia

276

 

6

Indonesia

80

Nigeria

238

 

7

Germania

68

Brasile

230

 

8

Brasile

53

Bangladesh

196

 

9

Regno Unito

51

Russia

139

 

10

Italia

47

Messico

137

 

11

Francia

42

Etiopia

127

 

12

Bangladesh

42

Iran

124

 

13

Pakistan

40

Giappone

122

 

14

Ucraina

37

Vietnam

118

 

15

Nigeria

33

Zaire

105

 

16

Vietnam

30

Filippine

105

 

17

Messico

28

Egitto

97

 

18

Spagna

28

Turchia

91

 

19

Polonia

25

Germania

76

 

20

Egitto

22

Myanmar

76

 

(Nazioni Unite, World Population Prospect: The 1994 Revision)

 

Indicatori demografici per continente

(1960-90)


 

Aree geografiche

Tasso di fecondità totale (numero medio figli per donna)

Speranza di vita alla nascita

Mortalità infantile (decessi nel primo anno di vita per mille nati)

 

 

1960-65

1985-90

1960-65

1985-90

1960-65

1985-90

Africa

6,75

6,08

42,0

51,7

162

101

 

Asia

5,58

3,40

48,4

62,5

131

73

 

Europa

2,56

1,83

69,7

73,0

37

15

 

Arnerica latina

5,96

3,40

56,9

66,9

100

51

 

Nord America

3,34

1,89

70,1

75,2

25

10

 

Oceania

3,95

2,55

64,6

71,2

56

29

 

PSA

2,67

1,83

69,8

74,0

33

13

 

PVS

5,97

3,83

47,7

60,5

135

77

 

PSM

6,58

6,03

39,8

49,6

167

120

 

Totale

4,93

3,38

52,3

63,0

118

70

 

(Nazioni Unite 1995, da Corrado Bonifazi, L’immigrazione straniera in Italia, Il Mulino, 1998, p. 35)
Nota:
PSA = Paesi a sviluppo avanzato
PVS = Paesi in via di sviluppo
PSM = Paesi a sviluppo minimo

 

L’impatto della crescita demografica

Vanificazione della crescita del PIL
In una situazione di forte aumento demografico la crescita economica serve semplicemente a mantenere i livelli di vita della popolazione. Un paese in cui sia il PIL sia la popolazione aumentassero del 2% annuo vedrebbe restare invariato il reddito medio della popolazione.
"Con un aumento demografico che si aggira mediamente intorno al 3% nel Medio Oriente e in Africa, e al 2% nell’Asia meridionale e in America Latina, queste regioni possono anche registrare una crescita economica notevole senza alcun progresso in termini di reddito pro capite. Si può comparare questo dato a quello dell’Europa occidentale nel XIX secolo: durante la rivoluzione industriale la popolazione è cresciuta a un tasso medio dello 0,6% annuo. Secondo Thurow ogni paese che è entrato a far parte del mondo sviluppato ha avuto per almeno un secolo un aumento della popolazione non superiore all’1% annuo: "chi nasce in un paese povero in rapida crescita morirà in un paese povero". (Lester Thurow, Il futuro del capitalismo, Mondadori, 1996, pp. 98-99)
A meno che non emigri.
Bambini da far crescere
Non si può nemmeno sostenere che una maggiore popolazione equivalga a più lavoro e quindi a una maggiore produzione di ricchezza. La crescita demografica non porta a un aumento proporzionale della popolazione attiva: cresce anzitutto l’incidenza del numero dei bambini sul totale della popolazione (in certi paesi i minori di 10 anni costituiscono un terzo della popolazione).
È ovvio che i giovani non ancora usciti dall’età scolare rappresentano economicamente un costo per il mantenimento e l’istruzione (quando questa opportunità viene loro concessa).
Diminuzione della produttività agricola
Inoltre la crescita demografica porta a un aumento della forza lavoro agricola in presenza di una sostanziale stabilità delle superfici arabili. Questo spiega perché l’aumento della popolazione si accompagni spesso a una diminuzione della produttività agricola.
Teoricamente all’aumento della popolazione si potrebbe far fronte mettendo a coltura nuove terre. Irrigando le campagne si potrebbe produrre cibo anche in aree che attualmente non ne forniscono. Già ora le agricolture della gran parte dei paesi più poveri soffrono di una scarsità d’acqua.
È vero, si potrebbero realizzare impianti di desalinizzazione dell’acqua degli oceani e di irrigazione. Ma il costo di queste opere pubbliche le mette alla portata solo di paesi molto ricchi, come quelli che si affacciano sul Golfo Persico.
L'altra alternativa è fare un massiccio ricorso alle biotecnologie per aumentare la produzione agricola,
Degrado ambientale
L’aumento del numero della popolazione porta a un degrado della qualità dell’ambiente. Aria, suolo coltivabile, acqua, minerali sono risorse fisse o solo in parte sostituibili. Vi è perciò una precisa correlazione tra incremento demografico e deterioramento dell’ambiente.
L’impatto ambientale per il consumo delle materie prime è molto più forte per gli abitanti dei paesi sviluppati. Il rapporto è di 20:1 per il consumo di alluminio, 17:1 per il rame, 10:1 per il ferro, 9:1 per i combustibili fossili, 3:1 per il legname. Nei primi 6 anni di vita un bambino americano consuma 700 tonnellate di minerali, l’equivalente di 4000 barili di petrolio in energia, 25 tonnellate di alimenti vegetali e 28 tonnellate di prodotti animali. Produce inoltre in media 1.000 tonnellate di rifiuti atmosferici, 10.000 tonnellate di rifiuti liquidi e 1.000 tonnellate di rifiuti solidi.
(Paul Bairoch, Lo sviluppo bloccato. L’economia del Terzo Mondo tra il XIX e il XX secolo, Einaudi, 1976, pp. 235 e ssg.
Lester Thurow, Il futuro del capitalismo, Mondadori, 1996.
Massimo Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino, 1998, pp. 253-255, 270-272)

 

Il debito estero

I debiti esteri possono essere distinti in quattro tipi:

  • provenienti dall’aiuto ufficiale allo sviluppo. Vengono erogati dagli stati ricchi. Hanno tempi di restituzione molto lunghi e interessi molto bassi. Costituiscono il 47% dei debiti a lungo termine;
  • crediti alle esportazioni. Corrispondono sostanzialmente a mancati pagamenti di importazioni da parte dei paesi debitori;
  • commerciali, contratti con banche private: comprendono più dell’80% dei debiti a breve termine;
  • multilaterali. Vengono contratti con istituzioni finanziarie mondiali, come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, le Banche regionali di sviluppo. Una volta diminuiti i crediti concessi dalle banche private, il loro peso è andato crescendo.

Il problema del debito estero è salito alla ribalta della politica internazionale negli ultimi 25 anni. Il boom dei prezzi petroliferi voluto dall’OPEC nel 1973 ha ampliato enormemente le riserve internazionali di liquidità. I paesi produttori hanno depositato i petrodollari nelle banche occidentali.
Per impiegare questo denaro, le banche hanno concesso prestiti ai paesi in via di sviluppo con una eccessiva disinvoltura. I crediti sarebbero dovuti servire a finanziare politiche di sviluppo: si sperava che la loro restituzione sarebbe stata finanziata con i proventi della vendita di materie prime.
Purtroppo però negli stessi anni i paesi sviluppati mettono in atto politiche di risparmio nell’utilizzo dell’energia e delle materie prime: così i calcoli ottimistici dei debitori saltano. Per giunta, questo indebitamento solo alcune volte serve per dar vita a investimenti produttivi: spesso finanziano l’arricchimento delle élites al potere o l’acquisto di armamenti.
Il problema del debito esplode nel 1982 quando il Messico annuncia la sospensione del pagamento dei suoi debiti internazionali. Altri paesi seguono questo "cattivo" esempio. Si crea una situazione di emergenza per il sistema creditizio internazionale e comincia una frenetica ricerca di soluzioni. La prima strategia è quello di prestare denaro fresco ai debitori, perché con i nuovi prestiti possano estinguere quelli precedenti.
I nuovi crediti sono concessi a tassi più alti e vengono vincolati all’accettazione di Piani di Aggiustamento Strutturale preparati dal Fondo Monetario Internazionale. Questi costringevano i paesi in via di sviluppo a diminuire drasticamente le spese pubbliche e private. Tra gli altri, il presidente argentino Alfonsin dichiara: "Vogliono che paghiamo i debiti con la fame degli argentini". Le popolazioni dei paesi poveri che quasi mai hanno beneficiato dei crediti concessi vengono chiamate a "tirare la cinghia" per restituirli. Successive strategie prevedono trattative per ridurre l’ammontare del debito e per addolcire le condizioni di pagamento.
In questi anni il debito ha continuato ad aumentare, passando da 1,152 trilioni di dollari nel 1985 a 1,985 nel 1996. Nel 2001 i 41 paesi più poveri del mondo avevano un debito estero per complessivi 200 miliardi di dollari. In Italia i crediti verso il Sud del mondo superavano nel 1999 i 33.000 miliardi di lire (17 miliardi di euro).
Il Papa ha chiesto ai paesi sviluppati di condonare il debito estero in occasione del grande Giubileo del 2000. Alcuni paesi hanno risposto a questo appello annunciando o realizzando azioni di condono dei crediti che competono loro, ossia quelli dei primi due tipi. L’Italia ha già condonato 1000 miliardi di crediti e ha dichiarato (aprile 1999) di volerne cancellare altri 2800.
Un’alternativa al condono oggi molto discussa è la conversione del debito. In pratica il creditore rinuncerebbe alla restituzione del denaro. Ma in cambio il paese beneficiato sarebbe tenuto a investire l’importo relativo in infrastrutture, spese sociali, educative, sanitarie. Altrimenti si rischia che le oligarchie politiche ed economiche si assumano i benefici del debito condonato senza che vi sia alcuna ricaduta sullo sviluppo dei paesi.
La Banca Mondiale ha lanciato qualche anno fa la Heavily Indebted Poor Countries Initiative (HIPC), un programma per la riduzione del debito estero dei paesi più poveri del mondo. Nel 2001 23 paesi avevano beneficiato di un azzeramento dei debiti per 34 miliardi di dollari. L'azzeramento del debito è concesso solo a quei paesi che hanno una situazione politica stabile e che dimostrano di saper formulare progetti efficaci per la riduzione della povertà.
(Javier Gorosquieta, Il debito estero oggi, "La Civiltà Cattolica", n. 3575, 05 giugno 1999.
World Bank - Annual report 2001)

 

L’Islam e il sottosviluppo

La forza demografica dei musulmani è in rapido aumento. Nel 1997 essi erano 1.147 milioni e costituivano il 19,6% degli abitanti del mondo. L'area coperta dai paesi islamici è vastissima, e va dal Senegal all'Indonesia, dalle repubbliche musulmane ex sovietiche alla Tanzania. A questo peso demografico non corrisponde un eguale peso economico. Oggi i musulmani si trovano coinvolti dall’Atlantico al Pacifico, dall’Asia Centrale all’Africa Centrale, nei problemi connessi al sottosviluppo. Perché i paesi musulmani tengono una posizione di retroguardia tra le nazioni moderne per quanto riguarda l'industria e la tecnica? Eppure da più di mezzo secolo molti di essi hanno governi politicamente autonomi e dispongono di ricchezze naturali talora cospicue. Ad esempio, 10 su 13 dei paesi petroliferi membri dell'OPEC hanno popolazione a prevalenza musulmana. I paesi musulmani si trovano ideologicamente lontani dagli ideali dell’Europa occidentale; in questi paesi lo stato moderno precede spesso la nazione e si struttura secondo modelli politici ed amministrativi in gran parte occidentali. La costruzione nazionale è talvolta difficile e richiede una legittimità che il governo trova soltanto nell’ideale islamico della legge religiosa e della sua "società perfetta". I problemi che rallentano lo sviluppo di questi paesi sono:

  • La "demografia galoppante". Quasi tutti i paesi hanno raddoppiato la popolazione negli ultimi venticinque anni e la parte maggiore della popolazione è costituita da teen ager.
  • Questo provoca un'offerta di forza lavoro eccedente rispetto alle possibilità che il sistema economico offre.
  • La difficile e costosa scolarizzazione generalizzata che si rivela dappertutto incapace di garantire il successo scolastico e il desiderato accesso al lavoro.
  • L'urbanizzazione accelerata dalle masse rurali genera delle concentrazioni umane disordinate, nelle quali le tradizionali solidarietà non sono sostituite da nuove strutture di socializzazione.

Vi sono però anche delle cause socio-culturali.

  • Una lettura rigida del Corano, che dà un rilievo assoluto all'onnipotenza di Dio non lascia spazio all'autonomia responsabile dell'uomo ("Ogni uomo legalmente responsabile deve credere che tutti i suoi atti e tutte le sue parole, tutti i suoi movimenti, buoni e cattivi, si realizzano per volontà, decreto e conoscenza dell'Altissimo. Ma il bene si realizza con il Suo consenso e il male senza il Suo consenso").
  • La coscienza che l'Islam è il punto finale della storia e la credenza nell'autosufficienza dei musulmani crea sospetto verso tutto ciò che non è islamico, dalle tecnologie ai sistemi economici:
  • Le norme giuridiche tradizionali del Corano mal si conciliano con le esigenze dell'economia moderna: il divieto dell'usura rende problematico il ruolo delle banche, le regole coraniche sulla successione provocano uno spezzettamento dei beni ereditati.

(Maurice Borrmans, L'Islam e lo sviluppo, "Dimensioni dello sviluppo", n. 1, 1990, pp. 99-113)

  • la democratizzazione. In un paese democratico i governi devono rendere conto agli elettori del modo in cui hanno gestito le risorse pubbliche. L'opinione pubblica vigila sugli episodi di spreco e di corruzione compiuti dalle autorità di governo;
  • le politiche per l'istruzione. I paesi che si sono sviluppati negli ultimi anni combinavano un basso costo del lavoro e una buona qualificazione della manodopera. Inoltre, cultura significa anche senso dei diritti e dei doveri individuali e quindi esistenza di una solida società civile.

(Innocenzo Cipolletta, Una nuova sfida per i paesi poveri, "Il Sole 24 Ore" - supplemento duemila, 03 novembre 1999)

 

Soluzione non profit

La soluzione almeno ad alcuni dei problemi del Terzo Mondo potrebbe venire dalle organizzazioni non profit del Nord del pianeta, oltre che dalle istituzioni internazionali.
"Solo aiutando la formazione di solide e stabili organizzazioni senza finalità di lucro, capaci di riprodurre anche nei paesi meno fortunati una rete civile di relazioni al servizio dei nuovi bisogni delle persone, si potrà evitare il collasso del Sud del mondo. [...] Trasferendo conoscenze, esperienze e risorse nel cosiddetto Terzo mondo, le organizzazioni non profit dei paesi ricchi potranno aiutare e indirizzare la formazione di un'analoga rete di relazioni sociali anche in quei paesi. Una vera e propria società civile, analoga a quella dei paesi ricchi, si potrà così formare nel Sud del mondo.
In questo modo, la minor disponibilità di risorse finanziarie non si tradurrà in un vero e proprio collasso sociale. Organizzazioni del privato sociale e imprese specializzate nell'offrire servizi a pagamento alle persone, in particolare servizi turistici, produrranno ricchezza e servizi per il tessuto sociale del Sud del pianeta."
Sarà importante anche far sì che le reti dell'informazione possano essere consultate e utilizzate anche dai cittadini del Kenya o del Guatemala affinché pure nel Sud del mondo ci siano dei cittadini a pieno titolo.
(Augusto Fantozzi - Edoardo Narduzzi, Il mercato globale, Mondadori, 1997, pp. 102-103)

 

Organizzazioni non governative (ONG)

Non è facile dare una definizione precisa delle organizzazioni non governative (ONG). In generale, si tratta di organismi, di varia dimensione, caratterizzati da certi fattori comuni:

  • il fine solidaristico non lucrativo, in quanto ogni profitto derivante da programmi redditizi viene investito nei programmi di sviluppo, nell’aiuto umanitario e nell’educazione allo sviluppo. Non sono dunque ONG i soggetti impegnati in attività industriali e commerciali a fini di lucro;
  • l’assenza di vincoli istituzionali rispetto ai governi nazionali e alle loro politiche, o alle istituzioni internazionali;
  • le finalità di promozione della giustizia sociale, dell’equità, nonché della tutela e della promozione dei diritti umani;
  • l'approccio partecipativo, cioè il coinvolgimento dei beneficiari nei processi di aiuto;
  • la diversificazione delle fonti di finanziamento, anche a garanzia della propria indipendenza.
  • L’impegno delle ONG a favore dei paesi in via di sviluppo può consistere in:
  • aiuto finanziario, tecnico e materiale alla formazione ed al trasferimento di know-how tecnologico e d’impresa;
  • aiuto d’emergenza (sanitario, alimentare, ecc.);
  • attività di educazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica nei paesi industrializzati circa le problematiche del sottosviluppo.

Storicamente le Ong hanno origine, in genere fra gli anni ’60 e ’70 in quasi tutti i paesi sviluppati, con le grandi campagne contro la fame e la diseguaglianza sociale. I fondamenti di riferimento sono spesso nel pensiero cattolico, ma anche in quello di derivazione marxista e socialista e in alcune correnti liberali e libertarie.
Inizialmente i governi non hanno valorizzato il contributo delle ONG nella lotta al sottosviluppo. Solo in seguito sono state stabilite iniziative di collaborazione.
Una tra le più famose ONG italiane è Mani Tese.
http://avsi.org/
(Associazione delle ONGs Italiane
Elenco delle ONG italiane)

 

Mani Tese

Mani Tese è un organismo non governativo di cooperazione allo sviluppo che opera dal 1964 a livello nazionale ed internazionale per favorire l'instaurazione di nuovi rapporti fra i popoli, fondati sulla giustizia, la solidarietà, il rispetto delle diverse identità culturali.
Nel Sud del Mondo Mani Tese realizza progetti di solidarietà. Il cammino di liberazione dei popoli dal sottosviluppo passa attraverso la presa di coscienza e la valorizzazione delle risorse locali. Perciò le "microrealizzazioni" di Mani Tese sono volte a favorire l'autosufficienza economica dei settori più poveri delle popolazioni coinvolte e a porre le premesse di uno sviluppo duraturo.
Priorità viene data ai progetti elaborati e cogestiti da cooperative locali che prevedano l'uso di tecnologie appropriate. Dal 1964 al 2001, Mani Tese ha realizzato 1458 progetti, di cui 373 in America Latina, 590 in Africa e 495 in Asia, privilegiando i seguenti settori:
produzione in campo agricolo, per il raggiungimento dell'autosuffcienza alimentare; educazione sanitaria, alfabetizzazione degli adulti, addestramento professionale, sostegno a cooperative contadine ed artigiane, formazione e organizzazione comunitaria;
salvaguardia del patrimonio culturale e naturale, realizzazione di infrastrutture tese a favorire la soluzione di problemi alimentari, igienici, di commercio e approvvigionamento di generi di prima necessità.
Nel Nord del Mondo Mani Tese svolge un'opera di informazione, di educazione allo sviluppo e di pressione politica, attraverso gruppi locali diffusi sul territorio e l'organizzazione di Campi di Studio e di Lavoro e seminarie.
All'interno dell'associazione il CRES (Centro Ricerca Educazione allo Sviluppo), costituito da esperti e da insegnanti, cura l'attività di educazione allo sviluppo e di diffusione della cultura della mondialità nella scuola.
L'informazione è realizzata attraverso la pubblicazione del mensile Mani Tese,del bollettino di informazione per un consumo consapevole Boycott, del periodico Strumenti del CRES e di svariate altre pubblicazioni monografiche e strumenti didattici.
(Mani Tese)

 

Grameen Bank

La Grameen Bank nasce nel 1976. Si tratta della prima e più grande banca etica esistente al mondo, nata con il compito di prestare soldi solo a chi non ha mezzi di sussistenza. I crediti servono a finanziare piccoli investimenti tesi a migliorare la situazione socioeconomica delle famiglie.
L’istituto di credito ha circa 2.000 miliardi di raccolta - di cui ben 1.500 impiegati in prestiti. Oggi è la quarta banca del Bangladesh, ha quattordicimila dipendenti. più di 2 milioni di clienti e lavora in 35.000 villaggi di tutto il paese. Finora ha accordato finanziamenti per un totale di 3.500 miliardi di dollari.
La Grameen Bank (in bengalese significa banca rurale) è un’idea di Muhammad Yunus, un musulmano del Bangladesh di famiglia benestante che dopo gli studi in economia negli Stati Uniti ritorna al suo paese nel 1972 per assumere l’incarico di direttore del Dipartimento di Economia dell’Università di Chittagong.
Il Bangladesh, indipendente dal 1971, è classificato tra i paesi del Quarto mondo. Ha 120 milioni di abitanti su una superficie che è la metà di quella italiana. Il 90% della popolazione è analfabeta e circa il 40% vive in condizioni di estrema povertà.
L’esperienza decisiva della vita di Yunus è la tremenda carestia del 1974. "Mentre la gente moriva di fame per strada, io insegnavo eleganti teorie economiche. Cominciai ad odiarmi per la mia arrogante pretesa di avere una risposta. Noi professori universitari eravamo tutti molto intelligenti ma non sapevamo assolutamente nulla della povertà che ci circondava. Decisi che proprio i poveri sarebbero stati i miei insegnanti. Cominciai a studiarli e a domandargli delle loro vite".
Analizzando i meccanismi che generano e perpetuano la povertà delle zone rurali, Yunus si rende conto che la povertà non era dovuta a pigrizia o a scarsa intelligenza ma alla mancanza di capitale e all’impossibilità di risparmiare una somma da investire. In tal modo ogni iniziativa, ogni volontà di riscatto, ogni progettualità veniva spenta sul nascere. A meno di chiedere soldi agli strozzini. Occorreva portare il credito anche a quelle persone che per la loro povertà non avevano accesso alle banche perché non potevano offrire garanzie.
Dapprima l’economista cerca di convincere gli istituti di credito tradizionali ad aprire i loro sportelli ai poveri, ma si trova di fronte a un muro di rifiuti. Le banche ritenevano che i poveri non avrebbero mai restituito i soldi. Dopo mesi di trattative ottiene un affidamento di 300 dollari, con i quali provvede ad effettuare i primi prestiti; con sua grande sorpresa non vi è nessun problema al rientro dei crediti, anche perché chiede versamenti settimanali di pochi centesimi. Dopo due anni di trattative convince il governo a lasciar aprire una banca per i poveri.
A differenza di una normale banca che è disposta a concedere prestiti solo a chi offre garanzia, la Grameen Bank presta denaro unicamente ai poveri. La banca pratica il microcredito, ossia presta piccole somme (anche di soli 25 euro) per sostenere i progetti di sviluppo e la sussistenza di migliaia di famiglie. I prestiti hanno un importo medio di appena 163 euro.
Il sistema delle garanzie è molto particolare: per ottenere un prestito non si richiedono garanzie patrimoniali, ma personali. Il credito viene erogato soltanto a gruppi, costituiti da un numero di persone che va da cinque a otto. Il denaro viene distribuito a rotazione, iniziando dal componente del gruppo più bisognoso; appena questo ha restituito il prestito si può passare al secondo, e così via. La responsabilità del gruppo è solidale, e questo ha finora garantito un tasso di sofferenze inferiore all'1%, molto più basso di quello registrato dagli altri istituti di credito del Bangladesh.
La banca rovescia un consolidato pregiudizio sessista: punta sulle donne e sulle loro capacità imprenditoriali, scelta non facile in un paese musulmano tradizionalista; oltre il 90% dei clienti appartiene al sesso femminile. Il cliente tipico in genere utilizza il prestito per acquistare un bene che possa rendere subito, come del cotone da filare, una macchina per tessere, animali da cortile, sementi, una mucca da mungere. Grazie ai crediti della Grameen Bank molte donne hanno costituito società collettive per acquistare mulini per la lavorazione del riso. Il prestito viene poi restituito in piccole rate settimanali fino a quando la donna diventa autosufficiente: con il denaro ricavato dalla vendita del latte o del tessuto ha pagato il suo debito, è diventata proprietaria di qualcosa e, se vuole, può richiedere un altro prestito.
La banca offre anche corsi di formazione permanente e di aggiornamento per tutti i clienti, e l’assistenza di un pool di consulenti che si adoperano affinché le iniziative imprenditoriali abbiano successo. Gli studi condotti dalla Banca Mondiale e da altri operatori mostrano che entro cinque anni circa metà dei 2 milioni di clienti della Grameen riesce a sollevarsi oltre la soglia di povertà.
L'esperienza della Grameen Bank viene guardata con interesse da molti osservatori internazionali. Muhammad Yunus ha ottenito numerosi e prestigiosi riconoscimenti internazionali, ma sicuramente il più notevole è che la Grameen è già stata imitata in ben 52 paesi da altre banche etiche, come la Sewa Bank indiana.
(Grameen Bank. http://www.bologna.fisac.cgil.it/temi/fnews97/4fn9702.htm.
http://www.coopfirenze.it/info53.dir/01.htm.
http://www.aprile.org/giornale/economia/BE_app01.html.
http://www.comune.cento.fe.it/arcoiris100/9612_banca.htm)

 

Commercio equo e solidale

I piccoli produttori del Sud del Mondo si confrontano sul mercato secondo una relazione di concorrenza imperfetta. Di fronte alle loro controparti, le multinazionali che controllano il commercio di un certo prodotto, essi, infatti, hanno un limitato potere di contrattazione. Il prezzo dei prodotti è sottoposto a dinamiche che i produttori non controllano: se durante gli anni ‘90 il prezzo del caffè si era mantenuto intorno ai 120-150 dollari a sacco (46 chilogrammi), nel 2001 il caffè era quotato a 56 dollari, a causa di un problema di sovrapproduzione.
Il Commercio Equo e Solidale (Fair Trade) nasce nel 1959 nei Paesi Bassi come tentativo di risposta ai problemi e alle ingiustizie generati dall’attuale sistema internazionale degli scambi. Negli anni Sessanta si diffonde nel Nord Europa e dagli anni Settanta è presente in Italia. Esso si propone di

  • creare rapporti commerciali paritari fra tutti i soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: produttori, lavoratori, importatori, Botteghe del Mondo e consumatori;
  • migliorare l'accesso al mercato e le condizioni di vita dei produttori svantaggiati attraverso una più equa distribuzione dei guadagni. Il prezzo di vendita deciso con le cooperative dei produttori deve coprire i costi di produzione, permettere ai lavoratori un livello di vita dignitoso e finanziare progetti di sviluppo decisi e gestiti dalle cooperative;
  • essere una forma di cooperazione allo sviluppo, favorendo i processi di autosviluppo e autogestione;
  • promuovere un uso sostenibile delle risorse ambientali, in molti casi sfruttate eccessivamente per ottenere la massima produzione;
  • informare il consumatore riguardo i produttori e i loro prodotti.

Come funziona
Una prima novità è costituita dal rapporto diretto che si instaura tra produttore e importatore. Comunemente, i beni vengono continuamente venduti e rivenduti tra grossisti e distributori anche attraverso le grandi borse merci (ad esempio, Londra e New York).
I produttori devono essere organizzati in associazioni, gruppi o cooperative, e tutti i membri devono partecipare al processo decisionale.
I produttori hanno il diritto di chiedere e di ricevere fino al 60% del valore del contratto già alla conclusione dello stesso, e comunque prima della spedizione della merce. Il prefinanziamento serve ad evitare l'indebitamento ed il ricorso agli usurai, che vanificherebbe i vantaggi del prezzo equo.
Il fine ultimo dell'azione del Commercio equo è nel porre i piccoli produttori in condizioni di riuscire a operare nel mercato tradizionale con un forte potere contrattuale, in modo da soddisfare i loro bisogni vitali. L'azione è quindi transitoria: quando il produttore raggiunge una propria forza competitiva, l'organizzazione si rivolgerà ad altri produttori in difficoltà.
Il canale tradizionale di commercializzazione è rappresentato da negozi specializzati chiamate Botteghe del Mondo.
Ma per garantire una maggior diffusione per i prodotti del Fair Trade, la soluzione può venire dall’inserimento di prodotti etici nei canali distributivi tradizionali. Ad esempio, qualche catena di supermercati (tra le quali Coop. Italia, Esselunga) offre i prodotti del commercio equo e solidale.
A tale scopo è necessaria la creazione di un marchio distintivo dei prodotti acquistati a condizioni eque, che renda visibili e distinguibili questi prodotti tra tutti quelli presenti sugli scaffali di negozi e supermercati. Il primo prodotto garantito dal marchio TransFair è stato il caffè, messo in commercio sul finire del 1995. Seguono il tè ed il miele, poi il cacao e la cioccolata, nel 2000 è stata la volta del succo d'arancia e delle banane.
La diffuzione del commercio equo
Il settore del commercio equo è ancora piccolo ma in rapido sviluppo. In Svizzera l’8% del caffè consumato è etico. In Italia si parla di un fatturato attorno ai 20 miliardi. Alla fine del 2000 vi erano in Europa

  • 100 importatori:
  • 3.000 Botteghe del mondo;
  • 1.250 occupati;
  • 100.000 volontari;
  • 45.000 supermarket coinvolti.

http://www.commercioalternativo.it/


http://www.commercioalternativo.it/Le organizzazioni di importatori presenti in Italia sono CTM Altromercato, che è la maggiore in termini di dimensioni aziendali e fatturato; segue Commercio Alternativo; sono presenti infine due piccoli importatori, Robe dell'Altro Mondo e Sir John Ltd.,
Operano nel territorio italiano circa 270 Botteghe del mondo. I punti vendita sono principalmente concentrati nel nord del paese
Gli altri punti di vendita sono negozi commerciali e catene di supermercati.
(Riccardo Orizio, Bimbi, palloni e bollicine, "Corriere della Sera", 11 maggio 1998.
Il commercio equo e solidale
Commercio Alternativo
CTM Altromercato)

 

Prodotti etici

I prodotti importati dal Terzo Mondo possono dirsi etici se i produttori locali vengono retribuiti a un prezzo giusto. Tali merci possono essere caffè, cioccolato, tè, zucchero, palloni cuciti a mano, e molti altri.
In genere la loro importazione avviene saltando intermediari e multinazionali: l’assenza di tali passaggi serve anche a contenere il costo dei prodotti per il cliente finale. Nei paesi occidentali i prodotti etici sono venduti nei negozi del commercio equo e solidale e in alcune catene della grande distribuzione sensibili al problema.
Il consumatore europeo sembra avere una crescente attenzione alla dimensione "etica" del prodotto, sia di interesse a trovare i prodotti del commercio equo e solidale all'interno dei supermercati e degli ipermercati, sia in termini di disponibilità a pagare un prezzo lievemente superiore per l'acquisto di questi prodotti.
I prodotti devono soddisfare le esigenze qualitative del mercato; questo soprattutto per stimolare l'uso di tecniche di coltura sempre migliori e l'investimento in formazione.
Vi sono associazioni come TransFair che hanno il compito di certificare l’eticità della produzione e di garantire quindi con il proprio marchio i consumatori.
(Riccardo Orizio, Bimbi, palloni e bollicine, "Corriere della Sera", 11 maggio 1998)

 

Bibliografia

Libri
Paul Bairoch, Lo sviluppo bloccato. L’economia del Terzo Mondo tra il XIX e il XX secolo, Einaudi, 1976.
Augusto Fantozzi - Edoardo Narduzzi, Il mercato globale, Mondadori, 1997.
Carlo Guelfi, Il dialogo Nord-Sud e i suoi problemi, in Nuove questioni di storia contemporanea, Marzorati, 1993, vol. III, pp. 137-183.
F.E. Ian Hamilton, Un'economia mondiale in continua trasformazione, in Robert Bennett - Robert Estall [a cura di], La sfida del cambiamento globale, Franco Angeli, 1996.
Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, 1995.
Articoli
Maurice Borrmans, L'Islam e lo sviluppo, "Dimensioni dello sviluppo", 01/90, pp. 99-113.
Innocenzo Cipolletta, Una nuova sfida per i paesi poveri, "Il Sole 24 Ore" - supplemento duemila, 3 novembre 1999.
Javier Gorosquieta, Il debito estero oggi, "La Civiltà Cattolica", n. 3575, 5 giugno 1999.
Giuseppe Muti, La corruzione, "Omicron", maggio 2000.
Sebastiano Mosso, Globalizzazione, una sfida per la pace: solidarietà o esclusione?, "La Civiltà Cattolica", n. 3570, 20 marzo 1999.
Riccardo Orizio, Bimbi, palloni e bollicine, "Corriere della Sera", 11 maggio 1998.
Giuseppe Ortolano, Anche il no logo è virtuale, "Panorama Web", ottobre 2001.
Sergio Ricossa, Dizionario di Economia, Utet, 1982, voce Sottosviluppo.
Giuseppe Scidà, Terzo Mondo e divisione internazionale del lavoro, in "Dimensioni dello sviluppo", n. 2, 1986, pp. 34-50.
Amartya Sen, La difficile misura della povertà, "Il Sole 24 Ore" - supplemento duemila, 3 novembre 1999.
Jan Tinbergen, I mutamenti dell'ordine internazionale e le risorse naturali, "Innovazione e materie prime", 1992, n. 2.
Siti Internet e CD-ROM
CTM Altromercato
Commercio Alternativo
FAO - Nutrire la mente, combattere la fame
Grameen Bank. Altre fonti sulla Grameen Bank sono
http://www.bologna.fisac.cgil.it/temi/fnews97/4fn9702.htm
http://www.coopfirenze.it/info53.dir/01.htm
http://www.aprile.org/giornale/economia/BE_app01.html

http://www.comune.cento.fe.it/arcoiris100/9612_banca.htm
Il commercio equo e solidale
OPEC
Sewa Bank
United Nations - Human Development Report 2001.
World Bank
World Bank - Annual report 2001.
Enciclopedia Microsoft Encarta 99, Microsoft Corporation, voce Terzo Mondo.

 

Fonte: http://www.peradam.it/peo/ipercorso/globalizzazione/Glob-800/sud/word-sud.doc
Autore: Giuseppe “Peo” Scaglione

 

INTRODUZIONE

 

Dall'età feudale fino ai giorni nostri si è avuto un progressivo passaggio da spazi prevalentemente chiusi a spazi sempre più aperti, fino ad arrivare ad un "mondo-villaggio", caratterizzato da una sorprendente integrazione di tutte le sue parti fino ad ora sconosciuta.

 

 

La mobilità territoriale degli uomini, delle merci, delle idee, delle informazione, che ha assunto dimensioni mondiali, è il risultato più evidente di questo processo: è come se il mondo fosse diventato un unico grande villaggio.
I processi di integrazione hanno raggiunto un tale livello che è impossibile muoversi in qualsiasi campo senza tenere conto della presenza di tutti gli altri paesi e della scala ormai planetaria dei principali problemi: questioni come la pace, la guerra, la difesa dei diritti umani non sono più solo dei singoli popoli, ma devono essere affrontati a livello globale.
Le conseguenze delle congiunture economiche, delle crisi finanziarie, delle innovazione tecnologiche , del traffico della droga, del terrorismo internazionale, coinvolgono ormai ogni continente, anche se in misura differente.
Basta anche solo pensare alle dimensioni assunte dal turismo internazionale, all'omologazione dei gusti, alla diffusione delle mode, alla compenetrazione tra culture e valori diversi, per cogliere da altri punti di vista la dimensione dei livelli di integrazione raggiunti.
In seguito a ciò si è aperta una nuova fase nei rapporti internazionali - economici, politici. militari o culturali - definita globalizzazione.
Con questo termine si intende appunto l'integrazione di tutte le regioni del mondo, attraverso interdipendenze che coinvolgono ogni aspetto della vita: dalla produzione di beni materiali e di servizi al progresso scientifico e tecnologico, dai movimenti di capitale alla mobilità delle persone, alla diffusione delle informazioni.
Come conseguenza della globalizzazione le grandi problematiche del nostro tempo assumono un carattere transnazionale e gli uomini, di qualsiasi società facciano parte, prendono coscienza del destino che accomuna ogni abitante del pianeta.

 

 

 

MA COSA E' LA GLOBALIZZAZIONE?

 

Per globalizzazione si intende un processo finalizzato alla costituzione di uno stato mondiale e di una nazione umana. Oggi nel mondo ci sono circa duecento Stati e più di duemila nazioni, e quindi, per riuscire a portare a termine questo progetto, occorre realizzare diverse fasi, riuscendo a creare:

  • una rete globale di trasporti e comunicazioni
  • un mercato unificato, che garantisca la possibilità di vendere e comprare in

tutti i territori nazionali

  • una mobilità culturale che favorisca la condivisione del mito all’interno

degli Stati

  • un'organizzazione politica con una certa centralizzazione del potere
  • un'organizzazione militare
  • una cittadinanza mondiale

Si può dire che attualmente solo di alcune di queste fasi è stata iniziata l'attuazione. Non è infatti semplice accordare tutti i partecipanti al progetto, essendo essi molto numerosi ed avendo spesso interessi diversificati; anche se, come è noto, sono soprattutto gli Stati capitalisti, cioè gli Stati più ricchi, a prendere le decisioni e quindi a indirizzare le politiche da attuare. Infatti pur cercando di unificare le varie parti del mondo, rimarrà sempre un divario fra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo (definiti rispettivamente NORD e SUD del mondo). Oggi nessun Paese è autosufficiente, ed è costretto a ricorrere, in modo più o meno rilevante, alla collaborazione con gli altri Stati, il problema è che però questa cooperazione non è equilibrata: i Paesi più ricchi utilizzano il loro potere per sfruttare quelli più deboli, creando rapporti di vera e propria dipendenza, che accentuano sempre più il preesistente divario. Si costituiscono soprattutto grandi imprese multinazionali che hanno sedi in diversi Stati, ogni filiale ha un diverso compito nella realizzazione del prodotto finale, in base alle risorse offerte dal Paese in cui è posta.
Quindi globalizzazione è la crescente interdipendenza economica di tutti i Paesi del mondo, dovuta a diversi fattori: notevole aumento delle transazioni finanziarie e degli scambi internazionali di beni e servizi; diffusione generalizzata delle telecomunicazioni e della tecnologia; accresciuta mobilità delle persone su scala planetaria. Ciò ha come conseguenza il fatto che alcune decisioni, alcuni eventi e alcune attività, ovunque essi si manifestino, hanno conseguenze che a volte si ripercuotono sul resto del mondo. Questo processo non coinvolge però solo la sfera economica, ma anche quella politica e quella culturale, e questo sia perché il fenomeno ha una dimensione di scala spaziale planetaria, sia perché le interconnessioni e le interdipendenze tra i vari stati e le varie società ha raggiunto una notevole intensità.
Non siamo ancora giunti a un unico villaggio globale, ma già si possono riconoscere tre poli trainanti, costituiti da Stati Uniti e Canada, Unione Europea, Giappone, che hanno formato intorno a sé le rispettive macroregioni: le Americhe, l'Eurafrica, l'Asia orientale e il Sud-Est asiatco, che costituiscono il fulcro del sistema e che sono in competizione fra loro. Ed è proprio analizzando gli scambi interni ed esterni di queste aree che emerge una situazione economica mondiale che non è proprio uniforme:

 

Ripartizione % dei flussi commerciali sul valore globale

 

 


Inizialmente infatti la globalizzazione si è affermata maggiormente nel campo economico-finanziario. La mondializzazione dell'economia impedisce alle imprese di chiudersi entro le proprie frontiere rinunciando al protezionismo presente in alcune nazioni in passato, così ogni operatore è costretto a confrontarsi col mondo intero e la sua gestione è condizionata dalla competizione sul mercato internazionale.
Da questa prima fase di collegamento economico deriva però la necessità di instaurare relazioni anche politiche, fra i vari governi, per agevolare i sistemi economico-finanziari. Questa collaborazione può essere vista come la base per una futura situazione di pace internazionale, perché gli Stati ricercano rapporti amichevoli e forme di cooperazione. Sembra che a una situazione di autarchia e protezionismo corrispondano tensioni e guerre, invece quando c'è libero scambio generalmente c'è pace tra i popoli.
Fondamentale per l'avanzata di questo processo sono stati lo sviluppo e la diffusione dei mezzi di trasporto e delle telecomunicazioni: il trasporto delle merci è diventato oggi molto veloce, per non parlare poi della velocità con cui si riescono a trasmettere le informazioni. Questa facilità di comunicazione ha agevolato non poco le relazioni tra i vari popoli, rendendo normale conoscere in tempo reale avvenimenti che accadono dall'altra parte del mondo.
Si è innescata però una "pericolosa" tendenza all'omologazione: si cerca di omologare i modi di produzione (normative fiscali, normative, preparazione dei lavoratori, condizioni infrastrutturali), i modelli di consumo, i gusti dei consumatori, e questo perché l'armonizzazione dei singoli sistemi comporta il superamento delle maggiori divergenze. In un prossimo futuro questo potrebbe portare alla perdita di elementi culturali, di valori e di culture propri di un popolo, per lasciare il posto a nuovi aspetti comuni in tutto il resto delle mondo, si avrebbe quindi una perdita di identità da parte di alcune civiltà.

 

 

QUANDO E' INIZIATA? E COME?

Il primo impulso alla globalizzazione è stato dato dal colonialismo: alla fine dell'800 quando nella politica di governo degli stati era entrata l'idea di assoggettare territori stranieri.
Se inizialmente lo scopo principale era da ricercarsi nel commercio (ricerca di nuovi mercati di sbocco per i prodotti), in seguito ha assunto intenti molto più grandiosi: erano sopraggiunte altre motivazioni economiche, come la ricerca di materie prime a basso costo, e la possibilità di investire i capitali finanziari disponibili, ma anche intenti politici di vero e proprio assoggettamento, che ha le radici in una diffusa ideologia di nazionalismo, razzismo e spirito missionario insieme.
Vasti territori dell'Africa, del Pacifico e dell'Asia furono ridotti allo stato di colonie (se amministrati direttamente) o protettorati (se controllati indirettamente, attraverso i governi locali).
Risultato di ciò fu che, alla fine del processo di espansione, il mondo intero risultò diviso in imperi e zone di influenza fra le maggiori potenze.
L'Europa svolse un ruolo importante come colonizzatrice, in quanto portò in tutto il mondo la sua civiltà, la sua esperienza nell'economia e le sue scoperte, ma commise l'errore di usare sistematicamente la forza contro le popolazioni indigene, quando queste infatti, cercavano di ribellarsi venivano fermate con veri e propri massacri.
Economicamente però i paesi colonizzati ebbero dei benefici: vennero resi coltivabili nuovi appezzamenti di terreni, introdotte nuove tecniche agricole, costruite infrastrutture, avviate attività industriali e commerciali, migliorato l'ordinamento amministrativo e finanziario.
Alto era però il prezzo che questi paesi dovevano pagare per queste innovazioni: i colonizzatori attuavano un depauperamento di risorse materiali e umane incredibile, insomma sfruttavano nel vero senso della parola la colonia.
Le economie dei paesi sottomessi vennero soprattutto indirizzate verso l'esportazione, danneggiando il già debole mercato interno: fu avviato un processo di sviluppo in funzione solo degli interessi dei colonizzatori.
Nuovi paesi entrarono nel vasto mercato mondiale, assumendo però da subito una posizione dipendente: passarono dalla povertà al sottosviluppo.
Purtroppo anche dal punto di vista culturale l'impatto fu violento. I sistemi culturali legati ad una tradizione più forte cercarono di opporre resistenza agli apporti che la presenza europea inseriva nelle loro società, anche se poi finirono per assimilare alcuni di questi apporti. Al contrario i sistemi più deboli furono travolti dalle trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali, religiose e linguistiche portate dagli europei, che ruppero tutti i preesistenti equilibri degli universi culturali e non solo. Entrarono in crisi ed andarono persi interi sistemi di vita, di riti, di credenza, di costumi, di valori e di tradizioni.
Parallelamente a ciò però si formò , o meglio si risvegliò, in queste popolazioni l'idea di nazionalismo locale, quindi, involontariamente, l'Europa esportò anche il bisogno di autogovernarsi e di decidere il proprio destino.

 

L'ITALIA
Per quanto riguarda il ruolo assunto dall'Italianel processo di colonizzazione bisogna risalire agli anni della Sinistra, che segnarono una svolta decisiva nella politica estera.
L'Italia sotto il governo di Depretis aderì, nel 1882, alla Triplice alleanza, determinata soprattutto dal desiderio di uscire dalla situazione di isolamento diplomatico che risultava inaccettabile in un'epoca dominata dalla logica della potenza.
Questa alleanza, che coinvolgeva Italia, Germania e Austria, aveva carattere difensivo, e impegnava i tre stati a garantirsi reciproca assistenza in caso di attacco da parte di altre potenze, e che quindi non dava agli alleati un vantaggio immediato.
Anche se ormai l'Italia poteva contare su un appoggio in caso di bisogno, non era ancora pronta per iniziare una politica di conquiste coloniali, perché le mancavano ancora elementi economici (I capitali) e politici (opinione favorevole dell'opinione pubblica).
Non si era ancora pienamente risollevata dai traumi dell'unificazione, e il divario tra essa e gli altri paesi, sia economicamente che militarmente più avanzati e potenti, era ancora troppo grande.
Nonostante ciò il governo Depretis, subito dopo la stipulazione dell'alleanza, aveva ritenuto opportuno iniziare la preparazione di un'iniziativa coloniale nell'Africa orientale, dove l'espansione appariva meno ardua (vi si trovavano già esploratori e missionari italiani) e la concorrenza meno pericolosa, ma anche dove non si individuavano notevoli interessi economici o strategici per l'Italia.
L'operazione ebbe inizio con l'acquisto, nel giugno 1882, della baia di Assab, sulla costa meridionale del Mar rosso. In seguito a questo primo passo, nel 1885 fu inviato un corpo di spedizione che procedette all'occupazione di una striscia di territorio fra la baia e la città di Massau., zona che confinava con l'impero etiope, che allora era il più potente d'Africa. Inizialmente gli italiani cercarono di stabilire con l'Etiopia dei buoni rapporti, cercando di avviarvi una penetrazione commerciale, ma in seguito cercarono di allargare il loro territorio verso l'interno, andandosi a scontrare con l'impero, e iniziando una guerra contro di esso, che finì con la sconfitta dell'Italia avvenuta nella battaglia di Dogali.
Alla morte di Depretis gli succedette Francesco Crispi, il quale era intenzionato a continuare la politica coloniale intrapresa dal suo predecessore, e, per tanto, rafforzò la Triplice alleanza, sia per tutelarsi maggiormente da un eventuale attacco francese (con la Francia i rapporti si erano ulteriormente inaspriti), sia per aumentare la sua potenza e continuare la conquista dell'Africa settentrionale. Crispi mirava a riaffermare la presenza italiana in Africa orientale, risollevando il prestigio nazionale dopo la sconfitta di Dogali.
Alla fine del 1890 i possedimenti italiani furono ampliati e riorganizzati sotto il nome di Colonia Eritrea, e già si prospettava un'ulteriore prossima espansione verso la Somalia.
La politica di Crispi fu però ritenuta troppo costosa per il bilancio dello Stato in un momento di grave crisi economica, visto che oltre tutto non assicurava immediati vantaggi economici.
Messo in minoranza Crispi si dimise nel 1891 e fu sostituito da Giovanni Giolitti; ma la sua assenza dalla scena politica fu breve, infatti tornò al governo nel 1983.
Tornato al governo non riuscì a riprendere le sue iniziative coloniali.
Già durante il suo primo governo Crispi aveva cercato di stabilire un protettorato sull'Etiopia, e nel 1889 aveva firmato con essa il trattato di Uccialli. Questo concordato però non era molto chiaro essendo stato tradotto in due lingue (italiano e aramaico) non perfettamente corrispondenti. Da ciò la nascita di un malinteso: l'Italia credeva che vi si riconoscesse il suo protettorato sull'altra, mentre per l'Etiopia era un semplice patto di amicizia. Quando questa incomprensione venne alla luce i rapporti fra le due nazioni crollarono: nella primavera del 1895 gli italiani ripresero la penetrazione dall'Eritrea verso l'interno, scontrandosi nuovamente con gli etiopi. In dicembre un distaccamento italiano fu distrutto dai nemici; più tardi i comandi italiani, incitati da Crispi, decisero di vendicarsi e di attaccare l'esercito etiope. Purtroppo l'azione fu mal preparata e si risolse così in un disastro: il 1° marzo 1896, nella conca di Adua, gli italiani furono praticamente annientati.
Questa sconfitta ebbe ripercussioni immediate in Italia, dove si svolsero violente manifestazioni contro la guerra d'Africa e il governo fu costretto a dimettersi.
Il successore di Crispi, Rudini, concluse velocemente una pace con l'Etiopia che garantisse almeno la presenza italiana in Eritrea e Somalia.
La conclusione di questi tentativi di espansione era la prova che la guerra coloniale non era ancora molto sentita dalla popolazione.
Successivamente nessun governo rilanciò più l'iniziativa coloniale, a parte un debole tentativo verso la Somalia realizzato nel 1899, fino al 1911, quando Giolitti decise l'occupazione della Libia (Tripolitania e Cirenaica), spinto soprattutto dalla speranza di trovarvi una risposta al problema dell'aumento della popolazione.
La decisione di dirigersi verso questi territori era stata influenzata dal fatto che erano zone trascurate dalle altre potenze per il loro modesto interesse economico e strategico. Per questo costituivano il bersaglio più facile per l'iniziativa italiana, anche per la loro appartenenza al decadente impero ottomano, che non era più in grado di difenderle. L'Italia aveva già da qualche tempo iniziato una penetrazione commerciale del territorio, sul quale si erano insediate alcune banche italiane.
Giolitti si preoccupò di ottenere l'approvazione di Francia e Inghilterra, e una volta ottenutolo diede il via alle operazioni militari che non diedero eccessivi problemi per la debole resistenza turca. Altrettanto debole non fu però la resistenza libica. In quest'occasione, e per la prima volta nella storia, vennero utilizzati gli aerei per colpire la guerriglia e bombardare la popolazione civile. L'intervento militare italiano si estese poi al Mediterraneo orientale con l'occupazione delle isole del Dodecaneso: alla Turchia non restò altra scelta che firmare la pace, che fu stipulata a Losanna nel 1912.
Dopo questa occupazione la politica coloniale italiana subì di nuovo un arresto fino all'avvento di Mussolini.
Verso la fine degli anni '20 il capo del fascismo decise di estendere la propria influenza su molti paesi dell'Europa centro-orientale e balcanica (Albania, Romania, Bulgaria, Ungheria), con il sostegno della gran Bretagna, che così vedeva contrastati gli interessi francesi e sovietici in tali regioni.

 

Successivamente, nel 1935-36, questa volta con il consenso francese, Mussolini poté dare il via al suo piano imperialistico: aggredì e occupò l'Etiopia, che fu annessa agli altri possedimenti (Eritrea, Somalia e Libia), uniti tutti sotto il nome di Impero dell'Africa orientale italiana.
Questa fu l'ultima conquista coloniale italiana, infatti pochi anni dopo scoppiò la seconda guerra mondiale, che modificò le situazioni di tutti gli Stati.

 

THE GREAT BRITAIN
The foundation of the British Empire were laid at the beginning of the 17th century when groups of colonists left Britain and created the first settlements in North America.
The British presence in the world was already firmly established under the reign of Elizabeth I (1558-1603). In the 18th century Britain extended its rule over large territories in every part of the world; Canada, India and Gibraltar became part of the Empire. Natural resources and raw materials were taken from these lands and brought to Britain to feed its growing industries. Trade with the colonies was completely controlled and Britain was the only destination of their main products. The economic power of Britain soared and the country saw its most glorious period.
At the end of the 18th century the thirteen American colonies declared their independence (1776), but this loss was soon compensated for by the acquisition of Malta, Ceylon and other territories in Africa and Central America as a result of the English victory over Napoleon. Meanwhile Captain Cook was exploring Australia and New Zeeland, which were annexed to the Empire.
During the reign of Queen Victoria (1837-1901) expansion policies continued and in 1876 the British Empire was officially founded. By the end of the century South Africa, Malaysia, Cyprus and Burma also became British colonies.
Between 1867 and 1921 Canada, Australia and New Zeeland were Granted Dominion Status: they became free to pursue their own policies while retaining constitutional links with Britain.
After World War I more colonies demanded independence. In 1931 a special arrangement was made to have the Empire work an a new basis and the British Commonwealth of Nation was founded.
Britain was the gradually forced to grant independence to its possessions; patriots like Mahatma Gandhi in India fought for autonomy until one by one teir countries became self-governing.
While becoming independent from British rule, most former colonies remained in the Commonwealth, which is now a voluntary association of independent States enjoying equal status, whose arm is natural assistance and co-operation in such field as the economy, commerce, science and culture.
The Empire also changed the composition of British society.
As free entry into Britain from Commonwealth countries was allowed, over one million people, mostly from India, Pakistan and the Caribbean Immigrated. In 1962 the government decided to restrict the number of immigrants by admitting only those people who had a job waiting for them. Now only a limited number of immigrants is allowed in every year.
However, the immigrants' birth rate is 50% higher than the national average and now over 40% of the two million British coloured citizens are native-born and British subjects.
One of the consequences of the formation of the British Empire was the diffusion of the English language, which is now the second most spoken tongue in the world after Chinese.
English established itself as the main language where the British settlers were most numerous and active, such as in the U.S., Canada, Australia and New Zeeland, and it became the language of government in all the colonies throughout the world. In a fez of these countries, such as Kenya and Nigeria, English in now the official language, while in other countries, such as India, it is the second official language. Moreover, English is the language used by the Commonwealth countries to communicate and as such it is an international passport and a key to mutual understanding.

 

PROTEZIONISMO O LIBERO SCAMBIO?

Anticamente quasi tutte le società erano chiuse, non intrattenevano cioè rapporti con altre comunità, c'era un sistema di autoconsumo: si consumava solo ciò che si produceva. Tuttavia, ben presto, si comprese che non si poteva produrre tutto ciò di cui si aveva necessità, perciò era iniziato un primo rapporto di scambio di prodotti, inizialmente solo fra società vicine, ma che in seguito si è sempre più allargato. Solo recentemente comunque questi scambi hanno raggiunto dimensioni così vaste da comprendere l'intero mondo, creando un mercato di livello mondiale.
Oggi si parla di economie aperte, in quanto gli Stati hanno adottato sistemi economici che hanno innumerevoli rapporti con l'estero: importazioni ed esportazioni da e verso gli altri paesi.
Uno Stato può comunque decidere il tipo di rapporto che vuole instaurare con l'estero, infatti è libero di scegliere la sua politica commerciale, che può essere basata sul protezionismo o sul libero scambio.
Nel caso scelga il protezionismo lo Stato cerca di limitare il più possibile le importazioni da altri paesi attraverso l'utilizzo di diversi strumenti. Lo scopo che porta uno Stato ad attuare una tale politica possono essere diverse:

  • potrebbe voler proteggere le imprese nazionali dalla concorrenza di quelle straniere, e questo può capitare soprattutto quando l'industria interna è nascente e quindi debole e non competitiva, e se questa appartiene a un paese in via di sviluppo;
  • cercare di salvaguardare l'occupazione di manodopera interna, favorendo la produzione e quindi l'impiego di lavoratori nazionali;
  • porre un freno ai debiti verso l'estero, evitandone la crescita eliminando le importazioni, ma continuando ad effettuare esportazioni.

Bisogna però dire che la politica protezionistica presenta anche, come si può immaginare, diversi inconvenienti:

  • limitando le importazioni gli altri paesi è probabile facciano in modo di non acquistare le esportazioni di questo Stato;
  • se il Paese protezionista non ha grandi disponibilità di materie prime interne, non ricorrendo all'importazione sarà costretto a ridurre la produzione;
  • diventa difficoltosa anche la diffusione delle novità tecnologiche che potrebbero migliorare la produzione;
  • la popolazione deve rinunciare all'utilizzo di quei beni che non possono essere prodotti all'interno.

Gli strumenti che più frequentemente vengono utilizzati per attuare il protezionismo sono i dazi doganali e i contingenti d'importazione. I primi sono imposte che colpiscono la merce straniera nel momento in cui entra nello Stato, facendone quindi aumentare il prezzo di vendita, e questo aumento fa conseguentemente diminuire la domanda dei consumatori, che preferiranno invece acquistare prodotti interni o prodotti succedanei. Invece i contingenti d'importazione rappresentano i quantitativi massimi importabili di certe merci.

 

 


Opposta questa situazione è quella in cui si trovano gli Stati che adottano una politica di libero scambio, in cui non viene ostacolata l'importazione delle merci.
I sostenitori di questa politica affermano che essa è vantaggiosa in quanto permette a ogni paese di specializzarsi nella produzione di alcuni beni e servizi per i quali ha più convenienza, e di consumare altri beni di cui non riuscirebbe ad avere la disponibilità se non tramite l'importazione. Ogni pese può così decidere, in base alle risorse interne di cui dispone, a quale attività dedicarsi prevalentemente: primaria, secondaria, terziaria.
Questo principio sembrerebbe vantaggioso per tutti gli Stati produttori, ma in realtà la convenienza, nel caso in cui lo scambio avvenga fra paesi con livelli di sviluppo differenti, ce l'hanno solo i paesi più sviluppati.
Nel tempo questo scambio ineguale ha creato una situazione statica, in cui i paesi sviluppati esportano prodotti finiti e tecnologici importando materie prime, in opposizione ai paesi più arretrati costretti a importare la quasi totalità dei prodotti finiti, esportando i loro prodotti agricoli spesso a condizioni sfavorevoli.
Nel caso in cui però i rapporti commerciali avvengano fra paesi il cui livello di sviluppo è pressoché uguale, allora questa situazione di libero scambio favorisce la crescita economica per entrambe le parti.

 

 

 

 


Gli scambi internazionali oggi occupano un posto importante nella maggioranza dei sistemi economici.

SUDDIVISIONE DEL COMMERCIO MONDIALE

 

 

 

 

L'INSANABILE DIVARIO PS - PVS

Abbiamo visto che l'economia mondiale non appare omogenea, ma bensì presenta una notevole disuguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri. Semplificando si può dire che accanto a un gruppo, relativamente ristretto, di paesi ricchi e industrializzati, con un alto tenore di vita e di consumo, c'è un'enorme massa di paesi in cui spesso non è garantita neppure la sopravvivenza.
I paesi ricchi, ad eccezione di Australia e Nuova Zelanda, si trovano nell'emisfero boreale (settentrionale), mentre i paesi poveri si trovano nell'emisfero meridionale (australe), ed è per questo che si parla di NORD e SUD dal mondo.
Tramite il calcolo di specifici indicatori economici, detti indici di sviluppo, si può misurare il livello di sviluppo di un paese; tali indicatori numerici sono:

  • il reddito pro-capite
  • il consumo di energia pro-capite
  • l'occupazione della popolazione attiva nei diversi settori di attività.

Accanto a questi indicatori puramente economici vengono spesso affiancati indicatori sociali e demografici, di cui i più significativi sono:

  • la disponibilità di calorie pro-capite
  • l'incremento demografico
  • la speranza di vita
  • la mortalità infantile
  • il tasso di alfabetizzazione
  • il numero di posti letto ogni 1000 abitanti
  • il numero di medici ogni 1000 abitanti.

Ultimamente è stato poi introdotto un nuovo indicatore del progresso umano: l'indice di sviluppo umano (ISU), che mette in relazione tra loro gli indicatori del potere d'acquisto (reddito pro-capite), dell'istruzione (tasso di alfabetizzazione degli adulti e numero medio di anni di scuola frequentati), della salute (speranza di vita). Questo nuovo indice offre una misura più soddisfacente del grado di sviluppo rispetto agli indici puramente economici, poiché considera anche l'aspetto qualitativo della vita e misura il soddisfacimento dei bisogni umani fondamentali.
Inizialmente la situazione economica mondiale veniva generalizzata creando solo due macro categorie, quella dei paesi sviluppati e quella dei paesi in via di sviluppo, detto anche Terzo mondo, ultimamente però si sono riconosciute alcune sotto categorie, essendosi diversificato il grado di arretratezza dei vari paesi. Si sono dunque formati dei nuovi raggruppamenti fra paesi che presentano situazioni economiche abbastanza omogenee:

  • paesi esportatori di petrolio, che spesso hanno redditi pro-capite abbastanza elevati, ma che presentano ugualmente elementi di arretratezza, dovuti soprattutto allo squilibrio nella distribuzione della ricchezza: c'è un ristretto gruppo di persone che detiene ricchezza e potere, e una popolazione che vive in condizioni simili a quella dei paesi più arretrati;
  • i NIC, ossia i paesi di nuova industrializzazione, che sono riusciti ad avviare un notevole sviluppo industriale, partecipando intensamente al commercio internazionale;
  • il Quarto mondo formato dai paesi che hanno raggiunto un grado di sviluppo minimo, il cui reddito pro-capite è il più basso esistente, e la cui struttura produttiva è molto debole; per questo sono anche detti PMA (paesi meno avanzati).

Viene dunque spontaneo a questo punto chiedersi le cause che hanno dato origine a questo divario che ha praticamente diviso in due il mondo, e per comprendere bene ciò che è avvenuto bisogna risalire a precise ragioni storiche: fattore determinante all'origine del sottosviluppo è stata la condizione coloniale a cui sono i paesi sono stati soggetti per lungo tempo. E' quindi inevitabile notare che lo stesso fattore che ha dato il via alla globalizzazione è stato anche la causa degli attuali squilibri.
Il problema principale è dato dal circolo vizioso che si è creato intorno al sottosviluppo e che non sembra presentare vie d'uscita, e in cui causa ed effetto si scambiano i ruoli: la crescita economica viene ostacolata dalle condizioni demografiche, sociali e sanitarie, il cui mancato miglioramento non consente all'economia di crescere.
In questo circolo vizioso il commercio internazionale gioca un ruolo determinante: con la mondializzazione degli scambi sono aumentate le interdipendenze tra gli Stati, e in questo quadro i paesi poveri entrano con scambi poco diversificati: esportano materie prime (prodotti di piantagione e/o risorse minerarie), che è la loro unica fonte della valuta pregiata di cui necessitano per acquistare le merci di cui non dispongono dai paesi sviluppati. Questo scambio risulta però negativo per i paesi arretrati che devono vendere elevate quantità di materie prime per reperire abbastanza valuta da impiegare nell'acquisto di quantità ridotte di manufatti. Per questo si parla della presenza di uno scambio ineguale, che accelera la crescita industriale dei PS, a discapito di quella dei PVS, costretti ad adattarsi alle condizioni imposte dai primi.
Questo commercio impedisce ai paesi poveri di accumulare capitale, obbligandoli a ricorrere ai prestiti politici esterni per potenziare le loro politiche di sviluppo. Inizialmente l'esubero di capitali del nord del mondo aveva agevolato questi investimenti verso il sud, elevando il livello del debito estero di questi ultimi a valori altissimi. In seguito però questa disponibilità finanziaria è venuta meno, contemporaneamente all'abbassamento dei prezzi delle materie prime. Come conseguenza immediata della congiuntura dei due fattori si ebbe l'aumento dei tassi di interesse e il parallelo aumento del valore delle somme da versare, derivato dal fatto che il loro pagamento assorbiva una quota sempre maggiore dei proventi ricavati dalle esportazioni. Si è così innescata una spirale che nel giro di pochi anni ha ingigantito il debito dei paesi del Terzo mondo e i relativi interessi.

 

I CREDITI DELLE BANCHE SUI MERCATI EMERGENTI
(in miliardi di dollari)

BANCHE

ASIA

AMERICA LATINA

EUROPA

Germania

41,7

31,3

49,3

Francia

38

21,1

6,4

Italia

4,2

10,9

6,6

TOTALE EUROPA

83,9

63,3

62,3

 

Gran Bretagna

26,4

16

1,8

 

Stati Uniti

34,2

66,5

9,3

 

Giappone

118,3

15,4

4

 

L'AUMENTO DEL DEBITO ESTERO DEI PVS
TRA IL 1970 E IL 1997
(espresso in miliardi di dollari)

IL CIRCOLO VIZIOSO DEL SOTTOSVILUPPO

 

 

Sottoalimentazione

Raccolto insufficiente

 

Scarsa forza per lavorare

 

Disoccupazione

 

Basso reddito pro-capite

  

 

Mancano imprenditori locali

 

Impossibilità accumulare risparmio

 

IL CIRCOLO VIZIOSO DEL SOTTOSVIULUPPO

 

Crescita demografica troppo veloce

 

Popolazione
giovane

 

Disoccupazione e povertà

Alta natalità
tradizionale

 

Famiglie troppo numerose

 

Incapacità organizzativa

 

Divisioni
tribali

Violenza politica

 

Influenze
straniere

 

Corruzione dilagante

 

Un ulteriore fattore che mantiene i paesi interessati in questa situazione di sottosviluppo è dovuto anche alle barriere commerciali che i paesi sviluppati usano per ostacolare l'accesso al loro interno dei prodotti industriali provenienti dal Terzo mondo per difendere la produzione nazionale dalla concorrenza. Questi prodotti infatti hanno prezzi competitivi, in quanto si tratta di produzione specializzate sulle quali il costo della manodopera non incide in maniera consistente, permettendo di effettuare prezzi più bassi.
Sfavorevole al loro sviluppo è anche il fatto che sono molto pochi i capitali che vengono direttamente investiti in questi paesi arretrati, utili per organizzare localmente le attività produttive. Infatti, il rendimento degli investimenti è più alto nei paesi industrializzati, che possono vantare un ambiente più adatto alle attività d'impresa, mentre, le infrastrutture, la manodopera specializzata, la disponibilità di dirigenti competenti sono carenti nelle zone arretrate. Così i capitali necessari per avviare lo sviluppo, sono impiegati altrove; gli stessi abitanti ricchi dei paesi poveri non investono nel proprio paese , ma preferiscono inviare i propri capitali nei paesi industrializzati.
Alla fine della seconda guerra mondiale i paesi del Nord si sono convinti che i paesi arretrati non potevano farcela da soli a raggiungere un'accettabile livello di sviluppo. Così venne avviata a livello internazionale un politica di aiuti allo sviluppo e vennero istituiti alcuni organismi internazionali con il compito di organizzarla. Si pensava che concedendo ai PVS capitali gratuiti o a tasso di interesse agevolato, questi riuscissero a avviare il processo di sviluppo, e che dopo un certo periodo avrebbero raggiunto un'autonomia sufficiente a gestire da soli la loro crescita.
Purtroppo questo progetto è fallito, anche perché spesso i governi dei paesi destinatari dell'aiuto lo hanno gestito male.
Gli aiuti si sono dunque rilevati insufficienti per raggiungere il loro scopo: infatti non erano sufficienti nemmeno per coprire le somme che gli stessi paesi poveri dovevano versare ai paesi ricchi sotto forma di utili, rimborso dei debiti e pagamento dei loro interessi.
Si è concluso che se non vengono modificati alcuni meccanismi di mercato dell'economia capitalistica mondiale questi aiuti sono praticamente inutili.
Nel 1994 l'ONU ha adottato la "Dichiarazione e il Programma d'azione per l'instaurazione di un nuovo ordine economico internazionale" e la "Carta dei diritti e doveri economici degli Stati", in cui venivano proclamati alcuni principi concreti, tra i quali:

  • l'affermazione della piena sovranità dei PVS sulle proprie risorse e il conseguente diritto di controllare le società multinazionali che operano sul loro territorio;
  • la possibilità per i paesi produttori di materie prime di associarsi per acquistare maggiore forza contrattuale negli scambi commerciali;
  • la decisione di fissare regole internazionali per garantire Il giusto rapporto tra i prezzi;
  • I PVS hanno diritto a un trattamento privilegiato nei prestiti, nelle tariffe e nell'accesso ai mercati.

Questa carta non ha però carattere vincolante, per cui l'applicazione concreta delle regole affermate è stata parziale e molto debole.
In questo campo è alto il conflitto di interessi tra i vari paesi, è quindi molto difficile trovare un accordo per riuscire a sanare questo divario.

 

 

LE MULTINAZIONALI

L'impresa multinazionali può definirsi come un insieme di mezzi di produzione dipendenti da un unico centro decisionale che controlla varie unità locali distribuite in una pluralità di paesi. In sostanza essa è una grande società, o un insieme di società, che possiede l'alta direzione in un determinato Stato e gli stabilimenti produttivi, invece, sparsi in varie parti del mondo.

 

Questa è però una definizione piuttosto generica, per cui si è preferito definire in modo più specifico il termine, facendo distinzione tra:

  • Multinazionale: l'impresa che possiede all'estero almeno il 25% dei propri investimenti produttivi e dei propri dipendenti, realizzandovi un'aliquota analoga del fatturato complessivo;
  • Internazionale: l'impresa che ha un orientamento generale di carattere essenzialmente nazionale, cioè opera soprattutto nell'ambito del paese al quale appartiene, ma è dotata di un'apposita sezione internazionale che gestisce lo sviluppo delle attività estere;
  • Transnazionale: l'impresa che appartiene ad operatori di diversi paesi, ma possiede un centro unico non soggetto a vincoli da parte dei paesi cui appartengono i proprietari;
  • Sovranazionale: l'imprese che, essendo presente in gran parte del mondo, nelle decisioni si sente vincolata solo da norme introdotte da appositi accordi internazionali.

Ciò che comunque caratterizza l'industria multinazionale è l'investimento diretto all'estero (ide), cioè il trasferimento di capitali per la costruzione di nuove fabbriche o per l'acquisizione di imprese già operanti.
Secondo quanto detto, non rientrano in questa categoria le imprese che esercitano all'estero attività di commercializzazione di beni prodotti nel proprio paese o che operano all'estero attraverso uffici e sedi di rappresentanza.
Si sono così create imprese gigantesche, dette imprese globali, le quali si differenziano dalle tradizionali multinazionali perché le loro attività non si limitano a poche affiliate che operano nello stesso settore produttivo, ma si estendono su tutti i continenti con una fitta rete di filiali e di società consociate che godono di una notevole libertà di azione e possono svolgere attività del tutto diverse da quelle della casa madre coprendo, così, un vasto ventaglio di settori produttivi.
Oggi, grazie al notevole sviluppo dell'informatica e delle telecomunicazioni, coordinare e gestire le diverse filiali, poste a notevole distanza le une dalle altre, è diventato abbastanza semplice e veloce, e può essere svolto in tempo reale.
Un'impresa decide di espandersi al di fuori del quadro nazionale per ricercare il massimo profitto possibile attraverso l'utilizzo di una serie di vantaggi conseguibili all'estero.
La maggior parte delle imprese multinazionali appartengono a USA, Europa occidentale e Giappone, ma sono in crescente aumento anche quelle di alcuni paesi in via di sviluppo, come Corea del Sud, Brasile, Hong Kong, Singapore, Taiwan e Cina, pur essendo queste ultime di dimensioni ridotte ed avendo un'estensione geografica ristretta.
Esempi di importanti società multinazionali sono la Fiat, la General Motors, la Peugeot, l'Ibm, la Philips, la Shell, la Nestlè, la Coca Cola, che appartengo ai settori di produzioni più diversificati.
In molti casi il loro giro d'affari complessivo supera il prodotto lordo di intere economie nazionali.
Si calcola che più della metà della produzione industriale del mondo sia ormai controllata dalle multinazionali e che le sole filiali estere delle società statunitensi detengano il 50% della liquidità monetaria mondiale a breve termine.
La struttura multinazionali di un'impresa ha diversi vantaggi: il controllo del mercato, l'utilizzazione della mano d'opera locale, quasi sempre a basso costo e poco sindacalizzata, la compilazione dei bilanci ai fini fiscali. La dispersione geografica e la molteplicità degli scambi coordinati fra gli stabilimenti dei diversi paesi, permettono infatti di fare apparire il profitto nel paese in cui la pressione fiscale è minore e di controllare le fluttuazioni monetarie giocando sull'accelerazione o sul ritardo dei pagamenti fra le varie filiali.
Queste grandi imprese guidano non solo il mercato economico ma anche l'organizzazione territoriale con la costruzione di infrastrutture di servizio finalizzate alle proprie esigenze. Capita che la pianificazione di un intero paese, soprattutto se arretrato, viene determinata dalla loro strategia di sviluppo.
Se ne può quindi dedurre che il loro peso politico è pari a quello economico: molte vicende politiche del mondo attuale sono spesso il risultato di manovre condotte dalle grandi multinazionali, in particolare da quelle petrolifere.
I giudizi formulati su questo tipo di imprese sono diversificati: c'è chi le approva e chi le contesta. Per alcuni le decisioni prese da esse possono subordinare ai propri interessi l'economia di vaste regioni e influenzare gli orientamenti dei governi nei paesi più deboli. Altri, invece, controbattono dicendo che senza la loro presenza le economie sottosviluppate non avrebbero avuto la possibilità di valorizzare le loro risorse naturali; le considerano in pratica il principale fattore di innovazioni tecnologiche e produttive in modo diretto (attraverso il trasferimento e l'introduzione di sistemi organizzativi e lavorativi che vanno a modificare l'ambiente economico del paese ospite) ed indiretto (le imprese locali tendono ad adattarsi imitando l'impresa estera e generando spesso attività concorrenziali e, a volte, addirittura formando multinazionali locali).
C'è però anche chi ritiene queste società come elementi di destabilizzazione sociale: se viene a mancare l'elemento territoriale favorevole all'installazione della filiale, questa viene semplicemente trasferita in un posto più idoneo, creando però disoccupazione nella sede lasciata.
Per poter continuamente assecondare le mutevoli esigenze del mercato le multinazionali hanno dovuto adottare sistemi organizzativi del lavoro molto flessibili, sia all'interno dell'azienda che tra le aziende, in modo da riuscire a passare rapidamente da un modello di bene ad un altro. La flessibilità interna è indubbiamente facilitata dall'applicazione delle tecnologie informatiche; invece per quanto riguarda quella tra le aziende è realizzata attraverso la esternalizzazione di alcune funzioni prima di competenza della grande impresa, si cerca ciò di affidare alcune fasi produttive ad altre aziende minori. In questo caso il prodotto finale è realizzato assemblando i diversi pezzi prodotti dai vari subfornitori (che producono quindi su commissione), e questo crea vantaggi per tutte le parti che collaborano.
Si è potuto capire che queste nuove forme di organizzazioni molto vantaggiose sono possibili soprattutto grazie allo sviluppo raggiunto in diversi settori: informatica, telematica, comunicazioni, trasporti.

 

IL MERCATO DEI SERVIZI DELLE MULTINAZIONALI EUROPEE

IMPRESE MULTINAZIONALI

Mercato interno

Mercato europeo

FRANCESI

69%

15%

TEDESCHE

65%

13%

OLANDESI

47%

28%

INGLESI

62%

10%

RAPPORTO TRA IL MERCATO DEI SERVIZI EUROPEO E IL RESTO DEL MONDO

IMPRESE MULTINAZIONALI

Mercato europeo

Resto del mondo

FRANCESI

84%

16%

TEDESCHE

78%

22%

OLANDESI

75%

25%

INGLESI

72%

28%

LE ESPORTAZIONI DALL'EUROPA DELL'OVEST VERSO L'EST
(espressi in quote %)

EUROPA DELL'EST

GERMANIA

ITALIA

FRANCIA

Repubblica Ceca

63.2

9

7.9

Slovacchia

59

17.8

6

Ungheria

53.9

16.1

7

Polonia

49.7

13.7

7.5

Romania

39.4

27.7

12.9

Bulgaria

32.7

15.4

7.3

TOTALE EUROPA

52.7

14.5

7.9

LE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

Numerose sono le organizzazioni che si occupano, a livello internazionale, di coordinare e gestire i rapporti tra i vari paesi a carattere economico, e quindi anche commerciale.
Vi sono poi altre organizzazioni, questa volta però a carattere regionale che si occupano di ambiti quali, per esempio, quello militare e quello culturale.
Sarebbe impossibile trattare di tutte queste organizzazioni, per cui ne vengono riportate solo alcune:

  • WTO: (World Trade Organisation) è nata nel 1995 a conclusione dei negoziati dell'Uruguay Round (1986-1994). E' derivata da una mutazione del preesistente GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) che era nata nel 1948. Sede del WTO è il Centre William Rappard a Ginevra. Dal luglio del1998 la carica di direttore generale è affidata ad un neozelandese, Mike Moore. Preposto al controllo delle regole del commercio mondiale, il WTO è un'organizzazione inter-governamentale con più di cinquecento dipendenti. Il suo organo decisionale è la Conferenza ministeriale che si riunisce solitamente ogni due anni; il Consiglio generale si riunisce invece più frequentemente; attini sono poi i consigli operativi che si occupano di prodotti, servizi, beni culturali e proprietà intellettuali. i paesi membri sono attualmente 135, ma molti sono quelli che vorrebbero entrarvi.
  • ONU: l'Organizzazione delle Nazioni Unite è nata dopo la seconda guerra mondiale con lo scopo di mantenere la pace nel mondo, attraverso interventi specifici per la tutela dei diritti umani, per la solidarietà e la cooperazione tra i popoli, per la salvaguardia dell'ambiente. L'adesione a questa organizzazione da parte degli Stati è libera: partiti da un numero di 49, oggi si è raggiunto i 181 Stati membri. Ha sede a New York nel cosiddetto "palazzo di vetro". L'ONU non ha alcun potere sugli Stati aderenti, può solo fare delle raccomandazioni. Il suo obbiettivo principale è quello di realizzare la pace nel mondo senza l'uso delle armi. E' costituito da un'Assemblea generale (formata dai rappresentanti di tutti gli Stati membri); un Consiglio di sicurezza (l'organo più importante a cui è affidato il potere decisionale; è formato da 15 membri di cui 5 permanenti (Cina, USA, Russia, gran Bretagna, Francia); e da un Segretario generale.
  • UNIONE EUROPEA: nata dal Trattato di Maastrich (Olanda) firmato il 7 febbraio 1992, nel quale si è deciso di creare, tra gli Stati aderenti, una moneta unica e un Istituto monetario europeo, e inoltre la realizzazione della cittadinanza europea. E' sorta con lo scopo di realizzare un'integrazione economica tra i paesi membri, eliminando le barriere amministrative, doganali e fiscali che ostacolavano la libera circolazione delle merci, e di proteggere i paesi più deboli. Ad essa spetta il compito di occuparsi delle relazioni esterne per la difesa e la sicurezza comune. Dal 1995 sono 15 gli Stati che vi hanno aderito (Italia, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Germania, Lussemburgo, Danimarca, Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo, Austria, Finlandia, Svezia). E' costituita da più organi istituzionali ognuno con funzioni diverse a cui assolvere, ci sono: il Parlamento europeo, che principalmente controlla le attività dell'Unione; il Consiglio dei Ministri al quale spetta il potere legislativo; la Commissione europea (potere esecutivo); la Corte di giustizia, che controlla la legalità degli atti; ed infine il Consiglio europeo che stabilisce gli orientamenti della politica da adottare.
  • UNESCO: è L'Organizzazione per l'educazione, la scienza e la cultura, istituita a Londra nel 1945, e che ha sede a Parigi. Essa favorisce e sviluppa tutte le attività educative, scientifiche e culturali. Promuove piani contro l'analfabetismo e programma le sviluppo scolastico, fornendo l'istrusione gratuita nei paesi dell'America Latina, dell'Asia e dell'Africa.
  • UNICEF: Fondo internazionale di emergenza per l'infanzia; è un organismo dell'ONU per i problemi dell'infanzia e si propone di aiutare i bambini che soffrono la fame e la malattia nei paesi più poveri. E' presente in 128 paesi.
  • OMS: Organizzazione mondiale della sanità, fondata nel 1948 a Ginevra e al quale aderiscono tutti i pesi del mondo, ed ha come fine l'innalzamento del livello di qualità della vita, per far si che l'uomo raggiunga un benessere non solo fisico, ma anche mentale, psichico e sociale, e per far ciò promuove numerose iniziative.

 

 

IL CASO SEATTLE

Il 30 novembre 1999 si è tenuto a Seattle il MILLENNIUM ROUND, il negoziato che si prefiggeva di sancire la liberalizzazione del commercio mondiale. Si avevano grandi aspettative da questa conferenza per migliorare il benessere globale.
In questa metropoli nell'estremo Nord degli Stati Uniti, non lontana dal Canada, dove si dimostrano i notevoli benefici apportati dal commercio globale, 134 Paesi si sono riuniti per mettere fuori corso le attuali barriere protezionistiche e dare il via libera all'era della globalizzazione dei mercati.
Questa conferenza è stata definita un vero e proprio momento storico, e, per tanto, aveva creato un clima di attesa e di tensione per le decisioni che sarebbero state prese.
Il WTO in quest'occasione forniva un forum dove negoziare accordi che rimuovano le barriere che impediscono il libero scambio di beni e di servizi, e dove risolvere le controversie commerciali prima che i paesi intraprendano azioni unilaterali che possono mettere a repentaglio il progresso economico globale.
Tra i protagonisti del vertice planetario c'erano l'Unione Europea, il Giappone, la Cina e gli USA, e per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo erano presenti il Brasile, l'Argentina, l'Australia e la grande fascia intercontinentale del sottosviluppo.
Tutti erano consapevoli che non sarebbe stato facile trovare un accordo fra tutti questi Stati, ma si sperava che qualcosa di risolutivo sarebbe stato approvato per cambiare le regole della produzione e della circolazione delle merci, anche se la possibilità di un fallimento non era esclusa.
Attualmente ci sono aree in cui il costo del lavoro è praticamente nullo rispetto a quello praticato in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone. Dal momento che questi dislivelli appaiono insanabili, occorre stabilire fino a che punto si possono rimescolare le economie del mondo, cioè se è meglio indirizzare gli investimenti futuri verso le economie più deboli, o se bisogna invece mettere sulla bilancia degli scambi nel nuovo ordine globale le inevitabili disparità.
Bisognava anche considerare il fatto che l'obbiettivo dei mercati senza frontiere, senza distinzioni tra Paesi ricchi e Paesi poveri potrebbe creare uno sconquasso non indifferente, che si ripercuoterebbe non solo sugli aspetti economici, ma anche su quelli etici, sociali, e istituzionali di ogni società.
Una delle prime conseguenze sicure era data dall'abolizione immediata per l'Unione europea dei sussidi agricoli che erano molto elevati, e questo per un'esplicita richiesta avanzata dagli Stati Uniti, ed osteggiata dalla Cee che non poteva lasciare gli agricoltori soli davanti al mercato globale. Bisogna infatti avanzare con cautela in proposito, anche perché proteggere l'agricoltura è un obbligo per la stabilità economica di molti paesi e per mantenere l'equilibrio idrogeologico del terreno.
In paesi come America e Giappone sono già in vigore regimi protezionistici simili a quelli europei, avvalorati dal fatto che la caratterizzazione e la tipicità dei prodotti hanno un ruolo determinante nei consumi. Molti cibi non si possono standardizzare e tutti quelli che sono particolari, esclusivi di una regione e con marchi prestigiosi, meritano un riconoscimento speciale, devono essere tutelati.
In questo incontro USA e Europa sono uno contro l'altra, anche la popolazione si è sentita partecipe ed ha organizzato manifestazioni di piazza di dimensioni notevoli, e non molto pacifiche, per esprimere la propria opinioni contro le attuali regole del commercio, a loro giudizio troppo favorevoli alle multinazionali e troppo poco attente ai diritti dell'ambiente e dei consumatori.
Numerosi erano gli slogan utilizzati per rendere noto il pensiero della folla, come per esempio: "commercio più giusto, non commercio più libero"; "I popoli vogliono scambiare i loro prodotti ma vogliono conservare le proprie anime" e ancora "la cultura non è una mercanzia".
Inizialmente si doveva trattare sono della liberalizzazione dei prodotti agricoli e dei servizi, ma si sono poi anche affrontati temi come la tutela dell'ambiente, i diritti umani, e la sicurezza alimentare.
I manifestanti che invadevano le piazze si erano dichiarati alleati europei, in quanto condividevano la necessità di preoccuparsi della società civile.
I motivi di scontro tra le due potenze sono da ricercarsi in opinioni diverse sulla gestione della politica economica mondiale Gli USA contestavano la posizione europea sull'agricoltura, chiusa alle importazioni americane, mettendo sotto accusa il sistema di aiuti che i paesi del vecchio continente riservano alle produzioni nazionali. Dal canto suo l'Europa bandisce i cibi "transgenici", cioè manipolati geneticamente prodotti dagli americani, e la loro carne ricavata da bestie alimentate con ormoni.
A loro difesa gli Stati Uniti affermano che le nuove agrotecnologie promettono, se saranno sicure, quei salti di produttività che devono sfamare i sei miliardi di abitanti del pianeta per i quali la fame oggi è più urgente delle angosce del domani. Appare però evidente che dietro la giusta ricerca di nuove coltivazioni più ricche e resistenti ai parassiti, si intravedono i profili dei grandi conglomerati americani dell'agribusiness, non certo associazioni di beneficenza.
Come spesso succede entrambe le parti avevano ragione da un lato e torto dall'altro: i rilievi americani avevano un fondamento se si pensa che in Europa si vuole in questo modo tenere in vita un'agricoltura ormai superata e finanziata dai contribuenti; ma è anche vero che gli USA fanno qualcosa di simile. L'Europa sembra usare le accuse rivolte agli americani solo per attaccare gli avversari, e non tanto perché veramente interessate a garantire la sicurezza dei prodotti.
Un altro motivo di confronto è la produzione culturale: gli europei non vogliono che gli americani esportino il loro modello tecnologico che li rende dominanti nel settore; ma anche qui l'Europa sembra non aver considerato il fatto che i suoi prodotti hanno conquistato in ugual modo il mercato USA.
In realtà l'Europa in questo meeting vuole cercare di frenare l'egemonia di un paese che è padrone dell'economia con la sua moneta (il dollaro) e le sue tecnologie, e della nuova cultura di massa con la sua lingua e i suoi modelli, e del mondo intero con la sua potenza militare, è intimorita dal monopolio che questa ha assunto Gli europei hanno il timore di veder sfumare le diversità europee, a profitto di una cultura dominante americana che condurrebbe al famoso modello unico.
Nel commercio mondiale l'Europa pone dei limiti all'America, la quale dal canto suo, vuole accelerare tutto il sistema.
Gli americani accusano gli europei di essere, con i loro sistemi protezionistici, la causa dell'arretratezza degli Stati appartenenti.
Anche la Chiesa aveva preso al riguardo una posizione, dichiarando fondamentale che le politiche internazionali sul commercio vengano decise ascoltando l'opinione della società civile. Esprime quindi il proprio appoggio alle organizzazioni non governative, che avevano diritto ad una maggiore partecipazione e influenza alle decisioni prese dal WTO. La Chiesa ha riconosciuto l'utilità di un organismo multilaterale che elabori regole per il commercio internazionale.


 

I PUNTI DEL NEGOZIATO

ARGOMENTO

CONTENDENTI

MOTIVO DELLO SCONTRO

SOLUZIONE PROBABILE

 

AGRICOLTURA

 

Europa e Giappone
Contro
Stati Uniti e Terzo Mondo

Gli agricoltori europei e giapponesi sono, secondo gli americani, iperprotetti dai sussidi. USA e Terzo M. vogliono l'accesso a quei mercati. E. e G. si oppongono agli USA per i cibi geneticamente modificati

Forse i sussidi diminuiranno, ma lo scontro sui cibi geneticamente modificati crescerà

 

LAVORO

USA e UE
Contro
Terzo Mondo

Il basso costo del lavoro nel Terzo Mondo, che minaccia l'occupazione in USA e Europa

Non bisogna aspettarsi troppi progressi in questo campo

 

AMBIENTE

USA e UE
Contro
Terzo Mondo

Gli USA e l'Europa vogliono rafforzare gli accordi sulle questioni ambientali, ma senza sfidare il WTO

Qualche progresso potrebbe arrivare su questioni meno controverse, come il sussidio alla pesca

 

SERVIZI

USA
Contro
TUTTI

Gli USA vogliono chiudere le porte a diversi settori chiave, come banche, salute, educazione, assicurazioni, telecomunicazioni

I membri del WTO sono d'accordo nel negoziare altri servizi, ma si profila un braccio di ferro con gli USA

 

 

TARIFFE

 

USA
Contro
Giappone e Terzo Mondo

Leggi USA impediscono ad altri paesi di abbassare i costi di alcuni prodotti, acciaio, semiconduttori, tessile, sul mercato americano. I paesi del Terzo Mondo dicono che le leggi sono protezionistiche e che gli USA dovrebbero importare di più

Con le elezioni alle porte gli USA non concederanno molto


Purtroppo la conferenza è stata un vero insuccesso e pochi sono stati gli accordi raggiunti fra gli Stati, a causa soprattutto del fatto che tutti volevano ottenere qualcosa, ma nessuno era disposto a perdere le proprie posizioni.
Le uniche decisioni prese, oltre a quelle riguardanti l'ammissione di Cina e Giordania nel WTO, hanno riguardato il commercio elettronico (e-commerce): gli USA volevano una maggior liberalizzazione per il settore (esentandolo dalle tasse), mentre l'UE era favorevole ad un crescente protezionismo; alla fine si è giunti a un accordo che prevede un periodo di esenzione da imposte e dazi per un periodo tra i 18 e i 24 mesi.
Per quanto riguarda invece altri punti si è preferito decidere per un rinvio ad una prossima conferenza in data da stabilirsi, in cui si svolgerà la seconda parte del negoziato. Argomenti come l'ambiente e la tutela dei diritti dei lavoratori sono addirittura stati rinviati al 2001.
Nessuno è apparso particolarmente stupito per il fallimento del meeting , come se questa fosse la conclusione più probabile visto le debolezze del WTO. Molti hanno fatto risalire le responsabilità dell'insuccesso proprio a quest'organizzazione, definendola uno strumento inadeguato allo scopo che essa si prefigge.
Quindi tutto è rinviato e per adesso niente è cambiato nel commercio internazionale, e Seattle verrà ricordato più per le violenti manifestazioni che vi sono state, che non per l'importanza delle decisioni che vi sono state prese.

 

Les leçons de Seattle

Au terme d'une semaine le président du sommet de l'Organisation mondiale du commerce décide de terminer la plus grande négociation commerciale du siècle: l'échec a été total.
L'explication communément avancée était que la complexité des débats rendait la situation inextricable et que l'ordre du jour était trop chargé.
En plus tout le monde n'avait qu'une idée: prendre, et ne rien donner.
Officiellement, l'Europe militait pour un élargissement des sujets del négociations au principe de précaution, à l'investissement.
Les problèmes sont les pays du Sud: dans la très grande majorité del délégations des pays en voie de développement il y a la corruption des élites, qui pris les rentes, mais qui se montrent indifférent à la misère des populations.
A' Seattle les représentants des pays du tiers monde ont même cherché d'avoir quelques avantages supplémentaire aux pays développés en menaçant de ne pas signer de nouvel accord.
On peut tirer des conclusions de la conférence de l'OMC: tout d'abord que dans de telles négociations il faut attendre, il faut accepter les compromis nécessaires, mais, surtout, il faut vouloir négocier, ce qui implique de comprendre, d'entendre les autres, et d'accepter leurs différences.
Il faut aussi comprendre que dan la société informationnelle du XXI siècle, il ne sera plus possible de prendre décisions importantes dans le secret des organismes internationaux: le négociations planétaires devront se faire avec le maximum de transparence.
En outre, le dirigeants occidentaux devront accepter que li l'on veut que la mondialisation soit acceptée, elle ne doit pas aller de pair avec la paupérisation.
Il faut que l'Europe e l'Amérique  changent quelques chose: l'Europe se donnait bonne conscience en distribuant quelques aides et en annulant régulièrement les dettes de pays bien incapables de les rembourser. Tandis que l'Amérique, forte de son idéologie, ne leur verse aucune aide, retenant que c'est du développement du libre-échange que viendra leur salut.
Le problème est donc de démocratiser la mondialisation, parce que elle est l'affaire de tous.

(informations pris de la riviste "Le Nouvel Economiste)

 

 

CONCLUSIONE

L'integrazione in un unico "sistema-mondo" si sta realizzando mentre rimangono però forti divari nei livelli di sviluppo fra aree diverse, che fanno temere l'insorgere di pericolose tensioni fra le parti. Infatti se da un lato la globalizzazione avvicina i popoli, moltiplica e intensifica le relazioni affievolendo le tentazioni etnocentriche, dall'altro crea insicurezze che sembrano minacciare le identità locali e quindi può portare all'intolleranza e alla mortificazione di alcune culture, considerate più deboli.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Autori:          DO. GE.

Titolo:           "GEOGRAFIA dei grandi sistemi extraeuropei"
Casa ed.:      Markes

  • Autori:          Manlio Dinucci

Titoli:            "Il sistema globale"
Casa ed.:      Zanichelli

  • Autori:          A. Martignano - R. Mistroni

Titoli:            "Manuale per la formazione del cittadino"
Casa ed.:      Elemond Scuola e Azienda

  • Autori:          Gianluigi Della Valentina

Titoli:            "Terra ed economia del tempo"
Casa ed.:      Markes

  • Autori:        Manlio Dinucci

Titoli:          "il Sistema Globale"
Casa ed.:      Zanichelli

 

Fonte: http://zappageografia.altervista.org/Tesine%20cartacee/Tesina%20Bertorelli.doc
Autore: Bertorelli

 

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