Disabilità

 


 

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Disabilità, svantaggio socio-culturale e integrazione avanzata

Si possono distinguere due aree di difficoltà per quanto riguarda i processi di apprendimento e le relazioni educative. Queste aree sono: la disabilità e lo svantaggio socio-culturale, le quali rappresentano i due limiti estremi della vasta gamma del disagio scolastico. Già a partire dagli anni ‘70 del 900 ci si è resi conto che non solo i disabili ma anche altri soggetti possono trovarsi in situazioni di svantaggio e proprio per questo si è cercato di mirare ad un modello di integrazione avanzata che fosse capace di rendere effettivo per tutti il diritto all’educazione e all’istruzione. Tale modello può essere concepito come un sistema volto ad individualizzare al massimo grado i processi formativi al fine di integrare le diversità, così che ciascuna di esse possa trovare il proprio riconoscimento personale e sociale.

 

Modelli interpretativi della disabilità

 

Modello ICDH-1 (1980)

Nel 1980 l’organizzazione mondiale della sanità (OMS) si preoccupò di rivedere il concetto troppo generico di “handicap”, distinguendo tra menomazione, disabilità e handicap. La menomazione sta ad indicare un’anomalia psichica o fisica presente nell’individuo in forma permanente e irreversibile. La disabilità viene definita il prodotto della menomazione che trova espressione in una riduzione della capacità di azione del soggetto. L’handicap rappresenta l’insieme di tutti gli svantaggi cha nascono dalla menomazione e dunque dalla disabilità.

Malattia --> Menomazione --> Disabilità --> Handicap

Nonostante queste innovazioni siano rilevanti, rimangono comunque degli equivoci e delle chiusure. A. Canevaro chiarisce lo schema dei ICDH-1: “Il deficit viene indicato come una mancanza permanente, anomalie che riguardano la fisicità o la parte psichiatrica ma che hanno un carattere di irreversibilità… L’incapacità è la conseguenza di un deficit: sul piano singolare, individuale, è la mancanza di alcune capacità derivata dal deficit. Vi possono essere in individui delle incapacità ad assolvere ad alcune funzioni, e queste sono permanenti. L’handicap è l’incontro dell’incapacità, e quindi del deficit, con l’organizzazione ambientale in un senso ampio, storico, culturale, più circoscritto”. Lo studioso di pedagogia speciale mette in evidenza come, in questo modello, si tiene conto solo dell’aspetto medico della patologia senza considerare l’aspetto sociale (il rapporto con l’ambiente), riconducendo la situazione di svantaggio alla sola malattia o disturbo. Proprio per questo l’OMS si è riproposta di riformare radicalmente il proprio sistema di classificazione con l’introduzione dell’ ICDH-2.

 

Il documento dell’OCSE del 1994 (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico)

I ricercatori dell’OCSE individuano 4 modelli fondamentali della disabilità: il modello medico, della patologia sociale, ambientale e antropologico.

 

Il modello medico

Si fonda sul presupposto che tutte le disabilità presenti in un individuo rimandino a cause organiche e dunque si configurano in malattie. Questo modello suggerisce la presenza di un deficit biologico e un intervento terapeutico mirante ad un recupero totale o parziale. Il modello medico prevede innanzitutto l’intervento terapeutico volto a normalizzare e a riabilitare in strutture specializzate l’individuo e successivamente l’integrazione nella scuola e nelle normali relazioni sociali. Il punto di vista medico si fa apprezzare nel momento della conoscenza del deficit e nel vasto settore della ricerca della prevenzione e della riabilitazione. Dal punto di vista pedagogico però si evidenziano i limiti della logica dei due tempi di intervento e per la pretesa di “normalizzare” il soggetto disabile all’interno di un contesto “specializzato”.

 

Modello della patologia sociale

Spiega le difficoltà del soggetto non con riferimento alla patologia e alle sue conseguenze, ma con rimando a fattori patologici della vita relazionale come per esempio le modalità di educazione familiare o le frustrazioni che il soggetto subisce per i pregiudizi sociali. Mentre il modello medico mantiene separati i due momenti, ovvero quello della normalizzazione e quello dell’integrazione, il modello della patologia sociale li fa coincidere, e dunque persegue la normalizzazione attraverso l’integrazione, con la conseguente trasformazione della scuola. Il suo limite consiste nel considerare il soggetto come un “disadattato” che deve essere “normalizzato” in funzione del suo adeguamento alle esigenze sociali. Con il modello medico condivide la stessa logica della normalizzazione, che non può essere in alcun modo condiviso dalla pedagogia. L’educazione non ha da normalizzare nessuno, al contrario è chiamata a rispettare e rafforzare l’originalità di ciascun individuo.

 

Il modello ambientale

Questo modello si differenzia dai precedenti perché presenta il soggetto disabile come alunno le cui difficoltà sono da ricercare nell’organizzazione della scuola. In una simile prospettiva non è l’alunno che deve adattarsi alla scuola, ma è quest’ultima che deve adattarsi ad esso. Secondo i ricercatori dell’OCSE le trasformazioni riguardanti l’ordinamento didattico della scuola sono visibili nelle politiche realizzate in Spagna, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, le quali presentano l’importanza di una integrazione precoce. L’integrazione si pone l’obiettivo di creare una scuola che accolga tutti i minori e offra a tutti dei servizi differenziati. Per far si che ci sia una adeguata integrazione bisogna migliorare ad esempio il materiale educativo, il personale e la formazione degli operatori. Altre soluzioni consistono nello stabilire stretti legami fra l’educando e l’educatore. Questo tipo di modello prevede un’organizzazione modulare dell’educazione in cui si mescolano momenti comuni e momenti specializzati per esprimere al massimo le potenzialità del disabile.

 

Il modello “antropologico”

Pone il disabile al centro del processo della propria formazione. Pur condividendo molti aspetti del metodo ambientale, come ad esempio l’integrazione precoce e l’adattamento della scuola al soggetto, il metodo antropologico si differenzia da esso per un aspetto, che è quello di assumere il soggetto nella sua integralità e nella sua specificità antropologica. Il metodo antropologico non ignora il deficit e dunque intende assumere un atteggiamento realistico, senza fughe utopiche; non ignora neppure le disabilità, che richiedono opportuni interventi riabilitativi e che in ogni caso fanno parte dell’identità del soggetto: la sua forza consiste nel riconoscere nell’alunno disabile una sua originalità che va ricercata e provocata come fondamento delle sue esperienze educative. L’aspetto positivo di questo modello è che l’integrazione del disabile è affidata in prima persona non alle strumentazioni didattiche o agli interventi tecnici, ma alla qualità dell’interazione, allo status e al ruolo che vengono riconosciuti al soggetto dal gruppo classe e dalla comunità scolastica. Il suo limite consiste nel rischio che venga assolutizzata la qualità della comunicazione a scapito degli aspetti riabilitativi e delle richieste di apprendimento, che pure vanno avanzate ai fini dell’autonomia e della socializzazione.

 

Modello ICDH-2 (1997)

I sistemi descritti dai ricercatori dell’OCSE ci aiutano a comprendere le ragioni che hanno indotto l’OMS a modificare il modello ICDH-1 proponendone uno nuovo. In questo modello si possono evidenziare due scopi importanti: depurare l’intero linguaggio dell’handicap e offrire un quadro unitario ma flessibile di classificazione della disabilità che sia in grado di accogliere la diversità delle prospettive culturali a livello mondiale.

 

Depurazione del linguaggio dell’handicap

 Già il modello precedente del 1980 aveva chiarito che l’handicap non poteva essere considerato un attributo del soggetto, qualcosa inerente alla sua persona, ma stava a designare il risultato dell’incontro dell’anomalia e delle richieste ambientali. Il significato del termine handicap andava dunque assimilato a quello di svantaggio e poteva designare una situazione, non delle persone. La proposta comportò la caduta dei termini “handicappato” ed anche “soggetto portatore di handicap” (un peso che sembra far corpo unico con l’individuo). Il termine handicap era stato sostituito da “disabilità”, continuò però a comparire nello schema dell’ICDH-1, così che finirono per affermarsi due espressioni: quella di disabile e quella di soggetto in situazione di handicap. Con la revisione introdotta dall’ICDH-2 il termine “handicap” scompare definitivamente, con la conferma del termine “disabile” a designare il soggetto, e del termine “disabilità” a designare l’incapacità/difficoltà dell’azione nei rapporti con l’ambiente.

 

Visione sistemica della disabilità

Per quanto riguarda il quadro sistemico d’insieme, possiamo notare che lo schema del 1997 (ICDH-2) è diverso dal precedente del 1980 (ICDH-1). Infatti, quest’ultimo, poteva indurre in errore perché dei tre fattori che portano alla creazione dello svantaggio (cioè menomazione, disabilità e ambiente) l’ultimo non compariva. Nello schema del 1997 il contesto ambientale, invece, è presente, e il termine “handicap” non è più uno dei fattori che causano lo svantaggio, ma coincide con lo svantaggio stesso. Questo schema introduce un nuovo modo di considerare le problematiche della disabilità: le relazioni interne tra i diversi fattori sono bidirezionali e possono essere sciolte da nessi causali. Le condizioni di salute, il disturbo, la malattia condizionano l’attività/disabilità e questa a sua volta può influenzare le condizioni di salute o il disturbo (un’attività/disabilità non stimolata può aggravare lo stato di salute o accentuare il disturbo); le condizioni di salute o il disturbo, che determinano le limitazioni dell’attività/disabilità condizionano i rapporti con l’ambiente e la percezione che il soggetto ha di se stesso, ma è possibile anche l’itinerario inverso, che modificazioni dell’ambiente o determinati sostegni psicologici arrestino o attenuino la disabilità. È possibile che esista una disabilità senza una menomazione evidente, oppure che si verifichino difficoltà di partecipazione alla vita sociale senza disabilità.

In conclusione, il modo di affrontare le problematiche della disabilità e dell’integrazione scolastica e sociale, ha avuto importanti sviluppi innovativi poiché l’approccio medico è stato messo in discussione e si sono aperti spazi sempre più ampi per l’azione pedagogica e l’integrazione sociale.

 

Le prospettive attuali di un’integrazione avanzata

I punti fondamentali sanciti dai riferimenti normativi sono:  1) Il diritto del disabile all'integrazione, all'educazione e all'istruzione è un diritto soggettivo della persona e perciò non può essere messo in discussione. 2) Il percorso dell'integrazione scolastica viene definito dal servizio sanitario e dalla scuola; 3) l'integrazione scolastica del disabile viene collocata all'interno di un sistema formativo integrato, che è una sorta di interconnessione di rete di tutti gli enti interessati.

L'iter procedurale fissato dalla legge parte dalla diagnosi funzionale (DF) di competenza medica, continua con il profilo dinamico-funzionale (PDF), definito dal personale sanitario e scolastico con la collaborazione dei genitori dell'alunno e si conclude nel piano educativo individuale (PEI) che ha una connotazione pedagogico-didattica.

 

La diagnosi funzionale (DF)

La diagnosi funzionale (DF) è l’atto con il quale il servizio sanitario provvede alla certificazione e, dunque, alla documentazione prevista dalla legge per la richiesta del sostegno scolastico. Che venga richiesta una diagnosi che riguarda una o più competenze specialistiche è necessario. Può essere, invece, materia di discussione il fatto che la diagnosi medica costituisca lo strumento unico dell’avvio di un processo di integrazione, perché viene dato per scontato che la popolazione scolastica si possa dividere in sole due categorie di soggetti distinti: quella degli alunni “disabili”, e quella degli alunni “normali”, quando sappiamo, invece, che i bisogni educativi individuali non nascono solo da situazioni di disabilità. La diagnosi, in quanto atto medico, è, per sua stessa natura, statica e costruita sul negativo, mentre, se deve essere diagnosi funzionale non può essere di esclusiva competenza medica, ma richiede la partecipazione di altre competenze, soprattutto di quelle pedagogiche. Il pregiudizio che sta a fondamento dell’attribuzione della diagnosi funzionale esclusivamente al personale del servizio sanitario, è sicuramente che un disturbo dell’apprendimento deve necessariamente avere una base organica (un pregiudizio che, se non viene rimosso, rischia numerosi bisogni educativi “speciali”, con la conseguente negazione degli aiuti e degli interventi di sostegno da essi richiesti).

 

Il profilo dinamico-funzionale (PDF)

Il profilo dinamico-funzionale nasce sulla base della precedente diagnosi medica: è il momento in cui si avverte di più la necessità di una preparazione specialistica del docente di sostegno e di una preparazione universitaria sui temi dell’integrazione di tutti i docenti della scuola. La ristrettezza di prospettiva prevista dalla legge conduce al rischio di non vedere l’alunno nella sua individualità personale.

 

Il piano educativo individuale (PEI)

I piani educativi individuali (PEI) prodotti dalla scuola sono un documento diviso in due parti, con l’aggiunta di un allegato. L’allegato è la diagnosi funzionale; le due parti del piano sono costituite dal profilo dinamico-funzionale, posto in apertura, e il piano educativo individuale, l’unico che si sviluppi nel tempo, fino a perdere ogni contatto con la propria iniziale premessa tecnica. Questo perché il piano educativo individuale si traduce in progetto didattico-pedagogico, con tutte le articolazioni richieste da attività e relazioni interne ed esterne alla scuola in cui si realizza effettivamente l’integrazione, e viene vissuta l’esperienza formativa dell’alunno. Questa autonomia di cui finisce per connotarsi il piano educativo individuale è importante in quanto dà evidenza alla natura prevalentemente pedagogica dell’integrazione, e consente alla scuola di scoprire all’interno delle classi nuovi bisogni che richiedono adeguati sostegni. In una scuola in cui l’integrazione dell’alunno disabile si realizza pienamente rompendo il rapporto esclusivo con l’insegnante di sostegno, quest’ultimo diventa una “risorsa” comune a tutta la classe, contribuendo a realizzare un tipo di integrazione più avanzata, aperta all’ascolto e alla soddisfazione dei bisogni di tutti.

 

 

Fonte: http://doceo.pbworks.com/w/file/fetch/52957157/Disabilita.doc

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