Viaggi e viaggiatori dell' antichità

 


 

Viaggi e viaggiatori dell' antichità

 

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Viaggi e viaggiatori dell' antichità

 

VIAGGI E VIAGGIATORI DELL’ANTICHITA’

 

  • PRESENTAZIONE

La nave Europa e il destino del Mediterraneo

Europa era una bellissima fanciulla di Tiro, una città della costa siriaca del Mediterraneo, alla quale un giorno apparve, mentre giocava sulla spiaggia, un toro maestoso. La ragazza, dapprima spaventata, ebbe poi il coraggio di avvicinarsi all’animale e di accarezzarlo. Il toro era in realtà il re degli dei, Zeus, che, invaghitosi della giovane, aveva preso quelle sembianze per ingannarla. Non appena Europa gli si sedette in groppa, si lanciò nel mare, iniziando con lei un lungo viaggio. Questo rapimento, nel mito, sta alla base della storia europea: la coppia raggiunse l’isola di Creta e dalla loro unione nacque Minosse, che sarebbe diventato il più celebre dei re cretesi e forse dell’intera tradizione greca. Minosse fu sovrano civilizzatore e legislatore. Per i Greci la storia era nata proprio con figure come queste: inividui di mediazione tra il modno divino e il mondo umano, capaci d’introdurre e d’imporre con il carisma loro derivante dall’origine divina le norme che stanno alla base della convivenza civile. Nella tradizione antica Minosse fu il primo a creare un  impero del mare procurandosi una flotta, controllando una parte del Mar Egeo, dominando delle isole, imponendo tributi ed eliminando la pirateria dalle rotte marittime. Questo mito radica la “talassocrazia” nel sistema identitario mediterraneo, che presuppone il controllo del mare e delle sue rotte, i traffici commerciali, il flusso di ricchezze e tributi, l’intreccio di guerrieri, colonie e mercanti.

Il padre di Europa inviò i suoi tre figli alla ricerca della sorella e il loro viaggio si trasformò in un percorso di civilizzazione che portò alla fondazione di città in diverse aree del Mediterraneo. Il mito delle peregrinazioni di Europa e dei suoi fratelli veicola un’ambiguità di fondo, che è poi quella che caratterizza gli stessi concetti di cultura, viaggio e viaggiatore. Da un lato il rapimento e la violenza sessuale da parte di un dio greco su una giovane di orgine non greca celebrano la natura guerriera e maschilistadella società greca e il suo etnocentrismo. Dall’altro questo sistema di racconti fa riferimento a un’orgine non greca della civiltà greca e testimonia la consapevolezza della profonda interrelazione che lega le culture delle diverse sponde del Mediterraneo. Questo mita celebra gli intensi e antichissimi scambi culturali tra le coste africane, asiatiche ed europee del Mediterraneo.

 

      Il viaggio: mito, rito e necessità

L’ero errante è una figura fondativa dell’immaginario collettivo proprio perchè è il suo viaggio ad attribuire un’identità culturale al teritorio, all’individuio che lo compie e quindi all’intera comunità. Quest’ultima attraverso la narrazione mitica celebra il viaggio degli eroi culturali che, secondo la tradizione, hanno miticamente fondato il territorio della comunità; attraverso pratiche rituali che prevedono forme di erranza e di marginalità territoriale riconferma periodicamente il suo controllo politico e culturale sul territorio. Ongi individuo che prende parte a tali forme di erranza e marginalità definisce la propria identità affermando la propria appartenenza a un preciso gruppo culturale. Il viaggio dell’eroe fondatore non viene percepito come mito perchè la mobilità territoriale si presenta come una pratica reale,  intrinseca in ogni comunità politica che voglia mantenere o estendere un controllo sul territorio e sulle sue ricchezze. Il viaggio mitico dell’eroe civilizzatore viene continuamente rinnovato in ogni pratica culturale che attraverso la mobilità assicura la sopravvivenza del gruppo. Tale mobilità presuppone il continuo contatto con l’altro. L’ingresso nel mondo dell’altro, per quanto possa essere rischioso, è necessario per la sopravvivenza del gruppo. Il viaggio si configura come pratica dell’altro: ingresso temporaneo in un mondo diverso, potenzialmente pericoloso e distruttivo, perchè incontrollabile e fuori dalla consueta sfera esperenziale. Il viaggio attribuisce identità all’individuo, che, solo nel momento in cui abbandona il proprio normale spazio esperenziale, può riconoscersene come parte integrante.

Il mito del rapimento di Europa e del suo viaggio sino a Creta riproduce la struttura tipica di un rito del passaggio femminile a classe adulta: la giovane viene strappata dalla famiglia e allontanata dalla sua comunità; il viaggio nello spazio marino, forma assoliìuta di alterità, ne modifica lo statuto esperienziale e psicologico; e l’unione sessuale a Creta con il rapitore Zeus costituisce il vero momento di passaggio esperienziale. Zeus ricopre qui in doppio ruolo: è l’adulto iniziatore che, ammantato di poteri speciali e del carisma dell’alterità, l’accompagna nella fase educativa di permanenza nel mondo altro e, a un tempo, lo sposo che l’introduce nella nuova classe d’età e nel nuovo gruppo sociale delle spose e delle madri. L’incontro con l’altro, che implica un viaggio, si conclude con un ritorno nel modno della socialità. La vergine diventa madre e dà avio a una dinastia di sovrani.

Le peregrinazioni di Ulisse hanno un valore iniziatico e riproducono, su scala mediterranea, la dinamica dei tradizionali riti di passaggio compiuti dai giovani nel loro specifico spazio politico. Ulisse si muove nel mondo dell’alterità, che di volta in volta prende la forma del mare, della natura selvaggia, dell’aldilà, del mondo della magia, di popoli stranieri o immaginari, di mostri e individui pericolosi, e poi ritorna nella propria terra e nel proprio palazzo, ossia nel suo normale spazio culturale ed esperienziale, per rivendicare le proprie ricchezze e la propria sposa. Per far questo Ulisse però, come in un vero e proprio rito di passaggio, deve dare prova di valore e astuzia, superando difficoltà, accettanto tabù comportamentali e sconfiggendo nemici. Il viaggio di Ulisse è però anche una celebrazione della cultura greca nella sua interezza: è la saga di un popolo di guerrieri e mercanti che per secoli ha dovuto attraversare il Mediterraneo affrontando i pericoli del viaggio e dell’alterità, dalle tempeste alla fame, dai pirati alle genti ostili, ma anche provando i piaceri della mobilità e della scoperta, dall’arricchimento conseguito con lo scambio di merci e di schiavi a quello ottenuto con razzie e rapimenti, dall’incontro con nuove culture alla creazione di nuovi legami culturali, politici o sessuali. Da questo punto di vista è metafora e storia vera al tempo stesso.

Le grandi saghe di viaggio, proprio per il loro valore di civilizzazione, sono sempre state utilizzate per plasmare lo spazio storico e politico. I miti, e in particolare quelli del viaggio, creavano lo spazio politico dei coloni greci che volevano affermare la loro comune appartenenza alla cultura delineata dai poemi omerici. Il rapporto con l’immaginario coloniale è fondamentale. Le grandi saghe di viaggio nascono, si sviluppano e si trasformano in tale ambito. Il ricordo dei primi viaggi commerciali compiuti dalle comunità guerriere micenee ( la “prima colonizzazione”) si fonde con quello del successivo processo di fondazione di colonie agricole e commerciali da parte delle comunità di cultura greca.

Ecco che l’incontro tra Ulisse e il Ciclope assume nuovo significato. Diventa la rappresentazione dell’incontro violento dei primi coloni e dei viaggiatori con le popolazioni indigene. Un manifesto culturale dal profondo valore ideologico, che mostra i pericoli del viaggio e dell’incontro con l’altro e legittima l’annientamento dell’indigeno. Mito, rito e politica sono instrinsecamente legati. I primi colonizzatori erano di fatto dei viaggiatori senza ritorno che partivano per insediarsi altrove. I discendenti di questi colonizzaotri erano invece spesso viaggiatori per forza, costretti a valicare di continuo il Mediterraneo per scambiare merci con la madrepatria, le altre colonie  e gli altri popoli o per difendere con la forza rotte e possedimenti. La storia dei viaggi nel mondo antico è anche storia di guerre e battaglie navali.

Secoli dopo la colonizzazione greca, le medesime saghe servirono per la costruzione dello spazio romano e per la costruzione del nuovo modo romano di vivere lo spazio. L’epica del viaggio viene nuovamente utilizzata per descrivere o plasmare il territorio, ma al valore politico-identitario se ne sostituisce uno edonistico-identitario. Questo diverso accostamento al mondo del mito accompagna un processo di rilettura del territorio, che non è più soltanto lo spazio in cui si fronteggiano natura e cultura e in cui l’uomo agisce da civilizzatore, ma può anche essere semplicemente uno spazio “bello”, che il mito aiuta a fruire meglio, o uno spazio che, con l’azione civilizzatrice o mitopoietica, può essere reso tale. Il viaggio diventa così anche ricerca del piacevole.

 

      Per un turismo del mondo antico

La moderna sociologia del turismo tende a leggere il turismo come un fenomeno relativamente recente, legato di fatto alla rivoluzione industriale. Il turismo da questo punto di vista si pone come un fenomeno tipicamente urbano, originatosi nel mondo urbano della prima età industriale e legato all’esperienza dell’uomo metropolitano. In tale contesto la mobilità sarebbe legata a una duplice necessità, economica (la circolazione delle merci) e psicologica (garantire sensazioni nuove all’individuo metropolitano che condurrebbe una vita blasée, schiacciato dal carattere sofisticato della vita urbana). Casson non stabilisce yba cesura netta tra viaggio e turismo, ma individua un comportamento turistico in alcune delle pratiche di viaggio dell’età ellenistica e poi della cultura romana tardo-repubblicaba e imperiale. Le testimonianze letterarie mostrano i caratteri di una complessa socità cittadina con atteggiamenti propri di una cultura urbana e una diffusa esigenza di novità da parte delle sue élites. Casson ricorda come la mobilità estiva dei romani avesse tra le sue motivazioni anche la ricerca di svago e di pratiche non urbane e l’allontanamento dalla consueta vita di città. Il turismo nel mondo antico resta un fenomeno che interessa solo le élites urbane, proprio come nelle fasi d’avvio del turismo dell’età moderna.

Si può affermare con certzza che la struttura e la complessità sociale del mondo ellenistico e ancor più di quello romano non fossero molto diverse da quelle della società europea all’alba della rivoluzione industriale. Il Mediterraneo greco-romano costituiva un sistema dalle componenti profondamente interrelate, con notevoli livelli di complessità nei rapporti sociali, economici e giuridici. Roma e Alessandria d’Egitto erano vere metropoli con un livello di organizzazione urbana che l’Europa moderna tornò ad avere solo in tempi relativamente recenti. Va anche rilevata la particolare condizione del Mediterraneo romano a partire dal rgno di Augusto: per alcuni secoli la cosiddetta pax augusta, imposta dopo un lunghissimo periodo di instabilità e guerre civili, assicura un nuovo approccio al viaggio. Mari e strade sono più sicuri: la pirateria appare debellata e il brigantaggio sotto controllo. I viaggi sono più facili: un efficiente sistema di strade collega le principali città dell’impero e flotte mercantili attraversano con regolarità il Mediterraneo. Con la pax romana il Mediterraneo e le altre regioni dell’impero conoscono una stagione di sicurezza e di espansione economica atta allo sviluppo di movimenti turistici che ricorda quella del mondo uscito dalla seconda guerra mondiale. Possiamo individuare una serie di segni della presenza di un “sistema secondario” del turismo, con prestazioni di servizio che implicano la figura del turista. Casson enfatizza la presenza di guide nei principali siti di interesse turistico, la produzione di souvenir per i viaggiatori, la presenza di servizi pensati esclusivamente per i turisti e viaggiatori. L’aristrocrazia romana, le élites locali coinvolte nella gestione del potere e i numerosi mercanti e uomini d’affari beneficiavano delle potenzialità offerte da questo sistema e potevano disporre di surplus economici reinvestibili in beni non necessari. Gli scavi di Pompei hanno restituito un’immagine preciso del tipo di villa e del livello della sua qualità in una città commerciale di piccole dimensioni e di secondaria importanza. Se il viaggio può dar luogo al turismo in presenza di un contesto sociale urbano e di attori legati a esperienze metropolitane, senza dubbio la società greco-romana può aver orpitato forme di turismo.

Ludwig von Wiese rimarca gli aspetti comportamentali del turista, di cui individua i connotati in un tipo particolare di forestiero, che, pur essendo in viaggio per commercio, esplorazione o piacere, cerca di stabilire con la popolazione che incontra un contatto che si esprime come simpatia, imposizione, adulazione, persuasione o inganno. L’interesse per il diverso è una caratteristica ricorrente nel viaggio antico e non peculiare delle sue forme turistiche.

Ogilvie da più peso all’aspetto economico: il turista è il viaggiatore che nel viaggio spende del denaro che proviene dalla sua attività abituale. Da questo punto di vista gran parte della mobilità turistica antica sarebbe da escludersi, sia per la difficoltà di individuare singoli turisti e quindi definire le loro risorse economiche, sia per la fondamentale distinzione tra pratiche prorpiamente turistiche e attività commerciali.

Hunziker e Krapf escludono dal turismo i viaggi in cui siano presenti mozioni lavorative.

Per Knebel il turismo richiede una pressione sociale verso la mobilità, la presenza di relazioni tra turisti e locali, la soddisfazione di bisogni di lusso con risorse guadagnate nel luogo di residenza, l’aspirazione al comfort e alla sicurezza fisica (sicuramente presenti nel turismo romano, ma estranei ad altre logiche di viaggio che però non escludono il turismo, come la mobilità in età greca, le diverse forme di pellegrinaggio o il turismo sportivo). Il comfort è un concetto relativo, da adeguare al contesto storico e culturale, e che nel mondo antico è stato a lungo estraneo anche alle élites.

 

      Turismo e turismi

La mobilità turistica antica, spesso legata a motivazioni religiose, commerciali o formative, raramente appae finalizzata a se stessa. Cohen individua form di turismo parziale, legate a motivazioni strumentali, come il viaggio d’affari, i viaggi di studio o i viaggi per cure termali o di altra natura. Queste forme di turismo, considerate da Cohen eccentriche o marginali, acquisiscono uno spazio sempre maggiore nel turismo contemporaneo e costituiscono alcune delle forme principali del turismo praticato nel mondo antico. I soggiorni termali sono alla base del turismo romano nell’area di baia, dove, secondo il quadro tracciato da Cass, veniva praticata una forma di turismo misto in cui l’aspetto edonistico, balneare e termale si accompagnava a interessi o curiosità culturali. Sarebbe stata una pratica più simile al turismo termale recente, raramente limitato solo agli aspetti curativi, che a quello stanziale-alberghiero della fine del XIX secolo. I centri termali antichi rappresentano una straordinaria forma di continuità tra mondo antico e moderno, dal momento che le principali località del turismo salutistico invalso tra il XVII e l’inizio del XX secolo sono in realtà centri termali di origine romana. Il mondo di Baia, con le sue ville, il mare, i bagni termali e i laghi, si configura con un vero e proprio mondo altro, luogo di delizie e perversioni, parco dei divertimenti per la seriosa classe dirigente romana. È forse proprio questo fascino del proibito e dell’alterità che, per alcuni secoli, assicurò la fama e il successo turistico di Baia. Allo stesso modo il moderno viaggio di studio trova un corrispondente nel viaggio di formazione di età greco-romana: i giovani appartenenti all’élite romana si recavano in Grecia e nei principali centri dell’Asia minore per completare, tra studio e visite a monumenti, la proprio formazione culturale. Si trattava di viaggi elitistici, dalle modalità più simili a quelle del Grand Tour, che a quelle del viaggio di studio contemporaneo. Il carattere elitario, però, non può essere assunto a discriminante che escluda la natura turistica del viaggio, dal momento che è una componente ineludibile del fenomeno turistico, se non altro perchè le élites sono parte effettiva di ogni sistema sociale e costituiscono il segmento sociale con maggiori disponibilità alla mobilità e più interessato ad essa. La tendenza a considerare il Grand Tour come una pratica di viaggio “preistorica” va forse ricondotta a quel bisogno identitario della borghesia intelletuale dell’inizio del XX secolo di esaltare e differenziare le nuove pratiche della borghesia di fine XVIII secolo da quelle della borghesia e dell’aristocrazia del secolo precedente. Il viaggio di formazione degli antichi romani verso la Grecia, cosi come il Grand Tour degli inglesi in Italia, il viaggio di formazione nelle colonie o il viaggio di formazione tardo-ottocentesca di tedeschi e francesi in Inghilterra, pur con modalità diverse rispondono alla medesima logica: formare la classe dirigente con un’esperienza di carattere misto, con elementi turistici, scientifici e culturali. Il giovane aristocratico inglese in Italia o nelle colonie passava di fatto un periodo di marginalità iniziatica un uno spazio facilmente connotabile come “altro”: il mondo primitivo della natura opposto al mondo superiore della cultura da cui essi provenivano. Come accadeva nel sistema simbolico antico, l’altro è connotato come tale solo in contrapposizione al sè in una logica puramente identitaria e non implica un reale primitivismo: la campagna coltivata è uno spazio culturale, ma, come esterna al mondo della polis, si connota simbolicamente come spazio naturale e selvaggio. Allo stesso modo è in spazi naturali e selvaggi come la grotta o il bosco che il giovane eroe greco del mito acquisice la conoscenza di tecniche culturali come la costruzione di armi e strumenti musicali. Così il mondo “altro” italico offriva al giovane inglese una serie di contenuti fortemente culturali che intervenivano nel suo processo di formazione identitario. Il viaggio di formazione del giovane romano avveniva in una logica simile: la Grecia a lui contemporanea era ormai un’area di interesse storico, archeologico e folclorico. Il viaggio di formazione fungeva da status symbol in grado di procurare una sanzione formale di appartenenza, secondo l’espressione usata da Knebel. Gli attori in età tardo-repubblicana appartanevano a una classe sociale variegata al suo interno, le cui risorse dipendevano solo in parte da fonti tradizionali come l’agricoltura e sempre più invece dai meccanismi dell’affarismo mercantile. Allo stesso modo ricchi e nuovi ricchi avevano le medesime aspirazioni e possibilità di partecipare alla vita politica dello Stato. La moda del viaggio in Grecia nasce in circoli politici e intelletuali che intendono contrapporsi al sistema politico-aristocratico tradizionale. Il mondo greco-romano affondeva le sue radici in un’organizzazione di tipo tradizionale: la società si basava sulla tradizione e i valori cardini della convivenza civile erano trasmessi da una generazione all’altra. In tale contesto passato e presente non sono in contrasto, ma lo divengono quando il presente vuole trasformare il passato, ponendosi al di fuori della tradizione.

Il pellegrinaggio antico ha caratteristiche miste non dissimili dal moderno turismo religioso, che unisce al pellegrinaggio aspetti tipici del turismo ordinario o di quello culturale. Lo stesso discorso vale per esperienze come i viaggi d’affari o le visite ufficiali, in cui, oggi come allora, lo scopo strumentale è accompagnato dalla ricerca del piacere e di nuove conoscenze.

 

      Pausania: dal Baedeker al turismo iconico

L’Itinerario della Grecia di Pausania ha caratteristiche che lo avvicinano alle prime guide turistiche dell’età moderna, tanto che Cassn lo definisce un vero e proprio Baedeker dell’antichità. Pausania descrive con precisione monumenti e tradizioni di una serie di luoghi da lui visitati in Grecia con una disposizione che segue quella del suo viaggio: una sorta di diario storico-archeologico, insomma. La grande attenzione che Pausania dedica a leggende, riti e tradizioni locali fa della sua opera un repertorio folcloristico e un fondamentale strumento per la comprensione antropologica della cultura greca. Pausania visita una Grecia che è ormai distante secoli da quella di Pericle o Platone, ma tuttavia ne restituisce un’immagine complessa in cui alla freddezza della distanza storica e archeologica si accompagnano il calore della testimonianza autoptica e della consapevolezza di essere un collettore di tradizioni antiche. Pausania per noi svolge un ruolo fondamentale di punto di contatto fra tradizioni orali e trasmissione scritta. Il testo di Pausania non è una vera guida, ma è stato considerato e utilizzato come tale dagli studiosi e dai viaggiatori moderni e quindi di fatto lo è diventato. È un testo che probabilmente ha educato generazioni di romani costruendo un’immagine mentale, di tipo turistico, della Grecia. Ma Pausania, non può essere considerato una “risposta tecnica alla paura dell’ignoto”, una guida finalizzata a limitare i rischi e a contenere i costi di un viaggio in terre lontane, come la celebre guida tedesca. Di comune restano la precisione, la tendenziale affidabilità delle informazioni e anche la semplicità che stimola l’attività fantastica  e il desiderio esperenziale del lettore. La principale utilità di Pausania va ravvisata nella sua funzione culturale: la storia di questo testo ci insegna a pensare diversamente i rapporti temporali e culturali tra mondo antico e mondo moderno e tra fasi diverse del mondo antico. Il testo di Pausania permette di pensare all’esistenza di un turismo mentale o della distanza, che nella presente epoca di cultura informatica, digitale e virtuale non va assolutamente sottovalutato. Gran parte del nostro modo di vedere la Grecia antica e di visitare la Grecia contemporanea è costruito proprio sull’opera di Pausania, che nel corso dei secoli ha plasmato tanto l’immaginario scientifico quanto quello turistico. Una caratteristica importante che emerge dall’opera di Pausania è la forte presenza del turismo iconico. Possiamo sostenere che il turismo antico è prima di tutto un turismo iconico, ossia teso alla scoperta dei luoghi in quanto collettori di immagini. Il viaggiatore antico che decideva di visitare una determinata località non era interessato al monumento come tale. Il suo interesse era rivolto all’anima dei luoghi e dei monumenti, al loro contenuto mitico. La descrizione strutturale serve per la visualizzazione mentale e la definizione di un principio di credibilità. Ma tutto ciò è l’involucro per ciò che il visitatore deve vedere: il mito come anima dei luoghi e dei monumenti. Per un uomo del mondo antico questo tipo di approccio era instintivo. L’età romantica, come mostrano Goethe e Frazer, per vie diverse e grazie alla sua forte componente mitopoietica ha ritrovato in parte questo spirito, tanto che è stata in grado di apprezzare un testo come quello di Pausania. Tale attenzione al mondo antico e all’anima mitica dei luoghi è nuovamente riscontrabile in alcune sofisticate forme del turismo culturale e iconico contemporaneo. Si viaggia per cercare un’atmosfera e non per vedere un edificio o per vedere un luogo visto in un film e mitizzato dalla presenza di un attore, l’equivalente contemporaneo dell’eroe omerico, o dal fatto stesso di essere stato “catturato” dal film e cristallizzato in una sfera a-temporale e a-spaziale. Si tratta spesso di forme turistiche in cui aspetto storico, mistico e culturale s’intrecciano. Casson insiste sulla diffusione di guide ciarlatane che inventano luoghi e adattavano miti a uso e consumo dei viaggiatori. Il turista si attende una rappresentazione della realtà e non neccessariamente la realtà stessa. Un’interessante forma di turismo era costituita dal turismo bellico, tombale o cimiteriale: i luoghi dove erano morti o vi erano tumulati dei guerrieri erano spazi percepiti come speciali, fortemente carichi in senso magico e quindi atti a pratiche divinatorie. Ancora una volta il viaggio, pellegrinaggio, turismo, mito e religione appaiono intrecciati. Ed è forse proprio alla forza evocativa del mito e alla sua inesauribile capacità di sollecitare l’uomo al viaggio che dobbiamo affidare il futuro del turismo e, grazie ad esso, anche quello del mondo antico.

 

  •  PARTE PRIMA

CAPITOLO II

Gli inizi: 1200-500 a.C.

Intorno al 1200 a.C. le civiltà del Mediterraneo orientale subirono un profondo cambiamento. Orde di invasori di oscura origine, i “Popoli del Mare” le travolsero lentamente lasciandosi dietro solo rovine. Cominciava l’Età del Ferro. Gli Egizi riuscirono a sconfiggere gli invasori proprio alle porte di casa, alle bocche del Nilo. Ma presto scivolarono in una sorta di lungo crepuscolo, durante il quale, vivendo nel riflesso del passato, fossilizzarono il loro paese, e ne fecero il primo luogo di attrazione turistica dell’antichità. Siria e Palestina si trovarono prive di guida; ciò permise a numerosi popoli di importanza relativamente minore di far sentire la loro presenza. La fine dei disordini portò alla ribalta in Mesopotamia un popolo che doveva in poco tempo fondare il più grande impero che il Medio Oriente avesse mai visto: quello degli Assiri. Ma il cambiamento che alla lunga avrebbe avuto più influenza sul corso della storia avvenne nella penisola greca. Gli invasori provenivano da nord, e la Grecia si trovava esattamente sulla loro strada. Quando quelli giunsero, travolsero l’ancor fiorente civiltà micenea. La Grecia scomparve, visse un’età buia per tre o quattro secoli. L’oscurità si dissolse per illuminare gli antenati di quel popolo ricco di splendide doti che noi conosciamo dalla storia. Agli inizi questi nuovi Greci conducevano una vita povera e primitiva, ben diversa da quella dei loro predecessori, i potenti e organizzatissimi Micenei. I grandi re di un tempo erano ora ridotti al rango di signorotti locali, le grandiose città con i relativi palazzi reali erano ridotte a semplici villaggi, dove nobili e contadini vivevano in modo affine alle fattorie. Questa è l’epoca rappresentata nei poemi omerici, soprattutto nell’Odissea. In questo modo i viaggi per mare rappresentano ancora il sistema più rapido per spostarsi da un luogo all’altro; ma le grandi potenze marinare del precedente millennio sono ora tutte rimpiazzate da un nuovo popolo di commercianti, i Fenici.

Nei versi di Omero si parla molto di viaggi, sia per terra sia per mare, ma si tratta solo di viaggi di re e principi. Via terra gli eroi omerici viaggiavano con i cocchi. Nel medioevo ellenico, in realtà, i cocchi erano praticamente scomparsi dall’uso e sopravvivevano solo per le corse. Questi viaggi sono dunque un anacroniscmo, un ricordo dei tempi micenei, quando i nobili e le loro donne viaggiavano per il paese con simili mezzi di trasporto. I trasporti erano affidati soprattutto agli animali da soma, in particolare ai muli. Dove il terreno lo permetteva venivano usati veicoli a ruote.

Le accoglienze di ui godevano gli eroi non erano meno lussuose del loro modo di viaggiare; quando si recavano alla casa di qualcun altro venivano generosamente ristorati con vino e cibo, e alla partenza erano caricati di doni. Vi era un prezzo da pagare per tutto ciò: quando l’ospite restituiva la visita si aspettava uno stesso tipo di ospitalità e doni di egual valore. Gli oggetti d’oro e d’argento di cui parla tanto spesso Omero sono essi pure anacronismi, lussi di cui avevano goduto i Micenei ormai da tempo scomparsi. Entrare nella casa di qualche importante personaggio implicava molto di più che non il semplice cibo e asilo per la notte: significava che il viaggiatore poteva contare sul braccio del suo ospite per difendersi dall’istintiva diffidenza di una piccola comunità e dalla xenofobia. Altrimenti, in quest’epoca che non conosceva alcuna autorità centrale, l’unica protezione per il viandante stava nel senso religioso della popolazione e nella sua propensione a conformarsi alle leggi divine, le quali in modo chiaro e indiscutibile imponevano l’ospitalità.

Omero raramente canta la gente comune; solo nelle avventure di Ulisse travestito da mendico c’è un accenno a ciò che poteva capitare ai viaggiatori normali. Se nessuno accoglieva uno straniero a casa sua, il meglio in cui questi potesse sperare era di dormire sotto una loggia pubblica o una bottega di fabbro dove il caldo della fucina poteva proteggerlo dal freddo della notte. Condizioni simili esistevano a quel tempo in alcune parti del Medio Oriente, come veniamo a sapere dai primi libri del Vecchio Testamento che sono contemporanei ai poemi di Omero.

La gente andava a piedi e da sola. Ciò che bisognava fare, soprattutto quando si viaggiava con donne, era circondarsi di servi e muli. Re e principi viaggiavano a dorso di mulo; i cocchi erano riservati solo alla guera, non se ne parla mai a proposito dei viaggi, quantunque in alcuni luoghi ci fossero strade di cui essi avrebbero potuto servirsi.

Mentre David e Salomone costruivano un piccolo ed effimero regno in Palestina, a nord-est, intorno al medio corso del Tigri, gli Assiri stavano gettando le fondamenta di un grande impero. Esso durò circa tre secoli, dal 900 circa al 612 a.C., quando i Medi di Ciassarre, uniti alla risorta Babilonia, ne distrussero la capitale Ninive in maniera così radicale che, un paio di secoli dopo, i Greci di Senofonte passarono tra le sue rovine senza avere la minima idea di ciò che avevano sotto gli occhi. Gli Assiri furono grandi per il loro senso della disciplina e dell’organizzazione. Crearono una potenza militare in grado di conquistare e difendere gran parte del Medio Oriente, e una burocrazia caace di amministrare ciò che era stato conquistato con spietata efficienza. Per permettere alle truppe di muoversi con velocità in ogni direzione, e per facilitare rapide comunicazioni fra la capitale e i territori circostanti, i sovrani assiri costruirono una rete di strade. Le stra militari degli Assiri potevano accogliere non solo i cocchi ma anche gli arieti da guerra simili a primitivi carri armati e talmente pesanti da dover essere, talvolta, montati su tre coppie di ruote. Le strade principali erano manenute con cura, provviste di segnalazioni poste a una data distanto e vi erano posti di guardia che offrivano non solo protezione, ma anche la possibilità di comunicare con il successivo attraverso un sistema di segnali luminosi. Lungo le strade che attraversavano i deserti si trovavano sorgenti e piccoli fortilizi a intervalli regolari. Le strade erano in terra battuta, mentre la pavimentazione era riservata solo per le zone prossime ai templi e ai santuari dove, nei giorni di festa, dovevano passare i veicoli delle processioni. In questi tratti, la tecnica di pavimentazione si rivela abbastanza simile a quella dei Romani. I solidi ponti in pietra esistevano solo dove erano assolutamente necessari. Le strade dell’Assiria erano regolarmente usate dai messaggeri reali e dalle truppe: il governo inoltre manteneva un efficiente servizio di posta. Negli anni in cui la potenza assira andava crescendo, gli uomini impararono a cavalcare. Il cavallo fu usato dapprima come animale da tiro; trovò poi un’utilizzazione più idonea, divenendo l’animale da tiro ideale per la forma più ricercata di carro: il cocchio. L’equitazione nacque probabilmente fra le popolazioni nomadi, che abitavano le pianure steppose della Russia meridionale, dell’Asia minore e dell’Iran, e da lì si diffuse nelle aree circostanti. Durante quasi tutta l’antichitò l’equipaggiamento del cavaliere fu ridotto al minimo. Come animale da tiro, il cavallo era usato quasi solo in guerra; comprarlo e mantenerlo era estremamente costoso, alla portata solo di chi militava in cavalleria, chi era corriere governativo o un ricco appassionato di sport. I viaggiatori preferivano andare a dorso d’asino o su carri trainati da muli.

Le strade percorse dai corrieri erano costruite per essere usate non olo da cavalli e bestie da soma, ma anche da veicoli montati su ruote; vi poteva transitare anche un veicolo assai delicato, molto amato dai Persiani: si tratta di un carro “di lusso” a quattro ruote e coperto. I Greci lo chiamavano “cocchio-carro”, poichè univa l’eleganza e la rapidità del cocchio con la spaziosità del carro. Gli aristocratici persiani lo usavano, fra le altre cose, per trasportare i propri harem. La vera regina del harmamaxai fu quella costruita apposta per trasportare il cadavere di Alessandro da Babilonia, dove era morto, alla sua tomba in Alessandria. Era costruita a imitazione di un tempio greco, circondato da colonne, ricoperta di lamine d’oro, fastosamente decorata.

Il maggior contributo alla diffusione dei viaggi da parte di queste nazioni che già conoscevano le strade, fù dato proprio là dove le strade non esistevano affatto. I Persiani, anche se non furono i primi a usare le carovane di cammelli attraverso il deserto, furono responsabili del ruolo fondamentale che tali carovane giocarono nei commerci del Medio Oriente.

L’anno 500 a.C. segna il momento in cui il Medio Oriente, per tanto tempo punto focale della storia antica, cede il passo all’Occidente, cioè ai Greci e ai Romani. In quell’epoca, le caratteristiche generali del sistema di viaggiare nell’antichità erano ormai stabilite. Per mare le navi mercantili collegavano tra loro i maggiori porti del Mediterraneo Orientale; per terra i centri più importanti erano collegati da strade carrozzabili, le migliori delle quali erano dotate di ponti, traghetti, segnali indicatori, stazioni di sosta e posti di guardia. I viaggiaotri potevano scegliere tra carri, cocchi, asini, cavalli o cammelli. Lungo le strade più importanti c’erano locande e nelle città locande e taverne. Inoltre, in mezzo ai consueti viaggiatori in cammino per lavoro per terra e per mare, commercianti o funzionari governativi, cominciano a scorgere i primissimi viaggiatori che si spostano per il gusto di viaggiare: i turisti.

 

 

  • CAPITOLO TERZO

Più vasti orizzonti

Nel 500 a.C., la Persia di Dario il Grande dominava il mondo antico come un colosso. Dario riunì le declinanti potenze del Medio Oriente in un vastissimo impero. Il lungo braccio del suo potere giunse fino a controllare le città greche della costa occidentale dell’Asia Minore. Solo alcuni minuscoli stati della Grecia continentale resistevano al suo dominio, e quando uno di essi, Atene, osò sfidarlo, Dario decise di assoggetare anche questi. Ne seguirono le famose guerre combattute fra il 498 e il 448 a.C., durante le quali i Graci strabiliarono se stessi non meno dei Persiani, sconfiggendo il gigantesco nemico e divenendo così i nuovi protagonisti della storia antica. I Persiani avevano creato e governato un impero smisurato. Ciò rappresentava un assurdo per i Greci, i quali preferivano vivere in città che erano al contempo degli stati indipendenti, ciascuno, quale che fosse la sua grandezza, con la propria costituzione, la propria organizzazion militare, la propria monetazione e ogni altro elemento connesso con l’autonomia. Quando Atene, nella seconda metà del V sec. a. C., raggiunse il massimo della sua potenza, riunì ciò che noi siamo soliti chiamare un impero, in cui però mancava totalmente un’organizzazione centralizzata simile a quella dei Persiani; si trattaa di una federazione di città-stato che tali rimanevano, con l’unica differenza che pagavano un tributo ad Atene e accettavano le sue imposizioni nel campo della politica estera. Il mondo, al cui interno i Greci si muovevano, andava dalle coste orientali del Mar Nero fino alla lontana Marsiglia; e sarebbe stato ancora più vasto se non fosse stato per Cartagine, la colonia fenicia situata sulle coste della Tunisia, che a poco a poco era diventata più potente della madrepatria. Dal 535 a.C., per alcune decine d’anni, i Greci che avevano fondato marsiglia ingaggiarono una serie di terribili battaglie navali contro Cartagine, ma tutto ciò che ottennero fu di restare dov’erano. A est di Marsiglia, però, il mare era libero ed era battuto da una moltitudine di navigli mercantili cartaginesi, fenici, egizi e, sopratutto, greci.

Omero aveva una conoscenza solo parziale del Mediterraneo: la Sicilia a ovest, l’Ellesponto a est ne erano i limiti; oltre questi confini per lui esisteva solo un mondo leggendario, popolato da Lotofagi, Ciclopi e simili prodigi. Nel V sec. a.C.m invece, un Greco colto, o che avesse viaggiato, conosceva tutto il Mediterraneo e il Mar Nero e aveva un’idea abbastanza precisa delle distanze e delle posizioni geografiche. Grazie alle informazioni difusesi prima che i Cartaginesi impedissero il passo agli stranieri, si sapeva che il Mediterraneo era delimitato a ovest dallo Stretto di Gibilterra, al di là del quale si stendeva un vasto oceano; si aveva inoltre notizia dell’esistenza delle Isole britanniche; si sapeva invece pochissimo delle zone interne le quali, come per Omero, arano ancora in larga parte terra incognita. I viaggi attraverso la Persia avevano fatto conoscere ai Greci l’Estremo Oriente sino alla valle dell’Indo. Nel V sec. a.C., la conoscenza che i Greci avevano dell’Asia comprendeva l’Arabia e le terre a oriente fino alla valle dell’Indo. Riguardo l’Africa, invece, non erano andati molto più avanti di Omero. Nel 500 a.C., una grandiosa spedizione passò lo Stretto di Gibilterra con lo scopo di installare colonie sulle coste occidentali dell’Africa. Questo è l’unico viaffio di scoperta fatto dagli antichi, sul quale abbiamo notizie di prima mano, poichè abbiamo adirittura le esatte parole di un rapporto compilato dal comandante della spedizione, il cartaginese Annone. Egli lo fece incidere su bronzo e lo pose nella sua città natale.

 

  • CAPITOLO QUARTO

Commercio e viaggi nella Grecia classica: 500-300 a.C.

Quando il centro di gravità del mondo antico si spostò verso occidente, dalla Persia e dal Medio Oriente alla Grecia, il Mediterraneo assunse un ruolo fondamentale, mantenuto poi nei secoli per il commercio e i viaggi dei Greci e dei Romani. Lungo le sue coste erano situate quasi tutte le città-stato. Tutte le città più potenti erano anche dei porti. Fino all’avvento della ferrovia, l’acqua rimase sempre l’unico mezzo comodo per i trasporti pesanti, e anche il più conveniente per i lunghi viaggi. E cosi i mercanti greci cominciarono a percorrere in lungo e in largo il Mediterraneo. Le linee degli scafi erano confortevoli e molto arrotondate, l’attrezzatura si riduceva a un solo albero, con una vela quadra e bassa:doti principali di queste navi erano la capacità e la sicurezza e non certo la veloctità. A poppa si trovava di solito un piccolo spazio coperto con alcune cabine per il comandante e il proprietario della nave o per il mercnte che l’aveva affittata. Le cabine non offrivano molte comodità, solo lo spazio strettamente necessario per dormire o per permettere all’occupante di ripararsi dalla pioggia, dal freddo o dal caldo. Gli schiavi al seguito, come pure tutti gli eventuali passeggeri, dormivano sul ponte. Ognuno portava il proprio cibo, e gli schiavi attendevano il loro turno per cucinarlo nel forcone. Giunto in porto, e dopo aver sistemato il carico presso un magazzino, il primo atto del mercante era di recarsi al tempio di Poseidone e deporvi delle offerte in segno di gratitudine per la buona navigazione.

I viaggi per terra a quell’epoca erano faticosissimi. La gente di solito andava a piedi, e chi viaggiava con poco bagaglio portava con sé uno o due schiavi addetti al servizio personale e al trasporto dei sacchi stipati di vestiti, coperte e cibarie. Quelli che potevano permetterselo andavano a dorso di mulo o d’asino. I Greci guardavano con sospetto le lettighe e le portantine e le ammettevano solo per i malati e le donne. Dove le strade lo permettevano, si potevano usare dei veicoli, soprattutto quando c’erano delle donne; il normale mezzo di trasporto per passeggeri era un piccolo carro scoperto, che portava non più di quattro persone, e aveva una cassa molto leggera di legno o di vimini intrecciati; era trainato da una coppia di muli. Per i lunghi viaggi c’erano i carri coperti, con la tradizionale copertura montata su archi. Per i trasporti pesanti si utilizzavano particolari calessi rinforzati, oppure carri a quattro ruote trainati da coppie di buoi.

Chi viaggiava in Grecia nel V sec. a. C., doveva pensarci due volte prima di usare un qualsiasi mezzo di trasporto, poiché non dappertutto c’erano strade carrozzabili. Ben pochi stati erano abbastanza ricchi da potersi permettere di costruire strade. I Greci rivolsero invece la loro attenzione alle strade che conducevano ai luoghi sacri, soprattutto a quelli in cui si svolgevano le grandi festività. Dovunque possibile le resero in grado di accogliere mezzi di trasporto su ruote. In alcuni casi si ricorse alla più economica e più spiccia costruzione di “strada a rotaia”, una sorta di lontano antenato dei binari ferroviari. Avevano rotaie anche le strade sulle quali passava un traffico particolarmente pesante. Anche le normali strade maestre che erano sottoposte a un traffico pesante erano in certi tratti a doppia corsia; le strade a una sola corsia avevano, a intervalli, delle deviazioni per permettere ai mezzi avviati in direzioni opposte di scorrere. Le strade greche offrivano pochissime comodità; poche piante crescevano lungo i bordi e un viaggiatore doveva portarsi un parasole, oppure affrontare senza alcun riparo il sole cocente. Mancavano veri e propri segnali stradali, però almeno agli incroci delle strade o nei punti di confine c’erano degli utili sostituti: le erme, cioè i “cippi sacri a Hermes”. Nella loro forma più antica, qeusti cippi posti lungo le strade si riducevano a un mucchio di sassi, e il passante, come segno di devozione, poteva aggiungerne uno al mucchio.

Ogni volta che una persona si metteva in viaggio, sia per mare che per terra, doveva sempre considerare atentamente i pericoli che esso comportava. Per chi sceglieva il mare c’era l’onnipresente rischio di venir catturati dai pirati o dalla flotta di un paese nemico se, come accadeva spesso, era in corso una guerra. Le nostre scarse fonti d’informazione non parlano quasi mai di banditi sulle strade, ma non c’è ragione di dubitare che essi fossero un flagello pari a quello dei pirati. Il corpo di vigilanza, che ognicittà-stato manteneva, curava l’ordine all’interno delle mura delle città stesse; la campagna invece, per qualunque proposito o decisione, era una terra di nessuno. La sola risorsa per i viandanti era di muoversi in gruppo, o portare con sé numerosi schiavi che fungevano al tempo stesso da servi e da guardie del corpo. Quelli che si mettevano in viaggio cercavano di portare con sé il minimo indispensabile in danaro e oggetti di valore. Ciò comportava però un altro problema: cosa fare di ciò che si lasciava a casa. C’erano i templi, che, avendo sempre dei locali attrezzati per serbare i doni votivi, fungevano spesso da tesoreria pubblica ricevendo in deposito il danaro dallo stato e, in certi casi, anche oggetti e capitali dei privati cittadini. C’erano poi i banchieri che potevano accettare valori da custodire. Il danaro liquido, non esistendo alcun valido strumento di credito, doveva sempre essere portato in contanti. Dal momento che ogni città-stato pretendeva di battere una propria moneta, i cambiavalute diventavano figure indispensabili ai viaggi. Li si poteva vedere in ogni città commerciale, seduti di fronte al loro piccolo banco nel porto, o nel mercato, oppure di fronte a qualche tempio posto in luogo strategico. Essi pesavano con una bilancia tutte le monete loro offerte, per essere sicuri del peso, soppesavano, fiutavan e controllavano la forma di quelle che suscitavano i loro sospetti. In Occidente e nella Grecia le monete erano in maggioranza d’argento; in Oriente invece erano comunemente d’oro o d’elettro, una lega naturale d’oro e argento. Nel periodo della massima potenza ateniese la moneta di Atene aveva corso dappertutto.

L’abito usuale degli uomini era il chiton, un’ampia tunica di lino o lana, senza maniche e lunga fino al ginocchio o al polpaccio, trattenuta in vita da una cintura, la zone. Durante i viaggi, la gente aveva l’abitudine di accorciare il chiton, ripiegandolo in su nella cintura, in modo da salvare l’orlo dalla polvere e dal fango e avere le gambe libere. Per coprirsi ulteriormente, il viaggiatore usava la clamys, un rettangolo di stoffa che poteva essere indossato come un corto mantello; ai piedi calzava sandali legati con corregge di cuoio attorno al polpaccio. In testa a veva il petasos, un cappello a larghe tese fornito di un sottogola. Il viaggiatore doveva portare con sé il necessario per dormire; di solito si trattava du un himation, o di una claina, grandi rettangoli di lana usati sia come coperte sia piegati doppi, come mantelli nei giorni freddi. Le donne portavano tuniche simili a quelle degli uomini e compe copricapo una versione raffinata del petasos; alcune avevano anche un parasole. Tutto ciò che non si portava addosso, era sistemato in sacchi di cuoio e affidato alle cure degli schiavi al seguito.

Le persone disposte ad accettare tutte le difficoltà e i rischi che i viaggi in quell’epoca comportavano, rientravano in alcune ben precise categorie. In quelle dei mercanti rientravano senz’altro la maggior parte. Ma, in alcuni periodi dell’anno, lungo certe strade e certe rotte marittime, i mercanti e tutti gli altri viaggiatori occasionali si trovavano a far parte della più grande massa in movimento dell’epoca: ci riferiamo alle folle che accorrevano ad assistere alle grandi feste religiose panelleniche. L’idea di organizzare cerimonie religiose comuni si sviluppò presto nel modno greco: gruppi di città-stato vicine tra loro presere l’abitudine di riunirsi in determinate località per celebrare una divinità che essi onoravano in comune. A poco a poco, quattro di queste celebrazioni crebbero d’importanza fino ad assurgere al grado di vere e proprie feste nazionali, alle quali partecipavano Greci provenienti da tutte le contrade. Si tratta dei Giochi Olimpici, Giochi Pitici, dei Giochi Istmici e di quelli Nemei; ciascuna di queste feste era dedicata a un dio e comprendeva anche delle preghiere e dei sacrifici. Queste feste offrivano un un’unica occasione il campionario completo delle attrazioni che, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno richiamato i turisti: la sensazione di partecipare a un grande avvenimento e a un’esperienza eccezionale; un’allegra sensazione di festa accompagnata da momenti di esaltazione religiosa; un apparato sfarzosamente elaborato; l’eccitazione di gare disputate fra partecipanti di eccezionale calibro e la possibilità di ammirare costruzioni e opere d’arte famosissime. I più antichi e i più importanti dei quattro erano i Giochi Olimpici. Si tenevano ogni quattro anni in onore di Zeus a Olimpia. I Giochi si svolgevano in estate. Le città-stato, che erano praticamente sempre in guerra tra loro, sospendevano le ostilità in occasione dei Giochi Olimpici. Infatti questa, come anche le altre feste panelleniche, godeva dei benefici di una “tregua sacra”.

Nelle antiche Olimpiadi, come nelle moderne, il ruolo chiave era svolto dalle gare di atletica. C’erano anche gare di pentathlon, di pugilato, di pancrazio, di corse di carri e di cavalli. Prima e dopo le gare gli spettatori potevano passeggiare nella zona e visitare i monumenti, compreso il grandioso tempio di Zeus, fove era conservata la gigantesca statua del dio fata da Fidia: un’opera famosa, destinata a far parte delle Sette Meraviglie del mondo antico. Potevano fermarsi ad ascoltare i migliori autori del tempo, che davano pubblica lettura delle proprie opere, oppure i più famosi oratori impegnati nel declamare su argomenti di vitale importanza; potevano infine osservare le opere d’arte esposte dai numerosi pittori e scultori contemporanei.

 I Giochi Pitici, dedicati ad Apollo e celebrati presso l’oracolo del dio a Delfi, offrivano attrattive in una certa misura diverse. C’erano gare di atletica, ma l’accento era posto soprattutto sulla musica  e la danza; la manifestazione era molto simile a quei festival musical moderni. Si tenevano competizioni di danza collettive, gare di canto con accompagnamento della lira, di recitazione dei poemi omerici con accompagnamento musicale. In altre feste musicali erano compresi anche i canti con accompagnamento a flauto, che erano però vietati nei Giochi Pitici per la ragione che questi canti e lamenti funebri erano giudicati troppo tristi per l’occasione. C’era spazio anche per gli amanti dell’arte: il programma comprendeva mostre di pittura e scultura. La festa si svolgeva ogni quattro anni in primavera, in modo da non sovrapporsi mai alle Olimpiadi.

A Corinto venivano celebrati i Giochi Istmici dedicati a Poseidone; si svolgevano ogni due anni, una volta in primavera e una volta in estate. Le gare di atletica vi giocavano il ruolo principale, ma vi erano anche gare musicali e di danza. I Giochi Istmici erano meno importanti delle Olimpiadi ma probabilmente attiravano altrettanta gente perché Corinto era il luogo più accessibile della Grecia: con un porto su entrambi i lati dell’istmo, era raggiungibile per mare sia da est che da ovest. I Giochi Nemei erano celebrati in onore du Zeus; si svolgevano ogni due anni, alternativamente in inverno e in estate e comprendevano gare musicali ed atletiche, con maggiore importanza per quest’ultime.

La tregua sacra, di cui godevano le feste panelleniche, garantiva una larga partecipazione. Le feste locali non usufruivano di questo vantaggio, alcune tuttavia offrivano attrattive talmente eccezionali da richiamare un considerevole numero di spettatori da lontano a dispetto dei pericoli del viaggio. Era il caso delle Grandi Dionisie ad Atene, l’annuale festa in Onore di Dioniso che aveva luogo nel mese di marzo. Il programma era interamente dedicato alla musica e alla letteratura (non vi erano competizioni atletiche) e la manifestazione più importante consisteva in una serie di gare fra poeti comici e tragici. A questa festa si deve la nascita del teatro. Il dramma nacque come parte dei riti connessi con il culto di Dioniso e divenne un elemento fisso in tuytte le cerimonie collegate alla celebrazione della sua festa. Durante le Grandi Dionisie nel 534 a.C, un attore di nome Tespi mise in scena un dramma di sua composizione: fu questo l’atto di nascita della tragedia. Nel 499 Eschilo presentò la sua prima tragedia e nel 458 scrisse la trilogia nota come l’Orestiade, una pietra miliae nella letterattura drammatica occidentale.

Il teatro di Atene era una vasta area a cielo aperto, situata lungo il fianco di una collina. Tutti i teatri greci erano grandi, erano l’equivalente degli odierni stadi sportivi. Eppure l’entusiasmo per i drammi era tale, che spesso la capienza del teatro non era sufficiente. Le rappresentazioni erano riservate soprattutto ai cittadini residenti. Ad Atene il posto migliore, cioè il sedile di centro della prima fila in mezzo, era riservato al sacerdote di Dioniso, e quello accanto all’araldo che faceva gli annunci. Gli altri posti migliori, cioè i restanti della fila centrale e quelli limitrofi, erano riservati ai sacerdoti, ai magistrati cittadini, a ospiti d’onore stranieri, ai membri delle ambascerie e a numerosi pubblici benefattori, sia cittadini che non. Inoltre alcuni settori erano riservati a categorie specifiche. Se un cittadino ateniere era troppo povero per pagarso il prezzo d’ingresso, per lui provvedeva lo stato tramite uno speciale fondo, il theoricon. Gli stranieri, privi di una ragione ufficiale per entrare nel teatro, dovevano ricorrere a qualche amico della città, oppure sistemarsi in qualche modo sui pendii che circondavano il teatro.

 Una grossa categoria di viandanti che poteva essere vista sulle strade tutti i giorni era quella dei malati diretti ai vari santuari degli dei guaritori, soprattutto a quello di Asclepio. Questi luoghi erano generalmente situati in località scelte oculatamente per la purezza dell’aria e dell’acqua e per le bellezze naturali; sovente erano vicini anche a delle sorgenti minerali. Qui i malati non trovavano soltanto delle cure, ma anche falicitazioni di soggiorno e diverimento. Gli edifici comprendevano il tempio di Asclepio, con una famosa statua del dio e altre celebri sculture, altri templi che contenevano notevoli opere d’arte, porticati per passeggiare all’ombra, uno stadio per le manifestazioni sportive e un teatro che era il secondo in tutta la Grecia. Accanto al tempio di Asclepio c’era un altro edificio importante, l’enkoimeterion, o dormitorio: qui e nel tempio avevano luogo le cure. Tutti i visitatori che lo desideravano potevano passare una notte in quei luoghi e venir visitati in sogno dal dio che comunicava loro una cura o addirittura li curava in modo magico.

Le offerte votive erano un altro modo con cui i pazienti potevano manifestare la propri gratitudine. Oltre al dormitorio, c’era una grossa locanda dove i visitatori potevano fermarsi tutto il tempo che volevano. Era costituita da quattro edifici quadrati uguali fra loro. Ogni edificio era costruito nel tipico modo delle locande greche: un cortile centrale circondato da una costruzione a due piani; su ogni cortile si affacciavano venti camere per piano.

Anche i santuari degli oracoli avevano un vasto pubblico di visitatori. I due più importanti erano quello di Zeus a Dodona e quello di Apollo a Delfi. Gli oracoli erano soprattutto al servizio di goveri, uomni di stato, generali e simili, che li consultavano regolarmente prima di prendere una qualsiasi importante decisione. Vi si recava però anche chiunque volesse sottoporre al dio un problema personale.

Vi era anche un’altra forma di viaggiotori, quella dei turisti puri e semplici. Atene stessa divenne un’attrazione turistica dalla seconda metà del V sec., dopo che l’Acropoli fu arricchita dal Partenone e altre splendide costruzioni.

Viaggiare per diletto richiedeva tempo libero e denaro, e chi potesse godere di questi privilgi nel V e VI sec. a.C era solo una ristrettissima cerchi di persone nell’ambito della società greca. Ma il loro numero crebbe di continuo nei secoli successivi. I viaggiatori cercavano sempre di arrivare a destinazione con la luce del giorno. In un’epoca che non conosceva l’illuminazione domestica nessun marinaio si sarebbe arrischiato a entrare in porto col buio.

Solo raramente le strade avevano un nome e ciò accadeva solo per le strade più importanti.

I mercanti alloggiavano presso i rispettivi soci, i nobili e i ricchi presso i loro influenti amici, e la povera gente presso chiunque fosse disposto ad accoglierla. Famiglie di città diverse, unite da un legame di amicizia, si scambiavano ospitalità reciproca persino da una generazione all’altra. Le abitazioni della gente benestante comprendevano sempre almeno uno xenon o camera degli ospiti; di solito questa era un vero e proprio alloggio separato. Il visitatore veniva invitato alla tavola del suo ospite il giorno dopo il suo arrivo; dopodichè venivano inviate provviste allo xenon oppure l’ospite stesso se le comprava ed i suoi servi provvedevano a cucinare per lui. Alla partenta il padrone di casa e l’ospite si scambiavano dei doni. Quelli che non potevano avere ospitalità privata dovevano ricorrere ad una locanda, un pandokeion; “luogo per ospitare tutti”. Nel V sec. si trovavano locande lungo le strade più importanti, e nella stragrande maggioranza esse non erano assolutamente accoglienti. Noi conosciamo solo la pianta delle locande di campagna e di quelle costruite dove non c’erano problemi di spazio; si tratta di edifici simili all’ostello di Epidauro: un largo cortile centrale, quadrato o rettangolare, circondato da un basso edificio, di solito a due piani. Lo spazio interno era suddiviso in una serie di piccole camere, ciascuna delle quali si apriva sul cortile o su un porticato coperto che lo circondava. Sulla facciata principale, una porta carraia immetteva nel cortile. Le locande  di città invece erano molto più anguste. Al suo arrivo il viaggiatore lasciava la vettura o le bestie nel cortile e da qui veniva poi condotto nella sua stanza, che in carti casi, a seconda del traffico, doveva dividere con altri ospiti; in camera si trovava solo un pagliericcio, mentre come coperta doveva usare il suo mantello. Non c’erano servizi ma solo delle seggette. Nelle città dove c’era un mercato il viaggiatore affittava solo la camera; il cibo doveva comprarlo al mercato e affidarlo per la cottura ai suoi servi o alla cucina della locanda,

nel V sec. all’ìinterno dei recinti dei templi c’erano locande di proprietà dei templi stesso. Qualche tempo dopo anche le città cominciarono a gestire le locande. Le città curavano anche la manutenzione delle lescai, pubbliche logge dove il popolino poteva trascorrere il giorno oziando, al riparo dal sole o dalla pioggia. Le lescai, benchè non offrissero altro che un tetto sopra la testa, erano il rifugio di tutti coloro che non potevano permettersi di pagare una locanda e non trovavano alcun ospite generoso che li accogliesse nel proprio xenon.

Il bagno vero e proprio consistea in una grande tinozza nella quale si sedeva il cliente, mentre un inserviente gli versava addosso dell’acqua. Le case signorili erano talvolta fornite di bagno privato.

Le locande risultavano poco confortevoli anche perchè erano usare soprattutto da ospiti di passaggio; i viaggiatori che dovevano fermarsi per qualche tempo in una località cercavano di affittare una camera in una casa privata.

Templi e santuari di qualche importanza erano solitamente attrezzati con alloggi e sale da pranzo per ricevere ospiti. In tempi normali le stanze erano disponibili per tutti i visitatori in grado di pagarne l’affitto e le entrate servivano a rimpinguare le casse del tempio. Durante i Giochi esse erano probabilmente riservate a ospiti di rango. Alloggiare le folle che si riunivano per i Giochi panellenici costituiva un gigantesco problema. I ricchi di solito arrivavano completamente equipaggiati, portando con sè tnde, masserizie e una schiera di servi. Per la gente comune invece le autorità locali provvedevano alcuni ripari temporanei. Chi non riusciva a pigiarsi dentro questi ripari dormiva sotto qualsiasi altro luogo coperto che potesse trovare. Alle feste c’erano manifestazioni ad ogni momento, sicchè la gente sapeva sempre come passare il tempo. In tutte le città i visitatori potevano divertiri nei capeleia o potisteria, osterie, botteghe del vino, che non offrivano solo vino ma anche cibi, gioco e danzatrici. Questi locali erano di solito molto modesti e non facevano grandi affari; i ricchi infatti si intrattenevano con i propri ospiti in casa.

Gli antichi Greci avevano il loro proxenos, che era una persona che abitava in una città-stato come cittadino come semplice residente, ed era ufficialmente incaricato da un’altra città-stato di curare i suoi interessi, ne era insomma il rappresentante ufficiale. Necessariamente si trattava di un uomo ricco e con una raggurdevole posizione. Più spesso accadeva che il proxenos fosse un residente straniero, scleto dalla città in cui abitava a rappresentare gli interessi della sua città d’origine. Primo dovere di un proxenos era quello di assistere in tutti i modi i suoi compatrioti che si trovassero nella città dove lui risiedeva, in particolare quelli che vi giungessero in missione ufficiale. Un proxenos non veniva pagato dallo stato che lo sceglieva, ma godeva di determinati privilegi e la sua posizione gli permetteva utili contatti e opportunità negli affari; il principale movente sembra però essere stato l’onore che la carica implicava, la puù grande ricompensa veder riconosciuta l’opera del proxenos in un decreto ufficiale inciso su pietra ed sposto in un luogo pubblico.

 

  • CAPITOLO QUINTO

Il primo scrittore di viaggi

Nel 490 a.C. Dario re di persia sbarcò in Grecia per attaccare Atene: cominciava così la Prima Guerra Persiana. Atene respinse l’invasione praticamente con una mano sola. Bruciato da una sconfitta così inattesa, Serse, figlio di Dario, ritentò la prova dieci anni dopo, alla testa di una gigantesca spedizione in parte via terra e in parte via mare. Le città-stato della Grecia furono, per una volta, talmente allarmate da interrompere le reciproche ostilità e unirsi a combattere contro il comune nemico; sconfissero così la flotta di Serse a Salamina e il suo esercito a Platea. Queste due sbalorditive vittorie innalzarono immediatamente i Greci al ruolo di più importante popolo del Mediterraneo orientale e segnarono l’inizio della splendida egemonia politica e culturale di Atene. La  Storia delle Guerre Persiane di Erodoto rappresentò qualcosa di completamente nuovo nella letteratura. Egli non fu certamente il primo che scrisse per registrare i fatti del passato. Per oltre duemila anni i monarchi del Medio Oriente avevano fatto erigere stele e monumenti con incisi i resoconti delle loro eroiche imprese, e gli Ebrei già da lungo tempo avevano scritto la storia delle loro peripezie in qualità di popolo eletto da Jahvè. Tuttavia scopo fondamentale di tutti questi scritti era quello di testimoniare il felice concepimento della volontà divina. Erodoto invece per primo pose l’accento sulle azioni umane ed ebbe l’idea e l’intelligenza di raccogliere una vasta massa di notizie componendole in una narrazione che esponesse le ragioni e i fatti che portarono i Greci e i Persiani alla guerra, e che diedero all’uno la vittoria e all’altro la sconfitta. Inoltre, per presentare correttamente i protagonisti al suo pubblico, iniziò con una ricca descrizione del grandissimo impero persiano. Per fare questo egli riportò una quantità di informazioni raccolte attraverso osservazioni personali e ricerche effettuate nel corso dei suoi lunghi e molteplici viaggi. Erodoto ha così l’onore di essere, oltre che il primo storico, anche il primo scrittore di viaggi.

Erodoto nacque ad Alicarnasso, una città greca sulla costa sud-occidentale dell’Asia Minore, nei primi decenni del V sec. a.C. Ancora io giovane età Erodoto lasciò Alicarnasso. Trascorse il resto della vita lontano dalla patria, esplorando la Grecia e la Persia in lungo e in largo. Egli apparteneva a una famiglai nibile, fu educato con cura ed era molto ricco: solo una persona senza prolemi economici, infatti, avrebbe potuto permettersi i viaggi di piacere che fece lui. I suoi interessi erano quelli di un raffinato intellettuale, particolarmente interessato allo studio delle varie religioni: alla base di molti suoi viaggi sembra infatti esserci stato il desiderio di confrontare divinità e pratiche rituali straniere con quelle dei Greci. Fu anche un serio studioso di geografia fisica che formulò teorie molto precise. Egli è interessato ai mezzi di trasporto e descrive accuratamente delle zattere rotonde particolarmente strane, da lui viste sull’Eufrate nei pressi di Babilonia, oppure la curiosa tecnica con cui venivano costruit le imbarcazioni del Nilo utilizzando tavole molto corte. Erodoto ricorda i prodotti locali.

Riferisce anche strani sistemi per trattare gli affari, come quelli usati dai Cartaginesi con le popolazioni della costa dell’Africa occidentale. I compagni di viaggio di Erodoto erano quasi sempre mercanti o agenti commerciali. Il suo viaggio più singolare si svolse in Oriente. Ai tempi di Erodoto l’Impero Persiano era al culmine della propria potenza e comprndeva anche la parte meridionale dell’Asia Minore fino alla Siria, la Palestina fino a Babilonia, e l’Egitto. Ciò rappresentava un vantaggio per il viaggiatore che non doveva passare tanti confini di stato e poteva spostarsi rapidamente grazie alla buona rete stradale persiana. Il nostro studioso di religioni fu naturalmente stupito alla vista degli “ziggurat”, i tipici templi babilonesi costituiti da elementi cubici sovrapposti. Erodoto visitò l’Egitto ma non aveva il minimo interesse per l’arte egizia. Si interessava poco anche all’architettura egiziana. Era altrettanto poco interessato anche alla massima attrattiva egizia di tutti i tempi, cioè le grandiose testimonianze di quello che fu un potente impero. Qualcuna di queste risvegliava la sua ammirazione ma in quanto capolavori dìingegneria piuttosto che per altro. Erodoto descrive con altrettanta precisione un edificio, il “Labirinto”, che sucitò la sua curiosità per la particolare forma. Egli pensava che il Labirinto fosse il monumento funebre di un gruppo di re di data relativamente recente, il VII sec. a.C. Noi sappiamo invece che era la tomba-tempio fatta costruire da Amenemhat III nel XIX sec. a .C. Il nomumento sorge presso l’antico lago Merida, che a Erodoto sembrò ancor più eccezionale del Labirinto, dal momento che lo credeva un lago artificiale. Ciò che spinse in Egitto Erodoto, più di ogni altra attrativa, furono i suoi interessi di studio delle religioni. Durante il suo soggiorno in Egitto fece ricerche sull’antichità di un dio che chiama Eracle egizio. Le sue ricerche spaziavano ampliamente: dall’antichità del culto di Eracle a quante volte al giorno si lavavano i sacerdoti egizi. A quel tempo l’Egitto era la culla della religione e della superstizione; Erodoto aveva perciò uno splendido terreno di ricerca. Esaminò a fondo i procedimenti per la scelta e il sacrificio del toro Api sacro a Path, il modo con cui i tori venivano sacrificati a Iside, l’atteggiamente rituale verso i maiali, i cibi tabù per i sacerdoti, gli aspetti tradizioanli delle feste egizie, i diversi animali sacri e i differenti metodi di imbalsamazione.

Religione, costumi, geografia fisica: questi i principali motivi dei viaggi di Erodoto in Egitto e altrove; ma non sempre egli era così impegnato. Parte del suo tempo lo dedicò a fare semplicemente il turista. Ispezionò molti campi di battaglia. Come la maggior parte dei viaggiatori dell’antichità, Erodoto andava per via acqua fin dove possibile; per questo leggiamo cosi sovente descrizioni di porti e di città fluviali. In Asia Minore, Siria e Mesopotamia viaggiò quasi sempre per via terra a causa della mancanza di fiumi navigabili. Per terra e per mare Erodoto fu sempre un semplice turista, in viaggio senza alcun incarico ufficiale e senza alcuna speciale presentazione. In Grecia poteva senz’altro contare di frequente sull’ospitalità di privati cittadini e sull’aituo di persone cui era raccomandato, ma altrove doveva contare solo su se stesso. C’era poi il prblema della lingua; il greco certamente lo aiutò dall’Italia alla costa occidentale dell’Asia Minore. Da qui però erano necessari o il persiano o l’aramaico, lingua franca del Medio oriente, oppure l’egizio. Come ogni buon turista, Erodoto si procurò un’infarinatura di lingue straniere.

Visitando i templi era condotto da persone che egli definisce sacerdoti, ma che più probabilmente erano sacrestani o qualcosa di simile. Oltre che dalle guide, Erodoto raccolse probabilmente informazioni da tutte le persone che in genere entrano in contatto con i turisti, cioè i facchini, carrettieri, camerieri, serve...

Erodoto non scrisse solo per informare, ma anche per divertire. Egli ha la tecnica di un abile conversatore che passa facilmente da un argomento all’altro riuscendo ad essere scorrevole e vario, abbandonando un tema e passando subito a un altro, appena si accorge che il suo pubblico comincia a stancarsi. In questo modo Erodoto spazia senza sforzo dalla storia all’antropologia, alla geografia e ritorno. Per aumentarne il gusto, Erodoto provvede a insaporire astutamente il suo racconto con ricche notizie sulle meraviglie delle terre che sono poste al di là delle zone conosciute dai geografi.

Lo scrittore di libri di viaggi non deve limitarsi a fornire delle informazioni, egli deve invece essere il perfetto compagno del turista: vario, ben informato, arguto; deve includere in ciò che dice una gradevole quantità di notizie insolite e un pizzico di esotico; infine deve racontare tutto con inesauribile entusiasmo. Erodoto non solo aprì la strada, ma fornì anche un modello.

 

  • PARTE SECONDA

CAPITOLO PRIMO

      Un unico impero

Quando Erodoto lasciò le città-stato greche della costa dell’Asia Minore, per addentrarsi all’interno verso est e verso sud, si preparava ad entrare in un mondo totalmente diverso. Là si parlava una babele di lingue strane, si viveva secondo costumi ereditati da antentai vissuti centinaia di anni prima, si conosceva soltanto il sistema monarchico. In quelle terre i Greci erano tutti, come lui, passanti occasionali. Poco più di un secolo dopo Alessandro Magno abbatteva l’impero Persian spingendosi fino ai confini dell’India. Nel corso della sua marcia  verso oriente, Alessandro lasciava indietro alcuni contingenti di soldati per fondare delle colonie. La febbre stroncò Alessandro nel 323 a.C., prima che avesse potuto portare ad effetto quello che sembra essere stato il suo grande progetto, cioè la fusione tra la Grecia e l’Oriente. Nei decenni immediatamente successivi, i suoi generali si sbranarono come iene sul corpo del suo impero; alla fine, intorno al 270 esso risultò diviso in tre parto. La stirpe degli Antigonidi ebbe il trono di Macedonia e il controllo su tutti gli stati della madre-patria greca; i Seleucidi dominarono su un  vasto mosaico di territori comprendente parte dell’Asia Minore, della Siria, della Palestina e della Mesopotamia. Il meglio, la ricca alle del Nilo, toccò ai Tolomei. Il sogno del grande conquistatore fu abbandonato. I Seleucidi  e i Tolomei si circondarono di un esercito fidato composto da soldati greci, situato in pianta stabile sul territorio straniero. Essi reclutavano di continuo tecnici e amministratori greci per formare la propria burocrazia e per far ciò aprivano le porte a tutti i Greci che lo desiderasseo. A partire dal 300, il Medio Oriente si andò gradualmente trasformando. A fianco delle case e dei luoghi di culto tipici dell’antico Oriente sorsero templi e teatri greci, porticati e tutte le caratteristiche costruzioni delle città-stato. L’Oriente ellennizzato divenne parte integrante del mondo greco che gravitava sul Mediterraneo. Nell’estemo ovest, la potente città di Cartagine continuava a dominare intoccabile e nessuno poteva oltrepassare la linea ideale che congiunge Cartagine alle Baleari. Ma a est di Cartagine il mondo era stato ellenizzato fino a Babilonia. Il greco era compreso dovunque e si sviluppò una lingua comune, la koinè. Nuovi porti sorsero per accogliere gli accresciuti traffici marittimi. Nel 300 dai Seleucidi fu fondata Antiochia. Ad Alessandria i Tolomei vi stabilirono la loro capitale e la trasformarono nel più grande centro commerciale del mondo antico. Da questi due pori si poteva trovare un passaggio sui grandi bastimenti mercantili diretti oltremare a Siracusa e da lì da Marsiglia. Il mondo mediterraneo, unito come non mai dalla lingua, dal commercio e dai costumi comuni, sviluppò una cultura internazionale e cosmopolita. Dopo che ad Alessandria i Tolomei ebbero fondato e finanziato con generosità un centro di studi, letterati, studiosi e scienziati famosi vi convennero da ogni parte del mondo.

La spinta che portò i Greci a cercare gloria e fortuna in oriente indusse alcuni a fare dei viaggi ancora più lontani, a diventare esploratori che allargarono in modo eccezionale i confini del mondo conosciuto. Il più spettacolare fra questi viaggi di esplorazione penetrò dove la tenebra dell’ignoto era più oscura, cioè nel nord. Intorno al 300 un certo Pitea salpò da Marsiglia, riuscì in qualche modo a passare il blocco cartaginese e si inoltrò attraverso lo stretto di Gibilterra nelle acque dell’Atlantico, diretto al nord. Nel corso della sua spedizione comì numerose osservazioni sul sole che permisero ai geografi posteriori di calcolare molti paralleli di latitudine, e determinò l’esatta posizione della stella polare e localizzò e fece conoscere le miniere della Cornovaglia.

Due secoli dopo fu intrapreso un altro importante viaggio di esplorazione. Ne fu ispiratore un certo Eudosso: sia lui sia il suo finanziatore Tolomeo VIII Evergete detto Fiscone, erano esclusivamente interessati a interrompere il ricco commercio che dall’India e dall’Arabia si faceva verso il mondo greco. Eudosso si trovava ad Alessandria quando fu condotto a corte un marinaio semi annegato. Dopo ch si fu rimesso in salute ed ebbe imparato il greco, raccontò di essere indiano, il solo sopravvissuto di un equipaggio colato a picco, e si offrì di mostrare la strada che conduceva al suo paese a chiunque ne fosse incaricato dal re. L’India nord-occidentale era a quei tempi abbastanza familiare per i Greci. Essi a quell’epoca conoscevano l’esistenza del fiume Gange, dell’Himalaia, dell’isola di Ceylon. Sapevano che l’India era delimitata a est da una distesa d’acqua. Tuttavia l’unica strada che conoscevano per andare in India era quella percorsa da Alessandro: un cammino lungo e arduo alla fine del quale c’era da affrontare l’estenuante scalata delle montagne che circondano completamente la parte nord-occidentale dell’India. Gli arabi controllavano le coste dell’oceano Indiano e gran parte di quelle del Mar Rosso e blocavvano i greci esattamente come i Cartaginesi facevano nel Mediterraneo occidentale. Per di più Arabi e Indiani conservavano gelosamente il segreto dei monsoni. Da maggio a settembre i venti spirano costanti da sud-ovest; una nave puà uscire dalla “bocca del Mar Rosso”, costeggiare la parte meridionale dell’Arabia, e poi, penetrata coraggiosamente in mare aperto, sarà spinta direttamente in India dal tempestoso monsone di sud-ovest. Ripartendo poi tra novembre e marzo, quando il monsone è orientato in direzione esattamente contraria, e soffia costante e deciso da nord-est, la nave farà altrettanto rapidamente il viaggio di ritorno. Eudosso, in compagnia dell’indiano salvato, esperto della rotta dei monsoni e disposto a guidarlo sul mare aperto al sicuro dagli attacchi degli Arabi, fece due viaggi esplorativi dal Mar Rosso all’India, ritornando ogni volta sano e salvo, ma ogni volta il suo prezioso carico di spezie gli fu confiscato dai doganieri di Tolomeo. Egli decise perciò di raggiungere l’India circumnavigando l’Africa, onde evitare gli indiscreti e accaparratori agenti del re. Il commercio di incenso e mirra dell’Etiopia e della Somalia era antico quasi quanto l’Egitto. Ai tempi di Eudosso esso era in gran parte in mano agli Arabi.

Ciò che era stato iniziato da Alessandro e dai suoi successori fu portato al suo logico compimento da Roma. Disciplina, organizzazione e naturali capacità amministrative: queste furono le qualità romane per eccellenza che conquistarono a Roma spettacolari trionfi, prima in guerra e poi in pace. I contadini romani, una volta addestrati e disciplinati, costruirono in poco tempo quelle perfette unità belliche, le legioni, che avrebbero fatto di Roma, oscuro villaggio sulle rive del Tevere, la signora dapprima di tutta la penisola italiana, poi, dopo la sconfitta i Cartagine, di tutto il Mediterraneo occidentale. Nel corso di altri due secoli fu conquistato anche l’Oriente.nel 30 a.C. Augusto, comandante delle legioni vittoriose, divenne il padrone di un solo impero che si estendeva dalla Spagna alla Siria. Per la prima e ultima volta nella storia il Mediterraneo fu unito non solo culturalmente ma anche politicamente. Gli imperatori romani, con le entrate e la manodopera fornite dal loro vasto regno, furono in grado di circondare tutto l’impero in difesa dei barbari. Fu fondata una flotta formata da unità distribuite in varie basi strategiche nel Mediterraneo che liberò le acque dal sempre ricorrente pericolo dei pirati. E così i primi due secoli dell’era cristiana furono tempi ideali per i viaggiatori. Essi potevano spostarsi dalle rive dell’Eufrate fino ai confini tra l’Inghiltera e la Scozia senza passare una sola frontiera, sempre sotto la giurisdizione di un solo stato. Una riserva di monete romane era il solo tipo di danaro che dovessero portare con sè poichè esso veniva accettato o cambiato dappertutto. I naviganti potevano spingersi in ogni dove senza timore dei pirati. Un sistema efficiente di buone strade consentiva ai viandanti di raggiungere tutti i maggiori centri, mentre un valido servizio di vigilanza rendeva le strade sufficientemente libere dal pericolo dei banditi. Solo due lingue erano necessarie: il greco dalla Mesopotamia alla Jugolsavia e il latino dalla Jugoslavia alla Britannia. Se un cittadino romano aveva guai con la giustizia, poteva chiedere di essere giudicato a Roma; coloro che non erano cittadini romani avevano il dirtto di essere giudicati secondo le leggi del loro paese, ed esistevano appositi tribunali per guidicare casi sottoposti ai diversi codici locali. Commercio e viaggi non si fermavano alle frontiere dell’impero, ma raggiunsero e dilagarono in quelle zone che erano terra incognita. Il mondo conosciuto si estese a nord fino alla Scozia, a ovest fino alle Canarie, a sud fino a Zanzibar e a est fino all’Indonesia.

In Europa furono le legioni a spostare regolarmente le frontiere di Roma sempre più a nord; sulla loro scia poi giungevano a frotte i mercanti che portavano sempre più lontano le proprie merci e tornavano carichi di prezione informazioni. L’Inghilterra divenne in quest’epoca una provincia romana. Non altrettanto ben conosciuta era la Germania che non fu mai del tutto conquistata nè mai fece parte dell’Impero. Ancora più scarse erano le conoscenze relative alle terre site a nord della Germania. Rispetto ai tempi di Erodoto si conoscevano ora un pò meglio le terre a nord del Mar Nero, ma tranne ciò tutto era ancora prticamente sconosciuto. In modo eccezionale crebbero invece le conoscenze relative all’Estremo Oriente; finalmente le due più grandi civiltà del mondo antico, la greco-romana e la cinese, si incontrarono. Qualche tempo dopo la morte di Alessandro, la seta cinese cominciò a giungere al Mediterraneo dove risultò subito evidente la sua superiorità di fornte alla stoffa che più le assomigliava, prodotta da una specie di baco da seta selvatico dell’Asia Minore. Benchè una certa quantità di seta giungesse attraverso le carovaniere, la quantità più notevole viaggiava nelle stive delle navi indiane o malesi.

Il mondo che gravitava sul Mediterraneo nei primi due secoli d.C era più grande di quanto non fosse mai stato. Le strade e il mare erano percorsi da un numero di mercanti superiore a quello mai conosciuto dal mondo greco; c’erano poi gli eserciti, i burocratici, i corrieri della posta governativa; infine i semplici turisti, dai pochi che viaggiavano in lungo e in largo per visitare i monumenti, alle migliaia che ogni anno fuggivano dalle città e dal caldo diretti verso le vicine spiagge o campagne. Su questi viaggiatori ci forniscono molte informazioni le locande portate alla luce degli scavi archeologici e le perfette descrizioni dei luoghi visitati lasciateci dai poeti latini.

 

  • CAPITOLO SECONDO

Una quantità di viaggiatori

I traffici erano molto attivi che alcune città mantenevano degli uffici appositi nei maggiori centri commerciali del mondo per aiutare quelli, tra i propri cittadin, che vi si recassero per affari o turismo. I trasporti via terra erano terribilmente costosi e quasi tutto il commercio su larga scala avveniva via mare. Le strade erano state costruite soprattutto per le esigenze dello stato, ed era soprattutto lo stato a servirsene con regolarità. Lungo le strade c’era un costante andirivieni di personale governativo. Il commercio e il governo facevano la parte del leone nei viaggi, ma non era tutto qui. Rimaneva ancora moltissima gente che si spostava per altre ragioni. Inanzitutto, c’erano quelli che viaggiavano per motivi di salute. I dottori dell’antichità per primi ebbero l’idea di prescrivere lunghi viaggi per mare. Ai tempi dell’Impero Romano tre santuari superavano in importanza tutti gli altri. Uno era quello di Epidauro. Un secondo si trovava nell’isola di Cos, patria di Ippocrate e della sua scuola di medicina. Il terzo era a Pergamo e raggiunse il massimo della sua fama nella metà del II sec. d.C, quando Galeno, il più famoso medico dell’epoca, vi esercitò la professione a intervalli per molti anni. Oltre ad aumentare di numero, i santuari divennero sempre più imponenti. I sistemi di cura erano gli stessi di sempre. Il paziente faceva il suo ingresso nel santuario, faceva un bagno purificatorio, entrava nel tempio di Asclepio, pregava, stendeva un giaciglio e si disponenva a passarvi la notte. Attraverso io sogno riceveva l’aiuto sperato. Alcuni santuari avevano un’area apposita per il sonno, ma in altri, come a Pergamo, la gente si sdraiava dappertutto nel tempio e forse anche in altri edifici all’interno del recinto. In alcuni casi, rari ed eccezionali, la cura era miracolosa: il paziente si svegliava la mattina seguente sano e robusto. Più sovente riceveva nel sogno delle prescrizioni. I pazienti appartenevano a tutte le classi sociali. Quelli che erano solo indisposti e che volevano rendere più piacevoli le cure, potevano recarsi dove c’erao le aquae, sorgenti di acque minerali. In epoca romana esse godevano dello stesso favore di cui godono oggi le cure termali. L’Italia ne era particolarmente fornita.

Per risolvere problemi di qualunque genere c’erano gli oracoli. In quest’epoca contrassegnata da una superstizione incredibilmente diffusa, essi divennero molto più di moda che nel passato. Apollo era il dio fatidico per eccellenza e i suoi oracoli a Delfi in Grecia, a Delo nell’Egeo, a Claro e Didima in Asia minore rispondevano ogni anno a migliaia di quesiti.

Gli antichi giochi panellenici continuarono a celebrarsi pressapoco fino alla fine dell’Impero Romano. Nel I e II sec. d.C, grazie alla pace ed alla prosperità imperanti, i giochi furono fiorenti come non mai e attirarono da ogni parte non solo spettatori ma anche ogni altro genere di persone. C’erano poi manifestazioni come la festa spartana in onore di Artemide, dove il pezzo forte consisteva in una prova di resistenza alla frustate sostenuta dai ragazzi spartani. Ma le manifestazioni che attraevano le più grandi folle in quest’epoca erano i grandiosi spettacoli organizzati a Roma dagli imperatori. Per celebrare le grandi occasioni si dava libero sfogo al gusto dei Romani per il sangue con le lotte dei gladiatori. Il Colosseo fu inaugurato da Tito con cento giorni di spettacoli.

 

  • CAPITOLO TERZO

In vacanza

L’inizio della primavera era, per l’alta società romana, il segnale di “via” per l’annuale peregrinatio, il muoversi cioè dalle città per spostarsi dall’una all’altra delle proprie ville. Tutta l’alta società romana possedeva due tipi di ville: al mare per i tiepidi giorni primaverili, in collina per la stagione estiva. Possederne più d’una di ciascun genere serviva ad evitare la monotonia di andare sempre nello stesso posto. Non soltanto i più ricchi potevano affrontare le spese per vacanze così “sibaritiche”. E così, di una villa dopo l’altra, si andavno costellando i colli intorno a Roma e la costa sottostante fino a Napoli e oltre. La zona preferita era la costa del golfo di Napoli.

Come vicini, gli imperatori avvano una nuova classe di villeggianti, costituita da coloro che avevano saputo sfruttare la grande prosperità dell’inizio dell’Impero: i nuovi ricchi, insomma.

Alcuni preferiano le ville costruite proprio in rival al mare così vicine che bastava calare la lenza da una finestra per pescare; ad altri piacevano di più quelle annidate fra le balze a picco sul mare. Nell’entroterra, dove cìera più spazio disponibile, le ville sorgevano abbastanza distanti tra loro, ma lungo il mare dove lo spazio era assai ridotto si addossavano l’una all’altra. In entrambi i casi, a determinare la posizione e la pianta della casa era la vista sul mare. Preferite furono sempre le case con portico: si trattava di un lungo porticato rivolto al mare sul quale si aprivano le varie stanze poste l’una di fianco all’altra. Le stanze non erano mai molto grandi e anche le finestre erano piccole per impedire alla luce solare troppo forte di entrare in casa. I muri erano dipinti, in un primo tempo secondo modelli semplici e regolari, in seguito, a partire dal 90-80 d.C, con decorazioni sempre più elaborate e fantasiose che univano a cornici architettoniche raffigurazioni di fatti mitologici, scenari vari, paesaggi campestri e marini. Le ville più sontuose possedevano piscinae, cioè vivai dove venivano allevati per la tavola del padrone pesci particolari. Si trattava di un vero status synbol: solo i miliardari erano piscinarii. I proprietari di ville trascorrevano il tempo scambiandosi piacvoli visite, solitamente concluse da cene sontuose. Le visite si alternavano alle gite in lettiga lungo la costa, con escursioni sul lango o lungo il golfo a bordo di imbarcazioni da diporto a remi. La brillante società che popolava queste ville era solo una parte della gente che, durante la stagione, passava una vacanza attorno al golfo di Napoli. Soprattutto nel corso dei primi due secoli d.C, contrassegnati da un’economia molto fiorente, persone di tutte le classi sociali potevano fuggire la calura cittadina e affittare una stanza in una casa sulla riva del mare a Baia, a Pozzuolo o a Napoli. Lingo la costa del golfo sgorgavano innumerevoli sorgenti calde, e le città erano al tempo stesso località termali e marine. I villeggianti potevano dividere le loro giornate tra la spiaggia e i fanghi oppure affittare una barca e uscire in mare. Pozzuoli aveva due anfiteatri dove si svolgevano frequenti spettacoli gladiatorii. Era anche possibile visitare i vivai, aperti al pubblico, della villa dell’imperatore, oppure le culture di ostriche. Vi erano ristoranti per pranzare in riva al mare e negozi per comprare ogni genere di souvenir. Fra tutte le località turistiche della costa, Baia era la più famosa; fu il primo luogo di villeggiatura estiva dei romani. Ben fornita di sorgenti di acque calde, Baia divenne anche la località termale più frequentata. Essa attirava chiunque cercasse di divertirsi e si fece la reputazione di luogo di piaceri sia leciti che illeciti. Pozzuoli era più seria in quanto il luogo di villeggiatura era a stretto contatto con uno dei più importanti porti commerciali d’Italia; mentre i villegianti brulicavano lungo le spiagge, mercanti e armatori contrattavano e gli stivatori sudavano lungo i moli. Napoli richiamava gli intelletuali. Come molte delle grandi città dell’Italia meridionale, Napoli era stata fondata dai greci e ancora ai tempi dell’Impero, anche dopo centinaia d’anni di dominazione romana, si respirava in casa un’atmosfera che sapeva di greco. L’idioma greco era parlato dappertutto nelle strade, sopravvivevano le istituzioni e le abitudini dei Greci, e i romani in visita abbandonavano le toghe per passeggiare con il pallio o la clamys. La tradizione greca continuava anche nelle gare indette per poeti e musicisti, che attiravano folle di persone colte. Gli uomini di cultura potevano anche restare a Napoli per tutta l’estate, e la gente comune fermarsi nelle località balneari; non così i rappresentanti dell’alta società. A maggio, con l’arrivo della calura, essi lasciavano le loro lussuose ville nelle mani del personale di servizio e si trasferivano al fresco sulle colline. I colli Albani e Sabibi che circondavano Roma a est e a sud-est sono abbastanza alti da assicurare sollievo dal caldo estivo e nello stesso tempo abbastanza vicini alla capitale da permettere a un senatore di lasciare il soffocante edificio del senato e di passare uno o due giorni al fresco con un viaggio brevissimo. In conseguenza di ciò, a partire dal I sec. a.C, i colli si riempirono di campagna. Nelle ville in collina l’accento era posto sulla tranquillità, il fresco e l’ombra. Benchè site nel cuore della campagna, queste erano in primo luogo residenze di lusso. La produzione agricola perciò era una cosa del tutto secondaria; molti proprietari dovevano far portare dalla città le provviste necessarie per il soggiorno. Nel corso dei primi due secoli dell’Impero Romano, grazie alla prosperità economica, anche gli appartenenti alla classe media possedevano residenze di campagna. Gli spostamenti di questi proprietari di ville, con il loro seguito di servitori, provviste e familiari dovevano formare lungo le strade una lunga teoria di calessi, carretti e lettighe, in primavera quando il flusso si dirigeva verso la spiaggia e la campagna, e in autunno quando rifluiva di nuovo in città. Il contributo dei Romani all’incremento del volume dei viaggi fu molto più significativo. Durante i primi tre secoli d.C., dopo che il Mediterraneo era diventato un’unica entità dal punto di vista politico e culturale, molti motivi spinsero sui percorsi via terra e via mare un numero infinitamente maggiore di persone, i cui spostamenti si estero moltissimo in ogni direzione.

 

  • CAPITOLO QUARTO

Sul mare

L’efficiente amministrazione romana aveva, almeno per i primi due secoli dell’Impero, liberato i mari dai pirati e spazzato i banditi dalle strade principali. Non aveva però potuto eliminare i pericoli che derivavano da una tempesta. Coloro che viaggiavano per terra erano sottoposti a marce faticose, o venivano sballottati sopra mezzi che avanzavano a passo di lumaca, ma almeno era loro risparmiato il terrore di colare a picco da un momento all’altro. I Romani erano particolarmente preoccupati ogni volta che dovevano mettersi in viaggio per mare. C’era un altro fattore di cui doveva tener conto chiunque avesse da scegliere tra mare e terra: i passaggi marittimi non erano disponibili tutto l’anno. Nell’antichità la stagione della navigazione era limitata pressapoco al periodo che andava da maggio a ottobre. Ciò dipendeva in parte dalle tempeste inveranli, ma soprattutto dall’aumento della nuvolosità tipico dei mesi compresi tra l’autunno e la primavera. Prima dell’invenzione della bussola, i marinai impostavano la rotta in base a rilevamenti costieri, oppure orientandosi con il sole di giorno e l stelle di notte. Il traffico marittimo tra ottobre e maggio non cessava completamente, ma rappresentava un fatto eccezionale. Roma, Antiochia, Cesarea, Alessandria, Cartagine, Cadice, Cartagena, Tarragona, Narbona, Marsiglia, Arles: questi i rpincipali centri commerciali che si affacciavano sul Mediterraneo. Essi erano collegati fra loro mediante rotte in mare aperto, mentre erano uniti con i vicini porti minori mediante rotte costiere.

La durata di un viaggio dipendeva dai venti e dal tipo di imbarcazione scelta: una nave robusta in grado di affrontare il mare aperto, piuttosto che un’imbarcazione più piccola obbligta a seguire le coste. A volte i funzionari governativi di rango viaggiavano su legni di guerra messi a loro disposizione dalla marina militare.

La velocità in navigazione e talvolta anche la rotta erano determinate in Mediterraneo soprattutto da quei venti estivi costanti che gli antichi chiamavano etessi, cioè “venti annuali”.

Le navi antiche non ebbero mai molti tipi di vele. La spinta era principalmente fornita da una grande vela maestra quadra. In epoca romana fu aggiunta una piccola vela di gabbia triangolare, che era utile per sfruttare i refoli alti in caso di venti leggeri o di calme. Le navi non erano in grado raggiungere alte velocità, soprattutto a causa degli enormi scafi panciuti tipici di Greci e Romani. Le navi passeggeri non esistevano nell’antichità e i viaggiatori si arrangiavano come sempre dovettero fare fino l XIX sec, fino a quando cioè non fecero la loro comparsa le navi postali: andavano al porto e cercavano una nave in procinto di partire per la destinazione che interessava loro. Per i viaggiatori, Roma offriva un utile servizio che risparmiava loro molte faticose passeggiate lungo il porto. Quest’ultimo era situato alla foce del Tevere e nella vicina città di Ostia c’era una grande piazza circondata da uffici, molti dei quali appartenevano agli armatori di vari porti stranieri. Chi cercava d’imbarcarsi doveva solo rivolgersi all’ufficio della città che si trovavano lungo la sua rotta. Poichè le navi erano innanzitutto da trasporto e imbarcavano passeggeri solo occasionalmente, esse non fornivano nè cibo nè servizi. Le ciurme erano addette esclusivamente alla manovra della nave; non c’erano camerieri incaricati di preparare i pranzi e rassettare le cabine. I passeggeri salivano a bordo con i propri servi che accuddivano alle necessità personali del padrone, con scorte di cibo e vino sufficienti fino al primo scalo dove fosse possibile fare un nuovo rifornimento. Dopo aver scelto la nave che faceva al caso suo, il passeggero prenotava un passaggio presso il magister navis, cioè colui che si occupava dell’aspetto commerciale del viaggio, della manutenzione della nave e altre faccende simili; sulle navi più piccole poteva trattarso del proprietario stesso, su quelle grandi era più spesso un rappresentante del proprietario o dell’affittuario. La guida effettiva dell’unità in navigazione era lasciata al nocchiero. Il passaggio raramente dava diritto a una cabina, poichè lo spazio per le cabine era molto ridotto; solo sulle grosse unità d’alto mare alcune cabine erano a disposizione di passeggeri importanti o ricchissimi; la maggioranza invece poteva fruire solo di passaggi sul ponte. I passeggeri dormivano all’aperto o sotto un piccolo riparo simile auna tenda montata dai servi alla sera e smontata la mattina successiva. Le navi avevano quasi sempre un focono, un luogo cioè dove era posto un braciere per cucinare. Una volta procuratosi un passaggio, il viaggiatore doveva darsi da fare per ottenere il visto d’imbarco. Era sicuramente necessario per recarsi in Egitto. Con l’avvicinarsi del giorno della partenza il viaggioatore preparava i bagagli che comprendevano oltre agli abiti anche tutto quanto era necessario per cucinare, mangiare, fare il bagno, dormire. Doveva poi trovare spazio per le provviste che, in occasione di certi viaggi, occupavano moltissimo posto. Infine si trasferiva con bagagli e servitù in una locanda nelle vicinanze del porto, oppure nella casa di qualche amico. E qui egli si metteva ad attendere l’annuncio della partenza della sua nave, dato da un araldo. Nessuna nave infatti partiva a una data fissa, sia perchè doveva attendere l’arrivo del vento ad un quadrante opportuo, sia perchè bisognava sempre fare i conti con gli auspici. In moltissimi giorni dell’anno il calendario religioso proibiva qualsiasi genere di affari, compresa la partenza delle navi. I responsabili della nave provvedevano a compiere un sacrificio prima della partenza e se i pronostici non erano favorevoli, questa veniva rinviata. Se il vento era favorevole, la data opportuna e il sacrificio si concludeva positivamente, la superstizione avanzava ancora tutta una serie di cattivi presagi. Una navigazione poteva anche venir condizionata dai sogni. I presagi non riguardavano solo il momento dell’imbarco ma continuavano ad aver valore anche durante il viaggio. Gli uccelli che si posavano sull’alberatura durante il viaggio erano di buon augurio. Se durante il viaggio qualcuno moriva il suo corpo veniva immediatamente gettato in mare, poichè la morte a bordo era il peggiore fra tutti i presagi.

I passeggeri trascorrevano il tempo come meglio potevano. Si facevano compagnia a vicenda anche perchè le grandi navi potevano portarne parecchi. Leggere, per passare il tempo, era riservato a quanti potevano permettersi il prezzo di un libro, che era allora molto alto essendo i libri manoscritti. Il gio come passatempo era conosciuto e deve aver aiutato ad ammazzare molte ore. Restava poi sempre la possibilità di osservare le manovre della nave. Il problema di come trascorrere le ore scompariva non appena il tempo diventata cattivo. In tal caso tutti gli uomini a bordo, passeggeri o marinai che fossero, dovevano mettersi al lavoro.

Appena la nave si presentava all’entrata del porto d’arrivo, il comandante compiva un sacrificio di ringrziamento a poppa. Un “rimorchiatore” (specie di pesante lancia condotta da robusti rematori che manovravano remi lunghissimi) le usciva incontro e, prendendo una cima lanciata dalla nave, rimorchiava quest’ultima fino ai moli di discarica, dove veniva infine solidamente ormeggiata a una grossa bitta di pietra infissa nella banchina.

La comodità e la velcità di un viaggio per mare dipendevano molto dalla nave.

L’Isis stava al sommo della scala, era l’ammiraglia della flotta mercantile romana, la nave più grande  e perfezionata sulla quale un passeggere potesse acquistare un passaggio. All’altro estremo della scala c’erano le modeste imbarcazioni che svolgevano servizio costiero. Noi possiamo averne una idea grazie alle descrizioni di Sinesio, un intellettuale greco convertito al cristianesimo e che divenne anche vescovo di Tolemaide. Descrisse le sue esperienze in una lettera molto amabile e simpatica, indirizzata a suo fratello ad Alessandria.

 

  • PARTE TERZA

CAPITOLO PRIMO

      I luoghi da visitare

Emilio Paolo era interessato al passato; fra i monumenti del passato dava la preferenza a quelli che ricordavano la presenza degli dei e poi a quelli che si ricollegavano alla mitologia o alla storia. Emilio Paolo visitò una sola località famosa per le caratteristiche naturali, il canare dell’Euripo: vi si recò solo per vedere una curiosità.

Gli antichi affrontavano la scalata di una montagna solo per ragioni ben precise, per verificare la possibilità di costruire una strada o in cerca di qualche meraviglia naturale sulla cima. Non erano minimamente interesati ad ammirare un’infinita distesa di picchi coperti di neve e non erano commossi dall’austera bellezza delle vastità senza confini. L’unico piacere che essi trovavano in un paesaggio era in generale la sua amoenitas, cioè la sua grazia. Per quanto riguarda la natura essi erano soprattutto interessati a quei luoghi in cui si sentiva la presenza della divinità. Visitavano le sorgenti e, nell’inesplicabile e continuo gorgoglio delle acque, essi vedevano l’opera di un dio; presso le sorgenti erigevano sacelli e cappelle e onoravano la divinità gettando nelle acque una monetina come offerta dando con ciò inizio a una lunga tradizione. Talune bellezze naturali divennereo un’attrazione grazie alla fama letteraria che le circondava. Emblematico in questo senso è il caso della Calle di Tmpe, nella Grecia settentrionale, cantata da un numero infinito di poeti e riprodotta in miniatura tra le meraviglie della Villa Adriana a Tivoli.

All’ultimo posto venivano le curiosità offerte dalla natura. La sola montagna che gli antichi scalassero per il piacere di farlo era l’Etna, giunti in cima sbalordivano dinanzi allo spettacolo del cratere di un vulcano attivo. Le sorgenti calde di Ierapoli in Asia Minore erano famose non soltanto per le acque ma anche perchè da una fessura del suolo fuoriuscivano gas venefici così potenti da uccidere gli uccelli che vi volavano attorno e persino i tori che fossero stati costretti a respirarli. Anche il lago Averno, presso Napoli, emetteva simili esalazioni e per questo divenne, nella fantasia di Virgilio, un ingresso nel mondo sotterraneo. Nel III sec. d.C un ignoto studioso elaborò l’elenco delle sette meraviglie del mondo. Tutte e sette erano opera dell’uomo e per la maggior parte risalivano al passato: le Piramidi, i Giardini Pensili di Babilonia, la statua di Zeus a Olimpia scolpita da Fidia, il tempio di Artemide a Efeso, il Mausoleo. A queste si aggiungevano le sole due opere di recente costruzione: il Colosso di Rodi e il Faro di Alessandria.

Gli antichi non distinguevano con chiarezza tra passato storico e passato leggendario; per loro la storia iniziava nelle epoche remotissime che facevano da sfondo alle saghe mitiche. E così tra le località turistiche erano compresi i luoghi in cui c’erano dei ricordi di quei tempi antichissimi. C’erano moltissime tombe di eroi ed eroine. A complicare le cose capitava che in due o tre località diverse si conservasse la tomba dello stesso personaggio. Oltre alle tombe si potevano visitare anche le dimore degli eroi mitici. Per quanto fosse la mitologia a costituire la più grande attrazione turistica, neppure la storia era trascurata. Fra i monumenti significativi di Roma c’erano le tombe degli imperatori. Altri segni della storia passata che attiravano i turisti erano i ricordi delle grandi battaglie. Anche l’arte rientrva nei programmi del turista. Non era però possibile ammirare le opere d’arte convenientemente raccolte in una sorta di “Louvre” o di “Uffizi”; tutto quello che si poteva fare era viaggiare da un tempio all’altro.

 

  • CAPITOLO SECONDO

I musei

Il turista moderno gira in Europa di cattedrale in cattefrale, il turista dell’antichità girava di tempio in tempio. Come la cattedrale, il tempio era molto più che un semplice esempio di architettura: era inanzitutto la casa di un dio, il che lo poneva al di sopra di ogni altra opera umana e gli dava un carattere tutto particolare. I templi che la gente andava a vedere erano da secoli essenzialmente luoghi di culto e quindi raccoglievano tali e tante testimonianze del passatp, da rappresentare nell’antichità quanto di più simile a un moderno museo si possa immaginare.  Per trovare qualcosa che si avvicini al nostro concetto di museo bisogna attendere la prima metà del VI sec. a.C. e il regno di Nabucodonosor II di Babilonia. Egli e il suo successore mostrarono un particolare interesse per il passato: studiarono le iscrizioni arcaiche, restaurarono antichi edifici, promossero perfino scai archeologici per localizzare le fondamenta in pietra di antichi templi. Nabucodonosor II riservò un’intera alla del proprio palazza a una collezione di oggetti del passato.

Se i musei nacquero in Medio oriente, essi divennero adulti fra i Greci. Alcuni importanti santuari, come quello di Apollo a Delfi o di Zeus a Olimpia, accumularono a poco a poco oggetti di grande valore donati in riconoscimento dei servizi ricevuti. Alcuni di questi doni avevano un valore storico, come le inevitabili spoglie belliche, altri avevano invece un valore intrinseco, sia per il costo sia per la bellezza, per i materiali preziosi o la maestria con cui erano foggiati. Gli dei greci godevano di una considerevole fama anche tra coloro che non erano Greci, e molti fra questi ultimi si mostrarono particolarmente generosi. Delfi, ad esempio, era un vero “forziere” dell’antichità grazie alla reputazione goduta presso i re di Frigia e Lidia. In tutto il mondo greco, grazie alle generose donazioni,  i templi divennero gallerie d’arte oltre che luoghi di culto. I visitatori accorrevano proprio come nelle nostre chiese dotate di un ricco patrimonio artistico: per ammirare i tesorei e solo incidentalmente per mormorare una preghiera. I templi greci divennero musei d’arte piuttosto che collezioni di trofei guerreschi, soprattutto per l’abitudine dei Greci di non offrire direttamente le spoglie dei nemici, ma di acquistare con esse statue da dedicare nei templi. All’entrata principale del santuario di Delfi, per esempio, il visitatore passava davanti a una serie di statue erette da Tegea con le spoglie di una vittoria su Sparta, e poi ad altre erette da Sparta con le spoglie di una vittoria attenuta su Atene. Ciò non significa che i Greci bandirono i trofei di guerra dai santuari; anche loro, al pari del Medio oriente, avevano le loro collezioni di antichità storiche.

Oltre al ricordo di guerra, i Greci curavano con appassionata dedizione i ricordi dei grandi nomi del passato. Alcuni di questi risalivano al passato storico. Gli eroi mitici, essendo più numerosi e potenti di quelli storici, offrivano maggiori occasioni, e più sentite, di dediche commemorative. La stessa reliquia veniva a volte conservata in più luoghi. I templi conservavano non solo ricordi degli eroi mitici, ma anche loro reliquie.

Oltre ad oggetti di interesse artistico e storico, o pseudostorico, i templi ospitavano anche curiosità di ogni genere. Alcuni templi avevano zanne di elefante e uno, presso Napoli, uno scheletro completo. Questi provenivano più probabilmente dall’India che non dall’Afric, dal momento che l’India forniva tutta una serie di curiosità molto ammirate. Anche alcune curiosità tecnologiche erano messe in mostra. Ma i templi stessi avevano da offrire meraviglie.

Quando dalle piccol città-stato si passò ai grandi imperi che seguirono alla morte di Alessandro, alcuni dei nuovi monarchi si rivelarono uomini di cultura disposti a profondere per l’arte tutte le ricchezze di cui una corona può disporre. Tutto ciò che il mercato offriva, essi lo acquistarono; ciò che non poterono acquistare, lo fecero riprodurre.

Roma, prima delle guerre puniche del III sec. a.C era una città rozza, per nulla ingentilita dalla presenza di una qualsiasi forma di arte greca. Nel 211 a.C, nel corso della seconda guerra punica, il generale romano Marcello si impadronì della ricca città di Siracusa e, fra le altre spoglie di guerra, portò a Roma un gran numero di statue e dipinti che dedicò in vari luoghi della capitale. Fu come l’apertura di una diga: nei centocinquant’anni seguenti, a mano a mano che le legioni avanzavano attraverso la Grecia e l’Asia Minore, la città fu letteralmente sommersa dall’arte greca. La mania di collezionare opere d’arte crebbe talmente fra i Romani più ricchi e potenti, che divenne di rigore includere nella pianta di ogni villa alcune stanze riservate esclusivamente ai quadri, e particolari zone per l’esposizione delle sculture. Cesare prima, Augusto poi, seguiti dalla maggioranza degli imperatori del I e del II secolo, resero Roma sempre più ricca di opere dell’arte greca. Le collezioni potevano soprattutto l’accento sui maestri del passato. Con statue e dipinti furono abbelliti edifici pubblici di ogni tipo: i portici, i teatri, le monumentali terme. Accadde così che nel II sec, dopo che numerosi incendi avevano distrutto moltissime splendide collezioni nei templi, le terme di Caracalla divennero uno dei principali muesi di Roma.

I Romani non si limitarono certo a raccogliere solo oggetti d’arte. Ebbero sempre, come i Greci, molta reverenza per le reliquie mitologiche, furono ancora più attenti a raccogliere testimonianze storiche e, grazie a una vera propensione a conservare qualsiasi oggetto particolarmente interessante, finirono per riempire i loro templi con ogni sorta di curiosità. I Romani furono i primi a d esporre al pubblico le pietre prezione.

Con statue e dipinti acquisiti in maniera casuale grazie ai saccheggi dei conquistatori e ai capricci degli imperatori, e accogliendo indiscriminatamente oggetti esotici provenienti da ogni dove, un tempio romano correva il rischio di assomigliare al magazzino di un rigattiere.

Le chiese ereditarono dai templi pagani la funzione di magazzino di curiosità.

Col passare del tempo si difuse tra le classi dominanti il gusto di raccogliere collezioni private di simili curiosità.

Infine il 15 dicembre 1471 papa Sisto IV compì un atto di portata storica: riservò alcune stanze del Palazzo dei Conservatori sul Campidoglio all’esposizione di antiche sculture, e incaricò un gruppo di quattro persone di averne cura. Con questo atto fu sancita la nascita del primo museo d’arte del mondo. Ben presto, a fianco dei collezionisti dilettanti con le loro occasionali raccolte di curiosità, comparve una nuova figura, lo studioso di professione.

 

  • CAPITOLO TERZO

Itinerari

Il turista dell’antichità desiderava e cercava l’esotico e il remoto. E per trovarlo egli andava principalmente in tre luoghi: in Grecia, in Asia Minore e in Egitto. I viaggi verso regioni ancora più lontane, come l’Africa o l’India, erano riservati ai mercanti. Se i Romani prediligevano dirigersi verso est per visitare ciò che per essi era il vecchio mondo, a loro volta gli abitanti delle province affluivano verso Roma. Erano così numerosi che le città avevano appositi uffici nel Foro per aiutare i propri cittadini che visitavano o raggiungevano la capitale. Vi erano molti ricordi del passato a Roma. Ma i cittadini delle province giungevano per vedere, oltre alla Roma antica,  anche quella moderna, i grandiosi monumenti costruiti dagli imperatori per testimoniare la ricchezza e il potere dello stato e la loro personale generosità. Essi si stupivano di fronte ai palazzi sul colle Palatino; qui c’era, oltre all’abitazione dell’imperatore, anche l’amministrazione centrale e, con l’accrescersi della burocrazia, aumentavano di pari passo i palazzi. Il turista passava piacevoli ore usufruendo dei superbi impianti delle terme. Se aveva programmato opportunamente il viaggio, poteva trascorrere giorni e giorni occupato ad assistere agli spettacoli dell’arena o del circo. Quelli che partivano da Roma diretti in Grecia, Asia Minore o Egitto, dovevano prendere una decisione fondamentale: se andare via mare o via terra. Le navi non erano soltanto il mezzo più comodo per andare ma, dato che le rotte passavano per lo stretto di Messina, offrivano l’occasione di vedere la Sicilia, la quale pure aveva molto da offrire al turista. C’era Siracusa, con i templi ad Artemide e ad Atena che accoglievano opere d’arte famose, le cave dove erano stati tenuti prigionieri gli ateniesi e la fonte Aretusa, un’ampia sorgente di acqua limpida e pescosa. Un’altra curiosità della natura che attirava molti visitatori era il Lacus Palicorum, una piccola pozza a circa 70 km a nord-ovest di Siracusa, dove dei getti di acido di origine vulcanica sprigionatisi dal fondo davano l’impressione che l’acqua bollisse.

In Grecia i turisti seguivano gli itinierari che erano stati in auge per secoli: Delfi, Atene, Corinto, Epidauro, Olimpia, Sparta. Molto però era mutato dai tempi della Grecia classica. Olimpia, per esempio, godeva ora anche delle attrattive fornite dalla tecnologia romana: l’acuq acorrente vi giungeva attraverso un acquedotto. Gran parte della Grecia, a differenza di Corinto ed Epidauro, era al tempo dei Romani in piena decadenza e i turisti a caccia di ricordi del passato potevano anche godere dell’attrattiva di un pittoresco abbandono. Molti luoghi offrivano un romantico spettacolo di rovine immerse in uno scenario pastorale. Un giro turistico della Grecia comprendeva anche alcune isole. I visitatori andavano a Delo per vedere il venerando santuario di Apollo; a Samotracia; soprattutto a Rodi che, come Atene, conservava ben chiare le tracce dei giorni in cui era una nazione ricca e indipendente. Da Rodi c’era solo un passo per giungere in Asia Minore. E l’Asia Minore offriva la più grande fra tutte le attrazioni turistiche – i luoghi ove si era svolta la guerra di Troia, la cosiddetta “terra di Omero”. Dopo il saccheggio, Troia era rimasta per lungo tempo un ammasso di rovine dimenticate. Intorno al 700 a.C., alcuni coloni greci fondarono in quei luoghi una nuova città, una seconda Ilio che rimase una località relativamente poco importante finchè su di essa non si appuntarono gli interessi dei Romani.

L’Asia Minore aveva altri luoghi interessanti da offrire ai visitatori, nessuno però aveva il fascino dei luoghi della guerra troiana che costituivano il vero pezzo forte della regione.

Veniva poi l’Egitto, e recavisi dall’Asia Minore non era affatto un problema.

L’Egitto era il vero paradiso del turista. Offriva un paesaggio esotico, un modo di vivere esotico, monumenti esotici e una relativa facilità di spostamenti. Quasi tutti vi giungevano per mare. Una volta giunto in Egitto, il visitatore poteva proseguire il suo viaggio sempre per nave, dal momento che le zone abitate si trovavano lungo le rive del fiume. Il Nilo era un corso d’acqua particolarmente adatto alla navigazione. Le meraviglie per il visitatore cominciavano ancor prima che giungesse a terra: mentre era ancora una cinquantina di chilometri dalla costa poteva scorgere la sommità del Faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo. La città stessa offriva praticamente di tutto. C’erano famosi monumenti coma la tomba di Alessandro, il tempio di Serapide, il santuario di Pan e il Museo. Quest’ultimo era un “museo” nel senso che alla parola attribuivano gli antichi; noi lo definiremmo piuttosto un istituto di ricerca o di istruzione superiore. Comprendeva quattro “facoltà”: letteratura, matematica, astronomia, medicina. Alessandria era il più grande porto del Mediterraneo, aperto ai trafici con l’India e l’Africa e aveva tutte le caratteristiche di uno scalo in pieno rigoglio: nel suo porto si aggiravano marinai non solo mediterranei, ma anche arabi, persiani, etiopi e indiani: v’erano anche parecchi quartieri per gli stranieri e un quartiere dei divertimenti pieno di locali notturni. Alessandria era una città greca dove si respirava un’atmosfera cosmopolita. Per trovare l’Egitto vero il turista doveva risalire il Nilo; bastava imbarcarsi e navigare lungo il ramo canopico fino a giungere al luogo dove ora sorge Il Cairo. Qui il turista sbarcava per visitare Eliopoli, dove si trovava il più antico tempio di Ra. Al tempo dei Romani Eliopoli era una città fantasma, il tempio era parzialmente in rovina. Menfi era il punto di partenza per le visite alle grandi piramidi. Il turista di quei tempi poteva stupirsi anche dall’alto grado di rifinitura: infatti egli poteva vederle ancora coperte del levigato rivestimento originario e ornate di numerose iscrizioni geroglifiche. Di nuovo salito in barca, il turista faceva vela alla volta del lago Merida.

Terminata la visita di questa zona, il turista tornava nuovamente al fiume, questa volta per una lunga navigazione fino ad Abido dove si trovava il tempio di Seti. Risalendo ancor più verso sud si giungeva a Tebe. Tebe era già famosa tra i Greci ai tempi di Omero che canta i suoi ricchi palazzi e le cento porte. Per molti secoli i turisti vi si recarono, come fanno ancora oggi, per visitare le tombe sotterranee della Valle dei Re. Dopo il 27 a.C la città divenne il centro del turismo in Egitto quando la cosidetta statua di Memnone, che se ne stava tranquilla al suo posto dal 1400 a.C circa, si mise improvvisamente a “parlare”.

Chi voleva vedere veramente tutto continuava a risalire il fiume fino a Syene che per centinaia di anni segnò il confine meridionale dell’Egitto. Si poteva poi proseguire lungo gli argini per alcuni chilometri fino oltre le rapide; di qui fragili canoe portavano al tempio sull’isola di File. Per la maggioranza dei turisti il viaggio finiva a questo punto. Solo i più appassionati si avventuravano oltre, lungo le aride piste del Sudan.

 

  • CAPITOLO QUARTO

Visite ai monumenti

Un antico Romano, giunto in Grecia per una vcanza, non cercava allora cose molto diverse da quelle di cui vanno in cerca le migliaia di persone che vi si recano oggi. Ad Atene poteva, se voleva, fare un giretto già alla sera. Lungo l astrada principale l’illuminazione non era un problema, infatti le lampada a olio sulla facciata dei negozi fornivano una luce più che sufficiente. Le luci stradali so trovavano solo agli incroci più importanti e la tendenza era di dare importanza non tanto all’illuminazione quanto all’effetto. Per questo le lampade erano inserite, ad esempio, in maschere di pietra con buchi in corrispondenza degli occhi e della bocca. Le strade laterali erano immerse nell’oscurità più totale e chi voleva passarvi doveva assumere uno schiavo che gli illuminava il cammino con una torcia o con una lanterna a olio che era in grado di diffondere un bel fascio di luce. Bisognava poi essere sicuri di conoscere la strada del ritorno. Tabelle stradali e numeri civici erano sconosciuti ai romani quanto ai greci e l’unica risoprsa per uno straniero era fermare un abitante del luogo e chiedergli informazioni. I pedoni che si avventuravano per le strade duirante la notte dovevano stare ben attenti al trafico. Gran parte delle città antiche ebbero il buon senso di vietare quasi completamente il traffico su ruote durante il giorno, permettendolo solo fra il tramonto e l’alba. Anche le ore del giorno non erano prive di pericoli per chi passeggiava per le strade. A un passante sbadato poteva capitare di venir travolto da una lettiga sorretta da una pariglia che procedeva a trotto serrato e che quindi non poteva frenare bruscamente. Quando era giunto il momento di iniziare sul serio le esplorazioni, il turista antico si metteva in viaggio con un equipaggiamento leggero; a portare il cibo e quanto altro gli era necessario pensavano i suoi servi. Non doveva portarsi neanche una Guida.  Molti turisti dell’antichità desideravano conservare un ricordo visivo dei luoghi visitati. Così, se avevano attitudine al disegno, potevano portare con sè papiro, penna e inchiostro e tavolette di cera e stilo. In caso contrario erano quasi sicuri di trovare, pronti sul luogo in attesa di clienti, numerosi rapidi miniaturisti che potevano schizzare un ritratto improvvisato del turista sullo sfondo del Partenone ad Atene, del tempio di Apollo a Delfi, etc. Visitando una località il primo problema del turista era sfuggire alle grinfie delle guide locali che stavano in agguato. Queste si trovavano dappertutto e il visitatore non poteva evitarle neppure a volerlo. Erano anche nelle piccole città.  Le loro notizie erano per lo più utili, talvolta addirittura essenziali. Conducevano il turista in un luogo, lo aiutavano a riconoscere e a collocare nel giusto contesto storico i monumenti, gli edifici e le statue, spiegavano il contenuto dei dipinti, descrivevano i riti e i costumi locali. Ese amavano parlare non solo dei monumenti esistenti ma anche di quelli che non c’erano più. Esse amavano lavorare di fantasia intorno a tutto ciò che dicevano, sapendo benissimo che la maggioranza degli ascoltatori non aveva possibilità di controbatterli. Scelta la guida, il visitatore iniziava a seguirla nel suo giro.

Visitare la collezione di un tempio era più facile che non visitare quella di una chiesa oiggi; molte opere si trovavano all’esterno e non erano tenute sottochiave. I trofei di guerra, come gli scudi, erano spesso appesi agli architravi o lungo i fregi. Le statue di marmo o di bronzo erano collocate sotto i portici delle due facciate o fra le colonne lungo i lati. Gli oggetti di valore intrinseco, fatti in oro o argento, o quelli che non sopportavano di venir esposti agli agenti atmosferici, si trovavano in genere dentro le mura del tempio.  I templi erano chiusi a chiave, ma in essi i furti erano altrettanto frequenti quanto oggi nelle nostre chiese.

I turisti erano attratti in un certo luogo dalla possibilità di ammirare opere d’arte particolarmente belle, o famosi edifici o monumenti. Gli indigeni usavano organizzare speciali fuori programma che costituivano per il turista affaticato un graditissimo momento di pausa. Una delle principali attrattive della visita alle piramidi, per esmpio, era lo spettacolo offerto dagli uomini del vicino villaggio di Busiri che avevano una speciale abilità nell’arrampicarsi fino in cima alle piramidi. Ma lo spettacolo sicuramente più fmoso, che attirava turisti da tutto il mondo, era offerto non dall’uomo ma dalla natura. A Tebe d’Egitto, sorgevano due colossali statue, ognuna consistente in una base e un trono sul quale stava seduto un uomo. Ma ciò che attirva le folle era il fatto che una delle statue “parlava”. Oggi sappiamo che questa statua così singolarmente dotata rappreswntava Amenofi III, che regnò intorno al 1400 a.C., e fu uno dei più grandi faraoni egizi. Ma i Greci e i Romani erano convinti che si trattasse di un’immagine di Memnone, figlio dell’Aurora. A un certo momento, probabilmente intorno al 27 a.C, un terremoto spezzò la statua lungo il torso e la parte superiore cadde al suolo. Ciò che rimaneva di essa sviluppò una particolarità unica: emeteva suoni. All’alba ne usciva un acuto rumore che ricordava il risuonare della corda di uno strumento musicale. Si diffuse la convinzione che con quei suoni Memnone parlasse a sua madre.

Le sole parti della statua di Memnone su cui era possibile scrivere erano le gambe e la base. Nelle vicinanze vi era un’altra serie di monumenti dove lo spazio era più che sufficiente per tutti i turisti che volessero togliersi la voglia di incidere qualcosa: le tombe sotterranee dei faraoni nella Valle dei Re. Molto prima dell’arrivo dei Greci e dei Romani queste erano state scassinate dai ladri, spogliate dalle loro ricchezze e lasciate aperte. Troviamo le frettolose annotazioni tipiche dei graffiti. Esse mostrano che, allora come oggi, i turisti preferivano viaggiare in compagnia. Le famigli si spostavano insieme. Assieme viaggiava anche gente accomunata dai medesimi interessi. Molti graffiti fanno menzione della città d’origine e questo indica che la fama delle tombe era universale. I turisti appartenevano in larga parte alle classi superiori, gente che aveva tempo e denaro per viaggiare.

La visita iniziava con una gita, prima dell’alba, alla statua di Memnone. Questa costituiva l’attrazione principale e, trovandosi nella pianura pèresso gli argini del fiume, era facile da raggiungere. In seguito le schiere di turisti dovevano assottigliarsi poichè solo quelli veramente interessati alle tombe erano disposti ad affrontare la dura salita che conduceva alla Valle dei Re. Le guide conducevano tutti i visitatori all’attrazione più caratteristica, la tomba di Ramsete VI. Essa doveva la sua eccezionale popolarità alla credenza diffusa che fosse la tomba di Memnone. Prima di entrare in una tomba le guide si fermavano per permettere ai visitatori di abituarsi al freddo e alla semioscurità dopo la luce accecante del sole. Le guide accendevano poi le torce e conducevano la comitiva verso l’interno.  Il complesso monumentale delle piramidi e della Sfinge alle porte di Tebe era la più accessibile fra le attrazioni turistiche dell’Egitto.

Dopo aver visitato un luogo, aver assisitito agli spettacoli che gli indigeni allestivano per i turisti, l’unica cosa che restava da fare a un turista era di mettersi alla ricerca di un souvenir adatto. Gli appassionati d’arte tornavano un tempo da Atene con riproduzioni in piccola scala della grandissima “Atena” di Fidia. I ricchi poi non si accontentavano di riproduzioni in miniatura, ordinavano copie in grandezza naturale per ornare i propri palazzi cittadini o le case di campagna. In Afghanistan è stato portato alla luce un bicchiere di vetro decorato con scene del porto di Alessandria; deve esserci arrivato nel bagaglio di qualche indigeno che desiderava avere un ricordo del suo lungo viaggio fino alla grande metropoli. La zona del golfo di Napoli offriva un tipico articolo per turisti: piccole fiale di vetro con la riproduzione delle principali attrattive della regione.  Gli acquirenti più seri scansavano le bancarelle e i carretti degli ambulanti pieni di paccottiglia di cattivo gusto e si dirigevano verso le zone dove si trovavano i migliori negozi. Roma, la capiale e la città più ricca del mondo, era il centro del commercio dei prodotti artistici. Nelle altre città si potevano comprare i prodotti e le specialità locali. C’era però un fatto che provvedeva a raffreddare l’entusiasmo dei compratori: i portoria, vale a dire i diritti doganali. L’Impero Romano aveva dogane non solo in tutti i porti e frontiere, ma anche ai confini tra le province, e il dazio doveva essere pagato anche per i beni che passavano da una provincia all’altra. Gli instrumenta itineris del viaggiatore, “materiali per il viaggio”, cioè bestie da soma, carri, carretti, cassi bagagli e simili e gli oggetto ad usum proprium durante il viaggio erano esenti da dazio; qualsiasi altra cosa era invece tassabile, perfino i cadaveri trasporati per essere sepolti altrove. Certe persone, benefattori ufficiali dello stato, o membri dell’esercito godevano dell’esenzione dalle tasse. Essa valeva solo per i beni d’uso personale; non si aveva invece il diritto d’importare per poi rivendere. I gabellieri chiedevano per prima colsa la professio, cioè la dichiarazione doganale nella quale il viaggiatore doveva mettere per iscritto tutto ciò che aveva con se. Erano soggette a esame anche le cose portate indosso. Se un agente scopriva oggetti non regolarmente dichiarati procedeva all’immediato sequestro. Il colpevole poteva ricomprarli, ma al prezzo fissato dalla valutazione dell’agente, ciò significava come minimo il doppio del costo. Certe cose non potevano neppure essere ricomprate. Se qualcuno cercava di importare clandestinamente un giovane schiavo vestendolo con abiti da cittadino e facendogli passare la frontiera come se fosse, per esempio, un membro della famiglia, e lo schiavo rivelava la verità, il doganiere gli concedeva la libertà sul posto.

 

  • CAPITOLO QUINTO

Pausania, il Baedeker dell’antichità

Pausania fra il 160 e il 180 d.C. scrisse un Itinierario della Grecia, la sola guida che l’antichità ci abbia tramandato. Egli era una persona agiata, in caso contrario non avrebbe potuto permettersi di viaggiare e scrivere. La sua visione politica era prudente ed equlibrata: era contento di uno stato autocratico come l’Impero Romano, era convinto delle benefiche qualità della potenza romana e nutriva verso la democrazia la diffidenza tipica dei conservatori appartenenti alle classi superiori. Aveva timore degli dei. Credeva in tutte le divinità tradizionali, eseguiva piamente i sacrifici, ed era un membro così devoto dei culti misterici di Eleusi che non parlò mai dei riti e non dedicò neppure una parola al sacro recinto e ai suoi edifici. Credeva negli oracoli, nell’intervento della divinità nella vita dei mortali e specialmente nel loro potere di ricompensare il bene e punire il male. L’unica cosa che non riusciva ad accettare del tutto erano i miti. I suoi gusti artistici erano di stampo conservatore. Nacque in Asia Minore, probabilmente in Lidia. Ad est si spinse gino alla Siria e alla Palestina. Non arrivò mai a Babilonia. Visitò l’Egitto risalendo il Nilo fino a Tebe per udire la miracolosa statua di Memnone e traversò anche il deserto verso occidente. Visitò tutta le Grecia e le isole dell’Egeo. Nell’occidente vide Roma e alcune città della Campania, fra le quali Capua. Ad ovest, non si avventurò più in la dell’Italia.

L’idea di scrivere una Guida non fu certamente un’idea originale di Pausania; davanti a sè aveva numerosi esempi. Nessuno di questi è giunto fino a noi. Gli altri scrissero monografie di singole località o perfino di singoli monumenti; egli ebbe la grandiosa iniziativa di compilare una Guida di tutti i luoghi e monumenti memorabili di tutta la Grecia. Si trattò dell’opera di tutta una vita. Pubblicò la prima sezione (l’opera si compone di dieci sezioni o libri) subito dopo averla terminata.

Suo scopo è identificare e descrivere tutti i luoghi e i monumenti della Grecia degni di memoria. Pausania considera altrettanto importante riferire tutte le tradizioni e le narrazioni mitologiche, storiche, religiose o folscloristiche associate ai diversi luoghi; inoltre egli riteneva degni di menzione quei luoghi e quei monumenti che costituivano testimonianza del grande passato della Grecia e, fra questi luoghi, i sacri erano per lui assai più importanti dei profani. Nel guidare il lettore attraverso una città, egli non può fare a meno di indicare i mercati, i colonnati, il tribunale, gli uffici del governatore, le fontane, le terme, etc, ma in maniera soltanto sommaria. Quando arriva ai santuari o ai templi, allora Pausania si scatena, dilungandosi a descrivere nei minimi dettagli le costruzioni e le relative decorazioni.

Quando indugia nella descrizione di un territorio, Pausania mira quasi sempre a mettere in luce qualche aspetto religioso o mitico, mentre è raro che vengano prese in considerazione anche le bellezze naturali. Menzionerà una montagna soltanto per dirci quale dio è oggetto di culto sulla sua cima, una caverna per spiegare che si tratta di un luogo frequentato da Pan. Accade solo molto raramente di incontrare una descrizione della natura per se stessa e si tratta, in queste occasioni, di menzioni affatto casuali.

La prima sezione dell’opera descrive Atene e l’Attica. Con la seconda sezione, dedicata a Corinto, egli trova il ritmo giusto, mettendo in mostra un sistema assai efficace nel guidare il lettore. Le località alle quali è dedicato maggior spazio nell’opera sono quelle dove erano custoditi i più numerosi e grandi monumenti del passato. Si trovano disquisizioni su fenomeni naturali come i terremoti, le maree oceaniche e i deserti di ghiaccio del nord; vi sono allusioni a oggetti e animali esotici, queste e simili disgressioni, assieme alle interminabili notazioni mitologiche e storiche, paiono a volte sovrastare la funzione di una guida vera  e prorpia. Di fronte a notizie contradditorie, Pausania metteva a confronto le sue fonti e propendeva per quella che gli pareva più plausibile. Alcune informazioni erano attinte dalle iscrizioni collocate dentro o intorno agli edifici pubblici o ai santuari; anche queste venivano discusse e analizzate prima di giungere a qualsiasi conclusione. Egli ci riferisce ciò che ha visto con i suoi occhi, che erano quelli di un osservatore acuto e preciso.

Scrittore e pensatore non eccezionale ma equilibrato, sobrio e chiaro, infaticabile e profondamente rispettoso della precisione, Pausania è una pietra miliare nella storia del turismo. È il diretto antenato dell’altrettanto serio e privo d’immagione, diligente ed esauriente, scrupoloso e accurato Karl Baedeker che, a sua volta, diede vita alla Guide Bleu e ad altre guide che ancor oggi consultiamo quando giriamo per i monumenti.

 

  • CAPITOLO SESTO

Verso la Terrasanta

Roma pagana non aveva un clero organizzato. Vi erano sacerdoti di professione, ma costoro erano in numero relativamente ridotto. Gran parte dell’attività liturgica era svolta da sacerdoti non a tempo pieno, magistrati civili, laici designati ufficialmente o volontari e simili. L’avvento del cristianesimo, dapprima come religione riconosciuta  e poi come LA religione, portò con se una vasta organizzazione clericale, con una burocrazia parallela a quella che governava lo stato. E i nuovi burocrati furono causa di vasti movimenti. Tutte le persone che tradizionalmente percorrevano le grandi strade e le rotte marittime dell’Impero, le dividena o ora con i prelati diretti alla corte di Costantinopoli, i vescovi in visita pastorale, gli incaricati finanziari e i messaggeri della Chiesa. A essere particolamente attratti dai viaggi furono soprattutto i vescovi che sovente abbandonavano il loro gregge e compivano viaggi per ragioni politiche, per affari o per riposarsi. Un Concilio ecumenico tenuto a Sofia, nel 343, decretò che nessun vescovo poteva presentarsi alla corte dell’imperatore senza essere stato convocato. Ma erano proprio i Concili che strappavano frequentemente tutti i vescovi dalle loro sedi. Nel 325 Costantino indisse il primo Concilio. I delegati non dovevano sopportare le solite difficoltà del viaggio. Costantino estese a loro il privilegio di usare i veicoli appartenenti alla posta pubblica. In seguito gli imperatori presero nuovi provvedimenti, concedento autorizzazioni non solo per il trasporto ma anche per l’alloggio e il cibo. I locandieri erano obbligati a fornire ai viaggiatori pane, uova, verdure, vari tipi di carne, ingredienti per cucinare, frutta varia, sale, a ceto e miele e vino o birra come bevande.

Proprio come era diventata fastidiosa l’eccessiva propensione del clero per i viaggi, altrettanto avvenne per l’eccessivo uso della posta pubblica. Oltre ai vescovi che viaggiavano per recarsi a corte o ai Concili, oppure per trattare qualche altro affare della Chiesa, anche l’intellighentsia della cristianità, un ristretto ma importantissimo gruppo di intelletuali, era continuamente in viaggio per approfondire la propria educazione. Sulle strade e le rotte marittime, con i prelati e gli intelletuali, c’erano assai più numerosi i rappresentanti commerciali e corrieri dela Chiesa, in particolar modo questi ultimi; essi erano sempre in viaggio da chiesa a chiesa, da vescovo a vescovo. Il clero aveva accesso al cursus publicus solo per i viaggi; tranne che in rare occasioni non poteva far uso dei messaggeri governativi. Vennero perciò usati messaggeri privati, scelti dapprima fra i lettori e i suddiaconi, poi tra i diaconi, i preti e i monaci. Quando non c’era disponibilità di personale ecclesiastico, anche i cristiani si comportavano come avevano fatto i pagani: ricorrevano a chiunque fosse diretto nella giusta direzione. Un servizio postale di questo genere era troppo casuale per essere utile, perciò la Chiesa faceva anche ricorso ai tabellarii, messaggeri professionisti; lo faceva però con riluttanza perchè costoro non erano certo l’ideale. Erano motlo restii a recarsi in località remote o difficili da raggiungere, indugiavano nelle località piacevoli e sembravano sempre di gran fretta. Quel che è peggio, essi leggevano le comunicazioni che avrebbero dovuto essere confidenziali.

La conversione di Roma al cristianesimo aprì dunque un nuovo capitolo nella storia dei viaggi, grazie ai frequenti spostamenti degli ecclesiastici e al traffico da quelli provocato. Il cristianesimo aprì anche la strada a una nuova forma di turismo. I Greci e i Romani andavano a Troia per vedere la “terra di Omero”, ora i pii cristiani affluivano in Palestina per vedere la “terra della Bibbia”.

Nel 326 Costantino volse la ua attenzione alla Terrasanta. Le macerie furono tolte dal colle della crocefissione, riportando alla luce la grotta nella quale Giuseppe di Arimatea depose i resti mortali di Cristo; ri cominciò anche a costruire in quel luogo un edificio rotondo, che i pellegrini chiamarono l’Anastasis. La basilica chiamata dai pellegrini “del Martirio” cominciò a sorgere nel luogo della crocefissione e dove era stata ritrovata la croce. Alla fine del secolo il desiderio di compiere una peregrinatio ad loca sancta si era diffuso nei quattro angoli dell’Impero. Alcuni fra i pellegrini più ferventi erano donne. Sia fra gli uomini, sia fra le donne, l’escursionista più intrepida fu una certa Eteria, proveniente da una provincia occidentale, probabilmente per la Galliua. Di qui essa intraprese il lungo e lento cammino che, per via di terra, conduceva in oriente. Dopo aver visitato Gerusalemme e altre località della Palestina si spinse in Egitto, risalì il Nilo fino alla regione di Tebe per rendere visita ai monaci nei loro riti del deserto. La tappa successiva fece il giro della “Terra di Mosè”. Si inerpicò fino al picco dove Mosè aveva ricevuto le tavole e scese poi nella valle. Dal Sinai ella ritornò a Clusma e, dopo un periodo di riposo, intraprese in senso inverso il percordo dell’Esodo. In qualche modo ottenne dalle autorità romane una scorta militare; infatti il viaggio si snodava attraverso una terra desolata dove ogni viaggiatore era facile preda dei banditi. Giunta nuovamente in Egitto congedò la sua guardia e si diresse alla volta di Pelusio. Di Gerusalemme fece la sua base per una serie di escursioni dirette alla Palestina orientale e al Giordano.

Le belle chiese edificate da Costantino e le altre costruzioni contribuirono solo ad accrescere le seduzioni della Terrasanta. La sua attrattiva principale restavano i luoghi, i monumenti e gli edifici che, in modo reale o presunto, erano resi venerabili dai legami con la Bibbia. Le linee princiapli della visita alla Terrasanta sono contenute in una Guida redatta per i pellegrini cristiani da un anonimo cittadino di Bordeaux che si recò in Palestina nel 333. egli dedica scarsa attenzione alle attrazioni turistiche; enumera semplicemente le città.

Col passare del tempo vi fu un vero fiorire di attrazioni turistiche. L’immaginazione della guida giocava senz’altro un ruolo importante nel moltiplicare il numero ed accentuare l’importanza dei luoghi santi degni di memoria. Un certo Antonino di Piacenza, che si recò in Terrasanta nel 570 scrisse un raporto mirabolante sulle meraviglie che aveva viste.

Intorno alla prima metà del III sec, un certo numero di Egizi lasciò le proprie case per fuggire l’opprimente povertà o l’altrattanto opprimente sfruttamento romano e si ridusse a condurre una vita solitaria nelle terre abbandonate e desertiche. Uno di costoro, Antonio, divenne il più famoso eremita del tempo e il fondatore del monachesimo cristiano. Si rifugiò nel deserto in giovane età, vivendo dapprima in una solitudine parziale, che divenne poi totale quando si ritirò in un forte abbandonato. Quando infine ritornò fra gli uomini, la fama della sua santità attrasse altri solitari che si stabilirono nelle grotte dei dintorni. Intorno al 305 si formò così una comunità della quale Antonino era il capo riconosciuto. Simili gruppi si costituirono anche altrove, i membri vivevano da soli oppure in piccole comunità di due o tre persone, formando però sempre una comunità più ampia e definita, posta sotto la guida di un membro particolarmente venerato.

Fra le attrazioni turistiche dell’Egitto si anoverava in quei tempi anche la tomba di Mena, martirizzato nel corso delle persecuzioni di Diocleziano nel 295 e sepolto in una località a mezza strada fra Alessandria e lo Uadi en-Natrun. Il maggior richiamo risiedeva nei poteri magici attribuiti all’acqua locale. La peregrinatio ad loca sancta dei credenti comprendeva, oltre la Terrasanta propriamente detta, anche l’Egitto. In entrambi i luoghi gli spostamenti locali avvenivano ovviamente via terra, ma per i lunghi viaggi che conducevano in Medio Oriente i pellegrini potevano scegliere se viaggiare per terra o per mare. La strada attraverso la terraferma seguiva le maggiori arterie di traffico usate dal cursus publicus, e si può perciò pensare che il viaggiatore non avesse problemi nel trovare cibo, alloggio, animali e veicoli lungo la strada. Inoltre i pellegrini altolocati potevano far conto sui servizi offerti dal cursus. Una terza possibilità era rappresentata dai viaggi combinati per terra e per mare assieme. Si poteva lasciare Roma e percorrere la Via Appia fino a Brindisi, prendere du qui una nave fino a Corinto, superare l’istmo, prendere un’altra nave per Efeso e proseguire poi da Efeso sia in nave sia a piedi. A partire dagli ultimi decenni del Iv sec, quando il pellegrinaggio in Terrasanta diventò di gran moda, il principale problema dei viaggiatori era rappresentato dai pericoli. Gli imperatori romani non potevano più contare sull’esercito e sulla flotta dei bei tempi passati. A occidente Vandali, Visigoti e altri popoli stavano aprendo gigantesche brecce nell’edificio dell’Impero. In tutto il Mediterraneo i pirati erano di nuovo all’opera. Le regioni interne erano poi una vera e propria terra di nessuno.

Tre, fra i documenti trovati, fonriscono preziosi particolari sui viaggi “alla Montagna Santa”, una definizione che a quel tempo indicava sia il monte Sinai, sia in generale le colline che lo circondavano o anche il monastero di S. Caterina. Uno è il resoconto delle spese, transazioni commerciali e argomenti simili scritto dal responsabile di una carovana di cammelli e asini che attraversò il Negev. L’altro documento è indirizzato non più al popolo ma al responsabile amministrativo di Nizana.

I Cristiani sulle strade dovevano affrontare anche un altro problema, dove trascorrere la notte. Quando le tenebre li sorprendevano in cammino, non c’era alternativa: si fermavano presso qualunque mansio o mutatio fossero riusciti a raggiungere prima di notte. Invece le cose miglioravano di molto quando capitava loro di trovarsi in località dove la Chiesa godeva dell’appoggio delle autorità locali. I viaggiatori di censo e di rango potevano contare su una adeguata sistemazione nelle case degli amici o delle autorità. La gente comune doveva alloggiare nelle locande.

Spetta al grande Basilio di Cesarea il merito di aver concepito e promosso l’idea di costruire una serie di ospizi per accogliere i viaggiatori cristiani. Il Concilio di Nicea diede forza di legge a quanto Basilio aveva iniziato, e non molto tempo dopo ogni comunità cristiana di una certa importanza poteva vantarsi di possedere uno xenodocheion. Forma e dimensioni variavano da luogo a luogo. Nei grandi centri, dove i vescovi menavano vanto della cosa ed arrivavano a rinunciare a qualcuno dei loro privilegi per devolvere il denaro in questo servizio, gli ostelli erano ampi e molto buoni. I monasteri erano all’avanguardia nel prendersi cura dei viaggiatori: ciascuno aveva almeno qualche letto a disposizione degli ospiti, e da un certo momento in poi un ospizio perfettamente attrezzato divenne parte indispensabile di quasi tutti i monasteri. In certi posti anche i privati cittadini fecero la loro parte. In questo campo interveniva anche lo stato. Gli xenodocheia servivano ad accogliere solo gli adepti della fede cristiana, e non i viaggiatori in generale; di conseguenza doveva esserci qualche sistema utile per identificare gli impostori. Già ai tempi degli apostoli, i cristiani viaggiavano muniti di lettere di raccomandazione che permettevano loro di incontrarsi con i propri correligionari e ottenere alloggio e assistenza. In seguito, durante gli anni delle persecuzioni, divenne sempre più importante avere un mezzo per identificare con sicurezza le persone in cerca di rifugio o latrici di una lettera. Il viaggiatore normale portava con sè una semplice “lettera di pace”, come era chiamata, che presumibilmente autorizzava a ricevere la normale ospitatlità disponibile. Gli ecclesiastici erano forniti di una vera e propria lettera di raccomandazione, un documento di maggiore importanza che concedeva al possessore un trattamento di favore. Da principio anche i semplici preti erano autorizzati a emettere queste lettere, ma la cosa portò ad abusi; dal IV sec poterono essere rilasciate solo dai vescovi. Munito della sua lettera, il viaggiatore poteva battere alla porta di ogni ospizio, di giorno e di notte, sicuro di venir accolto. Chi arrivava era salutato con il “bacio della pace”; si procedeva poi alla lavanda dei piedi. Uomini e donne erano alloggiati separatamente. I cibi erano semplici, condizionati dai mezzi dell’ospizio e dal grado di austerità che vi regnava.

Gli ospizi offrivano tutta una serie di servizi in aggiunta al letto e al cibo. Se il viaggiatore arrivava malato, fornivano medicine e un dottore; se i suoi abiti erano malridotti, provvedevano a cambiarglieli. Mettevano a sua disposizione guide che gli mostrassero i dintorni. Gli ospizi arrivavano perfino a rifornire di denaro i viaggiatori in difficoltà. Ma soprattutto ci si prendeva molta cura dell’anima del viaggiatore; perfino il più povero dei monasteri, che magari non  era in grado di soddisfare le sue necessità fisiche, era ottimamente provvisto per soddisfare quelle spirituali, offrendogli ampia opportuinità di meditazione e preghiera. Per tutti questi aiuti fisici e spirituali nessuno era obbligato a sborsare un soldo. Era tuttavia sottinteso che quelli che potevano avrebbero lasciato un’offerta che era sempre accettata con gratitudine. I contributi degli ospiti, sia in danaro sia in doni o lavoro, coprivano solo una piccola parte delle spese; il resto ricadeva sulla fondazione stessa. In Egitto i monaci devolvevano il profitto del loro lavoro all’abate per aiutare gli ospizi.

Per quanto l’opsitalità fosse una virtù cristiana che prelati e monaci perseguivano con dedizione, è tuttavia chiaro che talvolta non reggevano allo sforzo di intrattenere un incessante flusso di ospiti. Gli ospizi erano collocati in modo da ridurre i possibili inconvenienti al minimo. Nei monasteri, ad esempio, erano posti sovente presso l’entrata o lontani dal resto del complesso. Nei santuari dove erano sepolti martiri e santi, l’ospizio stava il più vicino possibile alle tombe; infatti, avere un santo cosi vicino, essere insomma quasi suo ospite, rappresentava per un pellegrino la gioia suprema. Moltissimi pellegrini preferivano dormire all’aperto, sotto il portico aperto che circondava una tomba venerata. Gli ospizi dei monasteri erano diretti in genere da monaci responsabili di fronte all’abate, quelle delle chiese da preti responsabili di fronte al vescovo. Il sistema, così come era organizzato, lasciava molto a desiderare. Questi albergatori ecclesiastici tendevano a crare uno stato nello stato a rifiutare qualsiasi tentativo di ingerenza o controllo. L’unica risorsa del vescovo o dell’abate era trovare la persona giusta per quel lavoro: uomini cioè con una particolare fama di servitù. Per il resto del personale erano preferiti i celibi e le zitelle, gente che libera da impegni di famiglia avrebbe potuto dedicarsi completamente al proprio lavoro.

Il turista cristiano, dopo aver debitamente seguito le sue guide e aver avidamente ascoltato ciò che queste avevano da dirgli, provava non meno dei suoi fratelli pagani l’irresistibile impulso di lasciare un segno, di scarabocchiare da qualche parte un eterno ricordo della sua fugace presenza. In Terrasanta i graffiti dei pellegrini si sono conservati solo su monumenti di relativa antichità; i monumenti più famosi o sono scomparsi o sono stati protetti contro simili sfregi. Il visitatore cristiano non poteva partire senza aver acquistato un ricordo adatto. Ma nel suo caso la paccottiglia da quattro soldi non andava bene. Doveva trattarsi di qualcosa che in modo tangibile testimoniasse la santità dei luoghi visitati. I pellegrini raccoglievano con entusiasmo zolle e manciate di terra dei Luoghi Santi, frutti o ramoscelli dai boschi sacri, pezzi dei cera delle candele che ardevano nei santuari, gocce d’acqua da un fiume dove un santo si era bagnato o fili d’erba sui quali i piedi di lui si erano posati ecc.

Prima della distruzione di Gerusalemme ad opera dei Romani, gli Ebrei vi si erano rempre recati a frotte, soprattutto nel periodo della Pasqua ebraica. Molti di loro continuarono in questa pratica, compinedo il pellegrimaggio come i loro fratelli cristiani.

Migliaia di pellegrini ogni anno, con un medaglione o una fiasca intorno al collo, lasciavano la Terrasanta per il lungo viaggio di ritorno verso casa, probabilmente così esaltati dall’esperienza che si davano poco pensiero delle difficoltà che li aspettavano. Quelli che avevano occhi per vedere capivano che il turismo non rispettava la santità e che anzi rendeva le città della Terrasanta più simili a Sodoma e Gomorra che al Paradiso.

 

     

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