I promessi sposi

 


 

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I promessi sposi

VITA E OPERE DI ALESSANDRO MANZONI

 

Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785 dal conte Pietro e da Giulia Beccarla, figlia di Cesare Beccarla, famoso illuminista italiano, autore del celebre trattato "Dei delitti e delle pene", con cui demoli i pregiudizi giuridici e psicologici che erano alla base della tortura e della pena di morte. Il matrimonio dei genitori non era stato felice, anche perche il padre era piu anziano della madre di ben 25 anni, e piu ancora per l'incompatibilita dei due caratteri: il padre, uomo pacifico, amava la vita ritirata e la quiete della campagna, mentre la madre, donna molto intelligente e irrequieta, desiderava brillare nei salotti mondani della capitale lombarda. Percio Alessandro fu messo in collegio sin dal 1791, prima a Merate presso i Padri Somaschi, dove resto fino al 1796, quindi a Lugano (Canton Ticino) presso il Collegio S.Antonio, tenuto anch'esso dagli stessi religiosi. Il ragazzo passo quivi due anni, poi altri tre a Milano, nel Collegio Longone (o dei nobili), tenuto dai Padri Barnabiti.
Nel 1801 Alessandro usci definitivamente dal collegio e visse a Milano, affidato alle cure di una zia, mentre la madre, separata legalmente dal marito sin dal 1792, era andata a convivere a Parigi col conte Carlo Imbonati; il padre poi viveva preferibilmente in villa, come allora si diceva, e si curava poco dell'educazione del figlio. Questi, a Milano, frequento soprattutto Francesco Lo Monaco, Vincenzo Cuoco e il Monti, ma si diede anche al gioco, dal quale fu poi allontanato dal Monti, che egli ammirava moltissimo.
Nel 1801 il giovinetto compone il "Trionfo della Liberta", poemetto di quattro canti in terzine, dedicato appunto al Monti. Il sedicenne poeta, fervido di spiriti rivoluzionari, si scaglia in esso contro i tiranni (il Pontefice in Roma, i Borboni a Napoli e in Sicilia ecc.) e contro la superstizione che e il principale puntello della tirannide.
Tra il 1803 e il 1804 compone quattro "Sermoni" in versi sciolti, nei quali satireggia la corruzione contemporanea, la goffa albagia dei nuovi arricchiti, la smania dilagante di comporre versi, indice di decadimento del gusto. Queste satire, anche se rozze, gia mostrano nel giovane diciannovenne l'interesse per i problemi morali e una certa serieta di intenti.
Nello stesso anno 1803 compone l"Adda", una specie di epistola metrica, indirizzata al Monti, in cui lo stesso fiume Adda personificato si rivolge  al "Cantor di Basville", invitandolo a soggiornare sulle sue rive, dove era appunto situata la villa del Manzoni, nei pressi di Lecco. Dall'ottobre 1803 al marzo successivo il Poeta soggiorna a Venezia, dove si innamora di una donna piu anziana di lui, la quale saggiamente lo invita a riprendere gli studi.
Nel 1805 mori a Parigi il conte Carlo Imbonati, lasciando erede universale dei propri beni la madre di Alessandro, la quale accompagno in Italia le ceneri del Conte,  ma  torno  ben presto  a Parigi,  portando  questa volta con se  il  figlio, che


 

 

inizio, per cosi dire, una nuova vita nella "citta dei lumi", accanto alla diletta madre.
Alla madre dedica il carme consolatorio "In morte di Carlo Imbonati", scritto verso la fine del 1805 e pubblicato a Parigi l'anno  successivo,  nel  quale immagina che il morto Conte (gia cantato a 11 anni dal Parini nell'ode "L'Educazione") gli appaia in una visione notturna e lo esorti ad amare la poesia e ad apprezzare soprattutto la dignita morale. In questo carme non c'e ancora vera poesia, ma gia si sente un anelito morale che prelude alle opere maggiori.
Il 17 marzo del 1807 muore a Milano il padre, ed egli giunge troppo tardi per raccoglierne l'ultimo respiro; l'anno successivo, il 6 febbraio, sposa a Milano Enrichetta Blondel, non ancor diciassettenne, di famiglia protestante di Ginevra, per cui il matrimonio viene celebrato secondo il rito calvinista. Quindi gli sposi si recano a Parigi, dove nasce la primogenita Giulia (che andra poi sposa a Massimo
D'Azeglio),  prima  di  ben  nove1   figli,  di  cui  pero  solo  due,  Enrico  e Vittoria,
sopravvivranno al padre.
A Parigi il Manzoni conobbe e frequento gli uomini piu illustri di quel tempo, e si lego in intima amicizia con Claudio Fauriel, insigne storico e letterato, il quale ebbe grande importanza nella sua formazione storica, critica e artistica.
Il 1810 e l'anno della cosiddetta conversione del Manzoni, che e trascinato dall'esempio della moglie, la quale aveva abiurato il Calvinismo per abbracciare il Cattolicesimo; in seguito a cio il matrimonio dei giovanissimi coniugi fu ricelebrato secondo il rito cattolico. Non e forse ozioso osservare che la primogenita Giulia, nata nel dicembre del 1808, era stata battezzata nella Chiesa cattolica; cio vuol dire che sin dalla fine di quell'anno qualcosa stava  maturando in casa Manzoni nei riguardi della religione.
Nell'agosto del 1810 il Manzoni torna definitivamente a Milano, e lascia nella metropoli francese quell'aria di scetticismo e di razionalismo che  vi aveva per tanti anni respirato. Da questo anno in poi tutta la produzione letteraria del Nostro, come anche la sua vita privata, sara ispirata a un profondo convincimento religioso.
Diamo percio uno sguardo alla produzione poetica anteriore al 1810, per citare quelle opere cui non abbiamo ancora accennato. Ricordiamo innanzi tutto i sonetti: "Ritratto di se stesso" (1801) che ci da l'immagine fisica e morale del Manzoni sedicenne; "A Francesco Lo Monaco" (1801) in cui accenna alle dolorose vicende dell'esule lucano, suo amico, che era scampato per caso al supplizio, dopo aver preso parte alla rivoluzione napoletana del 1799; "Alla sua donna" (1802) in cui dichiara alla sua amata che, per lei, egli e divenuto schivo di ogni bassezza, per rendersi degno del "celeste e puro foco" che gli occhi di lei hanno acceso nel suo petto. Siccome siamo sicuri della data di composizione di questo sonetto, esso non puo essere stato  ispirato  dalla  dama veneziana,     come

 

1 I figli di Enrichetta furono in realta 10, se si conta una bambina, Luigia M.Vittoria, nata il 5-9- 1811 e morta lo stesso giorno.


 

 

pensa il De Gubernatis, ma da quell'angelica Luigina, giovinetta genovese, della quale Alessandro si innamoro appunto nel 1802, e per la quale serbo vivissimi sentimenti di devozione. Probabilmente per la stessa ragazza (sorella del marchese Ermes Visconti) il Manzoni scrisse un'ode, di cui si ignora la data (1804?), che comincia col verso: " Qual su le Cinzie cime". Sicuramente del 1802 e invece il sonetto "Alla Musa", in cui all'imberbe poeta balena vivo il miraggio della gloria letteraria per cui egli formula l'augurio che, se non raggiungera la cima e cadra lungo l'erta, "Dicasi almen: Su l'orma propria ei giace!" Queste fiere parole vennero poi riportate tali  e quali nel "Carme in morte di Carlo Imbonati " al verso
206. Con molta probabilita e del 1804 il "Frammento di un'ode alle Muse", in cui il Poeta esprime ancora il suo anelito alla gloria poetica e letteraria, confessando che "nove fanciulle d'immortal bellezza" gli hanno preso il cuore, il quale pero e ancora incerto chi di esse seguire, cioe a quale genere di poesia dedicarsi.
Rimane da accennare al poemetto mitologico "Urania" (scritto a Parigi tra il 1806 e il 1809, anno in cui fu pubblicato a Milano), ultima concessione del Manzoni al gusto classicheggiante e all'influsso del Monti. Il componimento, di stampo neoclassico, e di poco anteriore al poemetto "Le Grazie" del Foscolo, con il quale ha qualche identita di concetti. Attraverso le parole di consolazione che la musa Urania rivolge al poeta Pindaro, sconfortato per essere stato vinto nella gara olimpica dalla giovinetta Corinna, il Manzoni esalta  la  funzione civilizzatrice delle Grazie e delle Muse, volta a ingentilire i rozzi costumi degli uomini. L'Autore stesso era molto malcontento dei suoi versi, come scrisse al Fauriel in data 6 settembre 1809, poiche essi mancavano di qualsiasi interesse; e confessava all'amico: "ne faro forse di peggiori, ma di uguali mai piu."
Solo per scrupolo di completezza, accenniamo al carme in endecasillabi sciolti "A Parteneide" (1809 - 1810 ?) in cui, rispondendo al poeta danese Baggesen, il quale lo aveva invitato a tradurre in italiano il suo poema idillico in dodici canti, intitolato appunto "Parteneide", scritto in tedesco e gia tradotto in francese dal Fauriel,  il Manzoni loda metaforicamente la bellezza dell'opera segnalatagli,  ma si esime per il momento dall'accettare l'incarico, non ritenendosi ancora preparato a un siffatto lavoro, mentre altre opere incalzano nel suo spirito e urgono per venire alla luce. In effetti il Nostro, dopo il ritrovamento della Fede sincera, era tutto preso da un profondo travaglio interiore, e si sentiva tutt'altro che disposto a dar veste italiana a dei pensieri altrui ormai ben lontani dal suo nuovo sentire. Infatti dal 1810 al 1812 il Manzoni non scrive alcunche, tutto preso dal faticoso compito, che egli sente come un dovere morale, di rivedere tutta la sua cultura illuministica e neoclassica alla luce della sua nuova coscienza religiosa, illuminata da un Cattolicesimo puro e sereno, e nello stesso tempo severo e integrale. Egli anela a una poesia piu viva e piu vera, non mirante al solo diletto, proprio e altrui, ma a una presa di coscienza delle grandi verita della vita e della storia, dell'individuo e della societa; egli pero non trova subito la sua nuova strada, irretito com'e ancora dalla tradizione letteraria, dalla quale non riesce a liberarsi del tutto. Ma il travaglio interiore non tardo a dare i suoi frutti.


 

 

Traendo appunto ispirazione dalla Fede, rifioritagli nel cuore fervida e pura, il Manzoni scrisse, tra il 1812 e il 1815, quattro " Inni Sacri" in questo ordine: "La Risurrezione", "Il Nome di Maria", "Il Natale", "La Passione"; invece "La Pentecoste", in cui l'Autore tocca la vetta della sua poesia religiosa, fu pubblicata nel 1822. Gli "Inni Sacri" avrebbero dovuto essere almeno dodici, a celebrazione delle principali feste religiose, ma il Nostro fece bene a non scriverne altri, poiche non avrebbe potuto far altro che ripetersi e decadere quindi da quella  sublime vetta poetica toccata con "La Pentecoste". Infatti, oltre questi cinque  inni, abbiamo solo un frammento intitolato "L'Ognissanti" e un altro ancora sul "Natale" (del 1833) che evidentemente il Poeta voleva rifare, non soddisfatto della prima stesura; ma oramai la sua vena era esaurita ed egli non fece  ulteriori tentativi in questo campo.
Riguardo alla sua vita esteriore abbiamo ben poco da dire, poiche il Manzoni era alieno dalla vita pubblica, dalla quale lo stornava anche  la  sua malferma salute. Quindi c'e ben poco da ricordare, all'infuori delle date di nascita dei suoi numerosi figli, delle date di morte di ben sette tra essi, 2  della data di morte   della
sua diletta Enrichetta (25 dicembre 1833) e della seconda moglie, Teresa Borri vedova Stampa (1861) , che egli aveva sposato nel 1837. La vita del grande Poeta fu disseminata di lutti, tra cui la perdita dell'adorata madre (1841), tutti sopportati con cristiana rassegnazione. Pur cosi provato dal dolore, egli segui sempre con intima trepidazione le sorti dell'amata Patria, che volle libera e indipendente; percio nell'aprile del 1814 sottoscrisse la protesta dei Milanesi contro  il  Senato del Regno Italico, il quale voleva chiedere alle Potenze vittoriose su Napoleone l'elezione di Eugenio Beauharnais a re d'Italia, mentre il Manzoni e gli altri firmatari volevano che fossero convocati i comizi elettorali, soli rappresentanti legittimi della Nazione, perche decidessero la forma istituzionale dello Stato.
Di questo periodo e la canzone "Aprile 1814" in cui, esprimendo un severo giudizio sul governo francese, fautore di liberta a parole ma di fatto oppressivo e predatore, auspica che le Potenze vincitrici ascoltino la voce degli autentici rappresentanti del popolo italiano, che anela alla liberta e all'indipendenza. Ma purtroppo i voti del Poeta non furono ascoltati in "alto loco", ed egli, amareggiato per i tristi fatti che seguirono, non ebbe neppure l'animo di correggere e   abbellire i suoi versi, i quali risentono in verita della tradizione classicheggiante e dei fremiti misogallici dell'Alfieri. Percio la canzone puo considerarsi un abbozzo piuttosto che un frammento.
Nell'anno successivo grandi speranze il Manzoni ripose nel tentativo di Gioacchino Murat di unificare l'Italia contro le mire annessionistiche degli Austriaci; infatti abbiamo un frammento di canzone (5 aprile 1815) intitolata appunto "Il proclama di Rimini": solo questo animoso principe, dice in sostanza l'Autore, puo  con l'aiuto  di Dio  ridurre a unita  le  disperse  forze degli   Italiani,

2 I figli morti al Manzoni furono a rigore 10, se contiamo, oltre a Luigia M.Vittoria (per la quale v.nota a pag. 5), anche le due gemelle avute dalla seconda moglie, delle quali  una nata morta, l'altra vissuta poche ore.


 

 

come fece Mose con il popolo ebreo, poiche Dio stesso infonde ardore e forza in chi combatte per la liberta della sua terra. Ma purtroppo anche questa generosa speranza svani in pochi giorni, e il frammento fu pubblicato solo nel 1848, assieme con l'ode "Marzo 1821", la quale fu scritta in occasione dei moti piemontesi di quell'anno, che fecero sperare ai patrioti lombardi l'abolizione dell'odioso confine del Ticino e l'unificazione delle due regioni. Il fausto evento si verifichera solo nel 1848, ma purtroppo per pochi mesi, in seguito alla prima guerra dell'indipendenza nazionale.
Prima di parlare delle tragedie, accenniamo a un  componimento  ironico, "L'ira di Apollo" , che il Manzoni scrisse, per se e per gli amici,  nel 1818, entrando nella polemica suscitata nel 1816 dalla pubblicazione della "Lettera semiseria di Crisostomo" di Giovanni Berchet, la quale costitui, per cosi dire, il "manifesto" del romanticismo milanese, cui aderiva il nostro  Poeta. Egli immagina in quest'ode che Apollo scenda dal cielo, irritatissimo contro Milano che vuol distruggere; ma per fortuna il dio viene placato, con un linguaggio riboccante di mitologia, dal nostro Poeta che lo convince a punire solo il sacrilego Crisostomo; e la condanna sara davvero terribile: gli sia eternamente interdetto l'uso della retorica e della mitologia classica! "Santi Numi, egli e spacciato!" esclama esterrefatto l'Autore, mentre sul volto del dio spunta il sorriso della vittoria.
Dal 1816 al 1819 il Manzoni lavoro alla sua prima tragedia, "Il Conte di Carmagnola", in endecasillabi sciolti, pubblicata a Milano nel 1820. In essa viene introdotto per la prima volta il coro ("La battaglia di Maclodio"), ben diverso da quello delle tragedie greche, in cui rappresentava un personaggio collettivo che recitava cantando e danzando, e interveniva anche nel dialogo; il coro manzoniano e il commento lirico-morale dell'azione, da parte dell'Autore; un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria per sfogare i suoi sentimenti, onde respingere meglio la tentazione di introdursi direttamente nell'azione e di prestare arbitrariamente i propri sentimenti ai vari personaggi, che egli invece si sforza di collocare in una prospettiva storica e il piu possibile obbiettiva. La tragedia  narra la drammatica vicenda del capitano di ventura Francesco Bussone, conte di Carmagnola, il quale dopo essere stato al servizio del Visconti passo al soldo dei Veneziani, sconfiggendo i Milanesi nella battaglia di Maclodio (1427); ma caduto in sospetto della Serenissima per aver liberato i prigionieri, fu arrestato e condannato a morte innocente, almeno per quanto pensa l'Autore. In questa tragedia il Poeta affronta il tema del dolore e dell'ingiustizia degli uomini, e da a esso la soluzione cristiana della rassegnazione e del perdono: il Conte va incontro alla morte sereno, fidando in Dio, e con dolci parole d'amore inculca il sentimento del perdono nei cuori esacerbati della moglie e della figlia.
Nel 1819 il Manzoni pubblica la prima parte delle "Osservazioni sulla morale cattolica" per confutare lo storico ginevrino Sismondi,  il quale aveva attribuito alla morale cattolica la colpa della decadenza italiana. L'opera pero non fu completata; solo nel 1855 l'Autore aggiunse una vasta appendice al capitolo terzo,


 

 

col titolo:"Del sistema che fonda la morale sull'utilita"  in  cui  confuta l'utilitarismo del filosofo inglese Bentham.
Dal 1820 al 1822 il Poeta lavora alla composizione della tragedia "Adelchi", pubblicata a Milano nel 1822. L'argomento e tratto dal crollo del dominio longobardo in Italia per opera dei Franchi (anni 772 - 774). La rivalita politica tra Carlo, re dei Franchi, e Desiderio, re dei Longobardi, e inasprita dal ripudio, da parte del primo, della sposa Ermengarda, figlia di Desiderio e sorella di Adelchi; Carlo scende in Italia, vince i Longobardi alle Chiuse di Val di Susa, insegue i fuggitivi tra la gioia degli oppressi Italiani. Ma il Poeta, nel primo coro ("Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti") li disillude, affermando che i Franchi non sono venuti a liberarli, ma a conquistare terre e sudditi: non potranno essere liberi, gli Italiani, se non quando impugneranno essi stessi le armi per operare il proprio riscatto. Mentre l'eroico Adelchi muore nel vano tentativo di difendere Verona (qui il Poeta si allontana dalla verita storica, perche Adelchi fuggi  a Costantinopoli a implorare soccorso), l'infelice Ermengarda (o Desiderata) si spegne rasserenata nel convento, dove volontariamente si e chiusa per trovare pace al suo travaglio interiore, acuito dalla sempre viva passione  amorosa. L'amore per Carlo, anche se misconosciuto e ferito dal superbo ripudio, non si e mai sopito nel suo animo tenero a appassionato, che pur tra le preghiere e i pii canti delle vergini torna con accorata nostalgia ai giorni felici passati a fianco di Carlo. Ma la fede in Dio le fa alfine dimenticare ogni affetto terreno nell'abbandono all'amore eterno di Dio. Nel secondo coro della tragedia ("Sparsa le trecce morbide" ) il Poeta ci rappresenta liricamente i sentimenti che travagliavano l'animo di Ermengarda, che "la provvida sventura" ascrisse tra quanti subiscono ingiustizie e violenze, per farla partecipe della salvezza eterna che Dio ha promesso agli umili e a quelli che soffrono per Lui. "L'Adelchi" e da tutti i critici riconosciuta tragedia meglio riuscita della precedente, sia per la trama piu intensamente drammatica, sia per i caratteri piu poeticamente efficaci e rilevati, sia per il sentimento religioso che piu profondamente la pervade.
Circa la vita esteriore del Manzoni, ricorderemo che nell'ottobre del 1819 egli si reco a Parigi con tutta la famiglia, sperando, con la mutazione del clima e delle condizioni di vita, un qualche giovamento ai disturbi nervosi che lo affliggevano, provocandogli delle vertigini, che l'obbligavano talora a passare intere giornate inoperoso; ma ritorno a Milano nell'agosto del 1820,  non certamente  guarito della sua nevrosi la quale lo tormento per tutto il resto della vita. Un altro viaggio di tutta la famiglia Manzoni avvenne verso la  meta di luglio  del 1827,  subito dopo la pubblicazione del romanzo: ne fu meta Firenze, dove voleva "risciacquare i suoi cenci nell'Arno"; e nel viaggio di andata passo per Genova.
E ora diciamo poche parole sul capolavoro manzoniano, dando le notizie essenziali sulla sua composizione e pubblicazione. Il Manzoni comincia a scrivere il romanzo il 24 aprile 1821 e lo conduce a compimento il 17 settembre 1823; il manoscritto, che reca il titolo "Fermo e Lucia" , e dato a leggere a pochi amici intimi, tra cui il Grossi e il Fauriel. Verso la fine del 1824 il Manzoni  inizia, presso la tipografia V.Ferrario di Milano (che aveva gia stampato le due tragedie),


 

 

la stampa del romanzo che intanto, durante la ricopiatura del manoscritto, aveva assunto il titolo "Gli Sposi Promessi"; ma questo titolo non resistera fino  al termine della stampa, che fu lunga e laboriosa, soprattutto perche l'Autore, insaziabile limatore della sua opera, apportava continue modifiche al testo anche sulle bozze di stampa. Sicche quando finalmente il romanzo vide la luce, nel giugno del 1827 (percio questa prima edizione fu poi detta "ventisettana"), in tre tomi, con la data 1825-1827, aveva gia sul frontespizio il glorioso titolo definitivo "I Promessi Sposi".
Ma comincio quasi subito la correzione del romanzo, specialmente dal punto di vista linguistico, in preparazione di una seconda edizione dell'opera,  cui prelude il viaggio a Firenze. Pero solo nel 1840-42 fu pubblicata la seconda edizione del romanzo, in Milano, presso la tipografia Guglielmini-Radaelli, a fascicoli illustrati con disegni del Gonin, con aggiunta, in appendice, "La storia della colonna infame", scritta nel 1829. Questa breve monografia rievoca la storia di un processo, celebrato durante la peste di Milano del 1630, contro due presunti untori, Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, i quali, sottoposti alla tortura, pur essendo innocenti, ammisero le accuse e furono percio giustiziati; la casa  del Mora venne demolita e sull'area rimasta libera fu eretta una colonna a eterna infamia del suo nome. Il Manzoni, con un'attenta disamina dei documenti processuali, perviene alla conclusione che, anche con i rozzi e inadeguati ordinamenti giudiziari del tempo, i giudici non potevano giungere alla  condanna di due innocenti, se non fossero stati travolti dalla passione e dall'odio generale contro gli untori, da cui il loro giudizio fu traviato, rendendoli per cosi dire ciechi davanti alle evidenti prove dell'innocenza dei due imputati. Tanto sono funesti i pregiudizi uniti alle pressioni popolari!
La famosa ode "Il cinque maggio 1821" fu composta dal 17 al 19 luglio di quell'anno, cioe subito dopo la pubblicazione, fatta dalla  "Gazzetta di Milano"il 16 di quel mese, della notizia della morte di Napoleone, avvenuta a Sant'Elena appunto il 5 maggio 1821. Il Manzoni fu cosi colpito dalla notizia, che in meno di tre giorni compose e corresse, senza piu ritoccarla, questa poesia, che usci per le stampe l'anno successivo a Lugano. Il Poeta immagina la  vita del grande esule nella piccola isola sperduta nell'Atlantico: il Bonaparte e oppresso dai ricordi di una vita titanica, di contro alla forzata inerzia del presente; egli sarebbe preso dal piu cupo abbattimento, se la Fede, non mai spenta nel suo cuore e ora rifiorita nella sventura, non lo consolasse avviandolo "pei floridi sentier della speranza", innalzandolo ai pensieri celesti: anche il grande Corso, come Ermengarda, e rigenerato nella sventura, purificato dal dolore.
Il 23 marzo 1848 il Manzoni, che nel 1838 non aveva accettato un'onorificenza austriaca, firma l'indirizzo dei Milanesi a Carlo Alberto per sollecitarne l'intervento in difesa dei Lombardi insorti, e pubblica, come  appunto si e detto, l'ode "Marzo 1821" assieme al frammento "Il proclama di Rimini" , per giovare alla causa nazionale con le sue ardenti parole, non potendo farlo col braccio. Pero il figlio Filippo, il piu giovane dei figli maschi,  partecipa attivamente alla lotta delle  "Cinque Giornate" e, fatto prigioniero, viene   tradotto


 

 

in Austria, con grave apprensione del padre, ed e in seguito  liberato  solo in cambio degli ostaggi austriaci rimasti in mano agli insorti milanesi.
Nel 1845 il Manzoni aveva pubblicato la dissertazione, cominciata sin dal 1828, "Del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia e di invenzione", in cui l'Autore, severo critico della sua stessa opera, condanna in sede teorica le opere letterarie che si compongono di storia e di fantasia, perche costituiscono un genere ibrido che contiene in se insanabili contraddizioni. Merita un cenno anche il dialogo "Dell'invenzione", composto nel 1841, e influenzato dalla filosofia del suo grande amico Antonio Rosmini. In esso il Manzoni afferma che l'artista trova (dal latino inventio=trovamento) non crea l'oggetto della sua opera; e per capire dove l'idea era prima di venirgli in mente, egli deve risalire, consapevolmente o no, al Dio creatore del tutto. Pur in mezzo a una certa aridita di argomentazione, spira nel dialogo un profondo senso religioso, assieme al riconoscimento della saggia guida della filosofia.
Dopo il 1846 e fin quasi alla morte il Manzoni e particolarmente preso dal problema della lingua, sul quale aveva cominciato a scrivere, ancor prima del romanzo, un libro, condotto poi innanzi assai lentamente per eccesso di  scrupolo, e lasciato poi incompiuto e inedito; fu pubblicato solo nel 1923 dal Bulferetti col titolo "Sentir messa", derivato, un po' artificiosamente, dalla citazione con cui l'Autore inizia la trattazione, la quale mira a dimostrare che la lingua italiana deve essere quella dell'uso toscano. Nelle opere del 1846 e successive sul problema della lingua italiana (varie lettere e relazioni che non e il caso di citare) il Manzoni precisa che la lingua italiana deve essere il fiorentino delle persone colte, lingua che praticamente egli aveva adottata nel suo romanzo e imposta universalmente nella penisola con la persuasione della sua grande arte e con l'immenso successo del suo capolavoro. Anche in tal modo, cioe unificando la lingua in tutte le regioni italiane, egli contribui efficacemente all'unita nazionale, della  quale  fu considerato meritatamente un paladino, per cui grati nel 1859 andarono a fargli visita i due massimi artefici del nostro Risorgimento, il Cavour e il Garibaldi. E quando finalmente, con la seconda guerra d'indipendenza, la Lombardia e unita al Piemonte, il Nostro e nominato senatore del Regno e, nonostante gli acciacchi dell'eta, si reca a Torino nel giugno del 1860 a prestare il giuramento di rito; torna nella capitale sabauda nel febbraio del 1861 per partecipare alla storica seduta in cui fu proclamato il Regno d'Italia, e di nuovo nel dicembre del 1864 per votare a favore del trasferimento della capitale a Firenze, come buon auspicio per il raggiungimento di Roma, verso la quale la tappa di Firenze era considerata solo come un avvicinamento. Per i suoi meriti politici e letterari gli fu anche assegnata una pensione nazionale, come in seguito sara fatto per il Carducci. Il grande poeta e romanziere si spense il 22 maggio 1873 a Milano, che  dieci anni dopo  gli dedico un monumento in Piazza San Fedele.
Oltre che al problema della lingua, il Manzoni si dedico anche alle ricerche storiche, e in questo campo citiamo il "Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia", steso verso la fine del 1821, quando lavorava al compimento   dell'"Adelchi",   la   cui   trama   si   rifa   appunto   alla   fine   della


 

dominazione dei Longobardi nel nostro Paese. Fu pubblicato postumo nel 1889 il "Saggio comparativo su la rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859", in cui il Manzoni dimostra che la rivoluzione italiana fu piu legittima di fronte alla storia e al diritto, e anche piu feconda di risultati, perche fondata organicamente sull'unita delle aspirazioni di tutto un popolo, mentre quella francese nel suo svolgimento tumultuoso degenero assai presto nel dispotismo, tradendo cosi gli ideali originari.

 

Il Manzoni e a buon diritto ritenuto il nostro piu grande scrittore romantico; e del Romanticismo egli fu anche un teorico, dato che la sua natura meditativa lo portava ad approfondire tutti i problemi e gli indirizzi con i quali la sua attivita artistica lo portava a contatto. Del 1823 e lo scritto "Sul Romanticismo. Lettera al marchese Cesare d'Azeglio", in cui afferma che il nuovo indirizzo ha una parte negativa, su cui tutti gli assertori di esso sono concordi, nel condannare la mitologia, l'imitazione servile dei classici, le regole pseudo-aristoteliche sull'unita di tempo e di luogo; e una parte positiva, sulla quale l'Autore ammette che c'e una certa disparita di vedute e d'intenti, ma aggiunge che tutti i romantici sono d'accordo che la poesia deve proporsi per oggetto il vero e deve essere quanto  piu e possibile popolare, per interessare il maggior numero di persone, e non soltanto i dotti e i letterati, come purtroppo avveniva per la produzione artistica del neoclassicismo.
Riguardo alle composizioni poetiche, dobbiamo dire che la vena della poesia, dopo la mirabile "Pentecoste" (1822) e il non meno mirabile coro "La morte di Ermengarda", dello stesso anno,si esauri nel Manzoni quasi completamente; in data posteriore abbiamo il gia citato "Natale del 1833" in cui, ricordando quel doloroso giorno in cui mori la sua diletta Enrichetta, canta non piu l'inno di gioia, ma l'inno di adorazione verso il "Fanciul severo" che viene in questo mondo a piangere e a morire, e col suo esempio ci insegna ad accettare il dolore, legge della vita cristianamente intesa;   ma l'inno e un semplice frammento, sul quale
"cecidere manus"3, come appunto scrisse in calce al foglio lo stesso Autore. Abbiamo  anche accennato  al frammento  dell'inno  sacro  "Ognissanti"  di cui   il
Poeta invio quattro strofe alla scrittrice francese Luisa Colet: in esse vuol significare che nelle nascoste virtu dei pii solitari, le quali al mondo sembrano sterili, c'e tanto merito quanta bellezza c'e in quel fiore che spiega solo davanti a Dio

"la pompa del pinto suo velo; che spande ai deserti del cielo gli olezzi del calice e muor."

Sono dei bei versi e forse gli ultimi del grande Poeta, se e vero che furono scritti nel  1847,  come  assicuro  la   seconda  moglie  del  Manzoni.    Precedentemente

 

3  = caddero (stanche ) le mani.


 

 

abbiamo (del 1832?) delle "Strofe per una prima Comunione" che egli non seppe rifiutare all'insistenza di qualche amico, quando ormai l'ispirazione poetica si era esaurita, e dalla sua penna non pote uscire che una mediocre poesiola d'occasione; e infine ricordiamo un breve epigramma "Per la morte dell'amico  Vincenzo Monti" (1828), nel quale manda il suo estremo vale all'estinto "a cui  largi Natura/Il cor di Dante e del suo Duca il canto!"Evidentemente il sentimento dell'amicizia e l'ammirazione sincera facevano velo al giudizio del Manzoni, che percio i posteri non hanno condiviso.
Tale e la personalita e l'opera del Manzoni, che tutti concordemente giudicano grande poeta, insigne patriota, mirabile esempio di virtu civiche e di devozione alla sua fede religiosa, cui conformo con rigoroso impegno tutta la sua esistenza, che fu lunga, interiormente travagliata e disseminata di domestici lutti, ma sempre ispirata all'ideale cristiano, che egli aveva assunto come norma di arte e di vita dopo il suo ritorno sincero e fervido alla Fede.


 

 

NOTA CRITICA SU "I PROMESSI SPOSI"

 

Circa il giudizio dei critici sul romanzo diremo poche notizie  essenziali.  A tutti e noto che non sempre un capolavoro e riconosciuto come tale al  suo apparire; e a questa sorte non si sottrasse punto quello manzoniano.
Infatti, quando il romanzo apparve, in tre volumi, nel 1827, mentre il Goethe riconosceva subito la sua grandezza ("questo libro ci fa passare di continuo dalla tenerezza all'ammirazione, e dall'ammirazione alla tenerezza"), il Leopardi (il quale pero in una lettera confessava di averne sentito leggere solo alcune pagine) sosteneva che esso valeva poco e che le persone di buon gusto lo trovavano molto inferiore all'aspettazione.
Certamente alla serenita di giudizio del grande Recanatese fu di ostacolo il suo cupo pessimismo, che irrideva a ogni idealismo (e nel romanzo troviamo l'ideale calato nel reale, secondo una felice espressione di Francesco De Sanctis) e particolarmente alla concezione della Provvidenza divina che veglia sulle sorti umane, mentre lui era convinto che uno spietato destino di infelicita incombe sui miseri mortali, e che il dolore umano non ha alcuna giustificazione ne causale ne finalistica. E avendo lui saputo o intuito, dalle poche pagine sentite leggere, che l'ispirazione cristiana pervade tutta la trama del romanzo, si puo capire come non abbia voluto neppure leggerlo tutto, per valutarlo piu serenamente, e si sia lasciato andare con leggerezza a quell'affrettato giudizio negativo.
Se non ci meraviglia troppo l'opinione del Leopardi, per le predette considerazioni, non potremmo dire lo stesso del giudizio espresso da Luigi Settembrini nelle sue "Lezioni di Letteratura Italiana", perche evidentemente dato dopo maturo esame e, per cosi dire, "ex cathedra", data la sua qualita di paludato docente universitario.
Egli afferma addirittura che "I Promessi Sposi sono il libro della reazione" e che il Manzoni, anche involontariamente, viene a "consigliare la sommessione nella servitu, la negazione della patria e di ogni generoso sentimento civile." Evidentemente il Settembrini non ha compreso l'intimo senso della storia manzoniana, che e invece una condanna della tirannide  nell'anelito  verso la liberta nella giustizia, sia per i singoli cittadini sia per le nazioni tutte.
Ben diverso e invece il giudizio di Francesco De Sanctis, il quale afferma che il motivo ispiratore del romanzo "e una concezione eminentemente patriottica, democratica  e  religiosa."  Il De  Sanctis  aveva  compreso  appieno  il significato
profondo dell'opera manzoniana, mentre il Settembrini era stato fuorviato da pregiudizi e dalle sue idee anticlericali. 4

 

4 Un riconoscimento del valore morale ed estetico della "verita" manzoniana si ebbe da parte di Giuseppe Verdi il quale, parlando un giorno del nostro Autore, cosi si espresse: «Quell'uomo ha scritto un libro vero quanto la verita. Oh se gli artisti potessero capire una volta questo vero, non vi


 

 

Un esempio tipico dei contrastanti giudizi sul romanzo lo troviamo nella critica di Benedetto Croce il quale, riprendendo un giudizio, limitativo del valore dell'opera, espresso da Giovita Scalvini nel 1829, dice testualmente: "In quel romanzo non si fa sentire nella sua forza o nel suo libero moto nessuno di quelli che si chiamano gli affetti e le passioni umane"; per cui il romanzo e da  lui definito opera oratoria e non poetica. Ma lo stesso Croce, dopo piu maturo esame, smentisce il suo avventato giudizio in un saggio pubblicato sullo "Spettatore Italiano" nel maggio del 1952, nel quale afferma: "Per parte mia, soglio rileggere questo libro periodicamente e ne traggo sempre commozione e conforto, e sempre rinnovata ammirazione per la perfezione della sua forma." Dopo aver accennato a questo "ben chiaro mea culpa" del Croce (sono sue precise parole), aggiungiamo soltanto che gli altri massimi critici del Manzoni sono Luigi Russo, Attilio Momigliano, Giuseppe Petronio, Piero Nardi e Cesare Angelini, i quali ci hanno dato anche dei pregevoli commenti de "I Promessi Sposi". Molti critici si sono chiesti se i protagonisti del romanzo siano proprio gli sposi promessi o qualche altro; per il Momigliano, per esempio, la vera protagonista del capolavoro manzoniano e la Divina Provvidenza, mentre per il Russo "il protagonista vero e il sentimento, lo stato d'animo dello scrittore", cosi come protagonista immanente in ogni pagina del romanzo e il Seicento, questo secolo pieno di violenza, boria, vanita e ribalderia. Nella vivace e verace rappresentazione di questo secolo pomposo e ipocrita, prepotente ed egoista, si svolge tutta la polemica politica, civile e sociale del Manzoni, che con la sua opera educo intere generazioni all'avversione per il dominio straniero e all'amore per una societa libera e giusta, fraterna e solidale, ordinata con leggi sagge, eque e ragionevoli. Se si seguisse la legge cristiana, sembra dirci il Manzoni, la realizzazione di una tale societa non sarebbe un'utopia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sarebbero piu musicisti dell'avvenire e del passato; ne pittori veristi, realisti, idealisti; ne poeti classici e romantici; ma poeti veri, pittori veri, musicisti veri.»


 

 

INTRODUZIONE DE "I PROMESSI SPOSI"

 

Il Manzoni premette al primo capitolo del romanzo una "introduzione", in cui riporta un brano del manoscritto secentesco che egli finge di aver ritrovato e di voler pubblicare cosi com'e, poiche la storia in esso narrata gli sembra degna di essere conosciuta. Accintosi alla copiatura del manoscritto, a un certo punto si inceppa davanti a una parola indecifrabile, per cui deve necessariamente interrompere. La pausa lo induce a riflettere meglio sul da farsi, ed egli si domanda: "Quando avro sostenuto l'eroica fatica di trascrivere  e  pubblicare questa storia, si trovera poi chi sara disposto a leggerla? Essa e veramente bella, ma lo stile barocco in cui e scritta e talmente tronfio e sciatto, che difficilmente ci sara uno disposto a sostenere l'eroica fatica di leggerla. Percio lasciamola stare, e buon per me che mi sono interrotto appena al principio e non ho perduto il mio tempo in questa laboriosa e vana copiatura." Pero, mentre sta per riporre il manoscritto, prova rincrescimento che una storia cosi interessante debba rimanere sconosciuta; e allora si domanda: "Perche, invece di ricopiarla, non la riscrivo in stile moderno? Certamente non fo torto a nessuno, poiche il manoscritto e anonimo." La decisione e subito presa, perche appare del tutto logica e opportuna. "Ed ecco l'origine del presente libro, esposta con un'ingenuita pari all'importanza del libro medesimo."Queste argute parole dell'Autore ci fanno capire, un po' in enigma, che la storia del manoscritto e mera invenzione, che cioe il manoscritto non esiste e che la trama del romanzo e stata immaginata dal principio alla fine dal Manzoni. Sappiamo pero che egli fu indotto a scriverlo dalla lettura di una grida spagnola del 15 ottobre 1627, nella quale il governatore di Milano don Gonzalo Fernandez de Cordova minaccia le massime pene contro i prepotenti che commettono "oppressioni, concussioni e atti tirannici", come per esempio "che seguano o non seguano matrimoni" e inoltre che "quel prete non faccia quello  che e obbligato per l'ufficio suo" ecc. Questa grida, letta in un'opera di Melchiorre Gioia, dette al Manzoni, secondo quanto ci conferma il figliastro Stefano Stampa, la prima idea del romanzo. Tuttavia non tutti i critici sono convinti che il manoscritto anonimo sia una pura invenzione. Il Getto, per esempio, sostiene  che il Nostro deve aver letto "l'Historia del Cavalier Perduto" del  vicentino Pace Pasini, pubblicata a Venezia nel 1644, poiche in questa storia trova molte somiglianze sostanziali e formali con l'introduzione barocca stilata con tanta bravura dal Manzoni. La mia modesta opinione e che, se anche il Nostro abbia conosciuto la detta opera (cosa tutt'altro che certa), non ne ha  ricevuto  che qualche spunto marginale, per cui essa non puo davvero dirsi (come qualcuno ha sostenuto) la fonte del romanzo. Comunque, per noi e molto piu  importante vedere per quali motivi l'Autore sia ricorso all'espediente del rinvenuto manoscritto. Essi possono essere due: in primo luogo, per dare un sapore storico a tutto il racconto, secondo le esigenze del romanzo storico, che il Manzoni sentiva impellenti; in secondo luogo, per un motivo prettamente artistico, cioe mettere  tra


 

 

se e il lettore un terzo personaggio, come un "alter ego", che gli permettesse di fare le sue osservazioni o esprimere i suoi sentimenti in modo piu discreto o piu arguto, come dietro a un comodo paravento. Certamente, questo pretesto dell'anonimo scrittore non era affatto necessario, ne per fini storici ne  per esigenze artistiche, ma nessuno puo affermare che esso sia del tutto inutile e vano. Abbiamo detto che il Manzoni, dopo un po' d'incertezza, decise di pubblicare l'opera in lingua moderna, cioe in lingua viva. Oggi per noi questo concetto di "lingua viva" e abbastanza ovvio e chiaro, ma al tempo in cui il Manzoni scriveva, i letterati non erano affatto d'accordo sul concetto di tale lingua ne sull'uso di essa negli scritti letterari. Infatti da una parte c'erano i puristi, riuniti nell'Accademia della Crusca, che pretendevano una lingua aulica, cioe arcaica, sul tipo di quella che era stata usata dai grandi scrittori italiani dal Trecento al Cinquecento; mentre i novatori volevano un linguaggio vivo, vicino a quello effettivamente parlato. Ma parlato da chi e dove? A questo riguardo non tutti erano concordi; e il Manzoni decise saggiamente e praticamente la controversia adottando il linguaggio fiorentino parlato dalle persone colte; detto linguaggio, soprattutto  per merito della grande notorieta del romanzo, divenne in breve tempo la lingua nazionale italiana, universalmente riconosciuta e adottata; per cui il Manzoni puo essere giustamente chiamato, dopo Dante, il secondo Padre della nostra lingua, colui che l'ha  resa  veramente  popolare,  avvicinando  d'un  colpo  e  arditamente  la lingua
scritta a quella parlata.


CAPITOLO I

 

Il Manzoni comincia il romanzo con la descrizione della regione dove si svolgera la trama dell'azione: e una zona molto familiare all'Autore,  che possedeva presso Pescarenico, sulla riva sinistra del lago di Lecco, una villa chiamata " Il Caleotto", dove era solito passare ogni anno parecchi mesi di villeggiatura. Siamo sulle rive del braccio meridionale del lago di Como (braccio chiamato anche lago di Lecco), il quale si restringe appunto a Lecco, in modo da sembrare fiume, e poi si riallarga nel lago di Garlate, finche si restringe ancora e definitivamente, ricostituendo il fiume Adda, che poi con lucido serpeggiamento scende a gettarsi nel maestoso Po.
L'Autore descrive particolarmente il territorio di Lecco, formato da una breve costiera in lieve pendio, e poi da colline e valloncelli che si appoggiano alle falde di due monti contigui, il San Martino e il Resegone. Sulla riva sinistra del lago e sulle alture sono sparsi i villaggi, di cui uno e quello abitato dagli sposi promessi, cioe Renzo o Lorenzo Tramaglino e Lucia Mondella. Questo paesetto e in collina, ma non molto distante da Pescarenico, villaggio di pescatori sul  lago,  dove si trova anche un convento di Cappuccini. Il paesetto degli sposi e affidato alla cura spirituale di don Abbondio, il quale si e fatto prete senza vocazione, per seguire l'intenzione dei genitori e anche per entrare in una casta privilegiata, in cui avesse da poter vivere con un certo agio e tranquillamente, essendo appunto difeso dal prestigio, allora altissimo, del clero.
Don Abbondio ci appare subito come un egoista, che pur di non correre pericolo lui, e pronto a venir meno ai suoi doveri piu sacrosanti. Egli non e cattivo, ma si preoccupa solo di se stesso, e per tutta la vita ha solo badato a costituirsi un tenore di vita comodo e sicuro. Questo sistema, realizzato con assidua cura, e un po' il suo capolavoro, una specie di metodo filosofico del viver tranquillo, del quale e fiero, perche lo ritiene eccellente e infallibile; e non si perita di prendersela con i suoi confratelli che seguono ben altro sistema, che cioe si espongono a disagi e pericoli per aiutare il prossimo. Il motto del nostro curato e invece questo: evitare ogni contrasto, cedere nei contrasti che malauguratamente non si son potuti evitare. I suoi colleghi, zelanti per il bene delle anime, sono per lui degli irrequieti ambiziosi, della gente senza prudenza e senza umilta, mentre lui attua veramente il dettame evangelico! Don Abbondio ha ormai organizzato la sua vita in un sistema di abitudini che per lui rappresentano come una seconda natura. Tra queste care abitudini c'e la passeggiata vespertina che, tempo permettendo, gli fa acquistare, col moderato esercizio fisico, un discreto appetito per la cenetta allietata da un vino squisito, che gli concilia un gradevole sonno sino all'indomani. Domani poi la giornata ricomincera secondo lo schema abituale, che a don Abbondio, uomo pacifico, non ingenera affatto noia, ma anzi infonde una tranquilla sicurezza di lieto benessere. Ma ecco che questo quieto


 

 

sistema di vita in un batter d'occhio viene travolto nell'infausto vespro del 7 novembre 1628.
Quella sera, tornando bel bello dalla passeggiata verso casa, incontra "due bravi" che gli ordinano, pena la morte, di non celebrare, ne l'indomani ne mai, il matrimonio tra Renzo e Lucia.
I bravi erano soldati privati dei nobili e dei ricchi signori i quali se ne servivano, oltre che per difesa, anche e soprattutto per imporre la loro volonta superba e capricciosa, specialmente nelle campagne, dove l'autorita governativa era del tutto inefficace o addirittura inesistente. I governatori spagnoli avevano emanato delle "gride" (cioe bandi o decreti che venivano  gridati dai banditori nelle vie e nelle piazze) severissime contro questi soldatacci fuorilegge, ma senza nessun effetto, perche tutta la nobilta, che era poi la classe dirigente, era coalizzata nell'eludere la legge, in quanto tutti i nobili signori, compresi i senatori e i magistrati, avevano piu o meno sfacciatamente i loro bravi, vestiti e protetti dalle loro sgargianti livree. Il Manzoni riporta alcuni squarci delle gride del tempo, in cui i governatori, dopo aver sciorinato tutti i loro titoli nobiliari, tuonano contro i bravi, comminando nei loro riguardi le pene piu gravi e piu arbitrarie; ma questi ripetuti decreti servivano solo a dimostrare pomposamente l'impotenza dei loro tronfi e plurititolati promulgatori.
Don Abbondio, davanti all'inaspettato ordine, rimane come fulminato. Che fare? Egli vorrebbe guadagnar tempo, rispondendo in modo evasivo, ma i due loschi figuri esigono una chiara e impegnativa risposta da riportare al loro padrone, l'illustrissimo signor don Rodrigo!
"Disposto   sempre   all'obbedienza."   balbetta   il   povero   curato,   e   i   due   si allontanano  soddisfatti,  mentre  il  malcapitato  vorrebbe,  ora  che  ha  ingoiato  il rospo,  trattenerli  per  trattare.  spiegare.  Ma  quelli  lo  piantano  in  asso,  e  il poveretto torna  a  casa  stralunato  e balordo,  per cui la  serva,  a  vederlo  con quel viso, si accorge subito che e accaduto qualcosa di grave.  Incalza percio il padrone con  le  sue  domande,  e  il  curato,  dopo  essersi  difeso  sempre  piu  debolmente, finisce   per   rivelare   il   penoso   e   pericoloso   segreto,   facendo   pero   giurare solennemente  a  Perpetua  (questo  e  il  nome  della  domestica)  di  non  fiatare minimamente sulla cosa, dato che i bravi avevano imposto il piu assoluto silenzio. Il dialogo tra il prete e la serva e vivacissimo, e ci mostra la grande abilita della donna  la  quale  riesce  ben  presto  ad  aver  ragione  della  paura  gelosa  del  suo padrone,  il  quale  ha  ancor  presenti  davanti  agli  occhi  i  due  bravacci  che  gli avevano minacciosamente comandato:
"E soprattutto non dica a nessuno di questo avviso, che gli abbiamo dato per il suo bene. Sarebbe come fare quel tal matrimonio!"
Ma il fatto sta, come acutamente osserva il Manzoni, che forse non era minore il bisogno di don Abbondio di confidarsi con qualcuno, che la curiosita di Perpetua di sapere che cosa fosse successo al padrone.
Perpetua e una zitella di oltre quarant'anni, curiosa e ciarliera ma non priva di un certo buon senso, che ci tiene a far credere che non si e voluta mai sposare, pur avendo avuto tanti buoni partiti, mentre le maligne comari andavano dicendo   che


 

 

non   aveva   mai   trovato   un   cane   che   l'avesse   voluta.   Ma   a   parte   questa comprensibile suscettibilita di zitella, non le manca certo l'intelligenza e il senso pratico delle cose, come si rileva dal dialogo. Infatti a un certo punto, nella foga del  discorso,  inavvertitamente  tocca  un  tasto  falso,  affermando  che,    se  vuol sapere l'accaduto, non e per ciarlarne in giro, perche essa sa tenere il segreto. Qui don Abbondio le da sulla voce: "Brava! come quando." Evidentemente in altre occasioni ella non aveva saputo affatto conservare il segreto; ma l'abile serva non si scompone per tanto poco e corre subito ai ripari, trovando questa volta il tasto giusto e infallibile: "Se voglio sapere, e perche le voglio bene e voglio aiutarla, e magari  darle  un  consiglio."  E  il  consiglio  che  essa  da,  anche  se  e  rigettato sprezzantemente dal padrone, e invece ottimo, l'unico che don Abbondio potesse prendere, se non voleva fare ne il vigliacco (obbedendo a puntino a don Rodrigo) ne l'eroe (compiendo ugualmente il suo dovere di sacerdote). Perpetua infatti gli consiglia  di  rivolgersi  all'arcivescovo  cardinal  Federigo  Borromeo,  che  tutti dicono un santo e anche un uomo di polso, il quale sa difendere i suoi curati. Ma don Abbondio, accecato dalla paura, le grida iroso: "Quando mi fosse toccata una schioppettata,  il  Cardinale  me  la  toglierebbe?"  La  serva  pero  prontamente  lo rimbecca: "Eh! le schioppettate non si danno via come confetti!" Il can che abbaia non morde, dice in sostanza Perpetua; saggio pensiero che ritroveremo, con altre parole, in bocca allo stesso cardinal Borromeo; il che dimostra che il buon senso comune si ritrova sia nei dotti sia negli indotti, ma la paura e l'egoismo possono farlo obliterare o sparire del tutto, come appunto in don Abbondio.
In questo primo capitolo possiamo gia ammirare l'ironia manzoniana, soprattutto quando parla dei soldati spagnoli i quali "insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese", per dire che le seducevano o tentavano con ogni mezzo di conquistarle, "accarezzavano le spalle di qualche padre o marito", cioe picchiavano e malmenavano quei poveri padri o mariti che cercavano di difendere le loro donne dai loro turpi disegni, "e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia", per significare che la truppa prepotente saccheggiava letteralmente i vigneti, frustrando crudelmente le ansie e le lunghe fatiche di quei disgraziati coltivatori: questo era il dominio spagnolo in Italia!


 

 

CAPITOLO II

 

Il capitolo comincia con un ricordo storico, con evidente intento ironico: si dice che il Principe di Conde abbia dormito profondamente la notte precedente la battaglia di Rocroi; ma cio avvenne perche, oltre ad essere molto stanco,  egli aveva dato tutte le disposizioni per il giorno seguente, cioe aveva gia preparato il suo piano di battaglia, del quale, possiamo intuire, era anche molto soddisfatto; invece don Abbondio sapeva soltanto che il giorno seguente ci sarebbe stata la battaglia, cioe lo scontro con Renzo. Dopo questo umoristico confronto tra il grande condottiero francese e il vile prete della sua storia, il Manzoni continua dicendo che il poveraccio spese gran parte della notte a preparare il suo piano di battaglia: indurre Renzo, con delle scuse plausibili, ad aspettare un po' di tempo, poiche tra cinque giorni cominciava l'Avvento Ambrosiano, tempo proibito per le nozze, le quali automaticamente sarebbero state rimandate a dopo l'Epifania.
Dopo aver in qualche modo definito i pretesti da tirare in ballo per convincere il giovane ad aspettare, il curato pote finalmente chiudere occhio; ma che sonno! che sogni! Sonno agitato e interrotto, sogni arruffati e paurosi, accompagnati da incubi, che si susseguirono fino al mattino, allorche il poveretto si alzo e, confermatosi nel suo piano, si mise ad aspettare Renzo con timore e nello stesso tempo con impazienza, perche non vedeva l'ora di liberarsi da quel noioso pensiero.
Renzo poteva avere circa vent'anni: aveva perduto i genitori in tenera eta, ma aveva imparato bene il mestiere di filatore di seta e si poteva considerare, per quei tempi, quasi di condizione agiata, perche possedeva una casa e un poderetto, che coltivava lui stesso quando il filatoio restava chiuso. Era stato educato cristianamente, aveva una fede viva e uno schietto senso della giustizia; era insomma un bravo giovane, onesto e capace operaio, per di piu parsimonioso e tanto innamorato della sua Lucia, cui si voleva legare per sempre  davanti all'altare. Era finalmente giunto il giorno tanto desiderato! Vestito in gran gala, si presento per tempo al curato, per sapere l'ora precisa della messa di nozze.  Ma don Abbondio fece finta di cascar dalle nuvole, come se non si fosse stabilito nulla, e disse che per quel giorno era impossibile, perche si dovevano ancora espletare molte formalita. Impastocchiando pretesti e citando articoli del Diritto Canonico, riesce a convincere Renzo che non tutto era in regola riguardo ai documenti e alle pubblicazioni, che percio bisognava aver pazienza ancora per qualche giorno, e precisamente per una settimana.
Renzo esce dalla canonica piuttosto irritato, e si avvia di mala voglia (per la prima volta!) verso la casa della fidanzata, per comunicare la triste e inaspettata notizia; ma per la strada incontra Perpetua, e subito la ferma per cercare di sapere da lei qualcosa di piu, perche sospetta che sotto ci sia qualcosa  di diverso da quello che il curato gli ha voluto far credere. E non si sbaglia: Perpetua, pur non spiattellando tutta la cruda verita, con delle allusioni anche troppo evidenti gli    fa


 

capire che ci sono dei prepotenti, degli uomini senza timor di Dio.e che e "mala cosa nascer povero". Renzo ha gia intuito la dura realta e, deciso a saper tutto, torna  indietro  senza  farsi  scorgere  dalla  donna,  sorprende  il  curato  ancora  nel salotto  e  con  un  fare  deciso  e  minaccioso  lo  costringe  a  rivelare  il  nome  del prepotente  che  non  vuole  che  lui  sposi  Lucia.  Quando  lo  sa,  esce  furioso  dalla casa di don Abbondio, col cuore in tumulto, che in quel momento non batteva che per  l'omicidio: avrebbe  voluto  andare al palazzotto  del birbone e strozzarlo; ma era  difficile  penetrare  in quella  bicocca.  allora  immaginava  di  prendere  il suo schioppo, appostarlo  in un luogo solitario, stenderlo al suolo con un colpo e poi correre a  mettersi in salvo  in territorio  veneto. il confine era  vicino. Ma  che sarebbe stato di Lucia?... A questo pensiero le bieche fantasie disparvero; ma che fare intanto? come opporsi al turpe capriccio del signorotto? come sposare la sua Lucia a onta delle minacce del potente e della vilta del parroco?
Con in testa questi dolorosi pensieri giunge alla casa della promessa sposa, e sente subito il vocio proveniente da una stanza del primo piano: li si erano date convegno le parenti e le amiche intorno a Lucia, la quale si vestiva per  la cerimonia delle nozze sotto le mani esperte e amorevoli della madre. Renzo, cosi turbato com'era, non volle presentarsi a quella folla; percio, avendo trovato nel cortiletto della casa una ragazzetta che plaudente gli veniva incontro, le diede l'incarico di avvertire Lucia, in segreto, che lui l'aspettava nella stanza del pian terreno. Bettina (cosi si chiamava la ragazzina) esegui per benino la sua ambasciata; Lucia scese subito a basso, e vedendo il volto rabbuiato di Renzo comprese subito che era accaduto qualcosa di veramente grave. Lo sposo la informa brevemente dell'accaduto, e lei, udendo il nome di don Rodrigo, esclama: "Fino a questo segno!" Da queste parole Renzo comprende che c'e stato qualche precedente, e lo vuol sapere, ma Lucia pensa prima a congedar le amiche, onde restar soli. Lascia quindi lo sposo in compagnia della madre, sopravvenuta nel frattempo, sale al piano di sopra e, atteggiando il viso a naturalezza, annuncia alle donne che il curato e malato e percio il matrimonio e rimandato. Le comari sciamano via, ma qualcuna piu sospettosa, per accertarsi della cosa, si reca addirittura alla canonica, dove Perpetua dalla finestra risponde che il curato e a letto con un febbrone.

 

Lucia, alla fine di questo capitolo, viene sobriamente descritta dall'Autore sia nel fisico che nel morale. Essa era vestita attillatamene con un busto di broccato a fiori e una gonna di filaticcio di seta, fittamente pieghettata; due calze vermiglie e due pianelle di seta a ricami completavano il suo ornamento di nozze. I neri e lunghi capelli erano spartiti nel mezzo da una sottile scriminatura e si ravvolgevano sulla nuca in molteplici trecce, tenute in ordine da molti spilloni d'argento che formavano come i raggi di un'aureola, secondo  il costume brianzolo. Intorno al collo portava una collana di granati, alternati con bottoni d'oro filigranato. Le maniche del busto erano, secondo la moda d'allora,    staccate e allacciate con bei nastri. Del viso di Lucia il Manzoni accenna solo ai lunghi e neri sopraccigli e alla bocca che s'apriva al sorriso; per il resto  dice semplicemente che  essa era dotata di una  "modesta bellezza",  e soprattutto    era


 

 

adorna di pudore e di riservatezza, oltre che di una profonda religiosita, con un carattere dolce ma inflessibile contro il male e i suoi adescamenti.
Il Nostro non indugia affatto nella descrizione fisica della sposa, ne analizza il suo amore per Renzo; ma con discreti accenni ci fa capire che il suo affetto per lui era grande e puro, e aspettava di essere consacrato davanti all'altare per diventare santo e completo. Anche l'amore di Renzo era scevro  di ogni bassezza,  perche egli era un giovane onesto, educato nella morale cristiana; il suo cuore era schietto e alieno dalla violenza, ma al sentire che don Rodrigo voleva strappargli Lucia per i suoi turpi piaceri, non batte che per la vendetta e per l'omicidio. Subito pero egli si riscosse inorridito da queste idee sanguinarie; e per fortuna aveva peccato solo nella fantasia e quasi senza avvedersene, tanto il suo animo era esasperato per l'infame soverchieria.
A questo proposito il Manzoni osserva molto opportunamente: "I  provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono  rei non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi." Questa osservazione morale suona come severo monito per tutti coloro che, direttamente o indirettamente, corrompono o abbrutiscono o comunque depravano l'animo altrui; grave e la loro responsabilita, se non davanti agli uomini alla cui giustizia si puo facilmente sfuggire, certamente davanti a Dio, giudice infallibile. E inversamente - si puo dedurre dalle parole del Manzoni - grande e il merito di coloro che, con le parole o con le opere o con l'esempio, tendono a migliorare l'animo degli altri. Tra questi benemeriti della societa un posto preminente spetta all'Autore, il quale con il suo romanzo  ha  elevato il livello morale di tanti lettori, inculcando nel loro cuore sentimenti di giustizia e di carita cristiana.


 

 

CAPITOLO III

 

Lucia, congedate le donne, riferi alla madre e allo sposo che, qualche tempo prima, don Rodrigo in compagnia di un altro signorotto (era il degno cugino conte Attilio) aveva cercato di fermarla con parole lusinghiere, mentre lei, tornando dalla filanda verso casa, era rimasta indietro alle compagne; ma lei senza dargli minimamente retta aveva raggiunto in fretta le altre operaie, mentre don Attilio sghignazzava e l'altro diceva: "Scommettiamo."
Il giorno dopo i due si erano trovati allo stesso punto della strada, ma Lucia era al sicuro in mezzo alle compagne; per fortuna quel giorno era l'ultimo del lavoro alla filanda, e Lucia, come prima pote, racconto tutto al suo confessore Padre Cristoforo, cappuccino del convento di Pescarenico, situato a circa due miglia dal villaggio degli sposi. Padre Cristoforo aveva consigliato alla ragazza di rimanere in casa, per non farsi piu vedere da colui, di pregare e di affrettare le nozze, nella speranza che don Rodrigo si dimenticasse presto di lei, come di un capriccio passeggero. Ma purtroppo i fatti smentivano questa speranza. Lucia termina il doloroso racconto nelle lagrime, mentre lo sposo, vinto dall'ira, lancia improperi contro l'avversario, stringendo il manico del suo coltello e gridando: "Questa e l'ultima che fa quell'assassino!" Ma viene finalmente calmato dalla promessa sposa con queste semplici ma ispirate parole: "Il Signore c'e anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?"
Agnese, piu esperta, propone di ricorrere a un uomo di legge; lei ne conosce uno di Lecco, soprannominato Azzecca-garbugli, il quale ha saputo trarre tante persone da impicci anche peggiori. Gli sposi accettano fiduciosi il consiglio, e Renzo, presi i quattro capponi destinati al pranzo delle nozze (perche - avverte Agnese - non bisogna mai andare con le mani vuote da quei signori!) si reca a Lecco per consultarsi con l'avvocato.
Il Manzoni fa a questo un'acuta osservazione: le povere bestie, che Renzo portava in mano, venivano scosse e sballottate dal braccio del giovane, il  quale camminava come fuor di se, tutto agitato da tante passioni,  di cui gli innocenti polli sopportavano il contraccolpo; ma i capponi intanto - e qui notiamo l'amaro umorismo dello Scrittore - s'ingegnavano a beccarsi l'uno con l'altro, come accade troppo sovente fra compagni di sventura.
Giunto al borgo (Lecco nel Seicento era ancora un modesto centro abitato), Renzo trova facilmente la casa dell'avvocato e viene introdotto nel suo studio, uno stanzone polveroso con pochi vecchi mobili, nel quale il tavolo di lavoro e ingombro "di allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride", tutto pero in un disordine indescrivibile. Il dottore accoglie bonariamente il suo cliente, poiche questa era la sua tattica ipocrita, e Renzo, nella sua semplicita campagnola, volendo subito venire al nocciolo della questione, chiede senz'altro "se, a minacciare un curato, perche non faccia un matrimonio, c'e penale". L'avvocato, che ha frainteso, credendo che la prepotenza Renzo l'abbia fatta e non subita, si fa


 

 

molto serio, e risponde che il reato e grave, contemplato in cento gride, di cui una proprio dell'anno prima, che gli vuol mostrare per impressionarlo maggiormente. Per trovarla "caccio le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio" e trovatala finalmente, la lesse con molta enfasi e grave significazione al suo cliente. Ma vedendo che questi, invece di spaventarsi per le terribili pene comminate ("pena pecuniaria e corporale, ancora di relegazione e di galera e fino alla morte, all'arbitrio dell'Eccellenza Sua - cioe il Governatore - o del Senato") quasi se ne rallegra, pensa che sia un delinquente matricolato che si ride delle gride, e percio gli dice: "Vi siete pero fatto tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: pero, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno."
Bisogna sapere che allora tutti i bravi e i delinquenti in genere portavano una lunga zazzera, onde servirsene come di una maschera, per non farsi riconoscere, quando attuavano i loro colpi. Normalmente la portavano raccolta sotto una reticella, donde la liberavano al momento dell'azione. I governatori di Milano avevano tuonato con le loro gride anche contro i ciuffi, sperando cosi di sterminare i facinorosi d'ogni specie, e se l'erano presa anche con i barbieri che lasciassero ai loro clienti i capelli piu lunghi dell'ordinario ("pena di cento scudi o di tre tratti di corda da essere dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all'arbitrio come sopra") come se i poveretti potessero ottenere quello che la forza pubblica era impotente a imporre.
Comunque dalle parole dell'avvocato  Renzo  capisce  l'equivoco  in cui egli e caduto,  e  si  affretta  a  chiarirlo,  dicendo  che  non  e  stato  lui  a  minacciare  il curato.  lui  non  fa  di  queste  cose,  ne  ha  mai  portato  il  ciuffo.  ma  quel prepotente  di  don  Rodrigo.  A  questa  rivelazione  il  dottore  va  in  bestia,  e sdegnato caccia via in malo modo il povero Renzo al quale fa anche restituire gli sventurati capponi,  con cui il malcapitato torna  al suo  villaggio  piu  sconvolto  e amareggiato che mai, intuendo press'a poco il motivo per cui l'avvocato si era a un tratto inalberato nell'udire il riverito nome del signorotto.
Nel  frattempo,  nella  casetta  di  Agnese,  Lucia  ha  esposto  l'dea  di  avvertire dell'accaduto il padre Cristoforo; ma come fare? Mentre pensano al modo, viene fra Galdino, un laico cercatore cappuccino, per la solita cerca delle noci, con cui allora facevano olio (commestibile per condimento). Lucia pensa subito di servirsi del frate converso per avvertire il suo confessore, e percio da una bella quantita di noci, affinche fra Galdino possa tornar presto al convento; che altrimenti, dovendo andare in giro ancora per un bel po', per riempire le sue bisacce, probabilmente si sarebbe dimenticato  dell'ambasciata, con tutte le  chiacchiere che avrebbe  fatte e intese nella varie case.  Infatti al cercatore piaceva discorrere, e spesso ripeteva un  fatto  miracoloso,  avvenuto  in un convento  di cappuccini in  Romagna,  anche perche   l'episodio   edificante   era   molto   adatto   a   suscitare   la   generosita   dei benefattori. E quel giorno  lo  racconto  ad Agnese. In quel convento  di Romagna dunque   viveva  un  santo   frate,   chiamato   Padre  Macario.   Costui  un  giorno, passando  per  il  campo  di un  benefattore  del convento,  vide  che  si  accingeva  a sradicare un grande noce che non dava mai frutto. Il frate lo prego di risparmiare


 

 

l'albero,   perche l'anno successivo avrebbe portato piu noci che foglie; e cosi fu. Pero il buon uomo  - che aveva promesso  al convento  una meta del raccolto del noce - mori prima di poterlo bacchiare, e quando il frate cercatore si presento al figlio, un cinico scapestrato, per avere la parte pattuita, fu cacciato via con parole di scherno. Ma il Signore lo puni per il suo irreligioso egoismo; infatti un giorno, avendo  gozzovigliato  con  amici  dello  stesso  pelo,  dopo  aver  raccontato  il  fatto ridendo della bella pretesa dei frati, volle mostrar loro quel gran mucchio di noci, ma trovo. un gran mucchio  di foglie secche. Gran lezione eh! E  il convento  - soggiunse  fra Galdino  -  invece di perderci ci guadagno, perche, dopo  il duplice miracolo,  tutti  furono  piu  generosi,  tanto  che  un  benefattore,  mosso  a  pieta  del frate torzone, che ogni giorno vedeva tornare al convento tutto curvo sotto il peso, regalo al convento un asino, e cosi il povero fraticello cesso di far lui. il somaro. Agnese, non sufficientemente colpita dalla morale dell'episodio, quando vide Lucia dar tutte quelle  noci,  fece un viso  di rimprovero, e quando  il cercatore fu uscito, esclamo: "Tutte quelle noci, in quest'anno!" Lucia le disse il motivo della generosa offerta, che  la  madre approvo  pienamente, aggiungendo: "E poi e tutta carita  che  porta  sempre  buon  frutto."  Agnese  infatti,  dice  a  questo  punto  il Manzoni,  "coi  suoi difettucci  era  una  gran  buona  donna,  e  si  sarebbe,  come  si dice,  buttata  nel  fuoco  per  quell'unica  figlia,  in  cui  aveva  riposta  tutta  la  sua
compiacenza."
Intanto torno Renzo tutto indignato, e non si rassereno neppure al pensiero che il padre Cristoforo si sarebbe adoperato per loro, tanto era sconvolto e amareggiato dall'umana ingiustizia; sicche egli non ha fiducia nel soccorso del frate, e sente piu che mai forte la tentazione di farsi giustizia da se. La giornata, che doveva essere di festa e di gioia, finisce per il giovane nel piu cupo sconforto, mentre le donne hanno molta fiducia nell'azione del Padre.


CAPITOLO IV

 

Il mattino del giorno successivo, 9 novembre 1628, allo spuntar del sole, padre Cristoforo, avvertito da fra Galdino, usci frettoloso dal convento per salire alla casetta di Agnese. La scena naturale era lieta: cielo nitido, monti che  si stagliavano nell'azzurro intenso del cielo, vigne e campi coltivati ai lati della   via, e una brezzolina autunnale che asciugava la guazza notturna e investiva gradevole il viso del viandante mattutino. E' la tipica estate di San Martino; ma lo spettacolo umano su quella lieta scena naturale era tutt'altro che lieto: mendichi macilenti, di cui alcuni spinti a elemosinare dall'incipiente carestia, contadini che lavoravano la terra senza l'usata letizia, che seminavano "con risparmio e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme", fanciulli scarni; anche le vacche erano magre, per la penuria dei pascoli, dovuta alla persistente siccita. La triste scena umana accresceva la mestizia del frate, il quale presentiva che a Lucia  era successo qualcosa di grave.
A questo punto il Manzoni traccia una breve biografia di Padre Cristoforo, che allora era vicino ai sessant'anni. Prima di entrare nell'Ordine dei Cappuccini si chiamava Ludovico, ed era figlio unico di un ricco mercante di tessuti, il quale a una certa eta aveva lasciato il commercio trovandosi bastevolmente ricco e non avendo bisogno di guadagnare ancora. Stranamente, da quel momento comincio a odiare la sua precedente attivita, a vergognarsene come di una turpe macchia da dimenticare, dato che non la si poteva cancellare, "non riflettendo mai - osserva argutamente l'Autore - che il vendere non e cosa piu ridicola che il comprare." I suoi amici e ospiti dovevano mettere una grande attenzione per evitare ogni minimo accenno - diretto o indiretto - al mestiere precedente del padrone di casa, che intanto si era dato a vivere da gran signore, facendo impartire al figlio un'educazione cavalleresca, senza badare a spese, in emulazione con i nobili della citta. Ma in tal modo l'ex-mercante amareggiava se e gli altri, vivendo nel perpetuo sospetto che essi ricordassero quello che lui era stato e ridessero di lui, mentre "il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli comparivano sempre nella memoria, come l'ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense e il sorriso dei parassiti." Tra questi un tale, un brutto giorno, stuzzicato durante il banchetto dall'anfitrione in mezzo all'allegria generale, si lascio scappare: "Eh! io fo l'orecchio del mercante!" Lui stesso rimase colpito dalla parola che gli era sfuggita, e tento invano di riavviare la conversazione che era stata troncata in un silenzio imbarazzante; tutti i convitati allibirono scandalizzati, scorgendo la faccia scura del padrone di casa; l'allegria fini per quel giorno in un silenzio glaciale, e l'autore dello scandalo se ne ando mortificatissimo e da quel giorno non fu piu invitato.
Quando il padre mori, Ludovico era ancora giovinetto; educato signorilmente, voleva stare con i figli dei nobili, alla loro pari; ma questi, pieni dell'orgoglio di casta, lo consideravano al di sotto, anche se era forse piu ricco di loro.


 

 

Sicche Ludovico dovette ingoiare molti amari bocconi e, fattosi giovane, con un grande desiderio di rivalsa comincio a competere con i rampolli della nobilta in lusso, cavalli, carrozze, banchetti, festini e numero di bravi, profondendo a piene mani il suo pingue patrimonio, pur di apparire piu di loro. A poco a  poco comincio a competere con loro in cose piu gravi e pericolose, emulandoli in potenza oltre che in ricchezza, e si mise ad attraversare i loro  disegni,  a contrastare le loro prepotenze, a farsi difensore e paladino delle vittime di quelli. Ma per opporsi alla loro prepotenza, doveva necessariamente usare anche lui la violenza, l'inganno, l'agguato,  e circondarsi di bravi tra i piu ribaldi e  sfegatati; gli era giocoforza, come ben dice l'Autore, "vivere coi birboni per amore della giustizia."
Una tale vita non poteva davvero soddisfare il suo animo schietto e avverso all'ingiustizia; sicche scontento di se e disgustato di tutto, aveva piu di una volta pensato a farsi frate. Un grave incidente gli fece realizzare questa idea, che altrimenti sarebbe forse rimasta una fantasia per tutta la vita.
Un giorno, accompagnato da due bravi e dal suo maggiordomo Cristoforo, si incontro per strada con un signorotto molto prepotente e superbo, da cui era odiato e che egli ricambiava di ugual sentimento, sebbene non avesse ancora avuto a contrastare con lui, "giacche - osserva argutamente il Manzoni - e uno dei vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare e di essere odiati, senza conoscersi." Nell'incontrarsi, il burbanzoso signore pretendeva che Ludovico coi suoi si scansasse dal marciapiede verso il centro della strada, per far passare lui e il suo seguito di quattro bravi, mentre Ludovico credeva suo diritto non lasciare il marciapiede e non cedere il passo al nobile, per il fatto che camminava rasente al muro (e questo, secondo una consuetudine, lo autorizzava a non staccarsi dal detto muro davanti a chicchessia). In breve dalle minacce si passa agli insulti, e da questi alle armi, e la battaglia coinvolge, coi padroni, i loro bravi. Ludovico, che in quanto a numero si trovava in netto stato d'inferiorita, pensava piu che altro a difendersi e a disarmare l'avversario principale, il quale invece cercava di ucciderlo a tutti i costi; a un certo punto il signorotto, vedendo il nemico gia ferito, gli si scaglia addosso per finirlo con un gran fendente, ma il fedele Cristoforo si para in sua difesa, ricevendo lui il colpo mortale. Allora Ludovico non ci vide piu, e istintivamente trafisse a sua volta l'avversario. I bravi delle due parti fuggirono, per non dover rendere conto alla giustizia, mentre Ludovico fu accompagnato a un vicino convento, dove venne raccomandato ai frati dai soccorritori, che avevano simpatia per lui, quale paladino della povera gente contro i prepotenti signorotti. Guarito delle ferite, egli penso seriamente all'indirizzo da dare alla sua vita, e decise fermamente di farsi frate, per riparare il mal fatto a due famiglie con tutta una vita di penitenza e di opere buone. La richiesta fu accolta, perche la sua decisione era sincera e profonda, e non presa per timore o per altra considerazione umana. La giustizia umana non perseguito l'omicida che si era volontariamente chiuso nel saio, anche perche egli era scusato dalla legittima difesa; inoltre in quei tempi il farsi frate appariva riparazione soddisfacente per qualsiasi reato, come l'esilio per gli Ateniesi.


 

 

Prima di partire da quella citta, per raggiungere la sede del suo noviziato, Ludovico volle chiedere perdono al fratello dell'ucciso, il quale accetto l'atto di riparazione, che volle pubblico e solenne, pensando che nell'umiliazione del frate avrebbe ripreso aire il suo prestigio e avrebbe trovato uno sfogo il suo sdegno superbo; quindi invito alla cerimonia tutta la parentela, perche godesse anch'essa di quella soddisfazione comune. Fra Cristoforo (che aveva assunto questo nome per ricordare il maggiordomo morto per lui) quando scorse, nel palazzo del signore,quel grand'apparato e ne intui lo scopo, rimase turbato; ma fu solo un momento, poi penso che l'umiliazione era per lui piu che meritata, e chiese perdono con tanta sincera umilta e con un dolore cosi vivo per il male commesso, che tutti i presenti, a cominciare dal fratello dell'ucciso, ne restarono commossi e piamente edificati. E quella che, nelle intenzioni del padrone di casa,  doveva essere una manifestazione di orgoglio e un accrescimento di prestigio mondano, divenne una predicazione di umilta e di amore cristiano. Lo stesso fratello dell'ucciso, come afferma il Manzoni, fu da quel giorno piu posato e piu affabile.
Fra Cristoforo, invitato insistentemente ad accettare qualcosa (era stato preparato per l'occasione un sontuoso rinfresco per gli invitati) chiese che gli dessero in elemosina un pane, in pegno di perdono; del quale una parte mangio e una parte conservo in un cofanetto, per ricordo del suo peccato e della doverosa espiazione, a cui tutta la vita era stata dedicata. Riguardo al ministero al quale si dedico una volta consacrato sacerdote, l'Autore dice che egli, oltre a compiere scrupolosamente tutti gli incarichi che gli venivano affidati dai superiori, e a sottoporsi volentieri a quanto era imposto dalla regola dell'Ordine, non mancava mai di compiere altri due uffizi che si era imposti da se: appianare contrasti e proteggere oppressi. A questi compiti egli era portato dalla sua natura impetuosa e onesta, che non poteva sopportare ingiustizie e prepotenze, quella natura per la quale, quando era ancora Ludovico, si era imbarcato in tante lotte contro i signorotti della sua citta. Allora pero combatteva con le stesse armi del nemico, con le armi della forza e della violenza; ora invece il frate lottava con armi ben diverse, fornite dalla fede e dalla cristiana fortezza, e accanto all'umilta, alla carita e al perdono metteva in opera anche il consiglio, la prudenza e l'ammonizione talora vibrata e irruente.
Percio non c'e da meravigliarsi se, alla chiamata di Lucia, corre sollecito alla sua casetta, presago di andare a sentire qualche tristo accidente; anche perche verso Lucia, di cui era da tempo direttore spirituale, egli portava una paterna sollecitudine, non scevra di ammirazione per la sua anima santa e pura, che lui aveva contribuito a rendere cosi eletta.


 

 

CAPITOLO V

 

Padre Cristoforo, entrato nella casetta di Agnese, dopo un semplice e cordiale saluto chiede cosa e successo; Lucia e in lagrime, tanto e il turbamento di quell'animo semplice e inesperto del male; per cui la madre fa la sua dolorosa relazione, ascoltando la quale il frate non trattiene il suo doloroso stupore misto di indignazione. Quand'ebbe udito tutto, esclamo con tono di affettuosa pieta: "Poverette! Dio vi ha visitate." Parole semplici, ma pregne di significato: nella prima esclamazione si avverte tutta la partecipazione intima e sentita al loro dolore, la comprensione della loro pena; le parole successive esprimono la valutazione cristiana del dolore, considerato appunto una visita di Dio, quindi come una cosa non da odiare, ma piuttosto da amare, non da fuggire, ma piuttosto da ricercare, o almeno da accettare con fiduciosa rassegnazione. Infatti il dolore, che e conseguenza del peccato, oltre che mezzo di espiazione, e per il cristiano anche un efficace strumento di perfezionamento morale e di elevazione interiore. Esso e, per cosi dire, come il fuoco impetuoso che raffina il nobile metallo. Dopo quelle parole sgorgategli dal cuore, fra Cristoforo si concentra, pensando al modo migliore di aiutare le poverette. Metter vergogna o anche fare paura a don Abbondio, con ammonizioni e minacce spirituali? Fatica sprecata: quale paura potrebbe essere per lui equivalente a quella di una schioppettata? Scrivere all'Arcivescovo? Ci vuol tempo; e intanto, se don Rodrigo passava all'uso della forza, come resistergli? Nemmeno i suoi confratelli di Pescarenico sarebbero stati tutti dalla sua parte, e tanto meno quelli di Milano, perche don Rodrigo e i suoi parenti di Milano facevano gli amici del convento, i fautori dei Cappuccini; e probabilmente gli altri frati lo avrebbero tacciato di irrequieto e turbolento, se non addirittura di amante dei contrasti e attaccabrighe!
Insomma, dopo aver riflettuto un po', il partito migliore gli sembro quello di andare addirittura dal signorotto, per cercare di smuoverlo dal suo turpe capriccio, con le preghiere o anche con le minacce, spirituali e temporali, qualora non avesse voluto  ascoltare  le  suppliche.  Era  una  cosa  ben  difficile  che  un  prepotente  di quella fatta si arrendesse a preghiere disarmate,  ma valeva la pena tentare; se non altro, il colloquio gli sarebbe servito per sondare le intenzioni di don Rodrigo, per scoprire fino a che punto fosse intestardito. Quando il frate, avendo ormai preso la decisione, alzo il viso per comunicarla alle donne, vide Renzo che era giunto da qualche minuto, ma era rimasto silenzioso in disparte per non disturbare il Padre il quale, a  testa china, ponderava  i pro  e  i contro  dei vari partiti. Dopo  il cordiale saluto del frate, il giovane si lascio  scappare delle parole amare contro gli amici del mondo, i quali prima, allorche non c'era pericolo in vista, gli promettevano di sostenerlo contro chiunque, pronti anche a eliminare il suo eventuale avversario. mentre  ora,  saputo  che  il  nemico  e  don  Rodrigo,  si  ritiravano  pavidi.  Ma vedendo il volto del Padre rabbuiarsi a queste parole, Renzo comprese subito che esse  non  erano  davvero  degne  di  un  cristiano,  e  confuso  cercava  di  mutarne  il


 

 

senso, ma  invano. Fra Cristoforo  lo redargui aspramente, ammonendolo che con questo suo comportamento vendicativo egli rischiava di perdere il solo Amico che poteva e voleva aiutarlo. ma doveva confidare in Lui e in Lui solo, deponendo ogni odio e ogni proposito di vendetta. Renzo, pentito delle sue idee di violenza, promette  di  fidare  nel  Signore  e  di  farsi  guidare  dal  suo  ministro;  e  allora  le donne, anch'esse gravemente turbate dalle  irose parole del giovane, traggono un respiro  si sollievo. Quindi il frate espone  il suo  disegno  e subito  si congeda dai suoi protetti, avendo fretta di tornare al convento.
Giunse infatti in tempo per cantar sesta coi confratelli, e immediatamente, dopo aver pranzato, si mise in cammino verso il palazzotto di don Rodrigo, distante circa quattro miglia da Pescarenico. L'edificio sorgeva alla sommita di un poggio, ed era di costruzione cosi massiccia da assomigliare a una bicocca. Lo si raggiungeva per mezzo di una strada a chiocciola che aggirava il colle, e aveva sul davanti un'ampia spianata. Ai piedi dell'altura si aggruppavano delle misere casupole abitate dai contadini del signorotto, i quali erano abituati alle armi non meno dei bravi e dovevano considerarsi, per cosi dire, le sue truppe di riserva. Sui due battenti del portone del palazzotto erano inchiodati, con l'ali  aperte, due grandi avvoltoi, simbolo evidente delle abitudini fiere e rapaci del padrone.
Quando il frate arrivo sulla spianata, vide il portone chiuso, e arguendo che il signore stava ancora pranzando, si disponeva ad aspettare; ma uno dei due bravi di guardia, che in qualche occasione si era ricoverato in convento essendo braccato dai birri, lo invito pressantemente a venir pure avanti, picchiando nello stesso tempo all'uscio. Venne ad aprire un vecchio servitore, che fungeva  da cerimoniere, il quale, vedendo che l'importuno era il frate, smise subito di borbottare, acquieto i cani e introdusse l'ospite, ma non  pote  tenersi dall'esprimere la sua meraviglia per la presenza del religioso in quella casa: "Lei qui? Sara per far del bene. Del bene se ne puo far per tutto." Da queste poche parole comprendiamo che il vecchio servo e un brav'uomo, l'unico di quella casa, tollerato li, come spiega l'Autore, per due soli motivi: perche aveva una sviscerata devozione al casato, avendo servito il padre di don Rodrigo, che era un valentuomo, e perche aveva una gran pratica del cerimoniale, per cui nei giorni di ricevimento diventava persona importante e indispensabile.
Il servitore condusse il frate sino al locale attiguo alla sala del convito e quivi, essendosi proprio in quel momento aperta la porta, il cappuccino fu scorto da don Attilio mentre voleva ritirarsi per non disturbare a quell'ora; ed essendo stato invitato con insistenza dal conte, dovette entrare suo malgrado, pur comprendendo che non era quello il momento adatto per espletare la sua missione. Fatto sedere accanto al padrone di casa, il frate gli disse sommessamente che desiderava parlargli, con suo comodo, di una questione importante; e don Rodrigo lo assicuro che avrebbero parlato in seguito, ma che intanto accettasse da bere. Davanti all'insistenza del signore, fra Cristoforo, cui conveniva compiacerlo  in quanto fosse possibile, accetto il vino offertogli, che comincio a centellinare, per mostrare che non aveva alcuna fretta.


 

 

Al banchetto partecipavano, assieme a don Rodrigo e al conte Attilio, che sedevano fianco a fianco su un lato lungo della tavola, il podesta di Lecco e l'avvocato Azzecca-garbugli, che si fronteggiavano ai lati corti della mensa rettangolare, mentre di fronte ai due cugini stavano "due convitati oscuri", come dice il Manzoni, cioe due parassiti, invitati per far numero, il cui compito era solo quello di mangiare e di magnificare cibi e bevande assieme  all'opulenza  del nobile convitante, e inoltre di "sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, a cui un altro non contraddicesse".
Mentre il frate, seduto accanto a don Rodrigo ma un po' discosto dalla tavola, sorbiva calmo il suo calice, si riaccese la disputa che, all'ingresso del Padre, si era momentaneamente placata. Essa verteva su un punto di cavalleria: un nobile di Spagna aveva inviato recentemente una sfida a un cavaliere milanese; il latore del cartello, non trovando in casa lo sfidato, rimise il foglio, senza chiedergliene il permesso, nelle mani del fratello del destinatario, il quale, ritenendosi offeso da questa mancanza di riguardo, diede per tutta risposta delle sonore bastonate all'incauto ambasciatore il quale questa volta, contrariamente al noto proverbio, porto la pena della sua missione. Don Attilio, nella sua burbanza nobiliare e anche per un tantino di orgoglio milanese nei riguardi del portatore e del cavaliere, che erano spagnoli, sosteneva che quelle legnate erano legittime, anzi sacrosante; il Podesta, nella sua prosopopea di leguleio e anche di funzionario legato, per interessi se non pure per nascita, agli Spagnoli dominatori, affermava che l'azione del cavaliere milanese era abominevole e contraria a tutte le regole della cavalleria e del diritto internazionale, perche la persona dell'ambasciatore -jure gentium- e sacra e inviolabile.
Siccome la disputa si riscaldava sempre piu, e don Attilio, nella foga incontrollata del discorso, non si teneva dall'offendere ormai apertamente il Podesta, il quale evidentemente non era di estrazione nobiliare, don Rodrigo, per sopire la discussione, propose di deferire la contesa a un arbitro, cioe al padre Cristoforo. Questi si schermisce allegando la sua incompetenza in materia di cavalleria, ma dinanzi alle ripetute insistenze del padrone di casa, dice che il suo modesto parere e che non ci dovrebbero essere ne sfide ne duelli ne bastonate. Questa opinione suscito l'incredulita e la delusione generale, e soprattutto l'ironia del Conte, il quale taccio il frate di ingenuita e di scarsa conoscenza del mondo; ma don Rodrigo,volendo evitare che la contesa si riaccendesse, perche a lui premeva non alienarsi l'amicizia del Podesta, cioe la benevola connivenza della massima autorita governativa del territorio di Lecco, incarico scherzosamente l'avvocato, che per difendere ogni assunto era una cima, di giustificare il parere del frate. Il dottor Azzecca-garbugli, chiamato in causa, rispose cerimoniosamente che il parere del Cappuccino non era adeguato a una disputa cavalleresca, pur avendo il suo peso dal punto di vista religioso; secondo lui il frate aveva voluto, con una battuta scherzosa, togliersi dall'impaccio di dare una sentenza in una materia lontana dal suo ministero. Allora don Rodrigo, sempre allo scopo di stornare il discorso da quell'argomento scottante, accenno alla guerra che si stava combattendo per la successione al ducato di Mantova, aggiungendo che a  Milano


 

 

correvano  voci  di  accomodamento.  Ma  purtroppo  anche  a  questo  proposito  si riaccende  l'antagonismo  ideologico  fra  il Conte  e  il Podesta;  infatti questi nega ogni possibilita di accordo, sostenendo di essere ben informato, in quanto amico intimo del capitano spagnolo comandante la guarnigione di Lecco, il quale a sua volta  e  una  creatura  del  Primo  Ministro  di  Madrid,  nientemeno  che  il  conte d'Olivares, detto il Conte duca. Don Attilio a sua volta sostiene che ogni giorno a Milano gli capita di parlare con personaggi molto piu altolocati e informati di un semplice  capitano  di  guarnigione,  e  puo  quindi  assicurare  che  sono  avviate trattative, specie per opera del Papa. In un batter d'occhio la disputa si rinfocola e rischia di arrivare a un punto di rottura, ma don Rodrigo da d'occhio al cugino, facendogli capire che, per amor suo, cessi dal contraddire il Podesta; e solo allora questi,  avendo  campo  libero,  pote  tessere  una  sperticata  lode  del  Conte  duca, irridendo alle mene di quel povero Cardinale di Richelieu che s'illudeva di poter competere con un Olivares.
Don Rodrigo, per mettere fine a questo elogio che non piaceva al cugino, il quale ormai non stava piu alle mosse e gli faceva gli occhiacci, propose di fare un brindisi in onore del Conte duca. Il Podesta accolse la proposta con orgoglio ed entusiasmo, "perche - dice ironicamente il Manzoni - tutto cio che si faceva o si diceva in onore del Conte duca, lo riteneva in parte come fatto a se." E volle lui stesso esprimere nel brindisi i voti dei presenti, mentre il dottore si assunse il compito di tessere l'elogio del vino - anzi del nettare - di don Rodrigo. Ma le parole laudative dell'avvocato, il quale a un certo punto affermo che  la  carestia era bandita per sempre dal palazzo del signor don Rodrigo, richiamarono l'attenzione e il discorso su questo doloroso argomento. Qui tutti erano d'accordo che la penuria era causata dai fornai e dai cinici incettatori di derrate, contro  i quali bisognava agire subito. Ma anche a questo proposito si riaccende la contesa tra il Conte e il Podesta: il primo grida che bisogna impiccarli senza   misericordia e senza formalita, il secondo chiede dei buoni processi (cioe con la tortura e le altre belle garanzie legali); finche il padrone di casa si alza e chiede licenza agli ospiti di appartarsi per il colloquio che aveva promesso al Padre.


CAPITOLO VI

 

Condotto il visitatore in un'altra stanza, senza invitarlo ad accomodarsi, e quindi mostrando chiaramente l'intenzione di spicciarsi, don Rodrigo con tono duro e imperioso chiese: "In che posso obbedirla?" Al tono sgarbato della  voce del suo interlocutore, che contrastava fortemente con la gentilezza manierata della formola, fra Cristoforo si senti come sferzato, e stava per rispondere per le rime, quando si ricordo per chi e per che cosa stava li, e propose di essere il piu umile, il piu calmo e il piu prudente possibile, per cercare di convincere con le buone il signore a desistere dal non certo onorevole impegno.
Pero si accorse subito che il proposito era oltremodo difficile, perche il suo interlocutore cercava di offenderlo, per far degenerare il colloquio in  contesa, onde far perdere le staffe al frate e quindi avere il pretesto di metterlo alla porta prima che potesse venire al nocciolo della questione. Infatti, avendo fra Cristoforo fatto appello all'onore e alla coscienza del signore, in difesa di una ragazza perseguitata, questi con tono risentito rispose che non aveva alcuna intenzione di confessarsi da lui, e in quanto all'onore, lui ne era il solo geloso custode, e chiunque ardisse occuparsene sarebbe stato da lui considerato come il peggiore nemico di esso.
Fra Cristoforo ingoia l'offesa e, raddoppiando la circospezione, rinnova le preghiere e le suppliche in nome di Dio, "per quel Dio, al cui cospetto dobbiamo tutti comparire"; ma il signorotto lo interrompe brusco, dicendo che  non tollera uno che gli viene a fare la spia in casa.
Queste parole ingiuriose fecero venir le vampe sul volto del frate; eppure, con un supremo  sforzo  di  autocontrollo,  egli  riusci  a  contenersi  e,  senza  raccoglier l'offesa,  a  insistere  nella  preghiera  di  lasciar  in  pace  la  ragazza,  accennando ancora alla responsabilita che il signore aveva davanti a Dio e alla Sua giustizia, anche  se  poteva  eludere  la  legge  umana.  Allora  don  Rodrigo,  con  insinuazione maligna, disse che se c'era qualche ragazza che gli premeva, andasse a fare le sue confidenze a qualche altro, e non infastidisse piu  a  lungo  un gentiluomo; e  fece atto  di andarsene.  Ma  fra  Cristoforo,  senza  mostrarsi offeso,  rispose  che  quella ragazza gli stava a cuore spiritualmente non piu di lui stesso, e torno a pregarlo con  accorata  insistenza.  A  questo  punto  don  Rodrigo,  volendo  farla  finita,  ben sapendo che, alla sua proposta, il frate non avrebbe piu saputo dominarsi, disse al suo  interlocutore  di  convincere  detta  ragazza  a  venire  spontaneamente  nel  suo palazzo,  mettendosi  sotto  la  sua  protezione,  cosi  nessuno  avrebbe  piu  osato importunarla.  A queste parole  il frate  non riusci piu a  trattenere  il suo  sdegno lungamente  represso;  ogni  proposito  di  calma  e  di  pazienza  fu  dimenticato,   e anche   il   suo   aspetto   esteriore   fu   trasformato:   il   viso   si  accese,   gli   occhi lampeggiarono,  il  busto  si  fece  eretto,  e  con  fiera  positura  egli  rispose  che  la ragazza era sotto  la protezione di Dio  e  sicura dalle sue grinfie. Dicendo  queste parole assunse  il tono  di sfida, di accusa  e di minaccia proprio  degli  inesorabili


 

 

profeti dell'Antico Testamento ("con la prosopopea di Nathan" dice il Manzoni), e aggiunse alzando la voce: "Lucia e sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch'io vi prometto. Verra un giorno."
Don Rodrigo, preso da spavento per l'infausta profezia che si annunziava, la tronco immediatamente, investendo il Cappuccino con le minacce e gli insulti piu volgari   e    truculenti:    "Escimi   di   tra'   piedi,    villano    temerario,    poltrone incappucciato. ringrazia  il  saio  che  ti copre  codeste  spalle  di  mascalzone,  e  ti salva dalle carezze che si fanno ai tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue  gambe,  per  questa  volta;  e  la  vedremo".  Con  quest'ultima  frase  mostro  di accettare in pieno la sfida a proposito di Lucia, per cui il suo possesso diventava per lui, da quel momento, anche un punto di onore.
Fra Cristoforo ricevette gli improperi senza scomporsi, non rispondendo nulla, perche ormai ogni parola era inutile, e la sua missione era fallita: di questo soltanto era addolorato e profondamente amareggiato, non dei brucianti insulti, che sembrava non lo riguardassero, perche tutta la sua vita era associata all'idea di umiliazione e abnegazione di se stesso.
Mentre  usciva  per  la  porta  indicatagli  con  cenno  imperioso  dal  padrone  di casa, vide il vecchio servitore che si ritirava lungo il muro, evidentemente per non farsi scorgere dal signore. Quindi, accompagnando il frate all'uscita, gli disse in gran  mistero,  e  chiedendo  il  segreto,  che  aveva  qualcosa  da  comunicargli  in merito all'argomento del colloquio, e che sarebbe andato al convento non appena avesse  appurato  che  cosa  di  preciso  si  stava  preparando  contro  Lucia,  perche qualcosa in aria c'era di sicuro. E soggiunse: "Mi tocca a vedere e a sentir cose.! cose di fuoco! Ma io vorrei salvar l'anima mia." Fra Cristoforo lo benedisse e lo prego  di  andare  al  convento  l'indomani  per  rivelargli  tutto  cio  che  si  stava tramando; quindi usci da quella casa con questo pegno di assistenza che il Signore gli aveva  concesso  proprio  in quel  luogo,  dove  meno  se  lo  sarebbe  aspettato; e questo addolci alquanto la sua amara delusione.
A proposito del vecchio servitore, il Manzoni accenna al problema morale posto dal suo comportamento verso il proprio padrone: gli era lecito origliare, per conoscere lo scopo della visita del Cappuccino? E noi potremmo anche chiederci: gli era lecito fare la spia, attraversare i disegni del padrone, contravvenendo al dovere della fedelta? "Questioni importanti - dice l'Autore - ma che il lettore risolvera da se, se ne ha voglia." Il Manzoni pero, mentre sembra volersene lavare le mani, ci mette sulla buona strada della soluzione di questo problema morale, quando dice che ogni regola ha la sua eccezione. Infatti il servo agiva a fin  di bene: egli aveva saputo qualcosa a proposito di Lucia, che cioe si tramava contro l'innocente per insozzarne la purezza; aveva intuito che il frate era venuto per quella cosa, e volle accertarsene tendendo l'orecchio al buco della serratura; avutane la certezza, si mise subito a disposizione del frate per salvare quella poveretta insidiata dal suo padrone. Sentiva di doverlo fare per coscienza, mentre il dovere di fedelta in questo caso non lo vincolava piu, poiche nessuno puo essere tenuto a essere collaboratore o connivente con gli operatori di iniquita. Infatti la morale cristiana ci insegna che non dobbiamo piu ubbidire ai superiori quando   ci


 

 

comandano cose ingiuste o cattive; e in tal caso siamo anche sciolti dal vincolo di fedelta, anche se avessimo esplicitamente giurato di essere fedeli e ubbidienti.
Mentre il frate si batteva per la causa di Lucia nel palazzotto di don Rodrigo, nella casetta di Agnese  si ventilava un altro  progetto: il matrimonio  di sorpresa. L'esperta  vedova  assicuro  la  figlia  e  il  futuro  genero  che,  se  si  presentavano  al parroco   con   due   testimoni   e   pronunciavano   una   certa   formula,   con   cui dichiaravano  la  loro  volonta di essere  marito  e moglie,  il matrimonio  era  valido come se l'avesse celebrato il Papa. I promessi sposi rimasero meravigliati e quasi increduli, ma Agnese confermo la cosa anche con un esempio, accaduto in paese molti  anni  prima;  sicche  Renzo  abbraccio  il  partito  con  entusiasmo,  perche  il progetto gli sembrava a tutta prima facile e sbrigativo. Lucia invece non sembrava affatto convinta. Il suo ragionamento era semplice ma inoppugnabile: se la cosa e lecita,  perche  non  dirlo  al  Padre?  se  lecita  non  e,  non  dobbiamo  farla.  Agnese ribatte che mai avrebbe dato un consiglio contro la legge di Dio; certo quel tipo di matrimonio era come un'eccezione alla regola generale, ma non era colpa loro se la via normale era loro preclusa; la colpa era del curato che non voleva fare il suo dovere, per obbedire a un prepotente senza timor di Dio.
Renzo, ormai tutto preso dall'idea, penso subito ai testimoni e al modo d'introdursi nella casa del curato, poiche questo gli sembrava il punto piu difficile, dato che don Abbondio se ne stava tappato in casa, certamente anche per  il sospetto che i due promessi potessero ricorrere alla via eccezionale del matrimonio clandestino. "Le tribolazioni aguzzano il cervello", osserva  il Manzoni, aggiungendo che Renzo il quale, fino a quel giorno, non aveva avuto occasione di aguzzare il suo, non essendosi mai trovato in circostanze critiche, in questa situazione difficile aveva escogitato un piano davvero magistrale. Sapeva che Tonio, un suo amico, doveva a don Abbondio 25 lire per fitto di un campo, e penso che, se il debitore si fosse presentato di prima sera alla porta della canonica per pagare quella somma, sarebbe stato certamente introdotto, nonostante il sospetto del parroco, poiche la sua ben nota avidita non avrebbe voluto perdere la buona occasione, a lungo aspettata. Con Tonio poteva entrare anche  un altro, come accompagnatore, dato che portava quel denaro; e dietro i due avrebbero potuto insinuarsi, data l'oscurita, i promessi sposi.
Per concertare meglio il piano di azione col suo principale  collaboratore, Renzo ando a casa sua, e lo trovo che si accingeva a desinare, per cui lo invito a cenare con lui all'osteria, per non disturbare il resto della famiglia; proposta tanto piu gradita, in quanto la carestia si faceva gia sentire nella povera casa di Tonio, e la piccola polenta di gran saraceno, appena scodellata sulla tafferia di faggio, non avrebbe potuto saziare la fame della numerosa famiglia. Una volta all'osteria ("luogo di delizie" per gli abitanti del paesello, i quali pero si erano disavvezzati ad essa a causa della penuria), dopo aver mangiato quello che trovarono e scolato un boccale di vino, Renzo espose il suo piano che il compagno accolse con entusiasmo e gratitudine: si trattava di pagare il debito, che don Abbondio gli rinfacciava in ogni incontro, e di riavere la collana d'oro della moglie, pretesa come  pegno  dal  parroco,  che  evidentemente  non  accordava  fiducia  alle   sue


 

 

pecorelle,  la  quale  sarebbe  stata  barattata  in  altrettanta  polenta,  per  sfamarsi almeno  per  qualche  mese.  Per  il  secondo  testimone  Tonio  propose  il  fratello Gervaso, in verita un po' tonto; ma gli avrebbe insegnato lui ben bene il da farsi. Renzo torno a casa della fidanzata, contento di aver avviato il suo progetto in modo  cosi  favorevole.  Ma  c'era  ancora  una  difficolta,  come  fece  giustamente rilevare Agnese: Perpetua avrebbe fatto entrare i due fratelli, latori della somma; ma avrebbe fatto entrare i due promessi? anzi avra ordine di tenerli ben lontani!... Il giovane si trovo impicciato davanti a questa difficolta, ma la brava Agnese disse che aveva trovato lei il mezzo per distrarre la serva del curato: si sarebbe trovata li come se fosse di passaggio, e dopo averla salutata, mentre apriva ai due testimoni, le  avrebbe  toccato  un  tasto  a  cui  era  molto  suscettibile,  una  certa  corda  che avrebbe  sicuramente  dato  il  suo  suono:  bastava  accennare  dubitativamente  ai
matrimoni che lei diceva di aver rifiutati!
Renzo ringrazio con trasporto la futura suocera: "Benedetta voi! l'ho sempre detto che siete nostro aiuto in tutto." Restava pero un'ultima e piu grave difficolta, che frustrava tutte le precedenti brillanti soluzioni escogitate dai due, alleati alla buona riuscita dell'impresa: Lucia restava ferma nel suo diniego! Le sue parole erano accorate ma salde nel suo proposito: "Ah Renzo! non abbiam cominciato cosi. Io voglio esser vostra moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio, all'altare. Lasciamo fare a Quello lassu. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo d'aiutarci, meglio che non possiam far noi, con tutte codeste furberie? E perche far misteri al padre Cristoforo?"
Mentre la madre e il fidanzato cercavano invano di convincerla, si senti il calpestio dei sandali e il fruscio del saio del frate, che stava giungendo frettoloso; per cui azzittirono, e Agnese prego sommessamente la figlia di non dir niente al Padre, della cosa.


CAPITOLO VII

 

Il padre Cristoforo, dice  il   Manzoni, giungeva come un bravo  capitano  che, perduta senza sua colpa una battaglia, non perde la testa, ma si reca con prontezza la dove il bisogno lo chiama. Con poche parole informa dell'essenziale i suoi cari protetti: "Non c'e nulla da sperare dall'uomo: tanto piu bisogna confidare in Dio: e  gia  ho  qualche  pegno  della  sua  protezione."  Le  donne  accolsero  con  dolente rassegnazione la triste notizia, ma Renzo fu sopraffatto dall'ira, e voleva sapere, il poveretto,  quali  ragioni  aveva  portato,  quel  cane,  per  sostenere  la  sua  turpe pretesa. Come se i prepotenti dovessero dire i motivi delle loro azioni ingiuste e violente.
Fra Cristoforo non si sdegno per questo scatto del giovane, il quale era fuori di se; sapeva ben mettersi nei suoi panni, e lo compativa con tutto il cuore; ma lo esorto affettuosamente ad avere pazienza e fiducia nel Signore, a concederGli il tempo che si voleva prendere per far trionfare la giustizia. Quindi si congedo dopo aver pregato Renzo di andare l'indomani al convento (o di mandare, in caso di impedimento, qualche persona fidata) per sapere che cosa bisognasse fare, in base alle notizie che lui stesso sperava di ricevere. Uscito dalla casetta, si affretto verso il convento, per giungervi prima dell'imbrunire, onde non meritare qualche punizione che potesse limitare, il giorno dopo, la sua liberta di movimento, della quale aveva assoluto bisogno per agire efficacemente in difesa di Lucia.
Costei,  partito  il  Padre,  subito  parlo  con  fiducia  del  "pegno"  a  cui  il  frate aveva  accennato,  per  aiutarli,  e  disse  che  bisognava  fidarsi  di  lui,  perche  non prometteva  invano;  ma  Agnese  replico  che  doveva  essere  ben  misera  cosa,  una cosa campata in aria, perche altrimenti il Padre avrebbe dovuto precisarla meglio o  almeno  dirla a  lei in disparte. Renzo  poi fu travolto  dall'ira, che davanti a  fra Cristoforo  aveva  a  stento  trattenuta,  e  come  fuor  di  se  andava    gridando  che l'avrebbe trovato lui il mezzo di risolvere la cosa e liberare nello stesso tempo il paese  tutto,  avesse  pur  mille  diavoli  in  corpo  quel  dannato.  Lucia,  a  queste parole ben troppo chiare, ebbe un sussulto di orrore che la paralizzo per qualche momento,  ma  poi vinse  il suo  terrore,  e  cercava  di far  tornare  Renzo  in se,  ma infine il pianto le impedi di continuare. Anche Agnese si adoperava per calmare il giovane;  ma si vedeva che la sua paura non era tanto per l'omicidio in se, per la responsabilita  di  Renzo  davanti  a  Dio,  quanto  per  il  pericolo  insito  nella  sua realizzazione  e  per  le  conseguenze  che  ne  deriverebbero  davanti  alla  giustizia umana. Alla figlia invece faceva orrore l'azione in se e la grave offesa della legge di Dio, che e legge di perdono e di amore. Agnese invita Renzo a riflettere che il proposito truce non e facilmente realizzabile: "Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui? E quand'anche. Dio  liberi!... contro i poveri c'e sempre giustizia."
Davanti al reiterato proposito del fidanzato di uccidere  quel cane assassino, per poi mettersi in  salvo  oltre  il confine,  accompagnato  dalle  benedizioni della


 

 

gente, Lucia trova la forza di parlare, e si esprime con molta fermezza: lei si era promessa a un giovane timorato di Dio; ma uno che avesse commesso un'offesa cosi grave contro la legge divina, fosse anche al sicuro da ogni  vendetta  o giustizia degli uomini, non l'avrebbe mai sposato! "E  bene! - grido  Renzo col viso piu che mai stravolto - io non v'avro; ma non v'avra neanche lui. Io qui senza voi, e lui a casa del ." La ragazza, udendo queste terribili parole, torno alle suppliche, al pianto, e infine si getto in ginocchio davanti allo sposo, scongiurandolo di non farla morire di angoscia. Ma Renzo che probabilmente, pur nella furia dell'ira, intuiva di poter approfittare della paura di lei per indurla al matrimonio clandestino, con voce dura le disse: "Che bene mi volete voi?... Non v'ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no!" Lucia questa volta e vinta, e risponde immediatamente che sarebbe andata dal parroco, anche subito se lo voleva, purche tornasse quello di prima; davanti alla promessa della sposa l'ira di Renzo sbolli quasi a un tratto, e Agnese fu doppiamente contenta, e per Renzo tornato finalmente in se, e per Lucia che si era infine convinta. E probabilmente anche la ragazza non era del tutto scontenta di essere stata costretta ad acconsentire, perche amava Renzo, e purtroppo il matrimonio clandestino era ormai l'unico mezzo per diventare subito sua moglie. Intanto si era fatta notte, e Renzo lascio la casetta delle sue care donne.
Il giorno seguente ci torno di buon'ora, per prendere gli ultimi accordi con Agnese, in quanto Lucia rimaneva del tutto passiva all'elaborazione del piano, pur promettendo che avrebbe fatto tutto quello che occorreva, nel modo migliore che saprebbe. A Pescarenico, per ricevere eventuali avvisi da padre Cristoforo, Renzo non volle andare, sia perche doveva ancora "accudire all'affare", sia perche temeva che il Padre gli potesse leggere in viso la novita che si preparava per quella sera. Sicche Agnese decise di mandare Menico, un lontano nipote di circa dodici anni, ragazzo molto sveglio e da poterci fare affidamento. Lo chiese ai genitori, gli fece fare un'abbondante colazione, e quindi lo mando al convento, ammonendolo di restare sempre li a disposizione di fra Cristoforo, senza andare al lago a veder pescare o per giocare lui stesso a rimbalzello, che era la sua specialita. "Poh! zia; non son poi un ragazzo." In queste parole Menico mostra una serieta superiore alla sua eta; egli si sente investito di un compito importante e delicato, e se ne vuol mostrare degno; rassomiglia un po' a Bettina la quale, allorche fu pregata dallo sposo di recare quell'ambasciata segreta a Lucia, si affretto a eseguirla col massimo impegno, "lieta e superba d'avere una commissione segreta" per la sposa.
Per tutta la mattinata pero si videro ronzare intorno alla casetta di Agnese dei viandanti sconosciuti i quali, passando a passo lento davanti alla porta di strada, gettavano qua e la degli sguardi esplorativi. Uno poi, vestito da mendicante, ma non "rifinito ne cencioso come i suoi pari", entro addirittura nella casetta, con la scusa di avere un po' di carita; ricevuto un pezzo di pane, si attardo  a fare domande indiscrete alle quali Agnese, per nulla ingenua, rispose evasivamente  o al contrario delle verita. Mentre se ne andava, finse di sbagliar uscio e imbocco quello che dava alla scala; richiamato prontamente indietro e indicatagli la porta


 

 

giusta, se ne usci scusandosi "con un'umilta affettata, che stentava a collocarsi nei lineamenti duri di quella faccia."
Per capire chi fossero il finto mendico e gli altri spioni, dobbiamo tornare un poco indietro nel racconto, cioe al momento in cui don Rodrigo, fremente d'ira e d'orrore, vide allontanarsi dalla sua casa l'aborrito frate. Per cercare di calmarsi, camminava a passi concitati su e giu per la stanza, tappezzata dei ritratti dei suoi antenati: un capitano, terrore dei nemici ma anche dei propri soldati; un magistrato, terrore dei litiganti e degli avvocati; una matrona, terrore delle sue cameriere; perfino un abate, terrore dei suoi monaci; insomma tutta gente che aveva incusso paura e la spirava ancora dai visi accigliati. Tanto piu il puntiglioso signore si arrabbiava con se stesso, per non aver reagito convenientemente contro l'ardire del frate, che aveva osato inveire contro di lui con l'aspetto di un profeta biblico. Ma pure, ripensando a quell'inizio di profezia ("Verra un giorno."), si sentiva accapponare la pelle, preso da un misterioso spavento, e in certi momenti pensava anche di rinunciare e alla vendetta e alla passione sensuale, che ormai diventava tormentosa. Per farsi passar la mattana, usci a passeggio con un buon seguito, quindi si reco in una casa di amici, dove fu ricevuto con molto rispetto, e torno al palazzotto molto tardi. Era ad attenderlo il malefico cugino, il quale comincio a punzecchiarlo circa la scommessa (doveva pagare una grossa somma, se per il giorno di San Martino - 11 novembre - la ragazza non fosse gia in suo possesso) e circa la visita del frate il quale, secondo l'ironico don Attilio, avrebbe niente di meno convertito quel libertino di Rodrigo. Questi tronco con aria di sfida quei frizzi molesti, dicendo che la data di San Martino avrebbe deciso della scommessa, che lui era pronto a raddoppiare, tanto era sicuro di vincerla; il che lascio tra incredulo e attonito il conte, ignaro di quanto si stava tramando.
"La mattina seguente - dice il Manzoni - don Rodrigo si desto don Rodrigo", vale a dire con la sua albagia, e con la passione piu viva che mai: le  ubbie,  le paure per quell'esordio di profezia del maledetto frate erano svanite col sonno e coi sogni della notte, e lui si sentiva forte e piu sicuro che mai. Chiamo il fedele (tale lo credeva) luogotenente, il Griso, un assassino il quale aveva ottenuto l'impunita indossando la sua livrea e mettendosi al suo incondizionato servizio, e gli comando che entro quella giornata (era il 10 novembre) o meglio prima dell'alba dell'indomani, la ragazza che lui sapeva doveva trovarsi gia nel palazzo. Ed ecco il Griso iniziare immediatamente l'opera di ricognizione del terreno in cui avrebbe dovuto operare la notte successiva, e credette bene di poterlo fare meglio sotto mentite spoglie; ecco i suoi degni accoliti gironzolare, quali onesti viandanti, intorno alla povera casetta, per rendersi conto della  sua posizione. Espletata  la fase esplorativa, si passa a quella operativa: il piano del ratto viene congegnato in ogni particolare tra il Griso e il suo padrone, che gli raccomanda pressantemente, facendolo responsabile, di usare ogni rispetto alla ragazza, di non torcerle un capello.
Il vecchio servitore, che stava all'erta, riusci infine a sapere quello che si preparava per la notte quando questa era ormai vicina, ma non volle mancare al suo  impegno,  e  uscito  con  la  scusa  di  prendere  una  boccata  d'aria,  corse  al


 

 

convento a portarne l'avviso al Padre, mentre gia un'avanguardia del corpo di spedizione era andata ad appostarsi in un casolare abbandonato, appena fuori del paese e non distante dalla casetta di Agnese. Piu tardi sarebbe partito il grosso della truppa con il Griso, e infine fu condotta al casolare una bussola per trasportare la prigioniera. Quando furono tutti riuniti nella base di partenza, il Griso ne mando tre all'osteria del villaggio in ispezione, per vedere se ci fossero novita da segnalare, e avvertire quando tutti gli abitanti fossero a letto. Mentre i tre birboni giungevano all'osteria e si postavano, uno alla porta a spiare e due dentro a giocare alla morra, Renzo si reco dalle donne, per dire che andava all'osteria con Tonio e Gervaso, per offrire loro la cena, come aveva promesso: loro si tenessero pronte e si facessero coraggio, specie Lucia.
Quando il giovane giunse all'osteria coi suoi ospiti, trovo il bravo (travestito) che sbarrava spavaldamente meta porta, e per non attaccar lite, dato che aveva ben altro a cui pensare in quel momento, si adatto a entrare di traverso, come fecero i suoi due amici. Dentro poi vide l'altra bella coppia, che smisero subito di giocare per squadrarlo fieramente. Parve a Renzo che i tre compagnoni si scambiassero uno sguardo d'intesa, per cui s'insospetti, ma non sapeva che cosa pensare di quei forestieri. Comunque prese posto con i suoi accompagnatori, e all'oste, che si era presentato per servirli, chiese sottovoce chi fossero quei signori; quegli rispose di non conoscerli, mentre sapeva benissimo che erano bravi di don Rodrigo, anche se senza livrea e apparentemente disarmati. Quando poi l'oste fu tornato  in cucina per prendere le vivande, uno dei bravacci gli si accosto e gli chiese con fare poco cerimonioso chi fossero i nuovi venuti, e naturalmente venne subito accontentato. A questo proposito l'Autore mette in luce il diverso modo  di  comportarsi dell'oste, il quale affermava a ogni pie sospinto di essere amico dei galantuomini, ma in realta "usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni." Purtroppo il mondo va cosi anche oggi!
Quando Renzo, dopo aver cenato con poco appetito, usci dall'osteria, si accorse con allarme che i due bravi che aveva lasciati dentro si erano messi invece a seguirlo; allora si fermo deciso, per vedere una buona volta che cosa volessero. Ma quelli, che avevano avuto l'intenzione di sorprenderlo e di conciarlo ben bene, secondo le istruzioni del padrone al Griso nel caso che fosse loro capitato nelle mani, visto che il giovane s'era accorto di loro, si fermarono indecisi, quindi pensarono bene di rinunciare al loro progetto, per non guastare per caso il piano principale con la loro estemporanea iniziativa. Infatti nel villaggio c'era ancora molta gente in giro, e la situazione non era propizia alla realizzazione del loro proposito, che pur avrebbe potuto procurar loro un lauto premio dal signore.
Allorche Renzo con i testimoni giunse alla casetta della fidanzata, costei si trovava in tale stato di prostrazione morale e di spavento, che era decisa a soffrire ogni cosa pur di non acconsentire a quanto aveva pur promesso; ma quando tutti si avviarono senza alcuna esitazione, non seppe opporsi, ne dire alcunche, e anche lei si mosse con gli altri come un'insensata. Presero per i campi, per non attraversare il paese, volendo evitare di esser visti da alcuno, e dalle viottole sbucarono nei pressi della canonica. Qui si divisero: avanti Tonio e Gervaso ("che


 

 

non sapeva far nulla da se, - osserva umoristicamente il Manzoni - e senza il quale non si poteva far nulla"), Agnese un po' piu indietro, per impadronirsi di Perpetua non appena fosse apparsa sulla porta, i promessi ancora piu indietro, nascosti dall'angolo dell'edificio.
Al picchio di Tonio, Perpetua si affaccio alla finestra, chiedendo chi fosse a quell'ora; Tonio si fece riconoscere, aggiungendo che doveva parlare col curato. "E' ora da cristiani questa? - disse bruscamente la donna - Tornate domani." Allora Tonio disse che aveva riscosso proprio allora venticinque lire e veniva a pagare il suo debito; pero, se l'ora era indiscreta, se ne andava a casa, ma il curato avrebbe dovuto poi pazientare ancora un bel po', perche quei soldi gli servivano per tante cose, e prima di tutto per mangiare: per questo era venuto pur a quell'ora tarda, che altrimenti non avrebbe resistito alla tentazione di investirli in farina. Allora Perpetua, cadendo nella trappola, lo prego di aspettare, finche andava a riferire al padrone. Si poteva scommettere che costui, cosi avido di denaro, non si sarebbe fatto sfuggire il debitore volenteroso; percio Agnese si avvicino ai due fratelli e comincio a ciarlare con Tonio, fingendo di essersi imbattuta con lui tornando dal villaggio vicino. I due promessi sposi rimasero soli dietro la cantonata, e Lucia, appoggiata al braccio dello sposo, tremava come una foglia, sia per quello che stava per fare, che la sua coscienza non poteva approvare, sia per il fatto di trovarsi, per la prima volta, tanto familiarmente sola con lui, mentre pur sperava di diventare sua moglie entro pochi minuti. Ma non erano le nozze che lei aveva sognato!


 

Fonte: http://www.brunocamaioni.com/system/files/libri_e_copertine/%5BeBook%20-%20ITA%20-%20romanzo%5D%20Bruno%20Camaioni%20-%20Riassunto%20de%20I%20Promessi%20Sposi%20%28ed%20riveduta%29.pdf

Sito web da visitare: http://www.brunocamaioni.com/

Autore del testo: Bruno Camaioni

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