Raffaello Sanzio

 

 

 

Raffaello Sanzio

 

Raffaello
Raffaello Sanzio pittore e architetto italiano, fu nel campo delle arti figurative, il sommo rappresentante dell'ideale sereno del Rinascimento. Nacque ad Urbino il 6 aprile 1483. Il cognome Sanzio deriva dalla latinizzazione di quello italiano, Santi, in Santius (anche quando firmava usando il solo nome di battesimo l'artista si serviva della forma latina "Raphael"). Suo padre, Giovanni Santi, era un modesto pittore alla corte di Urbino, un ambiente di grande cultura cosmopolita, autore di una celebre Cronaca in rima e capo, proprietario di una bottega fiorentina,attivo come ritrattista presso la corte di Mantova. Nel 1491 morì la madre Magia ed il padre si risposò, ma morì il 1 agosto 1494. Rimasto orfano a soli undici anni, Raffaello venne affidato allo zio Bartolomeo, sacerdote. A quell'epoca aveva già mostrato il suo talento dal momento che Giorgio Vasari, suo contemporaneo, racconta che da bambino era stato "di grande aiuto al padre nelle numerose opere che Giovanni eseguiva nello stato di Urbino". Purtroppo non si sa nulla di preciso su come Raffaello lo abbia aiutato nell'attività di pittore e, mancando qualsiasi documentazione su questa parte di vita, resta sconosciuta la fase della sua formazione. Più che i primi insegnamenti fornitigli dal padre pittore, Giovanni Santi, dovettero influire sulla primissima formazione di Raffaello gli stimoli di un centro di altissima cultura come Urbino, che gli offriva come testi di studio le opere di Piero della Francesca e di Luciano Laurana. L'influenza più evidente sulle sue prime opere è quella di Pietro Vannucci, il Perugino, uno dei più grandi pittori dell'epoca che lavorò soprattutto a Perugia ed a Firenze. La prima opera documentata di Raffaello fu una pala d'altare per la chiesa di San Nicola da Tolentino a Città di Castello, cittadina a metà strada tra Perugia ed Urbino. La pala venne commissionata nel 1500 e terminata nel 1501 (fu poi gravemente danneggiata durante un terremoto nel 1789 ed oggi ne rimangono solo alcuni frammenti). Negli anni seguenti Raffaello dipinse altre opere per le chiese di Città di Castello e di Perugina, comprese diverse grandi pale d’altare, nonché dipinti di dimensioni più piccole per privati. Il giovanissimo allievo dimostrò di essere in grado di assimilare e superare con straordinaria facilità la lezione del maestro, in un rapido percorso che va dalla predella della pala peruginesca per S. Maria Nuova a Fano (1497) all'Incoronazione della Vergine per la cappella Oddi in S. Francesco a Perugia (1502-03, ora a Roma, Pinacoteca Vaticana), al primo programmatico capolavoro, lo  Sposalizio della Vergine  per la chiesa di S. Francesco a Città di Castello (1504, ora a Milano, Brera). Il campo delle esperienze del giovane artista andava rapidamente ampliandosi attraverso contatti con Venezia,un primo soggiorno a Roma e la collaborazione con Pinturicchio cui Raffaello fornì disegni e modelli per gli affreschi nella Libreria Piccolomini a Siena. Quasi a segnare la conclusione di una esperienza, nell’anno 1504 Raffaello Sanzio si trasferì a Firenze alla corte di Pier Soderini per imparare le lezioni di due grandi pittori: Leonardo da Vinci e Michelangelo. Pur trascorrendo in questa città gran parte dei quattro anni successivi, Raffaello probabilmente non vi dimorò in modo continuo, ma seguitò a viaggiare ed a lavorare in vari luoghi d'Italia (Perugia, Urbino e forse anche Roma). A Firenze Raffaello fece amicizia con i pittori locali, soprattutto Fra Bartolomeo, questi fu uno degli artisti la cui influenza spinse Raffaello ad abbandonare lo stile esile ed aggraziato del Perugino per forme più grandiose e poderose. Le opere del periodo fiorentino, fino al 1507, dai raffinati ritratti alle tanto celebrate Madonne dimostrano la stupenda facilità con cui Raffaello Sanzio seppe inserirsi in tale temperie culturale, assimilando apporti diversi e contrastanti, come lo sfumato e la composizione piramidale proposti da Leonardo e la tensione dinamica di Michelangelo; ne risultano composizioni di grande naturalezza dove i ritmi si svolgono armoniosamente in uno squisito equilibrio tra concretezza dell'immagine e perfezione formale. Verso la fine del 1508 si trasferì a Roma e venne subito preso a servizio da Papa Giulio II che gli commissionò una serie di decorazioni di alcune sue stanze a Palazzo Vaticano. La commissione di Giulio II segnò la svolta nella carriera del pittore.
All'epoca aveva solo venticinque anni ed era un'artista in formazione, perciò non aveva ancora ricevuto incarichi di tale importanza e prestigio. Raffaello seppe cogliere l'occasione nel modo migliore e da allora, pur lavorando anche per altri mecenati, rimase prevalentemente al servizio di Giulio II e del suo successore Leone X, per i quali seguì una serie di progetti che ne fecero il più ricercato artista di Roma. Il papa gli fece dipingere quattro stanze degli appartamenti papali tra il 1508 e il 1520, con molti allievi come aiuti.


Stanza della Segnatura: detta della Segnatura perché in essa si adunava il tribunale della Signatura gratiae. I soggetti allegorici della Stanza della Segnatura (compiuta nel 1511), esaltanti la sintesi del pensiero antico con la  renovatio operata dal cristianesimo attraverso la raffigurazione del Vero, del Bene, del Bello(in termini platonici la poetica,l’etica,l’estetica).Il vero è incarnato dalla filosofia, celebrata nella Scuola di Atene: in un imponente edificio classico, a bracci perpendicolari con volte a botte a lupanari, sono riuniti tutti i più importanti filosofi dell’antichità, posti su due livelli, separati da una scalinata. Al centro, attorno al punto di fuga sono posti Platone ed Aristotele (il primo indica il cielo, il secondo la terra).Il vero si raggiunge attraverso la Fede (la teologia) e con la scienza (la filosofia),il bene attraverso l’arte e il bello attraverso la giustizia. L'insieme è fortemente prospettico e da un senso di equilibrio, compostezza e classicità. La figura di Eraclito (Michelangelo) è stata dipinta in un secondo momento, su ispirazione delle prime parti visibili della volta della Cappella Sistina. Le quattro pareti sono lunettate e questa forma ad arco è il punto di partenza su cui Raffaello imposta tutte le scene principali. La Disputa del Sacramento, la prima scena dipinta, è il trionfo della chiesa:la rivelazione del Vero supremo, Dio, incarnatosi nel Figlio dell’uomo. Nella parte inferiore è l’ostia consacrata riferimento sicuro per l’uomo, punto di convergenza delle linee prospettiche e vertice di un triangolo immaginario che ha per base il bordo dell’affresco. La Scuola di Atene è dipinta sulla parete di fronte. La struttura architettonica dell’ambiente acquista una solennità romana. Al centro Platone e Aristotele, i due poli fondamentali del pensiero rinascimentale. Raffaello conferisce vigore volumetrico ai suoi personaggi, indubbiamente per la vicinanza con Michelangelo che contemporaneamente sta rivestendo con affreschi la volta della Cappella Sistina.


Stanza di Eliodoro: Il tema è religioso e politico. I soggetti narrati sono:la Cacciata di Eliodoro dal Tempio, Il Miracolo di Bolsena, La Liberazione di San Pietro dal carcere, Papa Leone Magno ferma Attila. Rappresenta episodi storici in cui si dimostra la protezione di Dio alla chiesa. Una di queste è la Liberazione di san Pietro dal carcere: il racconto è diviso in tre scene distinte: al centro un angelo sveglia il santo, a destra entrambi scappano, a sinistra i soldati si svegliano per inseguirli. L'elemento più importante è quello della luce: debole quella della luna e delle torce, sfolgorante quella dell'angelo, che si somma a quella naturale che proviene dalla finestra (reale) sottostante. Ci sono ben cinque fonti di luce:a sinistra in cielo, un quarto di luna fra le nubi, l’aurora rosseggiante all’orizzonte, la fiaccola in primo piano; al centro e a destra  l’angelo circonfuso da un alone dorato. I soggetti allegorici della Stanza di Eliodoro (1511-14) rappresentano la maturità dello stile di Raffaello così come quelli dell’Incendio di borgo.


Stanza dell'Incendio di borgo (1517): rappresenta storie di papi che condividevano il nome di Leone (adulazione nei confronti del nuovo papa Leone X). L'incendio del borgo era un incendio conclusosi con il semplice gesto della croce del papa Leone IV. Il dipinto è ricco di movimento e pone a confronto la vecchia basilica paleocristiana, un edificio con caratteristiche classiche, con l'architettura cinquecentesca e i tre ordini classici romani, il dorico, lo ionico, e il corinzio: questi sono segnali evidenti dell'interessamento dell'artista all'architettura, fresco di nomina a “architetto di San Pietro”, che studiava il trattato di Vitruvio in quel momento. Citazione di Enea, in un uomo che porta sulle spalle un vecchio Anchise, e con di lato un giovinetto. La stanza è in larga misura dovuta a collaboratori ed è rimasta per secoli modello di pittura storica.


Stanza di Costantino (solo progettata): rappresenta episodi della vita dell'imperatore. Venne iniziata nel 1517 e fu completata dopo la morte dell’artista. Raffaello ne ha fornito solo i cartoni,in seguito venne realizzata dalla scuola. Il linguaggio di Raffaello Sanzio appare straordinariamente arricchito: dal magistrale equilibrio spaziale e compositivo della  Scuola di Atene si passa alla tensione drammatica della  Cacciata di Eliodoro (dove è sensibile una nuova attenzione agli esempi michelangioleschi), al colorismo ricco e pastoso della Messa di Bolsena, all'audace luminismo della Liberazione di S. Pietro, precorritore delle esperienze di Caravaggio e di Rembrandt. Mutato il clima culturale della corte papale con la successione di Leone X, pontefice di interessi eruditi e classicheggianti, a Giulio II, Raffaello Sanzio seppe farsi interprete delle nuove tendenze, divenendo, poco più che trentenne, il principe indiscusso della scena artistica romana, accolto nei circoli letterari e umanistici. Egli assunse un numero incredibile di incarichi e mansioni pittoriche, architettoniche, archeologiche (quale conservatore delle Antichità di Roma si dedicò tra l'altro, nel 1517, all'impresa di rilevare la pianta di Roma antica), tanto che dovette crearsi una vastissima bottega imprenditoriale e servirsi dell'opera di collaboratori quali Giulio Romano, Perin del Vaga, Giovanni da Udine, cui si deve in gran parte la realizzazione degli affreschi della terza Stanza, della Loggia di Psiche alla Farnesina, della stufetta del cardinale Bibbiena e delle Logge Vaticane, affacciate sul cortile di S. Damaso. Le logge furono poi arricchite col repertorio decorativo delle grottesche, tema derivato dalla decorazione della  Domus Aurea e adottato più tardi anche nella decorazione delle logge di Villa Madama. Nel 1514, alla morte del Bramante, Raffaello Sanzio fu nominato architetto capo della fabbrica di S. Pietro (inizialmente assieme a Fra' Giocondo e a Giuliano da Sangallo); a lui si deve il progetto (trasmessoci dal Serlio) che modificava profondamente quello bramantesco non solo per la trasformazione della pianta della chiesa da croce greca a croce latina, ma per un diverso sentimento formale tendente a conferire all'edificio, mediante stretti deambulatori e la moltiplicazione delle cappelle, un accentuato chiaroscuro pittorico. Questa tendenza caratterizza anche altri edifici di Raffaello Sanzio, quali il perduto palazzo Branconio dell'Aquila (noto da un disegno del Parmigianino) e il palazzo Pandolfini di Firenze. Di chiara derivazione bramantesca sono invece la chiesetta di S. Eligio degli Orefici (1510), caratterizzata da estrema eleganza strutturale e purezza di proporzioni, e la cappella Chigi in S. Maria del Popolo (terminata nel 1520), che rivela anche una sicura conoscenza dei monumenti antichi. Il richiamo alle strutture degli antichi edifici termali è presente nel ritmo grandioso di Villa Madama, progettata da Raffaello Sanzio (ma solo in parte da lui stesso realizzata) per Giulio de' Medici, poi Clemente VII, sulle pendici del Monte Mario; l'artista progettò anche il superamento dei dislivelli del terreno mediante terrazze e giardini e poderose sovrastrutture a nicchioni, sulle quali sorgono le logge decorate a grottesche. Le nuovissime "invenzioni" strutturali e decorative dell'architettura di Raffaello Sanzio furono vere matrici, attraverso Giulio Romano, Sansovino e Sanmicheli, dell'architettura manieristica della prima metà del Cinquecento. L'attività pittorica dell'ultimo decennio, oltre ai cartoni per la superba serie di arazzi della Cappella Sistina (1515-16), registra ancora una sequenza di capolavori, dai penetranti ritratti (Ritratto di cardinale, Madrid, Prado; Baldassar Castiglione, Parigi, Louvre; Leone X, Firenze, Uffizi; La velata, Firenze, Palazzo Pitti), alle più famose pale sacre (Madonna di Foligno, Roma, Pinacoteca Vaticana; Madonna Sistina, Dresda, Gemäldegalerie; Madonna della seggiola, Firenze, Palazzo Pitti; S. Cecilia, Bologna, Pinacoteca, modello di "sacra conversazione" destinato a enorme fortuna), fino alla grande e tormentata Trasfigurazione (Roma, Pinacoteca Vaticana) che, rimasta incompiuta alla morte del maestro, fu poi terminata da Giulio Romano. L’opera è l’ultima alla quale lavora l’artista, la composizione è divisa in due parti: in alto il soggetto principale, in basso l’episodio che gli angeli narrano subito dopo:la liberazione di un giovane indemoniato. Il Cristo non è soltanto circondato da un alone luminoso, ma quasi formato di luce. E’ un volto umano,cui mancano però la consistenza volumetrica e la nettezza della linea di contorno,perché è smaterializzato. Alla levità trascendente si oppone la plasticità intensa della folla agitata;alla luce della certezza, l’oscurità dell’attesa. Le due parti del dipinto sono coordinate del movimento trascendente,ma se il quadro appare unitario,la qualità artistica delle due parti non è omogenea. Quella inferiore rileva atteggiamenti retorici nella ricerca di effetti drammatici mediante contrapposti michelangeleschi. È probabile che l’esecuzione di questa parte spetti alla Scuola di Raffaello.

 

La Trasfigurazione
Un altro e non meno grande Raffaello è quello dei ritratti, qui il divino Sanzio è finalmente umano:qui avvertiamo con un brivido che ci esalta e sorprende la presenza d'una presa intellettuale e critica e il corso di una tensione inquieta che ci rendono il colloquio col pittore non soltanto accessibile ma riconducibile ad una dimensione emotiva e dialettica moderna. I ritratti rimasero per lui un'attività secondaria soprattutto dopo il trasferimento a Roma, dove fu obbligato a dedicare quasi tutto il suo tempo ai grandi progetti vaticani. Naturalmente ritrasse i due papi per cui lavorò, Giulio II e Leone X. Oltre ai papi Raffaello non ritrasse molti personaggi celebri: i modelli erano per lo più persone della sua cerchia di amici, molte delle quali sconosciute. Uno degli incarichi più importanti che Raffaello ricevette dal Papa fu una serie di dieci arazzi con scene della vita di San Pietro e di San Paolo destinati alla Cappella Sistina. I cartoni realizzati vennero inviati a Bruxelles per essere tessuti nella bottega di Pier van Aelst. I primi tre arazzi eseguiti arrivarono a Roma nel 1519. È possibile che Raffaello abbia visto la serie completa installata nella Cappella Sistina prima di morire nel 1520, mentre la vide certamente Leone X che morì  l'anno seguente. Gli arazzi ora si trovano nei Musei Vaticani mentre i sette cartoni sono stati prestati dalla collezione privata della corona britannica al Victoria ad Albert Museum di Londra. Alla sua morte, Raffaello Sanzio era già entrato nella leggenda: forse nessun altro artista è stato nel tempo altrettanto amato e idealizzato, ma proprio per questo la sua opera, che ha goduto di ininterrotta fortuna dal classicismo secentesco in avanti, ha subito notevoli deformazioni interpretative, sia nell'accentuazione dei valori formali volti in accademia (dai neoclassici ai puristi), sia nelle forzature spiritualistiche e romantiche (dai nazareni tedeschi ai preraffaelliti inglesi). Raffaello fu uno dei disegnatori più grandi e prolifici dell'epoca: di lui sopravvivono oltre 400 disegni e molti altri sono andati perduti nel corso dei secoli. Visse in un periodo in cui l'arte del disegno stava attraversando una fase di transizione ed in cui la punta d'argento e la penna, utilizzati ai tempi della sua gioventù, erano stati sostituiti dal gesso (di solito rosso o nero). Reso popolare da Leonardo. Raffaello era padrone di tutte le tecniche del disegno del suo tempo e fu l'ultimo grande esponente italiano della punta d'argento che continuò ad utilizzare fino al 1515 circa, quando era già stata abbandonata da gran parte degli artisti di maggiore prestigio. Il tema più ricorrente nell'opera di Raffaello è quello della Madonna col Bambino, che del resto è anche quello più comune nell'arte italiana, ed egli seppe ritrarlo innumerevoli volte senza renderlo mai monotono. Spesso Raffaello aggiunge San Giovannino e colloca il gruppo piramidale entro un ampio e fresco paesaggio. La Madonna del Cardellino mostra come quest’influsso si risolva  nelle posizioni e nelle forme, non ci sono come in Leonardo, l’inquietante analisi della natura, non c’è il tentativo di capire l’essenza delle cose. Il rapporto fra i personaggi è quello degli affetti semplici e familiari e la natura circostante è il luogo amico e piacevole dove essi vivono. Nell’opera è presente anche una monumentalità che si va accentuando negli ultimi anni del periodo fiorentino.
Raffaello viene considerato, dopo Donato Bramante, il più eminente architetto italiano del periodo rinascimentale. Purtroppo è difficile dare un giudizio definitivo sul suo valore in quanto molte
opere rimasero incompiute alla sua morte ed alcune di essere non vennero neppure completate in seguito, mentre molte di quelle effettivamente realizzate dall'artista sono state distrutte o modificate. Raffaello non prese mai moglie ma pare che nel 1514 ci fossero stati accordi per il suo matrimonio con Maria Bibbiena (nipote di un cardinale) non andati a buon fine per la morte prematura della ragazza. L'altra donna legata al suo nome è una cortigiana passata alla storia come "La fornarina", che si diceva fosse la sua amante, anche se in realtà non è neppure provato che sia realmente esistita. Secondo Vasari la morte prematura di Raffaello fu dovuta addirittura agli eccessi amorosi: dopo una nottata particolarmente smodata, l'artista, colto da febbre, non disse ai dottori quale era stata la causa del malore e fu sottoposto a salassi invece che a cure ricostituenti. Qualunque sia stata la causa, Raffaello morì il 6 aprile 1520, giorno del suo compleanno. Sulla sua bara fu posta l’opera che raffigurava al meglio il rapporto con Cristo e con il Cristianesimo “La Trasfigurazione”.Seguito dal cordoglio di tutta la corte papale venne sepolto, come egli stesso aveva chiesto, nel Pantheon di Roma. Raffaello non fu solo un pittore, i suoi contemporanei affermano che la sua morte, venerdì santo, non era solo una coincidenza, in realtà egli incarnò i massimi ideali della cristianità e fu la più sublime forza rinnovatrice della chiesa e del rinascimento.
Raffaello è stato talmente l'interprete di un ideale di bellezza classica, canonica, passata poi nel gusto d'interi secoli di civiltà e connaturatosi con il nostro ideale di bellezza che non si distingue più tra il bello di natura ed il bello artistico. È in quest'essenza che si coglie il mistero e la grandezza dell'artista. Raffaello è sicuramente conosciuto come celebratore dello spirito e della cultura umanistica attraverso i grandi temi del pensiero e della fede religiosa presente nelle sue opere.                                                                                       

  Bisogna guardarsi da un errore abbastanza frequente che consiste nel credere che il merito di Raffaello risieda nella concezione e forse nella composizione, ma non nell'esecuzione, e nel ridurre l'artista, come voleva Bernard Berenson, a un geniale «illustratore». Raffaello è anche un grandissimo pittore. È vero che una specie di pudore lo ha spesso spinto a dissimulare i suoi mezzi e la sua scienza sotto un'apparenza di semplicità, persino di ingenuità. È vero anche che egli ha avuto il ruolo di maestro di bottega, che l'ampiezza del suo compito lo ha spesso obbligato ad affidare, in parte o anche completamente, l'esecuzione degli incarichi ai suoi allievi o collaboratori, che non è facile infine determinare il grado esatto d'importanza dei suoi interventi. Ci si accorda tuttavia a giudicare autografe un certo numero di opere la cui qualità è evidente: qualità del disegno, testimoniata d'altronde dai numerosi studi preparatori del maestro che le grandi collezioni mondiali conservano e che fanno gustare tutta la sensibilità dei contorni nati da un gioco di curve; qualità del colore, generalmente discreto e in funzione della forma, qualche volta più ricco come dimostra la Messa di Bolsena; qualità del tocco, leggero e vibrante nei migliori casi, ma di un virtuosismo che non si manifesta volentieri. Dal 1507 è espressione della consapevolezza di ciò che davvero Firenze significava per la sua arte. E' chiaro nell'opera “La Deposizione” una forte influenza di Michelangelo specialmente se osserviamo come il gruppo della Vergine addolorata, che doveva in un primo tempo seguire il corteo degli uomini verso la tomba si sia trasformato nella scena dello svenimento, il cosiddetto SPASIMO. Anche la superficie pittorica riflette il risalto marmoreo del Tondo Doni di Michelangelo. L'opera è di straordinaria potenza con verdi luminosi, forza e armonia. Bellezza e forza emanano in particolare dalla figura del giovane e trovano rispondenza nella perfezione formale della figura femminile inginocchiata che sorregge la Vergine e del volto appassionato della Maddalena.

 

Fonte: http://www.studenti.it/download/scuole_medie/Raffaello.doc

 

Raffaello Sanzio

Riassunti delle Lezioni del Corso su Raffaello
Prof. V. Farinella, 2003-2004.
Redazione di L. Pisani.

 

Lezione n. 1
5-X-2003


Il mito di Raffaello nell’Ottocento

 

Il ‘mito’ si concentra su alcuni motivi ricorrenti che fanno di Raffaello un modello non soltanto come artista, ma anche come uomo, in relazione al prestigio ed alla posizione sociale che seppe raggiungere.
Nell’Ottocento, uno dei suoi grandi ammiratori è Jean Auguste Dominique Ingres che, in Raffaello e la Fornarina (New York, collezione privata, 1827, fig. 1), ci restituisce un’immagine ideale dell’artista. Il pittore è raffigurato di fronte ad una tela su cui si scorge un profilo appena abbozzato. Lo abbraccia una modella ancora semisvestita, che sembrerebbe di dover identificare con la celebre Fornarina, della quale Raffaello fu a lungo innamorato, ma il maestro, che non rivolge lo sguardo verso l’amata, ci appare totalmente assorbito dalla creazione artistica alla quale sta lavorando, ed è evidente che Ingres intende restituirci un confronto fra il mondo e la verità della natura e l’universo della creazione artistica. Sul fondo del dipinto attirano l’attenzione altri due dettagli: un’immagine della Madonna della seggiola e l’arrivo di Michelangelo, che è raffigurato mentre sta entrando nello studio del pittore con un fascio di disegni sotto il braccio. Il Buonarroti viene presentato come una sorta di contraltare a Raffaello, come un genio irsuto, melanconico, solitario e saturnino, di contro all’aspetto gentile e socievole dell’altro.
Nel corso del XIX secolo, anche fra gli autori meno noti,  si incontrano diverse opere intente a rendere omaggio a questa visione idealizzata di Raffaello. Il pittore François èduard Cibot, nel 1839, lo raffigura come un adolescente appoggiato ad un muretto che osserva l’opera di un pittore più anziano (fig. 2). Quest’immagine suggerisce dunque un rapporto diretto fra maestro ed allievo, piuttosto che la frequentazione di un’accademia, e sembra incoraggiare il riconoscimento del maestro con Pietro Perugino. In linea col dibattito ottocentesco, si coglie un’allusione al concetto dell’ispirazione artistica che scaturisce direttamente dalla natura: sulla scalinata vi è infatti anche una donna con un  bambino, probabili modelli per le creazioni dei due artisti.
Nel 1832 Horace Vernet incentra invece il suo dipinto (Parigi, Museo del Louvre, fig. 3) sul difficile dialogo fra Michelangelo e Raffaello. La scena è ambientata nel cortile del Vaticano e il volto di Raffaello è ricavato dall’autoritratto conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze (47 x 33 cm) e da quello inserito negli affreschi della Stanza della Segnatura. Michelangelo è raffigurato con un modellino scultoreo sottobraccio ed è da solo, Raffaello invece, genio socievole, è attorniato da altre persone; Michelangelo si ispira al modello scultoreo, Raffaello direttamente alla natura, come sembra suggerire l’inserimento della raffigurazione di una contadina. In questo contesto è presentato, un po’ a forza, anche Leonardo, mentre  oltre il muretto compare il pontefice Giulio II, che si incanta ad osservare Raffaello che disegna, e vicino al papa  Bramante con una pergamena ed un  progetto architettonico.
Il dipinto di Dionigi Faconti (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna, 1849, fig. 4), pur di qualità modesta, ci restituisce l’immagine dell’aneddoto spesso collegato alla genesi della Madonna della seggiola. Raffaello avrebbe avuto l’idea di dipingere il tondo con la celeberrima immagine, oggi a Pitti, durante una gita fuori porta. Incontrata una bellissima popolana avrebbe deciso di ritrarla e non avendo a disposizione né carta, né colori, avrebbe utilizzato un carboncino ed il fondo di una botte, da qui, sempre stando all’aneddoto, la scelta della sagoma circolare per il celebre capolavoro.
Nel dipinto di Felice Schiavoni (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo, 1834, fig. 5) si ripropone il tema dell’opera di Ingres, ma per terra, nello studio dell’artista è visibile un foglio con un progetto architettonico, occasione per ricordare il suo impegno in veste di architetto.
Il dipinto di Francesco Podesti (Lodi, collezione privata, 1837, fig. 6) invece presenta lo studio dell’artista, dove Raffaello mostra la Madonna di Foligno al suo committente; da un lato si sottolinea il contatto del pittore col mondo degli intellettuali, con gli umanisti in mezzo ai quali era perfettamente a suo agio, poiché lui stesso era autore di sonetti ed amico di Baldassarre Castiglione; dall’altro il rapporto privilegiato con l’antico (nello studio vi è un calco dell’Apollo del Belvedere).
Nel dipinto del francese Louis Nicolas Le Masle, che si conserva al Museo di Nantes (fig. 7), viene invece mostrato il rinvenimento di un capolavoro antico, cioè l’Apollo del Belvedere, che in realtà fu ritrovato a metà Quattrocento: è proprio Raffaello che lo illumina con la fiaccola e lo mostra a Giulio II. Nel 1813 Ingres raffigura invece un fatto storicamente provato, cioè il Cardinal Bibbiena che offre in sposa  a Raffaello la propria nipote, segno che l’artista era arrivato a livelli altissimi di considerazione e di prestigio (fig. 10). Nel 1866 Francesco Valaperta (Varese, Musei civici, fig. 8) ritrae la morte di Raffaello fra le braccia della Fornarina, di fronte alla Trasfigurazione, prendendo evidentemente spunto dal racconto vasariano. Francesco Diofebi (Copenaghen, Museo Thorvaldsen, 1836, fig. 9) invece ci rende l’immagine di un fatto storico: il ritrovamento delle spoglie del pittore, conservate nel Pantheon, avvenuto nel 1833. Si era infatti persa memoria della posizione precisa del sepolcro di Raffaello e, dopo alcune ricerche, ne fu ritrovato lo scheletro laddove oggi resta un’iscrizione latina.

 

Lezione n. 2
6-X-2003


Sfortuna di Raffaello nel Novecento

Nel 1983 il quinto centenario della nascita del pittore ha coinciso con una serie di celebrazioni.  È  certo che Raffaello registra una notevole sfortuna presso gli artisti contemporanei, poiché alla fine dell’Ottocento si verifica una sorta di identificazione fra Raffaello ed il classicismo. Picasso nel 1919, al termine di un lungo viaggio in Italia, che lo porta a Roma, Napoli e Pompei, dipinge l’Italiana che pur ispirata al canone della bellezza raffaellesca, è animata da un’ironia dissacrante, ed è quasi una ‘Fornarina’ rivista con gli occhi ironici e critici di un artista del Novecento (fig. 11).
Arturo Martini, il più grande scultore italiano del Novecento, ha come modelli i primitivi, l’arte etrusca ed africana. Dalle sue parole si evince la difficoltà di approccio a Raffaello ed il condizionamento dello stereotipo. Per lui, Raffaello è l’esempio di un classicismo perfetto, che non ha niente di latino, non ha radici, viene dall’alto, mentre “in Italia tutto viene dal basso”, perciò Martini conclude “non sappiamo come prenderlo”. Anche André Derain afferma infatti che “Raffaello è il grande incompreso”.
Alcune delle immagini raffaellesche, come gli angioletti della Madonna Sistina, ai nostri giorni sono molto ‘abusate’, riproposte come sono di continuo nelle occasioni più varie. Eppure non è assolutamente un artista monocorde, ma anzi, nell’arco dei vent’anni in cui lavora, cambia moltissimo e dallo Sposalizio della Vergine alla Trasfigurazione,dimostra una divorante curiosità intellettuale. I suoi contemporanei ce lo presentano in termini molto diversi rispetto a quelli di cui si è nutrito il clichet ottocentesco, facendoci capire che l’immagine di un Raffaello più tormentato non è una nostra invenzione. Marcantonio Raimondi incide un’immagine con il pittore nel suo studio, ma l’artista non sta dipingendo e non c’è la Fornarina, è anzi avvolto in una meditazione introversa, in una melanconia saturnina, tanto che l’incisione nell’Ottocento verrà intitolata Raffaello malato, poiché è  assolutamente poco in linea con il mito raffaellesco alimentato nello stesso secolo.
Fra le fonti coeve sull’artista si può annoverare anche una lettera del 4 novembre 1517 in cui l’ambasciatore del Duca di Ferrara, in costante rapporto con l’artista, si scusa perché il pittore non ha ancora iniziato a lavorare al dipinto richiestogli dal Duca, ma aggiunge che la sua arte migliora in continuazione, suggerendo quindi l’idea di un progressivo cambiamento ed arricchimento.
Appare molto interessante il rapporto con il padre, il pittore Giovanni Santi, che muore nel 1494, quando Raffaello ha soltanto 11 anni. Probabilmente, per il giovane egli ha maggior peso come stimolo intellettuale che non come modello artistico. Il Santi è infatti un artista-umanista, assai colto e con esperienze da letterato. Dal 1450 vive stabilmente ad Urbino e nel 1469 un documento lo ricorda in rapporto con Piero della Francesca; nel 1474 si ha notizia di uno spettacolo teatrale organizzato da Giovanni Santi in occasione dell’arrivo di Federico d’Aragona, figlio del re di Napoli. Il giovane è in viaggio verso il nord a causa del progetto, che poi non avrà esito, del matrimonio con la figlia del re di Borgogna, e per celebrarne il passaggio da Urbino Giovanni Santi scrive e cura l’allestimento di un testo dal titolo “Amore al tribunale della Pudicizia”. Suo collaboratore di bottega è il pittore Evangelista da Pian di Meleto del quale tuttavia non si conoscono opere certe. Nel 1481 il Santi riceve la commissione per decorare la Cappella Tiranni nella chiesa di San Giovanni a Cagli dove realizza un affresco connotato da una forte componente di illusionismo. Dipinge anche immagini di Muse destinate alla Cappella del Palazzo Ducale di Urbino, come la Musa Erato, protettrice della commedia e della danza, oggi conservata alla Galleria Corsini di Firenze. In questi anni il Santi scrive il poema epico-storico intitolato “Vita e gesta di Federico da Montefeltro” composto da circa 23000 versi in volgare. Vi è un passo celeberrimo in cui si ricorda il viaggio di Federico a Mantova e dal quale prende spunto per celebrare ben 38 artisti (27 pittori ed 11 scultori). L’artista principe è Mantegna, del quale si ricorda la passione per la prospettiva ed il confronto con l’antico, ma il Santi cita anche alcuni maestri fiamminghi, come Jan Van Eyck e Rogier Van der Weyden. Il poema fu scritto nel lustro fra 1482 e 1487, ma non fu mai consegnato al Duca di Urbino, né fu mai pubblicato; oggi il manoscritto si conserva alla Biblioteca Vaticana, ma si ignora come vi sia arrivato. Giovanni Santi nel 1487 fu per due mesi priore di Urbino e nel febbraio 1488, in occasione delle nozze fra Guidubaldo ed Elisabetta Gonzaga, scrisse la Contesa fra Giunone e Diana. Nell’aprile del 1493, Isabella d’Este lo ricorda ed elogia come ritrattista attivo a Mantova. Il clima mantovano purtroppo lo fa ammalare, i ritratti dei Gonzaga non vengono terminati e l’anno successivo il pittore muore, ma, sebbene non ci restino prove della sua attività di ritrattista, le parole della duchessa sono sufficienti a far capire che questo artista, ai suoi tempi, era molto apprezzato.

 

Lezione n. 3
13-X-2003


L’esordio di Raffaello

Raffaello dovette conoscere e tener conto del poema in terzine scritto dal padre. Giovanni Santi, conferma la sua passione per il mondo del teatro anche nell’orchestrazione dell’affresco della Cappella Tiranni della chiesa di Cagli, dove, nella finta cappella in prospettiva, la coscienza spaziale assume connotati scenografici. 
Alla scomparsa del padre, Raffaello viene nominato erede universale insieme allo zio Bartolomeo, ed in quell’occasione sono citati in veste di testimoni due artisti: lo scultore Ambrogio Barocci ed il pittore Evangelista da Pian di Meleto. Evangelista ci è noto attraverso molte attestazioni documentarie, sino al 1540, ma purtroppo non abbiamo neppure un’opera certa. Di Raffaello invece ci mancano notizie dal 1494 fino al 10 dicembre 1500, momento in cui sigla il primo contratto (all’età di diciassette anni, ma già nominato magister) per una pala destinata alla parrocchiale di Città di Castello insieme ad Evangelista da Pian di Meleto. In questo periodo Raffaello figura poi soltanto nelle carte concernenti  una lite giuridica con la  seconda moglie del Santi.
Se si dà credito alle parole di Giorgio Vasari, in entrambe le redazioni delle Vite, Raffaello sarebbe stato messo a bottega dal Perugino dallo stesso Giovanni Santi. Il passo vasariano è all’origine del tentativo, condotto da vari studiosi, di individuare la mano di Raffaello in alcune delle opere del Perugino risalenti agli anni novanta del XV secolo, che tuttavia non ha prodotto grandi risultati. La ricostruzione vasariana infatti potrebbe anche essere inventata per rendere più ricca di notizie la biografia dell’artista. L’ipotesi alternativa è che Raffaello avesse avuto una formazione più complessa e variegata.
Un altro testo figurativo spesso preso in considerazione per illustrare l’esordio artistico del giovane pittore è l’affresco staccato nella casa natale di Urbino, una Madonna col Bambino che tuttavia è più probabilmente opera di Giovanni Santi. Nel testo di Vasari si elogia la ‘grazia’ di Raffaello che è al tempo stesso la capacità di dipingere in modo armonico (senza stranezze ed invenzioni bizzarre) e la socievolezza ed affabilità di costumi. Nella Vita, dopo il preambolo in cui si descrive il carattere di Raffaello, che si intuisce buono, modesto, gradevole ed affabile, si afferma che il padre voleva crescerlo al meglio, ed invece di mandarlo a balia, decise di tenerlo con sè e quindi, successivamente,  di metterlo a bottega dal Perugino. E’ un racconto romanzesco in cui non corrispondono neppure le date, ad esempio quelle della morte della madre, Magia di Battista Ciarda. A proposito della Pala Oddi in San Francesco al Prato, Vasari sostiene che fra le opere di Raffaello e quelle di Pietro Perugino non si riusciva a distinguere; nel 1550 afferma che la Pala Oddi era di Perugino, ma con interventi di Raffaello, mentre nel 1568 si accorge d’essersi sbagliato e si corregge. Stando sempre al racconto vasariano, in seguito, Perugino si trasferisce a Firenze e Raffaello va a lavorare a Città di Castello dove, nella chiesa di San Domenico, dipinge un Crocifisso che, “se non vi fusse il suo nome scritto, nessuno la crederebbe opera di Raffaello, ma sì bene di Pietro” cioè, se non fosse firmato, si potrebbe dire di Perugino. Le opere giovanili di Raffaello dunque, secondo Vasari, erano così peruginesche da potersi addirittura scambiare per autografi di quel maestro. Per Vasari il primo periodo peruginesco di Raffaello si conclude con la Pala dello Sposalizio della Vergine conservata nella Pinacoteca Nazionale di Brera.
A parte la Vita vasariana, non ci sono altre fonti utili alla ricostruzione della formazione dell’artista: nella biografia di Paolo Giovio, scritta a Roma negli anni venti del ‘500, non se ne parla. L’Esposizione dell’Orlando Furioso del critico letterario Simone Fornari da Reggio comprende venti righe con una brevissima biografia di Raffaello, è pubblicata a Firenze fra 1549 e giugno 1550, contemporaneamente alla prima edizione delle Vite, ma i due testi sono troppo simili, al punto che quello di Simone costituisce soltanto una prova della fortuna della Vita vasariana. 
Lasciando le fonti e tornando dunque alle opere, la prima opera datata è la Pala realizzata all’età di diciassette anni insieme ad Evangelista da Pian di Meleto, per la quale è noto anche il pagamento conclusivo a Raffaello. Il contratto risale al 10 dicembre 1500 e Raffaello vi viene nominato prima ancora di Evangelista da Pian di Meleto; entrambi i pittori si impegnano con Andrea di Tommaso Baronci per realizzare una grande Pala da collocare nella chiesa di Sant’Agostino a Città di Castello. La Pala fu danneggiata nel 1789 da un disastroso terremoto ed i frammenti furono portati a Roma e poi dispersi. Oggi se ne conoscono soltanto 4: due conservati alla Pinacoteca Nazionale di Capodimonte (Napoli), altri due alla Pinacoteca Tosio Martinengo (Brescia) ed al Museo del Louvre (Parigi).  Ci restano anche i disegni preparatori, al Museo della cittadina francese di Lille, una copia settecentesca ed alcune descrizioni. Si ritiene, anche se non lo si può asserire con certezza, che fosse compresa una predella con Storie di San Nicola da Tolentino, canonizzato nel 1446.

 

Lezione n. 4
14-X-2003


La Pala di San Nicola da Tolentino ed altre opere giovanili

Sul verso di uno dei fogli conservati al Museo di Lille c’è la raffigurazione del volto di San Nicola. Della Pala si sono salvati i frammenti con Dio Padre e con la Vergine, alla Pinacoteca di  Capodimonte, che tuttavia risultano poco convincenti dal punto di vista dell’autografia raffaellesca. Alcuni particolari degli angeli, in cui sono state riconosciute le prove del giovanissimo Raffaello, sono oggi al Museo del Louvre ed alla Pinacoteca di Brescia. L’angelo in torsione permette di cogliere l’interesse del giovane artista per Perugino, ma anche per Luca Signorelli, che nel 1499 era stato chiamato a realizzare il ciclo con scene apocalittiche del Duomo di Orvieto e che aveva lavorato  anche a Città di Castello. Luigi Lanzi, lasciandoci una descrizione della pala, sostiene inoltre che l’architettura introdotta ad incorniciare il gruppo sacro era interamente ornata con grottesche, le decorazioni ispirate all’antico da poco rimesse in auge dal Pinturicchio. Se Raffaello avesse davvero trascorso sei anni nella bottega peruginesca, come afferma il Vasari, in opere giovanili come questa, dovrebbe mostrarsi più monoliticamente ossequioso nei confronti di quel maestro.
Un’altra opera riferita agli esordi di Raffaello, sebbene la sua datazione sia ancora oggetto di discussione fra gli studiosi, è lo stendardo della Trinità (sul recto la Trinità coi santi Rocco e Sebastiano; sul verso la Creazione di Eva; Città di Castello, Pinacoteca comunale, cm 167 x 94), difficile da giudicare a causa del rovinoso stato di conservazione in cui ci è giunto, in cui le lacune sono state rese ancor più evidenti dal restauro degli anni sessanta del Novecento. Poiché San Rocco era solitamente invocato contro la peste e considerato che nel 1499 a Città di Castello vi fu un’epidemia devastante, il gonfalone sarebbe la primissima opera di Raffaello, prima ancora della Pala di San Nicola da Tolentino. Nel gonfalone, i due angeli sono creature peruginesche, mentre le due figure in primo piano rivelano studi dal vero. Ci resta un disegno per il Dio Padre che si china su Adamo in cui  si coglie  l’ascendente del Signorelli.
Un altro dipinto giovanile che ha fatto molto discutere gli studiosi, è un’opera di piccolo formato (52 x 44 cm) evidentemente destinata alla devozione privata, con la raffigurazione della Resurrezione di Cristo. La sua storia collezionistica è poco chiara: alla fine dell’Ottocento era in una collezione privata inglese ed uno studioso inglese, ad un certo punto, si è accorto che per due delle figure di soldati vi erano disegni autografi di Raffaello. Oggi, il piccolo dipinto si conserva al Museo di San Paolo del Brasile, interamente costituitosi negli anni cinquanta del Novecento. Lo si potrebbe definire un dipinto ancor più pinturicchiesco che peruginesco, visti i confronti con le fantasiose invenzioni decorative del Pinturicchio (anche in dettagli come il sepolcro di Cristo coi marmi dalla vivace policromia). Un’opera come questa, che non trova molto credito fra i fautori della formazione esclusivamente peruginesca di Raffaello, dimostra invece la poliedricità della cultura del pittore. Alcune opere più tarde di Raffaello, come lo Sposalizio della Vergine di Brera, appaiono invece maggiormente peruginesche. Vasari racconta ancora che Raffaello sarebbe stato chiamato a Siena, dove il  Cardinal Piccolomini,  il 29 giugno 1502, aveva dato l’incarico a Bernardino di Betto, detto  Pinturicchio, di affrescare un ciclo di storie della vita del suo antenato Enea Silvio Piccolomini (Pio II). Secondo Vasari, Pinturicchio si sarebbe rivolto al giovane Raffaello per farsi aiutare nell’invenzione delle storie. Raffaello, venuto a sapere che in quegli anni a Firenze erano attivi Michelangelo e Leonardo, avrebbe poi lasciato Siena per trasferirvisi. Questo racconto non avrebbe forse avuto alcun seguito se non ci fossero pervenuti alcuni dei disegni preparatori di Raffaello, come un cartonetto quadrettato (per il trasferimento sulla parete) oggi al Gabinetto dei Disegni degli Uffizi, raffigurante la partenza di Enea Silvio Piccolomini per il Concilio di Basilea (70,5 x 41,5 cm). In un altro studio per il ciclo senese, con un cavaliere impennato, si coglie invece già il rapporto con la grafica leonardesca.

 

Lezione n. 5
15-X-2003.


Libretto veneziano
(figg. 12-22)
Il libretto fu acquistato nel 1810 dal pittore e collezionista milanese Giuseppe Bossi che, comprandolo da un collezionista privato, vi riconobbe la mano di Raffaello. Osservando le varie copie da Perugino, Pinturicchio e Mantegna, sembrava di poter ricostruire l’itinerario mentale del giovane Raffaello. A partire dalla fine dell’Ottocento tuttavia, alcuni studiosi hanno iniziato a dubitare dell’attribuzione, fino ad asserire che il libretto poteva addirittura essere una falsificazione. Così, per tutto il corso del Novecento, lo si è lasciato da parte negli studi su Raffaello. Sulla scorta dell’accurato esame di Sylvia Ferino Pagden, si può invece accettare l’idea che il libretto sia opera di un artista assai vicino a Raffaello, che ne copia schizzi e tracce giovanili, una sorta di libro di modelli, che, inteso come repertorio, aveva un’utilità evidente all’interno della bottega.
Si tratta di ben 53 pagine disegnate sul recto e sul verso. Il confronto con un disegno autografo dell’Ashmolean Museum di Oxford mostra come il Libro veneziano sia una silloge di copie, senza la libertà di tocco tipica di Raffaello. Vi si ritrovano vedute paesaggistiche piuttosto generiche, ed altre che invece sono riconoscibili come immagini di città umbre (per esempio Urbino con la facciata del Palazzo Ducale). Ci sono ben dieci pagine dedicate a copie molto precise (anche se la traduzione in disegno ne attenua lo stile fiammingo) del ciclo di Uomini illustri nello Studiolo di Federico da Montefeltro, che il giovane Raffaello doveva aver a lungo ammirato e studiato, e che era stato affidato dal Duca ai pittori Giusto di Gand e Pedro Berruguete.
Ci sono copie da dipinti perugineschi, ad esempio dal tondo col Profeta Geremia al Museo di Nantes (fig. 24), da alcune teste femminili dell’affresco con Mosè e la figlie di Jetro nella Cappella Sistina, dal San Sebastiano conservato a Stoccolma (fig. 25) e dall’Adorazione dei Magi in Santa Maria degli Angeli. Il  libretto conferma dunque il rapporto privilegiato col Perugino, ma al tempo stesso anche l’esistenza di molti altri modelli studiati ed ammirati dal giovane Raffaello. Vi si coglie infatti anche l’interesse per Pinturicchio e per il suo studio delle grottesche, così come per gli studi anatomici del Signorelli e per il nudo in movimento investigato dal Pollaiolo. Altri disegni rivelano anche un certo interesse, sebbene ancor piuttosto timido, per Leonardo come nel disegno di un vecchio che ricorda gli studi condotti da Leonardo al limite della caricatura.
Inoltre, già in questo Libro di disegni si rintracciano varie copie dall’antico – per esempio il satiro Marsia che con le sue forzature anatomiche ricorda il Marsia Rosso degli Uffizi –  mentre una figura in movimento fa pensare al celebre bronzetto noto come Uomo della paura. Vi è ancora la copia parziale del gruppo delle Tre Grazie (ne sono riprodotte soltanto due, fig. 22) portato da Roma a Siena da Francesco Piccolomini e collocato nella Libreria del Duomo senese (dove ancora si trova) fin dal 1502. In questo disegno, l’interesse per l’arte antica rivela un atteggiamento assai diverso rispetto alla copia dal Marsia, poiché sembra orientato principalmente ad insistere sugli aspetti di dolcezza e morbidezza. Nella riproduzione del gruppo scultoreo si evitano però integrazioni cosìcché da questo punto di vista risulta assai fedele. Nel Libretto veneziano infine, si incontra anche la copia di una stampa del Mantegna raffigurante il Trasporto di Cristo al sepolcro e l’omaggio al pittore ed incisore padovano può anche esser letto come una conferma del rapporto col padre Giovanni Santi che lo aveva celebrato  nella sua Cronaca rimata.

 

Lezione n. 6
20-X-2003


Alcune opere databili al 1503

La Crocifissione Mond detta anche Crocifissione Gavari  è del 1503, un anno importante nella carriera raffaellesca perché vi si possono riferire varie opere datate o databili con buona approssimazione. La Crocifissione è un dipinto di grandi dimensioni (280 x 165 cm) che dal 1924 si conserva alla National Gallery di Londra. Fu realizzato per la chiesa di San Domenico a Città di Castello. Era dotato anche di una predella di cui si conservano due scomparti e ne era committente Domenico di Tommaso dei Gavari. Come si è già detto, Vasari ne parla esplicitamente affermando che, se non fosse firmato, si potrebbe ascrivere a Perugino. Il dipinto è in effetti molto peruginesco e l’emulazione del Perugino si coglie nella costruzione caratterizzata dalla simmetria rigorosa nella collocazione dei personaggi. Cattura l’attenzione anche la straordinaria profondità del paesaggio, il corpo di Cristo presenta però un’accentuazione drammatica che contraddice almeno in parte la dolcezza peruginesca. Della predella si conservano due frammenti, a Lisbona (Museo Nacional de Arte Antiga) ed in un museo del Nord Carolina (Raleigh, North Carolina Art Museum). Uno di essi raffigura sant’Eusebio che fa risorgere tre giovani giustiziati servendosi della miracolosa tunica di san Girolamo: purtroppo non è mai stato restaurato e l’aspetto originario è gravato dall’ingiallimento delle vernici. Si fanno notare anche i fantasiosi copricapo dalle grandi volute, che non hanno un corrispettivo nella moda reale dell’epoca. E’ evidente il rapporto col Perugino, soprattutto col San Sebastiano di Bergamo, dal tipico volto ovale, dolcissimo, mansueto ed ineffabile. Non si ravvisa invece lo studio dal vero, da un nudo, da un esempio reale, come avviene invece in altri casi.
La cosiddetta Madonna Solly, conservata a Berlino e databile verso il 1502-3, è un dipinto molto peruginesco. Nella composizione sono introdotti anche alcuni particolari come un libro d’ore ed un cardellino, simbolo della futura Passione di Cristo. L’opera più importante, nel momento di assiduo confronto con Perugino, è la Pala d’altare con l’Incoronazione della Vergine (267 x 163 cm) che si conserva alla Pinacoteca Vaticana e che fu dipinta per la chiesa di San Francesco al Prato a Perugia. E' detta anche Pala Oddi dal nome della committente, Leandra Baglioni degli Oddi, e la sua datazione è piuttosto discussa. Nell’agosto 1503 gli Oddi furono espulsi dalla città per dissidi politici, ma è difficile prendere in considerazione questa data come un riferimento certo, perché furono cacciati soltanto gli uomini della famiglia. Un’ipotesi recente, formulata in seguito al restauro, sostiene la possibilità che la Pala sia stata eseguita in due momenti diversi. Il dipinto è realizzato su di un unico supporto, ma compositivamente si articola in due parti completamente staccate. La zona inferiore sembra più moderna, a partire dal sarcofago inserito di spigolo, e con un linguaggio più fiorentinizzante. Secondo quest’ipotesi dunque, la zona superiore con l’Incoronazione vera e propria sarebbe stata eseguita verso il 1502-3 e invece ai primi mesi del 1504, dopo un soggiorno fiorentino di Raffaello, risalirebbe quella inferiore, con gli apostoli intorno al sepolcro.
Si conservano anche alcuni studi preparatori per gli angeli ed uno di essi ricorda persino la posa della Musa Erato dipinta da Giovanni Santi, mentre il disegno per il volto di San Tommaso sembra uno studio dal vero. Anche questi disegni sembrerebbero appartenere a momenti e fasi stilistiche leggermente diverse. Nello scomparto della predella raffigurante l’Annunciazione si coglie la predisposizione per l’architettura che sarà confermata alcuni anni più tardi quando, alla morte di Bramante, nel 1514, Raffaello diverrà capo della Fabbrica di San Pietro. Nel secondo scomparto della predella, l’Adorazione dei Magi è una scena molto affollata, col corteo che scorre verso un lato della scena ed un edificio semidiruto. Anche in questo caso Raffaello conferma di partire da modelli perugineschi arricchendoli con l’aggiunta di molti particolari, anche di matrice architettonica. Un altro dipinto risalente agli anni umbri è la Madonna conservata al Museo di Pasadena (Norton Simon Museum of Art, 39 x 28 cm). Probabilmente a queste date Raffaello può vantare la conoscenza delle opere più importanti degli artisti fiamminghi come Jan Van Eyck o Memling, che potevano fornirgli degli spunti per il paesaggio sul fondo. Forse invece nella curiosa geometrizzazione del bambino, che col suo piccolo corpo sembra disegnare un semicerchio, si può cogliere una citazione dall’affresco raffigurante una Madonna col Bambino realizzato nella casa di Urbino da Giovanni Santi.

 

Lezione n. 7
21-X-2003

 

Lo Sposalizio della Vergine di Brera

 

Lo Sposalizio della Vergine è un dipinto imponente (174 x 120,6 cm), realizzato per l’altare dedicato a san Giuseppe (che infatti vi occupa una posizione di rilievo) nella chiesa di San Francesco a Città di Castello. Il dipinto è rimasto nella collocazione originaria fino al 1798 quando fu alienato e ne entrò in possesso un generale delle truppe napoleoniche, il bresciano Giuseppe Lechi. Nel 1806 fu acquistato dal viceré Eugenio di Beauharnais per la Pinacoteca di Brera. L’opera fu certamente eseguita da Raffaello nel 1504, come dichiarano la data iscritta nei pennacchi dell’arco frontale nel portico del tempio di Gerusalemme e la firma “Raphael urbinas” sul fregio del portico che circonda il tempio. Vasari si sofferma a commentare l’opera “In San Francesco ancora nella medesima città a fare in una tavoletta lo Sposalizio di nostra Donna, nel quale espressamente si conosce l’augumento della virtù di Raffaello venire con finezza assottigliando e passando la maniera di Pietro”. La cosa che lo colpisce è il tempio in prospettiva dove sembra che Raffaello avesse immaginato e costruito delle difficoltà allo scopo di cimentarsi nel superarle. Nella ricostruzione vasariana la decorazione della Libreria Piccolomini è posta erroneamente a cavallo fra l’attività umbra ed il soggiorno fiorentino. La ragione dell’abbandono dell’impegno senese secondo Vasari sarebbe stata che Raffaello seppe da alcuni artisti che a Firenze Leonardo esponeva il cartone per la Battaglia nel Salone del Palazzo vecchio e Michelangelo “alcuni nudi” in concorrenza con Leonardo”. Così Raffaello decise di spostarsi a Firenze e risiedere lì per alcuni anni. A Firenze si erano verificati alcuni eventi significativi e dal 1499 c’era una repubblica oligarchica con un gonfaloniere, Pier Soderini. Questi, con grande acume, decise di usare le energie degli artisti fiorentini per celebrare le glorie della rinata repubblica ed avviò la decorazione del Salone dei ‘500 coi due grandiosi affreschi di Leonardo e Michelangelo. Nel 1503 Leonardo si assunse il compito di rappresentare la Battaglia di Anghiari che celebrava la vittoria di Firenze su Milano e nel 1504 fu affidata a Michelangelo la realizzazione della Battaglia di Cascina, combattuta da Firenze contro Pisa. Da un lato, si può sottolineare l’intelligenza del committente che mise in competizione due grandi artisti come Michelangelo e Leonardo, dall’altro l’intraprendenza di Raffaello che andò a Firenze per trarre spunti ed ispirazioni da altri artisti, superando così definitivamente Perugino. Lo Sposalizio della Vergine raffigura il momento dello scambio degli anelli. Uno dei personaggi stà spezzando un bastone perché, stando ai testi sacri, Maria aveva molti pretendenti, ma soltanto quello il cui bastone sarebbe fiorito avrebbe potuto sposarla. La scena è ambientata all’aperto ed il grande effetto prospettico e spaziale si deve all’edificio a pianta centrale, circondato da un portico e collocato su un’alta piattaforma. Le figure in primo piano, che a prima vista sembrerebbero costituire un fregio, in realtà sono disposte in semicerchio, mentre quelle più indietro si dislocano su diagonali. L’edificio conferma la predisposizione del maestro per le realizzazioni architettoniche. Il bellissimo dettaglio della porta aperta che buca il tempio è un’idea che era già presente in Perugino. La presenza di data e firma in posizione di grande rilievo conferma che Raffaello aveva piena coscienza d’aver fatto un’opera in cui il superamento dei modelli del Perugino era arrivato ad un punto di non ritorno, coscienza di aver concluso un momento importante della sua maturazione, dimostrando dunque la sua spiccata intelligenza critica. Raffaello in questo caso tiene presenti due dei dipinti di Perugino: oltre allo Sposalizio della Vergine (Caen, Musée des Beaux-Arts), anche uno degli affreschi del ciclo della Sistina. Verso il 1480-81, il papa Sisto IV chiese ad una serie di artisti di decorare le pareti lunghe della Cappella con Storie di Cristo e di Mosé. La Consegna delle chiavi a San Pietro , parte di quel ciclo, si svolge in una grande piazza, ed il rapporto fra le figure in primo piano ed il tempio sullo sfondo dimostra come Raffaello abbia tenuto presente quest’opera. Un confronto ancor più diretto si instaura con lo Sposalizio della Vergine oggi al Museo di Caen in Francia. Il dipinto fu commissionato a Perugia nel 1499, nel 1502 non era ancora finito, ma Perugino lo aveva terminato per il 1504. Il gruppo di figure in primo piano ricorda la composizione di Raffaello e, sul fondo, l’edificio isolato con le figurette che si muovono ha la porta aperta che fa perdere lo sguardo verso l’infinito. Rispetto al dipinto di Raffaello si colgono però notevoli diversità nella disposizione più rigida delle figure (Giuseppe e Maria sono invertiti) e nei gruppi di personaggi che si distendono come un fregio senza perseguire l’animazione spaziale cercata da Raffaello. Il tempio è così grande che sembra gravare sulle figure ed uscire dalla cornice. Lo Sposalizio della Vergine di Raffaello è dunque più simile al Perugino dell’affresco della Cappella Sistina nella ricerca di un rapporto spaziale più corretto.

 

Lezione n. 8
22-X-2003
Ancora sulla Pala di San Nicola da Tolentino

Per la Pala realizzata per la chiesa di Sant’Agostino a Città di Castello abbiamo una copia parziale dipinta nel 1791 da Ermenegildo Costantini (conservata alla Pinacoteca di Città di Castello), un disegno preparatorio a Lille (Palais des Beaux Arts) ed alcuni frammenti alla Pinacoteca di Capodimonte, al Museo del Louvre ed alla Pinacoteca Tosio Martinengo. I due frammenti conservati a Napoli, con Dio Padre e la Vergine, sono piuttosto rovinati, probabilmente per effetto del terremoto e sono al centro di alcuni dubbi attributivi, a differenza dei frammenti coi due angioletti, sicuramente riferibili a Raffaello. Il contratto che sancisce la commissione della Pala ricorda i nomi di due artisti: Raffaello ed Evangelista da Pian di Meleto. È difficile fare una divisione troppo netta fra le parti dipinte dall’uno e dall’altro artista, soprattutto perché non abbiamo prove certe di Evangelista. Nella copia settecentesca il diavolo è dipinto al contrario e nel verso del foglio di Lille c’è un’immagine del volto di San Nicola da Tolentino ed un piccolo studio del Palazzo Ducale di Urbino.  Al Louvre si conserva un foglio di studi per le mani di San Nicola ed altri due disegni con lo studio per Sant’Agostino ed anche per Satana. 
Forse questa pala era dotata anche di una predella raffigurante Storie di san Nicola da Tolentino. Se ne conoscono due tavolette conservate a Detroit, di livello qualitativo piuttosto basso. Il miracolo narrato nella prima tavola riguarda il salvataggio di un fanciullo annegato. Nella seconda tavoletta invece, il Santo, al quale erano state portate da mangiare due pernici, le rifiuta, resuscitandole. Sebbene non lo si possa asserire con certezza, è però probabile che questi due frammenti di predella siano opere di Evangelista da Pian di Meleto.
Recentemente, Antonino Caleca ha individuato una terza tavoletta, parte delle collezioni di Palazzo Reale a Pisa, e raffigurante un miracolo in cui il santo interviene a salvare due uomini ingiustamente condannati all’impiccagione.
Appartengono a questo periodo una serie di dipinti di Raffaello in cui il pittore si orienta verso direzioni diverse. Ci sono due tavolette con San Michele ed il drago e San Giorgio ed il drago (Parigi, Louvre) legate alle onoreficienze dei Montefeltro. Rispetto ai dipinti improntati allo stile del Perugino, vi si avvertono interessi diversi che preannunciano la straordinaria apertura mentale di Raffaello. Il san Michele è infatti una figura in forte tensione dinamica, avvitata nello spazio e con mostri e città infernali raffigurate sullo sfondo. Raffaello a questo punto sembra essere al corrente anche delle ricerche di alcuni aristi nordici, come Hieronimus Bosch. Di quest’ultimo erano giunte a Venezia alcune opere che ancora vi si conservano. Un disegno col ritratto del Doge Loredan realizzato da Raffaello verso il 1503 conferma che il pittore fece un veloce soggiorno a Venezia e poté quindi vedere le opere di Bosch.
Nel San Giorgio ed il drago, si coglie il bellissimo dettaglio della principessa in fuga e l’interesse per gli studi di Leonardo, evidente anche in un disegno per gli affreschi della Libreria Piccolomini  raffigurante un cavallo impennato. Nel 1504 circa, Raffaello dipinge un ritratto conservato agli Uffizi e forse raffigurante Francesco Maria della Rovere: il personaggio del ritratto tiene nella mano un frutto simbolico, forse un arancio, o più probabilmente una mela d’oro. Alla National Gallery di Washington si conserva un’altra tavoletta raffigurante un San Giorgio col simbolo della giarrettiera: un’opera ancor più sensibile alla pittura fiamminga, mentre la figura il cavallo, assai plastico, dipende da un famoso gruppo scultoreo classico, I Dioscuri del Quirinale.
La Madonna del Connestabile (Museo dell’Ermitage) ripropone il modulo peruginesco arricchito da un bellissimo paesaggio popolato da montagne innevate ed una veduta lacustre molto lirica.
Una delle opere che segna il passaggio fra la fase umbra e quella fiorentina è il cosiddetto Sogno del Cavaliere, di piccolissime dimensioni (17,1 x 17,1 cm), che forse aveva come pendant un altro dipinto di piccole dimensioni e di significato analogamente enigmatico, le Tre Grazie conservate al Museo Condé di Chantilly. Si sa infatti che alla metà del Seicento i due dipinti erano insieme nella collezione Borghese di Roma, ma resta difficile precisare se in origine costituivano un dittico, oppure se erano l’uno la ‘coperta’ dell’altro. Si tratta di due opere assai problematiche dal punto di vista iconografico. Il Sogno del Cavaliere presenta due figure e due tipi contrapposti di paesaggio (paesaggio moralizzato), a destra e sinistra del personaggio principale. L’intera raffigurazione deriva da una xilografia di un anonimo artista tedesco presente in un’edizione latina (Jacob Locher, Stultifera Navis, Norimberga 1497) della  ‘Nave dei Folli’ di Sebastien Brandt, che illustra il tema di Ercole al bivio. Secondo il racconto di Prodico, Sofista greco del V secolo, riportato da Senofonte, l’eroe mitologico si sarebbe infatti addormentato e gli sarebbero apparse in sogno le figure del Vizio e della Virtù e la scelta fra due strade contrapposte.

 

Lezione n. 9
27-X-2003

 

Il Sogno del cavaliere e le Tre Grazie

 

Il rapporto fra la xilografia pubblicata in Germania nel 1497 e l’iconografia del dipinto di Raffaello è assai probabile, ma nel dipinto non c’è una contrapposizione netta fra Vizio e Virtù. Erwin Panowsky, in uno studio del 1930, dal titolo “Ercole al bivio ed altri motivi antichi nell’arte del Rinascimento”, analizza dettagliatamente Il Sogno del cavaliere e ne identifica la fonte ne I Punica, un poema del poeta latino Silio Italico, che godeva di una grande fama nel Cinquecento, dove si parla dell’apparizione in sogno a Scipione di due figure femminili. L’ipotesi panowskiana prevede anche la relazione con il dipinto di Chantilly noto come raffigurazione delle Tre Grazie, a sua volta derivato dal gruppo scultoreo antico che nel 1502 viene portato da Roma a Siena e collocato nella Libreria Piccolomini. E’ soltanto un’ipotesi che il committente dei due dipinti fosse lo stesso, forse Scipione di Tommaso Borghese, nato a Siena nel 1493. Per il Sogno del Cavaliere ci è giunto anche un cartonetto preparatorio in cui la figura di destra appare assai più spogliata che nel dipinto, con una camicia trasparente che ne evidenzia il seno. Nella redazione finale dunque Raffaello ha attenuato l’aspetto ‘peccaminoso/gaudente’.
Nel dipinto di Chantilly si coglie uno spiccato interesse per Leonardo, e per quanto riguarda l’iconografia, le tre sfere dorate vengono offerte come se fossero doni. Nel racconto mitologico che ha per protagonista Ercole è facile individuare un nesso con questo dettaglio: nel giardino delle Esperidi, teatro di una delle fatiche dell’eroe, si trovavano questi pomi dorati, simbolo dell’immortalità. Nel dipinto di Chantilly probabilmente si volevano raffigurare proprio le Esperidi, prendendo spunto, per ricostruirne l’immagine, dalle grazie del gruppo statuario con le Tre Grazie alla Libreria Piccolomini. E ci si può anche ricordare del soggetto raffigurato nel dipinto degli Uffizi (forse Francesco Maria della Rovere) che tiene in mano proprio un pomo dorato, anche in quel caso, forse simbolo dell’immortalità.
Probabilmente quindi, il dipinto della National Gallery presenta una raffigurazione di Ercole, ritratto in veste di soldato per influsso dell’incisione nordica: insieme al dipinto di Chantilly sembra databile al 1504, momento in cui si conclude il periodo umbro e Raffaello si trasferisce a Firenze, compiendo un viaggio di studio che lo porterà a fare i conti con Michelangelo e Leonardo allora attivi nella città gigliata.
Le opere più importanti di questo periodo sono comunque realizzate per committenti e destinazioni umbre, come nel caso della cosiddetta Pala Ansidei, alla National Gallery di Londra, e dell’affresco con Trinità e Santi nella chiesa di San Severo a Perugia (445 x 389 cm).
La Pala Ansidei (209,6 x 148,6 cm) così chiamata dal nome del committente, Bernardino Ansidei, comprendeva anche una predella ed era stata dipinta per la Cappella di San Nicola nella chiesa di San Fiorenzo a Perugia. E’ un dipinto generalmente datato al 1505, datazione basata su un’iscrizione di difficile interpretazione presente sull’orlo del manto della Vergine, ed è ancora molto peruginesco, tanto che si è ipotizzato che fosse stato iniziato prima del trasferimento a Firenze e concluso negli anni successivi durante uno dei periodici ritorni in Umbria. Il tipo di trono deriva da quello già presentato dal Perugino in un suo famoso dipinto, l’architettura costituisce quasi uno sfondo geometrico, mentre si assiste ad un’accentuazione dell’espressività dei due santi ai lati. Un frammento della predella si conserva alla National Gallery di Londra e raffigura una Storia di San Giovanni Battista
A Firenze Raffaello incontra, traendone una lezione importante, la pittura di Fra’ Bartolomeo, come si capisce osservando l’affresco realizzato per la chiesa di San Severo a Perugia e raffigurante la Trinità e Santi che per l’idea compositiva riprende il Giudizio Finale affrescato da Fra’ Bartolomeo nella chiesa di Santa Maria Nuova a Firenze, entro il 1501, ed oggi al Museo di San Marco. Raffaello non terminò quest’affresco, ed a completarlo, quindici anni più tardi, fu chiamato Pietro Perugino che, nel 1521, dipinse le sei figure in primo piano.
Un disegno del 1505-1506, molto prossimo al ritratto noto come Dama col Liocorno, mostra come Raffaello si sia ispirato alla Gioconda, che come questo disegno in origine aveva anche due colonne, sulla destra e sulla sinistra. Evidentemente aveva avuto modo di conoscere Leonardo e di studiare questo capolavoro cominciato dal maestro verso il 1501-2 e mai portato a termine. E’ facile credere che Raffaello fosse attratto da questo capolavoro che rivoluzionò la storia del ritratto studiando i moti dell’animo del personaggio effigiato.


Lezione n. 10
28-X-2003
Ritratti dei coniugi Doni ed alcuni dipinti del periodo fiorentino

Negli anni ottanta e novanta del XV secolo, una serie di opere dipinte da Leonardo rivoluzionano, accentuandone gli aspetti psicologici, la storia del ritratto. Isabella d’Este, che pure commissiona un ritratto a Leonardo, glielo chiede in profilo, proprio per evitare questo tipo di indagini così approfonditamente psicologiche; tanto che Leonardo ne realizzò soltanto il cartone e non dipinse mai il ritratto. Raffaello realizzò a Firenze il ritratto di Agnolo e della sua consorte Maddalena Strozzi. Rimasti a lungo presso la famiglia, i ritratti passarono in Francia e da qui, nel 1826, per volontà del Granduca Leopoldo di Lorena II, furono riportati a Firenze ed esposti a Palazzo Pitti. Agnolo Doni, facoltoso mercante di drappi ed appassionato d’arte, che aveva nella propria abitazione anche il celeberrimo tondo michelangiolesco, aveva sposato Maddalena Strozzi quand’era una ragazza di quindici anni. Maddalena, al momento del ritratto, sicuramente dipinto negli anni del soggiorno fiorentino di Raffaello, aveva circa 16-17 anni, ma nonostante ciò ha un’aria molto matronale. Sul retro ci sono raffigurazioni che si devono ad un altro pittore, solitamente riconosciuto nel Maestro di Serumido (nel quale talvolta si individua Roberto di Filippino Lippi). Vi sono dipinte in monocromo due scene della Storia di Deucalione e Pirra, i due sposi che si erano salvati dal diluvio scatenato da Zeus, salendo sul Parnaso. L’oracolo aveva detto loro che per ricostruire l’umanità dovevano prendere le ossa della terra e gettarsele dietro la schiena: dapprima i due non avevano compreso il senso di quelle parole, ma poi avevano preso delle pietre e se le erano buttate dietro le spalle. L’intero mito allude alla fecondità e poteva risultare particolarmente significativo per i Doni perché dalle loro nozze erano passati due o tre anni senza la nascita di figli. Il ritratto di Agnolo è molto intenso, comunica una sensazione di grande monumentalità, ma senza alcuna ostentazione di ricchezza o sfarzo, come sarebbe stato attraverso l’introduzione di bronzetti o gemme. Il ritratto della moglie è completamente diverso, improntato alla ricchezza ed al fasto, sottolineato attraverso la presenza di vistosi gioielli. Nel ciondolo indossato dalla Doni sono incastonate tre pietre di diverso colore: rosso, verde e blu, allusive ai valori matrimoniali e la loro montatura assume la forma di un piccolo liocorno. Le mani della donna sono presentate nella stessa posa di quelle della Gioconda, ma la Doni ostenta anche una grande sicurezza caratteriale e costituisce una sorta di anti-Gioconda.
Un disegno databile intorno al 1505 presenta sulla destra un profilo di vecchio in cui Raffaello si rivela molto attento alla grafica leonardesca. Ci restano vari schizzi dalla Battaglia di Anghiari con zuffe di uomini e cavalli. Nonostante fosse anche ingegnere militare, Leonardo definisce la guerra come una “pazzia bestialissima” qualcosa di assolutamente inumano e avrebbe voluto conferire alla scena della Battaglia di Anghiari anche un particolare spicco cromatico che la tecnica ad affresco non gli poteva permettere. Con questo intento fece un tentativo per asciugarlo rapidamente, forse accendendovi dei bracieri e riuscendo invece a danneggiarlo irreparabilmente. Tale fu poi lo smacco per il fallimento tecnico che decise di abbandonare del tutto il progetto. Alle Gallerie dell’Accademia di Venezia si conserva un disegno a penna e inchiostro ispirato alla Battaglia, con due figure di fanti appiedati che combattono con un cavaliere. Oltre alla Battaglia di Anghiari, in quegli anni Leonardo elabora anche per la Sacra famiglia con la Sant’Anna, in cui offriva una sintesi delle ricerche condotte durante gli anni milanesi. Vasari racconta che per tre giorni i fiorentini andarono a vederlo, esposto alla Santissima Annunziata, come in processione. Nel cartone descritto da Vasari non c’era un San Giovannino, ma un agnellino, evidentemente quello che vide lui era molto simile al cartone  conservato alla National Gallery di Londra, ma non era esattamente quello (fig. 27). La forma geometrica non è imposta dall’esterno, ma nasce dalla struttura stessa dell’opera, dall’interno dei personaggi, fino a costituire una piramide quasi perfetta. Raffaello dimostra di aver guardato al cartone della Sant’Anna in una serie di Madonne dipinte durante gli anni fiorentini, come la Madonna del Prato, oggi a Vienna o la Madonna del cardellino agli Uffizi. Quest’ultima fu molto danneggiata in antico e subì notevoli ridipinture nel corso del Cinquecento. Entrambi i dipinti restituiscono un’immagine di Raffaello in linea col comportamento celebrato da Baldassar Castiglione nel Cortegiano in cui si raccomanda che tutto ciò che si fa dovrebbe sembrare naturale, facile e sprezzante della difficoltà. Rientra in questa fase dell’attività del pittore anche la Belle Jardinière conservata al Museo del Louvre. Nel dipinto, al quale questo titolo fu dato nel Settecento, vengono leggermente variate le posizioni dei due bambini e la scena è ambientata in un giardino naturale. Del 1507 (la data è scritta sullo scollo della veste della Vergine) è la Sacra Famiglia Canigiani conservata alla Alte Pinakothek di Monaco; ne fu committente Domenico Canigiani e Raffaello in questo dipinto sembra riflettere anche sulla Madonna di Bruges di Michelangelo.

 

Lezione n. 11
29-X-2003
Alcune opere rivelatrici di un primo confronto con Michelangelo

Il dipinto di Raffaello noto come Dama con l’Unicorno (Roma, Galleria Borghese, 65 x 51 cm) era stato trasformato in una Santa Caterina d’Alessandria con l’aggiunta cinquecentesca di una ruota ed un velo e come una santa Caterina del Perugino era menzionato nell’inventario Borghese del 1760.
Il liocorno o unicorno era un animale fantastico, simbolo della castità come si leggeva nei bestiari medievali, e la sua invenzione traeva spunto dal rinoceronte; in alcune chiese si affermava di conservarne il corno come una reliquia, e si trattava invece del corno del narvalo, il cetaceo dei mari del nord simile al delfino e con un solo lunghissimo dente. Un testo michelangiolesco che sicuramente attira l’attenzione di Raffaello è il Tondo Doni (fig. 28) in cui Michelangelo introduce sia novità iconografiche che stilistiche. Nel tondo è presente anche un muretto grigio che sembra staccare idealmente l’era prima di Cristo da quella cristiana: in mezzo c’è una specie di fanciullo satiresco interpretabile come un San Giovannino, vissuto al punto di tangenza fra l’uno e l’altro periodo.
Esempio del confronto in atto con Michelangelo è la Madonna Bridgewater (Edimburgo, National Gallery of Scotland, 81 x 56 cm) dipinta nel 1507 circa, che rivela una straordinaria diversità rispetto ad esempio alla Madonna del Granduca (Firenze, Galleria Palatina, 84 x 55 cm). La Vergine è raffigurata seduta, ma in una posizione scalpitante, con una torsione che si direbbe appunto michelangiolesca. L’esasperazione anatomica e la ricerca di pose particolarmente articolate sono aspetti che sembrano interessare Raffaello proprio in questo momento e che forse gli vengono dal confronto con Michelangelo. L’urbinate sembra essersi interessato in modo particolare al Tondo Taddei (fig. 29), oggi conservato alla Royal Academy di Londra; del resto il Taddei, come il Doni, aveva svolto il ruolo di  committente per entrambi gli artisti. Michelangelo a partire dal 1504 a Firenze era stato impegnato nell'elaborazione della Battaglia di Cascina commissionategli dal gonfaloniere Pier Soderini. Se Leonardo, pure coinvolto dal Soderini, aveva scelto di raffigurare la guerra come una ‘pazzia bestialissima’, Michelangelo inventa una raffigurazione ancor più originale, lontana da qualsiasi forma di celebrazione. Si sofferma sull'antefatto della battaglia, ossia il bagno delle truppe fiorentine nell'Arno nei pressi di Cascina e raffigura l'uscita dei soldati dall'acqua, all'improvviso, costretti a rivestirsi frettolosamente dall’arrivo dei nemici. Analizza le figure dei soldati una ad una, facendo di ognuna di esse un'occasione di studio del nudo. L'invenzione michelangiolesca stupì i pittori fiorentini del tempo, che pure conoscevano gli studi di Pollaiolo,  e la Battaglia fu oggetto di molte copie e studi da parte di altri artisti. Un disegno michelangiolesco conservato a Firenze, al Museo di Casa Buonarroti, presenta una figura che crea una spirale nello spazio col suo movimento serpentinato, rivelando un'anatomia eroica e grandiosa ed esasperando la forza muscolare del nudo. Anche nella Sacra Famiglia Canigiani (Monaco, Alte Pinachotek) col San Giuseppe che domina il gruppo, Raffaello mostra di aver meditato sul Tondo Doni.
La Pala Baglioni che raffigura un trasporto al sepolcro del corpo di Cristo fu commissionata da Atalanta Baglioni per la Cappella del Salvatore nella chiesa di San Francesco al Prato a Perugia. E' firmata e datata nella roccia in primo piano "Raphael Urbinas 1507" quasi con la stessa evidenza riscontrata per la Pala con lo Sposalizio della Vergine di Brera. Un'ipotesi fortunata, ma un po’ fantasiosa, vorrebbe che Atalanta Baglioni lo avesse commissionato per commemorare il proprio figlio Grifonetto. Questi nell'anno 1500 aveva ordito una congiura ai danni del signore di Perugia che era stato ucciso; a sua volta era stato poi assassinato dai parenti del morto in segno di vendetta. All'inizio del Seicento, il cardinal Scipione Borghese, appassionato collezionista, aveva fatto smontare e trafugare nottetempo il dipinto. Così la Pala col Trasporto di Cristo (Roma, Galleria Borghese, 184 x 176 cm) aveva avuto una sorte assai diversa dalla sua predella (ai Musei Vaticani) e dalla cimasa con Dio Padre che sembra assistere alla morte del figlio dall'alto delle nubi ed è probabilmente opera di un aiuto (alla Pinacoteca Nazionale dell'Umbria).
Nelle definizione di quest’opera Raffaello è passato attraverso vari stadi di elaborazione: un disegno conservato all’Ashmolean Museum di Oxford ci mostra una composizione più statica e convenzionale. Il punto di partenza, dominato da una drammatica, ma assai composta, contemplazione, è ancora una volta un dipinto di Perugino con lo stesso soggetto. Disponiamo di una ventina di disegni che permettono di seguire la genesi di quest'opera di Raffaello attraverso varie tappe: il gruppo delle pie donne e della Madonna viene completamente rielaborato. La figura sulla destra ci mostra appunto il dialogo col Michelangelo del Tondo Doni. Anche altri particolari sono ripresi da Michelangelo, per esempio il corpo di Cristo in abbandono, come fosse immerso in un sonno pacificatore. Il giovane in primo piano, tutto teso nello sforzo di sostenere il lenzuolo mostra anche la meditazione sul David. La predella è assai insolita perché non presenta scene narrative, bensì tondi con raffigurazioni allegoriche, cioè le tre virtù teologali, Speranza, Fede e Carità dipinte in monocromo, come se fossero finte statue, ma al tempo stesso straordinariamente morbide. Nel 1508 è stata dipinta la Madonna Cowper conservata alla National Gallery di Washington, una delle ultime opere prima del trasferimento romano, dominata da una raffigurazione di assoluta intimità familiare.

 

Lezione n. 12
5-XI-2003
Introduzione al metodo del conoscitore

Pensando di avvicinarci per la prima volta alla connoisseurship, uno dei metodi cui ricorre la ricerca storico-artistica, ci si può chiedere chi sia il ‘conoscitore d’arte’ e che cosa si intenda con la parola ‘attribuzione’.
Una valida definizione di attribuzione è offerta da una voce scritta nel 1971 da Giovanni Previtali, per l’Enciclopedia Feltrinelli Fischer (Previtali, Attribuzione, in Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Arte, vol. II, pp. 56-60), sulla cui traccia, commentata ed integrata con riferimenti a testi di conoscitori e con esempi pratici, si è cercato di ripercorrere, in un’introduzione per sommi tratti, l’origine della metodologia, il suo evolversi ed alcuni dei suoi nodi salienti.
L’attribuzione dunque “è l’atto critico mediante il quale un prodotto artistico viene riconosciuto come appartenente ad un medesimo gruppo di alti prodotti analoghi, supposti opera di uno stesso autore (...) L’attribuzione giunge quindi anch’essa come atto conclusivo dell’analisi stilistica, cioè di quello che è lo strumento analitico specifico della storia dell’arte e ciò che la distingue dalle altre discipline storiche (...) Ma lo storico dell’arte è tale in quanto da un lato si avvale di quei particolari documenti storici che sono le opere d’arte e d’altro lato anche le altre conoscenze storiche è in grado di finalizzare alla ricostruzione della specifica storia delle arti figurative. Il principio su cui si basa l’attribuzione è molto semplice: e cioè da un lato sulla capacità della mente umana di riconoscere ciò che già conosce, dall’altro sull’altra caratteristica dell’uomo di lasciar sempre un’impronta personale su ciò che fa, sia che lo voglia, sia che (come nella storia avviene assai spesso) cerchi di ottenere proprio l’opposto (copie e riproduzioni, falsi) (...) Una somiglianza, o una serie di somiglianze, tra le opere “A” e “B” può avere infatti, storicamente parlando, più significati: derivazione da uno stesso modello “C”; derivazione di “A” da “B”; derivazione di “B” da “A”; analogia di risultati tra “A” e “B” perché ambedue basate su di una stessa condizione ambientale “X”, o perché ambedue rispondenti alla medesima richiesta di un committente “Y”. (...) Quanto detto basta cioè a render chiaro che l’atto dell’attribuzione, apparentemente così semplice e, a volte, rapido, giunge in realtà, come abbiamo detto, alla fine di un processo di analisi dell’opera d’arte (e dei suoi rapporti reali con la società: altri artisti, convenzioni sociali, morali, di culto o semplicemente di etichetta; committenti a loro volta impregnati di idee politiche, religiose etc.) processo di analisi estremamente complesso ed i cui modi e risultati si sono trasmessi ed arricchiti di generazione in generazione, di storico in storico”
Si è fatto quindi un accenno al pittore Johnatan Richardson il Vecchio, autore nel 1719 di un trattatello (rivolto ai collezionisti) dal significativo titolo di The Connossisseur: an essay on the whole art of Criticism as it relates to Painting showing how to judge I. Of the Goodness of a Picture; II of the Hand of the Master; and III Whether it is an Original or a Copy; a Luigi Lanzi, che alla fine del Settecento propone una prima utilizzazione sistematica del metodo del conoscitore per la ricostruzione della “Storia pittorica dell’Italia”; alle teorizzazioni, in clima di scientismo positivistico, di Giovanni Morelli ed alla differente e più fruttuosa impostazione di Giovanbattista Cavalcaselle; quindi si sono commentati celebri passi di Bernard Berenson (da B. Berenson, Frammento sul metodo dell’attribuzione del 1902 e Idem, Nove pitture in cerca di un’attribuzione, in “Dedalo”, 1925, pp. 754-775); di Roberto Longhi (da R. Longhi, Proposte per una Critica d’Arte, in “Paragone”, I,1950, pp. 5-19) che fra acume visivo e prosa letteraria, scrive una serie di saggi collettivi, nati dal continuo mettere in relazione un’opera con il contesto, con altre opere, così come un artista con altri artisti.
Fra le molte sfaccettature di questa metodologia si è richiamata l’attenzione su Giotto (Croce del Tempio malatestiano di Rimini, tavolette con San Giovanni Battista e San Francesco in collezione privata), sul senso della qualità; sull’importanza dell’osservazione degli aspetti tecnico/materici di un’opera d’arte; sul ruolo di un linguaggio tecnico preciso ai fini della comunicazione verbale dei risultati dell’analisi formale; sul significato ed il valore di ampliamenti e restrizioni di cataloghi, sulla differenza fra derivazioni icografiche e tangenze stlistiche (figg. 48-49). Alla fine della lezione si è fatto un accenno alla problematica delle falsificazioni: nella Siena di fine Ottocento e dei primi trent’anni del Novecento, si incontrano personaggi come Umberto Giunti ed Icilio Federico Joni, coinvolti nella realizzazione e commercializzazione dei falsi. Si realizzano dipinti destinati ad essere considerati autentici Duccio, Simone Martini e Matteo di Giovanni spesso basati sul modello di dipinti d’epoca con inserti d’invenzione, o come in Joni con cambiamenti riassorbiti conformandosi agli equilibri interni dei dipinti autentici, e quindi sottoposti a processi di invecchiamento artificiale. A titolo di esempio, si è mostrata un’Annunciazione ‘tratta’ da modelli angelichiani molto famosi, per illustrare, mettendola a confronto coi suoi prototipi, alcuni dei meccanismi che portano alla genesi di una falsificazione, e di conseguenza per acquisire familiarità con alcune delle considerazioni a disposizione del conoscitore che si imbatta in un dipinto sospetto di esser un falso.

 

Lezione n. 13
10-XI-2003
Il percorso di Matteo Civitali

La scelta di dedicare una lezione a Matteo Civitali è motivata da due diverse ragioni: da un lato la necessità di offrire un esempio geograficamente vicino, passibile di verifiche dirette, in linea con la metodologia che si intende illustrare, dall’altro perché Civitali, offre un esempio di applicazione della connosseurship alla scultura, che come si diceva nella lezione precedente, è rimasta più a lungo ai margini degli studi.
Vantaggio di Matteo Civitali (1436-1501) su altri scultori del nostro passato è, agli occhi dei posteri, quello di aver concentrato la propria attività in un ambito circoscritto: la città di Lucca e la sua Cattedrale. Una visita a San Martino permette infatti di apprezzare le opere di maggior impegno del maestro e, le uniche imprese rilevanti a restare fuori da questo sito privilegiato sono sculture realizzate ormai agli esordi del Cinquecento, al termine della carriera di Matteo, come la serie di statue per la Cappella di San Giovanni Battista del Duomo di Genova ed il Tabernacolo eucaristico della Pieve di Lammari.  Il percorso dello scultore, viene seguito, a partire dall’esordio maturo del sepolcro a Pietro di Noceto nel Duomo lucchese (1472), attraverso opere a lui sicuramente riferibili per via epigrafica o documentaria (oltre alla tomba di Pietro da Noceto, l’Altare del Sacramento nel Duomo di Lucca del 1476; la Cappella del Volto Santo ed il san Sebastiano sul suo retro del 1484 (fig. 44); l’Altare di San Regolo del 1484; il Tabernacolo eucaristico di Lammari fra 1497 e 1501, fig. 47; le statue genovesi del 1500ca.) cercando di notarne le caratteristiche stilistiche (influssi della scultura fiorentina di Antonio Rossellino, Desiderio da Settignano e Mino da Fiesole), culturali (interesse per l’antico) ed anche morelliane (volti in cui spiccano sopracciglia arcuate, nasi allungati e labbra sottili, mani robuste e un po’ tozze) e ripercorrendo le motivazioni ed i confronti che hanno prodotto attribuzioni oggi tradizionali (come per la giovanile Madonna dei Mercanti; o l’Ecce Homo in marmo del Museo Nazionale di Villa Guinigi, fig. 46), pressoché concordemente accettate dalla critica (come l’Angelo nell’Annunciazione proveniente da San Ponziano) o confermate dai documenti (come il Cristo ligneo del 1487 giunto al Museo Nazionale di Villa Guinigi dall’oratorio lucchese di San Lorenzo dei Servi). Si sono poi presentati anche alcuni dei più recenti risultati degli studi, come l’attribuzione dell’Ecce Homo in terracotta in deposito al Museo Nazionale di Villa Guinigi (con accenni alla diffusione in lucchesia di questo tipo di immagine) ed il poco noto san Leonardo della chiesa di San Jacopo a Lammari. Infine si sono prese in esame tre sculture, raffiguranti la Madonna, un Cristo ed una santa più giovane, in passato riferite alla produzione giovanile di Matteo Civitali, ma oggi ricondotte all’attività fiorentina di Agostino di Duccio per confronto con la Madonna del Bargello, la Madonna d’Auvillers del Louvre e con la Madonna Rotschild di Parigi.

Indicazioni bibliografiche per ritrovare le immagini delle opere prese in esame (L. Pisani)
F. Zeri, Due appunti su Giotto, in "Paragone", VIII, 1957, 85, pp.9-16
L. Bellosi, Due tavolette di Giotto, in Scritti per l'Istituto Germanico di Storia dell'Arte di Firenze, a cura di C. Acidini Luchinat, Firenze 1997, pp. 35-42  
G.Mazzoni, Quadri antichi del Novecento, Vicenza 2001
L. Pisani, In margine a Matteo Civitali: indagini sulla scultura a Lucca nella seconda metà del XV secolo, in Lucca città d'arte e i suoi archivi, a cura di M. Seidel e R. Silva, Venezia 2001, pp. 211-232.
L. Bellosi, Tre sculture di Agostino di Duccio, in Opere e Giorni, a cura di K. Bergoldt, Venezia 2001, pp. 321-330.
M. Harms, Matteo Civitali: Bildahauer der Fruehreinassance in Lucca, Muenster 1995.

 

Lezione n. 14
11-XI-2003


La Madonna del Baldacchino e l'arrivo di Raffaello a Roma

Nell'autunno del 1508 Raffaello decide di spostarsi a Roma, trasferendovisi definitivamente. Sarà infatti anche a causa del trasferimento di Raffaello che Roma diverrà il centro propulsore dell'arte occidentale, prendendo il posto che era stato di Firenze. Fra i dipinti iniziati prima della partenza e lasciati poi incompiuti si incontra la Madonna del Baldacchino, oggi a Palazzo Pitti.  E' un dipinto alto quasi tre metri e fu commissionato intorno al 1506 da Rinieri di Bernardo Dei per la cappella di famiglia in Santo Spirito. Vasari la definisce "una bozza a bonissimo termine" condotta. Il dipinto ha in effetti una storia piuttosto curiosa, e non sappiamo se Raffaello lo lasciò a Firenze, oppure lo portò a Roma con sé. Dopo la morte del pittore la famiglia Dei commissionò la pala per l'altare della cappella in Santo Spirito a Rosso Fiorentino, non potendo porvi un dipinto non finito. La Madonna del Baldacchino invece fu acquistata a Roma da un importante pesciatino, Baldassarre Turini, che la donò alla Cattedrale di Pescia, dove rimase per circa 120 anni, fino al 1648. Fu a Parigi negli anni di Napoleone e per il resto a Palazzo Pitti, dove ancora si trova. Negli anni fiorentini Raffaello non poteva ancora contare sull'aiuto stabile di una bottega, e perciò la Madonna del Baldacchino è totalmente autografa. Un confronto con il dipinto eseguito da Fra’ Bartolomeo e conservato a Lucca, al Museo Nazionale di Villa Guinigi (fig. 26), ci spiega come in questi anni, intorno al 1508, il rapporto fra i due pittori si sta invertendo ed è Fra’ Bartolomeo a prestare attenzione alle opere di Raffaello.
Nella Madonna del Baldacchino si colgono molti aspetti innovativi: il desiderio di concepire il dipinto aperto al coinvolgimento dello spettatore, chiamato a completarne il significato: il santo vescovo, che nel disegno preparatorio è presentato di profilo, con gli occhi fissi sulla Vergine, nel dipinto mostra all'osservatore il gruppo sacro. Inoltre, nella Pala domina la naturalezza dei gesti e degli sguardi, mentre il ritmo compositivo si anima con l'irrompere drammatico dei due angeli in alto, che ne interrompono l'apparente staticità. Vi si coglie una spiccata matrice archeologico-antiquaria che fa credere che Raffaello già meditasse sulla possibilità di trasferirsi a Roma. Nell'abside semicircolare con una calotta cassettonata è evidente la ripresa di modelli classici, probabilmente dell’esempio del  Pantheon che in questo periodo era stato trasformato in una chiesa cristiana. Anche i braccioli del trono, a doppia lira, derivano da una scultura antica con Giove in Trono, il cosiddetto Giove Ciampolini, conservato a Roma. Il restauro condotto negli anni ottanta ha evidenziato che la fascia più scura, di 32 cm,  nella parte alta del dipinto è stata aggiunta, probabilmente nel Seicento.
Il dipinto noto come Madonna Esterhazy (cm 28,5 x 21,5) è conservato al Museo di Budapest e raffigura una Madonna col Bambino e San Giovannino immersi nel paesaggio; come la Madonna del Baldacchino è un dipinto non finito e nello sfondo si coglie un interessante dettaglio archeologico, la visione del Foro di Nerva dove erano rimaste le colonne dette Colonnacce. E’ il momento del trasferimento a Roma, che sarebbe interessante poter datare con precisione e che, secondo l’ipotesi più accreditata cadrebbe fra il settembre e l’ottobre 1508.
Una lettera del settembre 1508 inviata da Raffaello a Francesco Francia da Roma, e pubblicata per primo dall'erudito seicentesco Cesare Malvasia, è assai probabilmente una falsificazione. Il Malvasia era un grande studioso, ma assai coinvolto nella polemica antivasariana e questa lettera, intessuta di elogi per Francesco Francia, poteva essergli assai utile come celebrazione dell'arte bolognese.
A Roma, nel 1508, Raffaello trovava un ambiente vivace ed un momento denso di avvenimenti. Appena arrivato, fu messo a lavorare nelle Stanze di Giulio II, ed in particolare nella cosiddetta Stanza della Segnatura.  Il 31 ottobre del 1503 era diventato papa Giuliano della Rovere, un personaggio di straordinaria energia personale, fierissimo nemico di Alessandro III Borgia ed animato dall'intento di rafforzare il potere del papato romano. Era convinto che il papato dovesse avere un suo esercito e dei suoi confini territoriali. Divenne un papa guerriero, distinguendosi in varie campagne militari. Quest'aspetto fu fortemente criticato dagli intellettuali del nord Europa che vi colsero il tradimento degli ideali evangelici. Giulio II si rese anche conto che l'arte figurativa poteva essere un mezzo eccezionalmente forte per la propaganda politica. Appena eletto chiamò a Roma una serie di artisti, mettendoli al lavoro per la gloria del papato. Convocò subito Bramante, che era stato al servizio della corte milanese di Ludovico il Moro e che, dopo la caduta di questi, era scappato a Roma, e gli affidò il ruolo di soprintendente generale a tutte le attività artistiche che si svolgevano in Vaticano. Il carattere aggressivo del papa e le sue ambizioni di mecenate sono sintetizzate in una medaglia del Caradosso, che ci presenta, sul recto, il ritratto di Giulio e, sul verso, il progetto di Bramante per la nuova Basilica di San Pietro. Giulio aveva infatti intenzione di far radere al suolo l'antica San Pietro e farla ricostruire secondo le intenzioni di Bramante, che tuttavia non furono mai messe in pratica. Il Bramante aveva infatti concepito una basilica a croce greca con una gigantesca cupola al punto di incrocio fra i due bracci, in grado di rivaleggiare con la cupola di Santa Sofia a Costantinopoli; ai quattro angoli si dovevano erigere quattro possenti torri campanarie. Bramante morì nel 1514 ed il suo progetto fu gradualmente stravolto. Per il cortile del Belvedere aveva immaginato un progetto ugualmente grandioso: il collegamento fra il Palazzo vaticano e la Palazzina del Belvedere, a trecento metri di distanza, attraverso uno sterminato e scenografico cortile a terrazze sul quale si affacciavano due immensi corridoi. Questo progetto fu in parte realizzato, ma una serie di costruzioni seicentesche impediscono di avere una veduta complessiva del giardino. Secondo Vasari, fu proprio Bramante a consigliare al papa la chiamata di Raffaello. Giulio II era un Della Rovere e Francesco Maria Della Rovere, forse l'uomo del ritratto degli Uffizi, doveva conoscere Raffaello. In questi anni lavorava per Giulio II anche Michelangelo, incaricato di approntare la sua grandiosa sepoltura. Dopo la riappacificazione col papa, avvenuta nel 1508, Michelangelo ricevette l'incarico di affrescare la volta della Sistina.
Quando Raffaello arrivò a Roma, nelle Stanze erano attivi vari pittori. Nel 1507, Giulio dopo aver trascorso i suoi primi mesi da pontefice negli appartamenti al secondo piano, non sopportando più di vivere dove era stato l'acerrimo nemico Alessandro III, decise di trasferirsi al terzo piano e di commissionare per esso una nuova decorazione. Nei primi mesi del 1508 nelle Stanze era attivo un gruppo di pittori provenienti da tutta Italia: Perugino, Lorenzo Lotto, Bramantino, Signorelli ed il Sodoma. Vasari afferma che arrivando a Roma, Raffaello avrebbe realizzato un affresco così nuovo e rivoluzionario da convincere Bramante e Giulio a licenziare quest'équipe già formata e far realizzare l'intera decorazione delle Stanze soltanto a lui. Questo gesto equivaleva al metterlo sullo stesso piano di Michelangelo e Giulio II doveva aver capito che poteva valersi di un genio, poiché affidandogli tutto l’onere rinunciava anche ad un'esecuzione rapida del suo progetto. Si attuava anche il passaggio da una visione antologica dell’arte del tempo, in cui erano rappresentate tutte le scuole regionali, ad una monocentrica che avrebbe presentato una sorta di modello romano. Le Stanze decorate saranno quattro: la Stanza della Segnatura, quella di Eliodoro, quella dell'Incendio di Borgo ed infine la Stanza di Costantino quasi interamente realizzata dagli allievi dopo la scomparsa di Raffaello. La volta della Stanza della Segnatura era stata decorata dal Sodoma, un artista d’origine piemontese e d'adozione senese. In altre zone delle Stanze, per volere di Giulio, Raffaello distrusse affreschi già realizzati, questi di Sodoma, che conservò, dovettero sembrargli notevoli. L'ottagono è del Sodoma e raffigura degli eroti in girotondo. Nell’ottagono, che in origine doveva avere una forma circolare, si coglie anche l'esibizione di scorci prospettici, che fanno pensare alla Camera degli Sposi affrescata a Mantova dal Mantegna una quarantina di anni prima.

 

Lezione n. 15
12-XI-2003
La volta della Stanza della Segnatura

La decorazione della volta è stata realizzata in due fasi distinte: nella seconda metà del 1508 il Sodoma affrescò l’oculo centrale, con gli eroti e lo stemma papale, e gli otto piccoli scomparti curvilinei, cioè quattro monocromi con scene di vita romana e quattro policromi con scene mitologiche (figg. 30-33). Probabilmente dopo aver realizzato gli affreschi sulle quattro pareti, verso il 1511, Raffaello completò la volta con le personificazioni delle quattro discipline intellettuali nei tondi (Teologia, Poesia, Filosofia e Giustizia) e con quattro scene narrative nei riquadri angolari (il Peccato Originale, la Punizione di Marsia, l’Astrologia annuncia l’avvento al pontificato di Giulio II, il Giudizio di Salomone).
La Teologia è mostrata attraverso un momento simbolico, ossia l'episodio della Tentazione di Adamo ed Eva. Eva è raffigurata in piedi, mentre Adamo è seduto. Il recente restauro permette di cogliere con chiarezza la qualità della scena. Sono interessanti anche le cornici con decorazioni a grottesche e quasi ovunque si coglie il riferimento a Giulio II ed alla famiglia Della Rovere, per esempio nella pianta di quercia dorata. La seconda personificazione rappresenta la Poesia: ha la lira nella mano sinistra ed il libro nella destra, indossa una corona di foglie di alloro e le sono vicino due eroti; mentre la scritta "Numine Afflatur", la dichiara ispirata da Dio. Non si tratta dunque di una raffigurazione della poesia umana, bensì di quella divina.  Per la Poesia ci è rimasto anche il disegno preparatorio a carboncino. La scena narrativa che le viene accostata è piuttosto sorprendente, poiché raffigura il mito di Apollo e Marsia in cui si narra della punizione di un essere subumano che aveva sfidato una divinità. Nell’affresco di Raffaello viene rappresentata la punizione, non il momento della sfida. Raffaello si ispira ai Marsia classici, e nella figura di schiena si confronta con l'anatomismo eroico di Michelangelo. La scena dunque presenta il confronto fra la Poesia divina di Apollo e quella umana di Marsia, a sottolineare che la poesia più nobile è quella divina, secondo un concetto in parte cristiano ed in parte platonico.
Fra i protagonisti della Stanza della Segnatura oltre a  Giulio II,  si incontrano Apollo, che compare per ben tre volte, e Dante presente due volte. Dante che è sommo poeta, ma anche teologo, all’inizio del Paradiso (I, 19-21) chiede l'aiuto di Apollo perché lo supporti nel nuovo compito da affrontare, cioè la descrizione del terzo regno dell'oltretomba. In quell'occasione chiede che il dio greco lo estragga dalla sua pelle ("O buono Apollo... Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue), come aveva fatto con Marsia, per farlo poetare di cose al di sopra della sfera umana. E' probabile dunque che l'inserimento della scena del supplizio di Marsia sia da leggersi proprio in questo senso, come metafora del poeta che deve uscire dal suo corpo per esplicare la sua missione. La terza personificazione è la Giustizia con la spada e la bilancia ad indicare severità ed equità. Il tema della Giustizia è illustrato da una scena narrativa tratta dalla Bibbia, ossia il  Giudizio di Salomone.  La storia celeberrima racconta di un figlio conteso fra due madri, una vera ed una falsa. Il soldato è una stupenda figura michelangiolesca. L’arma ha la forma della spada diffusa nel mondo turco e contiene in sé un'allusione agli avversari della chiesa. Salomone era stato anche il costruttore del Tempio di Gerusalemme, in questo simile a papa Giulio II, che nel 1506 aveva avviato la costruzione della nuova San Pietro. Il Della Rovere, che anche per questo era al centro di molte polemiche, era stato talvolta paragonato dai panegiristi proprio a Salomone ed Egidio da Viterbo, capo degli Agostiniani e grande teologo alla corte pontificia, aveva scritto un testo incentrato sul paragone fra Giulio e Salomone.

 

Lezione n. 16
17-XI-2003

 

Ancora sulla Stanza della Segnatura: la volta e la Disputa sul Sacramento

 

La Filosofia, Causarum Cognitio, regge due volumi, ciascuno con un titolo: naturalis e moralis. I braccioli del trono sono realizzati come se fossero la raffigurazione di una Diana Efesina.
Anche la veste di questa figura è molto particolare ed ha in sé un valore simbolico: è infatti suddivisa in quattro diverse zone, decorate con pesci, foglie e stelle, ad indicare i quattro elementi. Il riquadro narrativo nell’angolo in basso a destra è occupato in gran parte da un globo azzurro con le costellazioni. Sopra il globo celeste c’è una figura femminile con la mano alzata e due putti a destra e sinistra. Il Vasari, che nell’edizione del 1550 dà una descrizione assai accurata della Stanza, identifica questo personaggio così criptico, con la raffigurazione dell’astrologia. In effetti all’epoca l’astrologia era al centro di numerosi studi. Una studiosa francese ha investigato con attenzione il globo stellare, individuandovi, per la disposizione delle costellazioni, un riferimento preciso alla configurazione astrale del cielo notturno di Roma fra 30 e 31 ottobre, momento assai significativo poiché il primo novembre Giuliano della Rovere fu eletto pontefice. La volta della Stanza è fortemente legata alla figura di Giulio II: oltre allo stemma papale al suo centro, vi è la presenza di Salomone, in veste di costruttore del Tempio di Gerusalemme, e foglie di quercia sparse un po’ ovunque. Nello stemma al centro è il papato in generale ad esser celebrato: esso è infatti l’emblema di uno dei predecessori di Giulio, il papa Niccolò V che come lui era di origine ligure. Se la Disputa sul Sacramento è priva di datazione, due degli affreschi di questa stanza, cioè il Parnaso e la Giustizia, sono datati 1511. Capire quale fu il primo affresco realizzato da Raffaello in questa Stanza è assai importante, poiché significa individuare la prova che convinse Giulio II a licenziare l’équipe di frescanti precedentemente coinvolta, ed affidare l’intera decorazione al solo urbinate. Per alcuni studiosi il primo affresco è da identificare con la Disputa, per altri invece, Raffaello arrivato a Roma, si cimentò subito nella Scuola d’Atene. E’ Vasari nel 1550 a coniare il termine di Stanza della Segnatura per quest’ambiente, quando scrive infatti la Stanza, che prima aveva assolto ad un’altra funzione, era diventata sede del Tribunale di Grazia e Giustizia. Per Vasari dunque Raffaello ne avrebbe iniziato la decorazione affrontando la Scuola d’Atene che risalirebbe così al 1508-9. Un secolo dopo, un altro grande critico, Giovan Pietro Bellori, scrive un testo importante su Raffaello ed afferma che Vasari si sarebbe sbagliato, poiché la prima opera di Raffaello nelle Stanze sarebbe la Disputa. La recente ripulitura della Stanza della Segnatura ha permesso di seguire la successione delle giornate durante la realizzazione degli affreschi, che sembrerebbe confermare la cronologia proposta dal Vasari. Resta un problema aperto, poiché una serie di altri indizi, come i disegni preparatori e l’esame della zona superiore dell’affresco sembrerebbero confermare l’idea della priorità della Disputa sul Sacramento. Per quest’ultima disponiamo soltanto di un titolo convenzionale, poiché è Vasari che parla di una ‘Disputa’. Al centro geometrico dell’affresco c’è un altare con l’ostia e l’ostensorio, e l’intero affresco, che conta sette metri di ampiezza, è dominato da un senso di grande monumentalità. L’altare posto sull’asse centrale, è il centro ideologico della scena, col riferimento alla transustanziazione. L’asse annovera Dio Padre, Cristo, lo Spirito Santo e l’Ostia, mentre san Pietro e san Paolo sono al margine destro e sinistro rispetto ad esso. Per ricchezza compositiva e per simmetria, quest’affresco doveva apparire del tutto nuovo agli artisti del tempo. La scena, che ha una corrispondenza immediata con le raffigurazioni della volta, poiché sopra di esso vi è la teologia, non vanta invece riferimenti diretti alle vicende del  committente. Egli è però presente attraverso una serie di richiami che dovevano apparire palesi agli occhi dei contemporanei. La fronte dell’altare è decorata da un paliotto che reca l’iscrizione Giulio II per ben due volte, quasi che il nome del committente fosse la base del sacramento. E’ quasi del tutto assente lo sfondo paesaggistico e ci sono invece due elementi ai nostri occhi non così chiari. Sulla sinistra si distingue un edificio in costruzione in cui Frommel ha identificato Le Logge evidenziando un altro momento della celebrazione del pontefice. Si distinguono anche le fondamenta di un altro edificio: evidentemente il nuovo San Pietro che sta ‘nascendo’. La figura sulla destra è un pontefice, presentato con tratti piuttosto riconoscibili ed ai suoi piedi il libro di cui era stato autore. E’ Sisto IV Della Rovere, zio di Giuliano, al quale viene reso omaggio con la sottolineatura del suo importante ruolo nel rilancio degli studi di teologia. Un disegno conservato a Windsor ci mostra le crisi ed i pentimenti di Raffaello nella composizione dell’affresco. L’idea iniziale era più tradizionale e prevedeva una sorta di loggia, un inquadramento architettonico più usuale, ed i personaggi avrebbero dovuto disporsi su due file: il risultato sarebbe stato assai meno unitario.
Nella parte superiore dell’affresco, per esempio nel volto di Cristo e negli angioletti, Raffaello ha mantenuto scelte stilistiche quasi peruginesche. E’ bellissimo anche il brano col dialogo fra san Pietro ed Adamo, in cui Adamo, con assoluta naturalezza e quotidianità si prende un ginocchio fra le mani ed ha le gambe accavallate. Raffaello fa tesoro degli studi di anatomia e delle riflessioni sul linguaggio michelangiolesco messe a punto durante gli anni fiorentini: compete con l’eroismo di Michelangelo senza ripeterne il titanismo, ma mirando ad una maggior dolcezza. Al centro dell’altra metà della scena si scorge Mosè, il profeta armato che doveva esser particolarmente caro a Giulio II. Un particolare, in  basso, ci mostra una figura calva che si sta girando di scatto, poi c’è un giovane che indica l’altare. Alcuni personaggi hanno dei nomi, come San Gregorio Magno. Vasari comunque ricordava che molti affreschi di Raffaello ospitavano dei criptoritratti: forse il domenicano in primo piano era Beato Angelico, il vecchio in primo piano che tiene il volume è un ritratto di San Gregorio Magno, riconoscibile grazie all’iscrizione; ha il volto coi tratti di un anziano, assai tormentato, memore forse degli studi fisionomici condotti da Leonardo. Per identificare il volto del papa Sisto IV ci si può basare sul ritratto inserito nell’affresco di Melozzo da Forlì.

 

Lezione n. 17
18-XI-2003


Stanza della Segnatura: La Scuola d’Atene

Le due scene con la Disputa sul Sacramento e la Scuola d’Atene l’una di fronte all’altra si completano a vicenda, dando vita ad una summa del pensiero cristiano e di quello pagano messi a confronto.
La Scuola d’Atene (è Vasari che le dà il titolo) è un unicum dal punto di vista iconografico, una sorta di riassunto del grande pensiero classico, presentato sotto la protezione di Apollo, a sinistra, e Minerva, a destra. Secondo affresco ad esser eseguito nella Stanza, tra il 1509 ed il 1510, è una grande composizione unitaria in cui sono concentrate tutte le epoche. Nella parte alta della lunetta trova  posto una grande aula basilicale a volte cassettonate ed una gigantesca cupola sopraelevata, elementi che rivelano come Raffaello si stia impadronendo del nuovo lessico architettonico bramantesco. Il gruppo centrale è costituito da Platone ed Aristotele, ritenuti i più grandi pensatori del mondo greco e mostrati con assoluta chiarezza iconografica: Platone è a sinistra ed ha la mano abbassata sul libro che raccoglie il Dialogo noto col titolo di Timeo; Aristotele ha con sé l’Etica Nicomachea, etica della vita, incentrata sullo studio della natura. Una convinzione diffusa, ma assolutamente non certa, è che il volto di Platone sia un ritratto di Leonardo. Intorno al 1509, tuttavia Leonardo non ha niente a che fare con Roma. Il volto di Platone somiglia a quello del celeberrimo disegno a sanguigna che si conserva a Torino ed è considerato un autoritratto di Leonardo da vecchio. E’ un problema ancora aperto, ma è assai difficile che questo Platone sia Leonardo, poiché studi recenti hanno argomentato che quel disegno non è tardo, bensì preparatorio per il Cenacolo (ca 1490), perciò esso sarebbe semplicemente uno studio di vecchio. Fra i dettagli decorativi sono raffigurate due finte statue dipinte a monocromo, un Apollo nella posa di ponderazione classica, e dall’altra parte una Minerva con una testa di Medusa urlante, come si vedrà poi in Caravaggio, sullo scudo. E’ la seconda volta che si incontra Apollo nella Stanza della Segnatura ed evidentemente questa divinità classica doveva essere particolarmente apprezzata da Giulio II, che possedeva anche la celeberrima statua raffigurante il dio greco posta nel cortile del Belvedere. Atena (Minerva) era la divinità della sapienza e nella mitologia classica era la protettrice degli artigiani, quindi anche degli artisti. Infatti, la Scuola di Atene si può leggere anche come una celebrazione dei tre principali artisti al lavoro per Giulio II.
Apollo e Marsia hanno sotto di loro due raffigurazioni in finto marmo, sotto Apollo è ritratta una scena di combattimento con dei nudi drammaticamente impegnati in una lotta o battaglia, di cui è assai difficile capire il significato; sotto Minerva una personificazione seduta ed una porzione dello zodiaco: anche in questo caso il significato è difficile da comprendere, ma forse si tratta di un accenno all’astrologia che scaturisce da Minerva.
In quest’affresco si contano una cinquantina di figure: fra quelle più facilmente individuabili si nota Socrate: un personaggio con una veste verdastra ed assai semplice, che sta digitando con la mano, mentre una schiera di giovani e vecchi lo sta ascoltando. A differenza di Platone ed Aristotele, questo filosofo è ritratto senza libro, perché sappiamo che non scriveva, ma affidava argomentazioni e conoscenze in toto all’uso della parola, valendosi dell’oratoria e della maieutica. Il suo volto è quasi satiresco, e crea un contrasto fra l’aspetto esteriore e l’animo nobilissimo. Vicino a lui, un allievo giovane e bellissimo, in cui si può riconoscere Alcibiade. Per Diogene che è da solo sulla scalinata, in linea con quella che fu la sua condotta di vita, si conserva anche uno studio preparatorio. Un altro gruppo in cui i personaggi sono facilmente identificabili è quello sulla sinistra, con Pitagora che ha con sé la lavagnetta in cui è esposto un esperimento. Dietro di lui è raffigurato un pensatore islamico che sta riflettendo: è Averroè, col turbante, che fa pensare ad un turco, e sta meditando sui testi greci. Averroè era infatti uno dei grandi pensatori responsabili della trasmissione della cultura greca, attraverso la mediazione islamica, ed è significativo che nella Scuola d’Atene l’esaltazione del sapere non si limiti ai greci, ma comprenda gli islamici in un momento di crociate contro i Turchi. Si incontrano poi due pensatori col globo terraqueo ed il globo stellare: sono i fondatori della geografia classica (Tolomeo) e dell’astronomia (Zoroastro): Tolomeo è visto di spalle, con una corona in testa, perché, come avveniva spesso in quel periodo, era confuso con i sovrani tolemaici. L’uomo calvo e col compasso è Euclide, fondatore della geometria detta euclidea. Dietro Tolomeo e Zoroastro c’è l’autoritratto di Raffaello che ritraendosi nella Scuola d’Atene sottolinea il suo ruolo di intellettuale. Il volto del personaggio accanto a Raffaello non raffigura Perugino o Sodoma, come talvolta si sostiene, perché dell’uno e dell’altro si conservano degli autoritratti che ce li mostrano con un aspetto radicalmente diverso. Potrebbe invece trattarsi di Giovanni Santi. Così si renderebbe conto della posizione defilata di  Raffaello rispetto a suo padre, e sarebbe abbastanza logico l’inserimento del Santi fra gli intellettuali vista la sua attività in veste di letterato. In primissimo piano c’è un pensatore greco: secondo la tradizione si tratterebbe di Eraclito, ritratto con le sembianze di Michelangelo. I recenti restauri hanno dimostrato che questo particolare è stato aggiunto soltanto in un secondo momento, cosa che è confermata anche dal cartone preparatorio conservato alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Forse fu una richiesta di Giulio II e  Raffaello inserì quest’omaggio perché nel 1512, con l’inaugurazione della Cappella Sistina, era nata l’esigenza di celebrare Michelangelo.

 

Lezione n. 18
19-XI-2003
Il Parnaso e la Giustizia

Nella Stanza della Segnatura restano da analizzare la raffigurazione del Parnaso e della Giustizia. La parete del Parnaso, con i due monocromi raffiguranti Alessandro che fa riporre in un cofano di Dario l’Iliade di Omero e Augusto che impedisce agli esecutori testamentari di Virgilio di distruggere l’Eneide è stata decorata nel 1511, come indica un’iscrizione posta nell’intradosso della finestra. In Apollo, il dio classico da cui traggono ispirazione le nove Muse, ed in due personaggi della storia greca e romana, che avevano reso un significativo omaggio ai due massimi poeti dell’antichità, doveva vedersi riflesso il mecenatismo di Giulio II nei confronti di tutte le attività letterarie. Saffo, l’appassionata poetessa lirica, scavalca la cornice della finestra, invadendo lo spazio fisico in cui si muove il pubblico, e il poeta tragico che le fa da pendant sulla destra, dialogando con due compagni, indica esplicitamente un punto al centro dell’ambiente. Il punto occupato idealmente da ogni osservatore, ed il punto in cui Giulio II doveva contemplare orgoglioso l’affresco di Raffaello.
Un’incisione di Marcantonio Raimondi documenta lo schema iniziale, impostato su due livelli, poi sostituito nell’affresco dal potente moto circolare avviato dalla torsione di Saffo e Pindaro, seduti in basso ai margini della scena.
La parete della Giustizia, decorata anch’essa nel 1511, come indicato dall’iscrizione nell’intradosso della finestra, è divisa in tre parti: nella lunetta trovano posto le personificazioni femminili di tre Virtù Cardinali (Forza, Prudenza, Temperanza); nella scena minore, a sinistra della finestra, dove Triboniano consegna le Pandette a Giustiniano, è stato ipotizzato l’intervento di un collaboratore; nella scena maggiore, dove Gregorio IX approva le Decretali presentategli da San Raimondo di Penaforte, culmina la celebrazione di Giulio II, identificato col papa medievale dal ritratto e dalle insegne araldiche presenti sul trono e sulla veste.
Anche per questa raffigurazione Rafffaello aveva inizialmente un altro progetto e quando, certo d’accordo col committente, decise in favore di altre immagini meno provocatorie, l’omaggio al pontefice responsabile della nuova età dell’oro delle arti fu riproposto nella Forza, impegnata a sorreggere un frondoso ramo di quercia, emblema araldico della famiglia Della Rovere, ed anche nel ritratto del pontefice barbuto, sovrapposto al volto del papa medievale.

 

Lezione n. 19
24-XI-2003                
Funzione e Significato della Stanza della Segnatura

Nella scena che raffigura Gregorio IX che sta approvando le Decretali, il pontefice ha il volto di Giulio II ed è seduto su di uno scranno decorato da ghiande dorate. Nell’ultima parete della Stanza è infatti molto forte la sottolineatura dell’importanza del committente. Fu John Shearman a scrivere un articolo sulla funzione delle Stanze e ad avanzare, sulla base di una serie di indizi concomitanti, l’ipotesi che quella della Segnatura corrispondesse alla biblioteca privata del pontefice. L’ipotesi risulta molto seducente, perché le scene affrescate sono stracolme di libri (una quarantina), e vi sono raffigurate le quattro discipline intellettuali, tuttavia non trova piene conferme. Francesco Albertini, il sacerdote ed erudito fiorentino che nel 1510 pubblica l’Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae, cioè una sorta di guida turistica della Roma antica e moderna, dà largo spazio ai nuovi grandi monumenti voluti da Giulio II. Quando scrive, nel 1509, le Stanze vaticane erano oggetto di decorazione, e vi era al lavoro un’équipe di artisti che sono definiti “excellentissimi pictori concertantes”.L’Albertini parla delle biblioteche, per esempio la Vaticana, e quando accenna a quella di Giulio II la definisce pensilis e decorata coelorum et planetorum, cioè con un ciclo di affreschi a soggetto astrologico. Shearman cita in nota la testimonianza dell’Albertini, ma non le dà credito poiché né l’una né l’altra affermazione del sacerdote ha riscontro nelle caratteristiche della Stanza della Segnatura. Un altro elemento da prendere in considerazione è la serie di affreschi staccati conservati nei depositi dei Musei Vaticani. Sono stati studiati soltanto di recente e sono i monocromi provenienti dalla cosiddetta Uccelliera di Giulio II. Era un ambiente sopraelevato e vi lavoravano vari artisti fra i quali un pittore leonardesco, Cesare da Sesto, che riceve pagamenti fra 1508 e 1509. Il soggetto degli affreschi risultava piuttosto oscuro: in una delle sue scene per esempio é raffigurato un incantatore di serpenti. Soltanto di recente è stata individuata la fonte letteraria che li ispirò, riconosciuta in un trattato di astrologia tardoantico, il Mateseos libri VIII di Firmico Materno. Il trattato insegnava come capire il futuro della vita umana sulla base della posizione occupata dalle costellazioni al momento della nascita e trovava una perfetta corrispondenza con le immagini degli affreschi. Anche in Palazzo Tè a Mantova si incontra un affresco per il quale la base è fornita dal testo di Firmico Materno, che evidentemente nel XVI secolo era conosciuto ed apprezzato. Ad evidenza, la biblioteca privata di Giulio, di cui parla l’Albertini, era in quelle stanze sopraelevate, decorate con gli affreschi astrologici ispirati dal Mateseos e non aveva niente a che fare con la Stanza della Segnatura. Se si può dunque escludere che la Stanza della Segnatura fosse destinata a biblioteca, la sua funzione specifica resta però incerta. L’ipotesi alternativa è che fosse uno studiolo, cioè semplicemente un luogo in cui il pontefice si ritirava a studiare. Si spiegherebbero così i suoi riferimenti al mondo degli intellettuali ed anche le affinità con lo studiolo di Urbino. Il vero legame fra i quattro affreschi della Stanza della Segnatura è dunque Giulio II, mecenate attento a tutte le arti e le discipline (Poesia, Teologia, Filosofia e Giurisprudenza) che aspirava a riportare Roma all’età dell’oro dimenticata durante il medioevo. Il panegirico del pontefice non è mai espresso in modo plateale o diretto, ma è costante, e chi entra nella Stanza è accolto dalla cultura scaturita dalla persona e dalla volontà del pontefice. L’immagine da studiolo doveva esser inoltre sottolineata dalla presenza di uno zoccolo continuo, realizzato con tarsie lignee, oggi non più esistente.
Raffaello dipinse un ritratto del papa che fu donato dal pontefice alla chiesa romana di Santa Maria del Popolo, una sorta di mausoleo della famiglia Della Rovere. Oggi il dipinto, che fu venduto nell’Ottocento, è alla National Gallery di Londra. Se ne conservano diverse copie fra cui anche una a Palazzo Pitti e dopo il restauro condotto nel 1970 si è potuto appurare che l’originale era quello di Londra. Esso dà l’impressione di essere vicinissimi al pontefice, che è visto leggermente dall’alto, e ci sembra di essere ad un’udienza privata col papa la cui sedia è decorata con due enormi ghiande. E’ un ritratto assai insolito per Giulio, poiché il papa ci appare introverso e meditabondo. Raffaello mette in luce un’immagine diversa, inconsueta per il ‘terribile’ Giulio. Inoltre il papa ha la barba, cosa inaudita per un pontefice. Del greco cardinal Bessarione era stata rifiutata la candidatura al soglio pontificio proprio perché portava la barba. Dall’ottobre 1510 fino al marzo 1512 Giulio si fa crescere provocatoriamente la barba. Fa un voto solenne ed è in piena guerra coi francesi che voleva cacciare dal territorio italiano. Fino al giugno del 1511 è lontano da Roma, perché a capo della campagna militare, ed il re di Francia organizza addirittura un concilio a Pisa per farlo destituire dal soglio pontificio. Nei mesi successivi Giulio riuscirà a indire un controconcilio, ma dal giugno al dicembre del 1511, da un lato è un papa sconfitto militarmente e dall’altro se ne mette in crisi l’autorità spirituale. Permettendo di leggere il velo dei pensieri e l’animo dell’effigiato, questo ritratto vuol dunque rendere l’immagine di un papa in grado di porsi come guida spirituale: un uomo gracile che trae la propria forza da questa sua debolezza.  La Madonna del Velo o di Loreto ( 120 x 90 cm) è conservata al Museo di Chantilly, di qualità altissima, è commissionata da Giulio II ed è nota in più copie. Il velo è stato interpretato come un’anticipazione del velo che accoglierà il corpo di Cristo, ossia il sudario. Un altro dipinto di questo periodo è il Ritratto di Tommaso Inghirami alla Galleria Palatina (89,5 x 62,3 cm ) di cui si conosce una copia conservata a Boston. Tommaso Inghirami, d’origine volterrana, diverrà prefetto della biblioteca Vaticana negli anni di Giulio II. Per molti studiosi fu proprio lui l’umanista che affiancava Giulio nelle decisioni per il programma iconografico della Stanza della Segnatura. Era stato soprannominato Fedra dal nome del personaggio della commedia di Seneca da lui interpretato con grande bravura. E’ ritratto in una veste rossa da lavoro (certamente non cardinalizia, in quanto non fu mai cardinale) ed è strabico. Il difetto fisico non è nascosto, ma è limitato dal tipo di posa con lo sguardo rivolto verso l’alto. Ha di fronte a sé un foglio bianco ed alza lo sguardo alla ricerca dell’ispirazione, in una situazione tipica per l’intellettuale al lavoro.

 

Lezione n. 20
25-XI-2003

 

La Stanza di Eliodoro

 

La Stanza di Eliodoro viene dipinta da Raffaello fra il 1509 ed il 1511, durante il pontificato di Giuliano della Rovere. A differenza della Stanza della Segnatura quest’ambiente trae il proprio nome dall’affresco più celebre. La sua funzione è certa, perché era destinata all’udienza semiprivata del papa. La funzione determina la diversità nella scelta dei temi degli affreschi i cui soggetti divengono più esplicitamente politici, pur restando nel solco della celebrazione del pontificato Della Rovere. Anche nella Stanza di Eliodoro, prima del pontificato Della Rovere, erano al lavoro diversi artisti, come Cesare da Sesto, ed i più noti Lorenzo Lotto, Bramantino e Luca Signorelli, allontanati all’arrivo di Raffaello che non ne conservò gli affreschi. Ci restano però alcune tracce degli interventi precedenti: le quattro chiavi della volta recano raffigurazioni fra loro stilisticamente piuttosto disomogenee e soltanto una si può riferire a Raffaello (quella col calice). Era dunque prevista una sorta di sfida fra gli artisti. La figura in trono massiccia e geometrizzante è probabilmente Mosè ed è forse un esempio dell’intervento del Bramantino. In quella col putto che volge lo sguardo verso il basso si è ravvisata, in modo però poco convincente, un’opera di Lorenzo Lotto. Dopo la morte di Giulio II viene eletto Leone X che appartiene alla famiglia Medici, motivo per cui troviamo l’inserimento delle imprese medicee. Altre parti della volta furono probabilmente eseguite da Cesare da Sesto. Alcuni dettagli decorativi rimandano all’iconografia classica e nell’arco è raffigurato lo spezzone del corteo, col candelabro a sette braccia del tempio di Gerusalemme, portato in trionfo dall’imperatore, ripreso dall’Arco di Tito. Il primo affresco ad essere eseguito è la Cacciata di Eliodoro dal Tempio. Eliodoro era stato inviato a Gerusalemme dal re di Siria, Seleuco, per impadronirsi del tesoro del tempio, ma con l’intervento miracoloso di Dio, tre angeli lo mettono in fuga. Sul fondo si vede l’altare ed il sacerdote Onia, inginocchiato in preghiera, che riesce ad invocare l’aiuto di Dio. Raffaello ha diviso in due parti ed in due gruppi antitetici la scena. Nella figura a terra e nell’angelo, la potenza anatomica ricorda le scelte michelangiolesche. Nell’episodio biblico irrompono elementi di storia contemporanea: nel gruppo a sinistra Giulio II in portantina introduce una chiara allusione alla cacciata dei francesi che avevano violato il potere temporale e spirituale del papa, e ribadisce il concetto che la chiesa è costantemente aiutata dall’intervento divino.
La seconda scena è quella del Miracolo della Messa di Bolsena, in cui pure è facile leggere significati tratti dalla contemporaneità. Il miracolo narrato è quello dell’ostia stillante sangue che aveva convinto il sacerdote incredulo della veridicità del mistero del sacramento e dell’incarnazione. L’affresco è diviso in due parti: sulla sinistra il sacerdote officia la messa, mentre sulla destra il pontefice é inginocchiato di fronte all’ostia consacrata. Anche qui è raffigurata una bellissima architettura aperta sul cielo, i cardinali sono criptoritratti e le guardie svizzere sono pretesti per bellissimi studi fisionomici ed intensi studi psicologici. Le loro vesti sono brani di vivacissimo ed intenso cromatismo ed hanno addirittura fatto pensare all’intervento di aiuti veneti di Raffaello: in realtà è il maestro stesso che ci offre un brano di ‘pittura alla veneta’, dopo esser venuto in contatto con nuove sollecitazioni stilistiche verso le quali si mostra ancora una volta estremamente ricettivo.
Il terzo affresco raffigura la Liberazione di San Pietro dal carcere ed è uno studio di notturno. Ci sono ben cinque diverse fonti di luce: il bagliore dell’angelo che si rifrange sulle armature, la luna, il bagliore dell’alba, la piccola fiaccola tenuta dal soldato raffigurato di spalle ed infine il bagliore dell’angelo sulla destra. Per trovare simili virtuosismi luministici occorre confrontarsi con la pittura nordica. La scena principale è al centro, dietro l’inferriata, e l’apparizione angelica è visibile soltanto a San Pietro, il secondo momento è a destra, con l’angelo che porta san Pietro, un po’ stordito, per mano, il terzo episodio è a sinistra e chiude il cerchio narrativo. San Pietro è il primo papa e quindi è in sé un’allusione a Giulio II come rappresentante del papato. Inoltre, Giulio II, come cardinale era stato titolare della chiesa romana di San Pietro in Vincoli, che prende il nome proprio dalla reliquia dei ‘vincoli’ (cioè le catene) con cui Pietro era stato incatenato durante la sua prigionìa.

 

Lezione n. 21
26-XI-2003

 

Ancora sulla Stanza di Eliodoro; Raffaello e la stampa,  la Madonna di Foligno e la Madonna Sistina

 

Durante la realizzazione della scena con L’incontro fra Attila e Leone Magno, Giulio II  muore ed il nuovo papa, Leone X, ottiene d’esser ritratto come Leone Magno, facilmente riconoscibile nella figura del pontefice, glabro e grassottello, circondato dai cardinali. La fonte di questa scena è il Liber Pontificalis, ma l’episodio, appartenente alla storia della chiesa, è trasformato in un miracolo, con figure di santi (Pietro e Paolo) che appaiono nel cielo sguainando le spade, mentre Attila rimane bloccato, come sgomento. Sullo sfondo il pittore ha realizzato una sorta di duplice paesaggio: sulla destra della lunetta vi è un’immagine striata di sangue, con la raffigurazione delle distruzioni prodotte dalle orde barbariche; sulla sinistra invece un brano della Roma archeologica, con le mura, l’acquedotto, il Colosseo e la Colonna Traiana. Nell’Incontro fra Attila e Leone Magno Raffaello si confronta con i grandi modelli che poteva vedere a Roma, allora una città pressoché abbandonata, con circa cinquantamila abitanti, ma densissima di rovine e frammenti d’arte antica. Da questo momento in avanti (1513-14 ca) il costante confronto con l’antico diventerà per lui una sorta di ossessione. In quest’affresco lo si coglie non soltanto nella ricreazione paesaggistica dello scenario urbano dell’antica Roma, ma anche nell’impaginazione d’insieme, ottenuta disponendo le figure come se fossero parte di un fregio classico, ed in alcuni dettagli, come ad esempio nella figura del cavaliere all’estrema destra. Questi ha infatti il corpo coperto da una tuta fatta di squame, secondo il costume, già riconosciuto dal Vasari, in uso presso il popolo dei Sarmati, che Raffaello poteva riprendere dalla Colonna Traiana.
Alla morte di Giulio II, che per cinque anni ne era stato principale committente, Raffaello provò grande sconforto.
La volta della Stanza di Eliodoro reca nei sottarchi scene di vita romana, negli scomparti triangolari vi sono figure dipinte da Cesare da Sesto, ma per la maggior parte la decorazione fu rifatta dalla bottega raffaellesca, come era avvenuto per le pareti della Stanza della Segnatura.
In questo caso, Raffaello mantiene le partiture decorative, con lo stemma al centro, ma rifà tutto il resto. A colmare i quattro spicchi ha immaginato di introdurre quattro arazzi dipinti come se fossero attaccati con dei bulloni alle membrature architettoniche. Il fondo blu è molto intenso e sembra imitare l’effetto di un drappo. Al centro della volta, lo stemma è quello del papa Niccolò V, mentre la ghirlanda è colma di pigne e foglie di quercia, elementi in chiara connessione con l’emblema della famiglia Della Rovere. Per i cosiddetti quattro arazzi l’invenzione è raffaellesca, si conservano infatti i disegni preparatori, ma la realizzazione è affidata ad un collaboratore che non si è ancora riusciti ad identificare. Sono infatti dipinti di grande qualità, ma meno morbidi del solito Raffaello. Nei quattro velari sono raffigurate scene sacre, che confermano il tema principale della Stanza, cioè il costante intervento di Dio a protezione dell’umanità ed in modo particolare dei ministri della chiesa. Vi sono infatti le raffigurazioni dell’angelo che ferma la mano di Abramo che sta per compiere il sacrificio di Isacco, dell’incontro fra Noè e Dio Padre, della cosiddetta Scala di Giacobbe (dove Giacobbe è raffigurato addormentato in primo piano mentre in sogno gli appare la scala che conduce in cielo, percorsa dagli angeli), ed infine Mosè ed il Roveto ardente. Mosè era il profeta armato ed è facile intuire come potesse costituire una specie di esempio per Giulio II. Dio padre appare al centro delle testine di cherubini infuocati e si tratta di un’invenzione talmente dinamica che ha fatto parlare addirittura di un Raffaello prebarocco.
Raffaello ha un rapporto privilegiato con la stampa, grande mezzo di diffusione delle idee degli artisti. Se Mantegna, Pollaiolo, Dürer erano stati incisori, Raffaello non lo è in prima persona, ma realizza disegni destinati ad esser tradotti in stampe da un suo collaboratore di fiducia, il bolognese Marcantonio Raimondi, arrivato a Roma verso il 1510.  Marcantonio incide opere già realizzate da Raffaello, ma anche disegni e cartoni approntati per lui direttamente dal maestro. Così Raffaello acquista una fama internazionale senza confronti rispetto agli altri pittori del Cinquecento. Ne è esempio la stampa con la Strage degli innocenti che reca infatti la dicitura “Raphael invenit”.
Le continue, rivoluzionarie, innovazioni raffaellesche si estendono anche ad altri generi, per esempio la Pala d’altare. Se la Madonna del Baldacchino presenta ancora un’impaginazione architettonica, ne è del tutto esente la Madonna di Foligno, oggi conservata alla Pinacoteca Vaticana, che fu richiesta a Raffaello intorno alla fine del 1511 da un importante personaggio della corte di Giulio II, il segretario ai Brevi pontifici Sigismondo de’ Conti. Fu eseguita per la chiesa romana di Santa Maria in Aracoeli, dove Sigismondo aveva una cappella gentilizia, vi rimase per lungo tempo, quindi fu spostata a Foligno e da lì giunse alla Vaticana. La Vergine col Bambino  è seduta su di un trono di nuvole, mentre in basso, nella parte terrena, c’è invece un angioletto con una targa, in cui, forse per effetto di una pulitura drastica, non si discerne alcuna iscrizione. Il dipinto presenta anche quattro figure maschili, cioè san Francesco (Santa Maria in Ara Coeli era chiesa dei Francescani), san Giovanni Battista che costituisce un ponte ideale fra il gruppo sacro ed i fedeli, san Girolamo ed il committente che da quest’ultimo santo è protetto e presentato alla Vergine. Il paesaggio, bellissimo, raffigura Foligno, la città d’origine del committente. Nel cielo si coglie la presenza di una sorta di fulmine/meteorite che piomba sulla casa raffigurata immediatamente sopra la testa dell’angioletto; è la rievocazione di un evento reale, poiché sappiamo che un fulmine globulare, a Foligno, aveva colpito la casa avìta del committente, che però era rimasta miracolosamente illesa, e proprio questa circostanza aveva determinato la commissione del dipinto. Il Bambino in grembo alla Vergine ricorda da vicino il putto del Tondo Doni di Michelangelo, mentre il cromatismo del dipinto ci parla di suggestioni della pittura veneta. Il paesaggio ha fatto addirittura sospettare che qui fosse all’opera, in veste di aiuto di Raffaello, un pittore veneto o ferrarese, forse Dosso Dossi. In realtà, i bellissimi paesaggi dipinti da Dosso, assai simili a quello della Madonna di Foligno, sono successivi, ed evidentemente è ancora una volta Raffaello l’inventore di questa soluzione stilistico/compositiva che Dosso apprende da lui.
La Madonna Sistina, conservata a Dresda, è stata eseguita poco tempo dopo la Madonna di Foligno. Fu commissionata da Giulio II e rappresenta un ulteriore passo avanti rispetto alla pala d’altare tradizionale. È una sacra conversazione che si svolge nei cieli, o meglio una apparizione divina in una sorta di teatro. La tenda verde appesa ad un palo non è un simbolo, poiché ci sono anelli di metallo ed il palo è addirittura incurvato. Poi c’è la mensola su cui si appoggiano gli angioletti che contribuisce alla creazione di una sorta di proscenio. Del resto, Raffaello, negli ultimi anni della sua vita si dedica anche alla scenografia, curando l’allestimento di una celeberrima commedia di Ludovico Ariosto. La scena è concepita in modo simmetrico, apparentemente statico, ed in realtà la Vergine sta compiendo un passo deciso come se stesse scendendo verso i fedeli. San Sisto, che ha appoggiato la mitria in primo piano, fa da ponte con la folla dei fedeli che è immaginata all’esterno del dipinto. È un’opera che fece sensazione, perché fu eseguita nel 1513 per la chiesa di San Sisto a Piacenza, e fu il primo capolavoro di Raffaello a varcare gli Appennini, diventando così un testo fondamentale per molti pittori dell’Italia settentrionale.

 

Lezione  n. 22
1-XII-2003

 

Il commento vasariano alla Scuola d’Atene e la Galatea per Agostino Chigi

 

Il commento sulla Scuola di Atene inserito dal Vasari nella Vita di Raffaello, è un passo in cui non si riscontrano varianti fra l’edizione del 1550 e quella del 1568. Vasari inizia descrivendo il soggetto come “quando i teologi accordano la filosofia e l’astrologia con la teologia” In realtà, nell’affresco non sono affatto raffigurati dei teologi. Poi “tutti i savi del mondo che disputano in vari modi”. E segue una descrizione assai analitica. Paolo Giovio, invece, cita soltanto velocemente il Parnaso, dandoci una misura della dettagliatezza del testo vasariano. È curioso, almeno a prima vista, che Vasari interpreti l’affresco in cui in realtà non c’è alcun riferimento alla religione cristiana, come se vi fossero addirittura degli Evangelisti, o se Cristiani e Pagani vi stessero questionando. Proseguendo nella descrizione della scena, l’aretino risulta invece molto preciso, ad esempio nel cogliere la raffigurazione di Diogene, Aristotele e Platone. Fa ricorso al termine “Scuola”, anche se esattamente non come titolo dell’affresco o in riferimento alla città di Atene; si sofferma sulla presenza di un ragazzino che sta rivolgendo lo sguardo verso Bramante. È un ragazzo di dieci-dodici anni che Vasari identifica con Federico II, futuro duca di Mantova. Il figlio di Isabella d’Este era infatti stato costretto a vivere per diverso tempo alla corte di Giulio II, poiché il papa non si fidava dell’alleanza dei Gonzaga e tratteneva il loro figlio a titolo di ostaggio. La madre voleva che ogni giorno gli ambasciatori mantovani a Roma le rendessero conto della vita del figlioletto, ed in una di queste lettere, conservate all’archivio di stato di Mantova, si riferisce che il ragazzo era così amato dal papa da esser stato ritratto anche in uno degli affreschi di Raffaello. Combinando le due fonti (lettera e Vasari) si ha dunque la conferma del ragazzo nell’affresco ed anche dell’attualizzazione della scena. Vasari prosegue ricordando la presenza di Bramante (nel personaggio chinato a terra con un paio di seste), di Zoroastro e, alle spalle di questi, dello stesso Raffaello. È possibile un confronto con l’autoritratto di Raffaello degli Uffizi, su cui fra gli studiosi si sono aperte accese discussioni. Questo ritratto è in realtà una tavoletta con vari problemi di conservazione che è stata sottoposta a restauro una quindicina di anni addietro. In quell’occasione le radiografie hanno dimostrato la presenza di un disegno tracciato direttamente sulla tavola, molto raffaellesco, che non corrisponde esattamente al dipinto finito, secondo una prassi più tipica dei dipinti autografi che non delle copie. Forse Raffaello realizzò questo dipinto negli anni fiorentini e poi lo portò con sé a Roma valendosene come base per replicarlo in controparte nell’affresco. Meno attendibile è invece il riconoscimento di Tommaso Inghirami, probabile redattore dell’intero programma iconografico della Stanza,  nel personaggio corpulento col capo coronato d’edera. Vasari prosegue parlando ancora degli Evangelisti, e quindi elogia la composizione d’insieme, cioè l’abile regia raffaellesca. Descrive poi con precisione la volta della Stanza che è opera di un altro artista e spiega la sopravvivenza di questa zona con la bontà di Raffaello che avrebbe deciso di rispettare l’intervento del predecessore.  Come spiegare il fraintendimento di Vasari circa la presenza degli Evangelisti, dal momento che non vi sono né aureole, né simboli dell’iconografia cristiana? Verso la metà del Cinquecento viene pubblicata un’incisione che riproduce la Stanza della Segnatura introducendo anche alcune aureole.  L’incisione è successiva alla pubblicazione delle Vite e dimostra la volontà di leggere l’affresco in modo meno classicheggiante e pagano, enfatizzandone semmai possibili risvolti più in linea col pensiero cristiano. A metà Cinquecento inoltre la Stanza aveva cambiato funzione divenendo sede del Tribunale della Segnatura Gratiae et Iustitiae e, parallelamente, il clima culturale era ormai profondamente diverso da quello dell’inizio del secolo, quando ancora appariva naturale decorare l’appartamento papale con scene classiche; dopo il Sacco di Roma e col nuovo clima spirituale legato alla Riforma luterana ed all’indizione del Concilio di Trento, l’idea umanistica di fusione fra paganesimo e cristianesimo non sembra più accettabile e come si era provveduto a censurare il Giudizio Universale di Michelangelo, così si poteva leggere in modo assai forzato la Scuola di Atene. Quella vasariana era dunque una ‘lettura orientata’,  non un errore.
Fra 1509 e 1514, gli anni della Stanza della Segnatura e di Eliodoro, Raffaello offre i propri servizi anche ad altri committenti. In contemporanea all’affresco con la Messa di Bolsena, ed alla Madonna di Foligno, realizza la Galatea nella villa suburbana di Agostino Chigi, il ricchissimo banchiere senese che era stato finanziatore del papa. Il Chigi si era arricchito anche grazie alle miniere di tolfa, una sostanza utilissima nel processo di tessitura dei drappi.  Era divenuto una sorta di banchiere privato del papa che, per parte sua, lo aveva ricompensato con molte onoreficenze.  Nel 1512 inizia la decorazione della propria Villa a partire dalla Loggia a pianterreno, la prima stanza in cui si entrava. Qui aveva lavorato Sebastiano del Piombo, il pittore che Agostino aveva portato con sè a Roma da Venezia, dove si era recato nel 1511 in missione diplomatica. Il pittore veneto raffigura un gigantesco Polifemo (fig. 36) poco prima dell’intervento di Raffaello. I due affreschi, con Polifemo e con Galatea (fig. 37) sono l’uno accanto all’altro, quasi fossero due ali di un dittico. Galatea era infatti la ninfa marina di cui il mostruoso gigante si era innamorato; Galatea invece a sua volta si era innamorata di Acis, il pastore che sarà ucciso da Polifemo per gelosia. La presenza romana di Sebastiano dal Piombo, artista che aveva studiato con Giorgione e Tiziano, ed il contatto ravvicinato di questi con Raffaello ci rende conto dei brani di pittura alla veneta notati nella  Madonna di Foligno e nella Messa di Bolsena. Nella Galatea invece Raffaello ci offre piuttosto un esercizio di pittura romana, un soggetto mitologico che cerca ispirazione nell’arte classica, con in più, nell’esibizione anatomica di alcune figure (il tritone che abbranca la ninfa, l’erote in primo piano), un occhio attento a Michelangelo.
Raffaello si stacca così dallo stile del pittore che gli ha lavorato accanto, ma al tempo stesso ne assimila le novità per riproporle in altre sedi.

 

Lezione  n. 23
2-XII-2002

 

Madonna Sistina, Estasi di santa Cecilia, decorazione della Farnesina

 

Sulla Madonna Sistina (Dresda Gemaeldegalerie cm 265 x 196) la principale fonte a nostra disposizione è la biografia vasariana. Sappiamo che fu commissionata da Giulio II poco prima della morte (avvenuta nel febbraio 1513) e destinata alla chiesa piacentina di San Sisto a Piacenza. Questa città infatti era stata al fianco del pontefice in un momento assai critico della guerra contro i francesi (1512) ed al suo termine, Giulio pensò di ricompensarla in vario modo e persino destinandovi un dipinto di Raffaello. San Sisto, il papa medievale Sisto II, era molto venerato dalla famiglia Della Rovere, soprattutto da Sisto IV che ne aveva anche assunto il nome, ma anche da Giulio, ed infatti la tiara ed il piviale del santo, nel dipinto di Raffaello, recano l’insegna araldica della famiglia. La Madonna Sistina, oggetto di moltissime repliche, è rimasta a Piacenza fino al 1754, quando fu acquistata da Augusto III di Sassonia e finì al Museo di Dresda. Nel 1945, durante le requisizioni belliche, fu portata in Russia, ma poi, immediatamente restituita, tornò a Dresda dove tuttora si trova. Resta invece piuttosto incerta l’ubicazione originaria del dipinto all’interno della chiesa piacentina. Un pittore che meditò a lungo su questo dipinto fu Correggio, interessato al Raffaello armonioso, accostante e dolce di questo momento stilistico. Anche Tiziano nell’Assunta dei Frari (1516-18) mostra di aver guardato questo dipinto raffaellesco. La Madonna Sistina ha una connotazione metafisica, priva del solito paesaggio naturalistico, San Sisto guarda il gruppo sacro e sta indicando la direzione del suo procedere verso i fedeli. Il dipinto è realizzato su tela, probabilmente perché più facilmente trasportabile. La tenda verde è così reale che col suo peso riesce a flettere l’asta alla quale è appesa e la sua presenza insieme alla mensola in primo piano, alla quale si appoggiano i due celeberrimi angioletti, suggerisce un’ambientazione teatrale, come se si trattasse di una sacra rappresentazione. La Madonna Sistina venne eseguita pochi mesi dopo la Madonna di Foligno, a riprova della mente di Raffaello continuamente alla ricerca di suggestioni e soluzioni.
L’Estasi di Santa Cecilia (Bologna, Pinacoteca Nazionale, cm 238 x 150) è un dipinto di grandi dimensioni. La datazione è meno certa, ma di sicuro il dipinto era stato compiuto nell’agosto 1515. Forse fu eseguito fra 1513 e 1514, per Elena Duglioli Dall’Olio, una patrizia bolognese che aveva una particolare venerazione per santa Cecilia e alla quale il cardinale Alidosi, titolare della chiesa di Santa Cecilia in Trastevere, aveva persino donato una reliquia della santa. Il dipinto diventò un modello per la pittura cinque e seicentesca, è un’immagine che si svolge completamente sulla terra e in ciò antitetica alla Madonna Sistina. In alto, la musica celeste rapisce l’attenzione della santa, mentre in basso gli strumenti della musica terrena si stanno distruggendo di fronte ai nostri occhi, come fa l’organetto rovesciato, da cui escono le canne, che la santa tiene fra le mani. È una rappresentazione della superiorità della musica celeste su quella terrena che Cecilia rifiuta insieme al piacere effimero che ne deriva. Per il bellissimo dettaglio degli strumenti in primo piano, che costituisce una sorta di prefigurazione della natura morta seicentesca, Raffaello si avvalse di un collaboratore esperto in raffigurazioni di animali, fiori e frutta: Giovanni da Udine.
La villa Farnesina è stata costruita a partire dal 1505 ed era già compiuta nel 1509. Era stata concepita come villa di piacere, cioè non come residenza fissa, ma come luogo in cui rifugiarsi saltuariamente. Posta sulle rive del Tevere, venne edificata dall’architetto senese (anche pittore e decoratore e come Raffaello ammiratore dell’antico) Baldassarre Peruzzi. Nel primo Cinquecento l’edilizia imperiale era ancora poco nota e Baldassarre, per ricostruirne le caratteristiche, si affidò soprattutto alle fonti letterarie. Curiosamente, di Agostino non ci sono rimasti ritratti, ma soltanto una medaglia che ce lo mostra in profilo. Nell’inventario dei suoi beni, redatto alla morte, intorno al 1520, viene descritta la sua collezione in cui figurano anche numerosi pezzi d’arte antica, fra cui il celebre Arrotino degli Uffizi (in realtà parte di un gruppo con Apollo e Marsia). La Farnesina aveva anche la facciata decorata e sul retro si apriva in due ali aggettanti con in mezzo un cortiletto in cui si allestivano rappresentazioni teatrali da commedie latine (fig. 43). Sulla volta della cosiddetta Loggia di Galatea c’è anche un ciclo di affreschi di Baldassarre Peruzzi, una sorta di mappa celeste, che uno storico dell’arte di inizio Novecento ha letto come un’allusione all’oroscopo natale del committente. Sotto il ciclo astrologico, nelle lunette, si dispongono otto storie ovidiane che Agostino Chigi fece realizzare da Sebastiano del Piombo. Raffaello è convocato da Agostino nei primi mesi del 1512, il soggetto dell’affresco di Raffaello, come si è già detto,  è la raffigurazione di Galatea che allontandosi rifiuta l’amore di Polifemo. Anche il dipinto di Sebastiano dal Piombo raffigurante la Morte di Adone, oggi conservato agli Uffizi, era stato commissionato dal Chigi e ci mostra un paesaggio di stile ancora giorgionesco in cui si apre una laguna con l’immagine del Palazzo Ducale di Venezia.
Alla Farnesina, la camera da letto di Agostino viene decorata con la storia del matrimonio fra Alessandro e Roxane, realizzata dal Sodoma sulla base della descrizione di Luciano dell’antico e celebrato dipinto di Aizione. Un disegno di Raffaello conservato al Louvre tuttavia ci informa che anche questa decorazione inizialmente era stata richiesta a Raffaello che a queste date (1516 ca) era oberato di impegni. L’ultima opera condotta per Agostino Chigi, la decorazione della Loggia sul retro della Villa, fu realizzata quasi interamente da un gruppo di allievi di Raffaello (Giulio Romano, Luca Penni e Giovanni da Udine per i festoni con frutta e fiori). Il soggetto di questa decorazione si collega facilmente alla biografia del Chigi, in particolare alla relazione con la fanciulla veneziana di umili origini che poi divenne sua moglie, Francesca Ordeaschi. Vi è infatti raffigurata la Storia di Amore e Psiche, la favola di Apuleio in cui si racconta dell’amore fra una fanciulla ed un dio che soltanto dopo molte peripezie sarà coronato dal lieto fine, cioè dal matrimonio. Poiché i personaggi della Loggia indicano spesso verso il basso, si intuisce che la decorazione doveva continuare anche sulle pareti e fu probabilmente lasciata in fieri a causa della morte di Raffaello.

 

Lezione n. 24
3-XII-2003

 

Il Profeta Isaia e la Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo

 

In seguito alla morte di Bramante, avvenuta nel 1514, Raffaello ricoprì la carica di sovrintendente alle Fabbriche Vaticane e fu sempre più coinvolto in veste di architetto e di esperto di antiquaria, e sempre meno come pittore. Nel biennio 1512-13 invece, si assiste ancora ad un’attività pittorica addirittura febbrile che lo porta a confrontarsi con il linguaggio michelangiolesco e pressoché contemporaneamente con quello della pittura veneta, aprendosi quasi con ogni opera a soluzioni diverse ed alternative. Nel 1512 affresca l’arcone di ingresso alla Cappella Chigi in Santa Maria della Pace a Roma e vi dipinge alcune Sibille, come si erano viste nell’appena svelata Volta della Sistina. Vi è infatti, anche in altre figure dello stesso affresco, ed in altre opere di questo periodo, un dialogo strettissimo con le opere michelangiolesche, ad esempio con soluzioni compositive spesso caratterizzate dalla linea serpentinata. Fra il 1511 ed il 1513 circa si data l’affresco col Profeta Isaia (fig. 35) nella chiesa romana di Sant’Agostino, commissionato dall’umanista lussemburghese Johann Goritz, al centro di importanti circoli intellettuali romani. Goritz aveva il patronato su di un altare addossato al terzo pilone della navata centrale della chiesa di Sant’Agostino. Per lo stesso altare, il Goritz aveva commissionato anche il celebre gruppo scultoreo della Madonna col Bambino e Sant’Anna realizzato da Andrea Sansovino nel 1511 (fig. 34). L’opera ebbe un grande successo per il suo classicismo (così spiccato ad esempio che il volto della Vergine è esemplato sui quello di una Kore greca del V secolo). Ogni anno, in occasione della festa della sant’Anna, gli umanisti amici del Goritz vi si recavano per appendervi un epigramma in onore della scultura, del suo autore o del committente. Questi componimenti latini furono poi raccolti in un volumetto che da Coricius, il nome del committente trasfigurato alla latina come d’uso per gli umanisti, fu chiamato ‘I coriciana’. L’affresco fu realizzato da Raffaello proprio sopra il gruppo scultoreo e poiché il profeta rivolge lo sguardo verso il basso costituisce un insieme con questo, connettendovisi idealmente. E’ l’opera più michelangiolesca di Raffaello, in cui il pittore compie un’operazione analoga a quella effettuato nei confronti di Perugino con lo Sposalizio della Vergine di Brera. È un fare i conti definitivamente col linguaggio di Michelangelo, assimilandolo, facendolo proprio e superandolo al tempo stesso. Vi è anche, com’era lecito attendersi vista la committenza, una concessione al colto ambito umanistico del Goritz, poiché i cartigli raffigurati nell’affresco recano iscrizioni in greco ed in ebraico. E vi si coglie, in virtù del michelangiolismo, anche uno scarto notevole rispetto alla Sant’Anna del Sansovino, invece così classica.
Nel 1513 Raffaello è impegnato nella decorazione della Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo a Roma.  Giulio II aveva donato alla stessa chiesa alcune opere (la Madonna del Velo ed il suo ritratto) e al Chigi, banchiere del papa, era stata concessa una cappella. In essa Raffaello realizza una decorazione improntata al concetto di unità delle arti, in cui scultura, pittura e mosaico convergono nella celebrazione del committente. Oggi purtroppo l’effetto ricercato da Raffaello si coglie soltanto in parte a causa delle molte aggiunte e dei cambiamenti realizzati nel corso dei secoli. Vi sono infatti, oltre alla tomba del Chigi voluta da Raffaello con l’originalissimo aspetto di una piramide, ed alle sculture inserite nelle nicchie negli stessi anni dal Lorenzetto, anche interventi assai più tardi come quelli del Bernini. La cupola è concepita con effetti di spiccato illusionismo: vi sono raffigurate costellazioni astrali ed al centro Dio padre che sembra chiamare qualcuno verso l’alto col suo gesto ampio. Sopra l’altare infatti era prevista una Pala d’altare con l’Assunzione della Vergine. Il dipinto e l’affresco si sarebbero integrati fondendosi in perfetta unità. Per la realizzazione dei mosaici, tecnica lunga e costosa, fu chiamato il veneziano Luigi da Pace. Per le parti architettoniche e per il sepolcro, Raffaello, in modo assai diverso rispetto alle scelte stilistiche di Bramante, fa ricorso a marmi policromi. Confermando di saper parlare a tutti i livelli di pubblico, dal più colto, al più comune, Raffaello in quello stesso periodo dipinge anche la Madonna della Seggiola oggi alla Galleria Palatina (diametro cm 71) in cui si confronta col genere del tondo, già al centro di una piccola tradizione, si pensi agli esempi botticelliani, in ambito fiorentino. Quest’opera è nelle collezioni medicee dal 1635, ma non sappiamo niente, a livello documentario, sulla sua storia precedente. Non si sa in particolare se fosse stata commissionata ad Urbino, oppure come pure sembrerebbe plausibile, da un membro dell’entourage mediceo raccoltosi a Roma intorno a papa Leone X. Oltre alla capacità di risolvere perfettamente il problema del tondo con una serie di strutture curvilinee che si richiamano armoniosamente l’una con l’altra, l’opera presenta altre particolarità. La Madonna si mostra infatti molto protettiva nei confronti del figlioletto, quasi allontanandolo dal san Giovannino che in effetti se ne resta un po’ in disparte, a differenza di quanto avveniva solitamente. Inoltre la Vergine è vestita in modo inconsueto, con un bellissimo scialle verde, con un velo vistosamente decorato sopra il capo, con vesti che ci ricordano quasi l’abbigliamento di una zingara. Questi elementi, suggeriscono un’altra lettura rispetto all’apparente ed esclusiva dolcezza del dipinto, alla luce di un’inquietudine connessa alla preveggenza della Vergine, che, ben consapevole del destino drammatico del figlio di cui il san Giovannino reca l’annuncio, cerca di proteggerlo. Così, con l’allusione ad una Vergine quasi profetessa, potrebbero forse spiegarsi anche le insolite vesti zingaresche. Il restauro effettuato nel 1984 ha evidenziato anche una grande velocità di tocco nell’esecuzione del dipinto.
Un’altra opera conservata alla Palatina e realizzata in questo periodo è la cosiddetta Velata in cui pure si è riconosciuta Margherita Luti, soprannominata la Fornarina, della quale Raffaello fu a lungo innamorato. Non può far a meno di colpire il grandissimo contrasto fra il volto, il velo, lo sfondo, piuttosto piatti ed attenuati, e la grandiosa esplosione  dell’abito e della manica in primo piano.
Vi è ancora il ritratto di Baldassarre Castiglione, umanista e amico di Raffaello, che infatti ha cercato di restituire un’immagine particolare, interiorizzata, del Castiglione, piuttosto che atteggiarlo nella posa del letterato, come aveva fatto per Fedra Inghirami. Visti gli abiti pesanti, fu realizzato in inverno, probabilmente fra il 1514 ed il 1515. I due, che stringono un fortissimo sodalizio intellettuale, scriveranno insieme una lettera indirizzata al papa Leone X pregandolo di prendere a cuore la salvezza dei monumenti romani.

 

Lezione n. 25
9-XII-2003

 

La Stanza dell’Incendio di Borgo ed alcuni ritratti

 

Il ritratto di Baldassar Castiglione (cm 82 x 67) che nel 1516 viene portato a Mantova dove il Castiglione viveva. In un’elegia del 1519 il letterato invita la giovane moglie, Ippolita Torelli, a trarre conforto dal dipinto durante le sue ripetute assenze. L’opera si conserva al Louvre di Parigi e sottolinea il rapporto sempre più intenso coi letterati che diviene ancor più importante intorno al 1515. Per i letterati Raffaello era il primo che aveva saputo dar vita all’ideale del nuovo artista in grado di sfidare, eguagliare e superare l’arte antica. I letterati avevano piacere ad intrattenersi con lui: ci resta ad esempio una lettera di Pietro Bembo che ricorda una gita fatta a Tivoli nel 1516 per visitare le rovine antiche insieme a quattro amici, i poeti Andrea Navagero, Agostino Beazzano e Baldassarre Castiglione, e Raffaello.
Nel 1514, conclusa la decorazione della Stanza di Eliodoro, Leone X gli commissiona la decorazione della Stanza dell’Incendio, con Storie di Leone III e Leone IV, dove però Raffaello affiderà gran parte della decorazione ad artisti operosi nella sua bottega. La Stanza aveva già la volta decorata dal Perugino, quindi Raffaello affrescò soltanto le pareti. Fra gli affreschi, L’incendio di Borgo rievoca il devastante incendio scoppiato nell’847 d.C. e miracolosamente placato dal pontefice Leone IV affacciatosi alla finestra. Dietro la loggia è raffigurata la chiesa medievale, l’aspetto originario della Basilica di San Pietro che in quegli anni era in fase di demolizione. Un altro elemento degno di attenzione è il gruppo sulla sinistra, con quattro persone che stanno uscendo, in cui è ripreso il modello iconografico di Anchise ed Enea che fuggono da Troia in fiamme. Vi si può leggere un’allusione all’operato di Leone X, che vuol proporre il suo pontificato come una nuova età dell’oro; è il papa che mette fine alle distruzioni delle guerre ed è anche il fondatore di una nuova e gloriosa Roma, alla stregua di un secondo Enea.  Con questo dipinto Leone X, diventato papa l’anno precedente, volle sottolineare la propria scelta politica rivolta alla pace, prendendo quindi le distanze dalle linee ideologiche del pontificato di Giulio II. Si coglie anche una spiccata forzatura anatomica nelle figure sulla sinistra, quasi che Raffaello si avvalesse di forme michelangiolesche per portare la scena ad un livello di altissima tragicità. Sull’altra parete è raffigurato un altro miracolo di Leone IV, viene cioè rievocato il momento in cui la flotta saracena approda ad Ostia (849 d.C.) ed è affrontata dall’assai più debole flotta pontificia, che ha la meglio perché una prodigiosa tempesta spazza via la flotta nemica. Nella figura di Leone IV si cela ancora una volta un criptoritratto di Leone X ed in primo piano c’è già l’esito finale della battaglia, con la sconfitta dei Saraceni. Anche in questo caso la scelta dell’evento è stata motivata da ragioni di attualità politica: un’allusione chiara alla Crociata antiturca progettata da Leone X, alle cui spalle compaiono i cardinali Giulio de’ Medici e Bernardo Dovizi detto il Bibbiena. L’elemento archeologico dello stile raffaellesco si coglie non soltanto nelle barche, ma anche nei gruppi in primo piano che sembrano costituire una sorta di bassorilievo all’antica. Molto probabilmente l’affresco fu eseguito nel 1517, per ultimo in questa stanza in cui lavorano anche Giulio Romano ed il Penni, ma l’idea compositiva si deve certamente a Raffaello, come ci indica il bel disegno a sanguigna conservato all’Albertina, con una scritta in tedesco di Dürer, in cui si afferma che il disegno gli fu dato da Raffaello per mostrargli la bravura della sua mano, e la data 1515.
Il ritratto di Leone X con i due cardinali, a sinistra Giulio de’ Medici, a destra Luigi de’ Rossi (Firenze, Uffizi 155 x 119) fu eseguito nel 1517-18, e mandato a Firenze il primo settembre 1518 per le nozze di Lorenzo de’ Medici, figlio di Alfonsina Orsini, con Madeleine de la Tour d’Auvergne imparentata con i reali francesi. Questo ritratto mostra un papa totalmente diverso da Giulio II; Leone X infatti si fa ritrarre come un collezionista, seduto ad un tavolo dove è aperta una bellissima Bibbia miniata trecentesca per la quale il pontefice mostra interesse come opera d’arte piuttosto che come testo sacro. E’ un pontefice che svolge opera da pacificatore, un uomo di cultura e non è di poco peso l’appartenenza alla famiglia de’ Medici visto che questi erano stati tra i massimi mecenati d’arte.
Un disegno giovanile del 1506-7 raffigurante l’interno del Pantheon, l’edificio antico meglio conservatosi a Roma ci introduce idealmente ad una nuova fase dell’operosità raffaellesca. Nell’agosto 1514, poco dopo la morte di Bramante, Raffaello è nominato architetto papale e investito della responsabilità di soprintendente di tutte le Fabbriche Vaticane, affiancato da due vecchi architetti, Fra’ Giocondo (1433-1515) e Giuliano da Sangallo (ca 1440-1515): grande teorico e costruttore il secondo, conoscitore di Vitruvio e del latino il primo. Sia Fra’ Giocondo che il Sangallo però morirono assai presto e Raffaello si trovò da solo a far fronte all’immensa Fabbrica di San Pietro. Il primo progetto per San Pietro è dell’estate 1514. E’ un momento in cui l’artista è gravato da una enorme mole di incarichi. Dei suoi progetti architettonici quasi nessuno fu portato a compimento: forse l’unico fu il Palazzo romano Branconio dell’Aquila, che tuttavia fu distrutto per la realizzazione di Via della Conciliazione. In questo periodo Raffaello attende anche a Villa Madama, paragonabile alla funzione della Farnesina, ma molto più archeologizzante: qui il modello è fornito dalle grandi esedre absidate della classicità, ma anche in questo caso la villa fu trasformata e decorata dopo la morte dell’artista. 

 

Lezione n. 26
10-XII-2003

 

Gli Arazzi vaticani

 

Nella volta della Stanza dell’Incendio di Borgo dove Raffaello lavora fra 1514-17, viene rispettata la precedente decorazione realizzata dal Perugino probabilmente intorno al 1508-9 durante la campagna decorativa che Raffaello trova in corso quando arriva a lavorare alle Stanze. Intervallati da motivi grottesca e monocromi in cui sono raffigurati soggetti tratti da monete e medaglie classiche, gli scomparti principali raffigurano allegorie sacre. Esse si riallacciano alla funzione originaria della Stanza, che inizialmente svolgeva la funzione di Tribunale della Segnatura Gratiae et Iustitiae. Ognuna di queste stanze cambia la propria funzione nel corso degli anni. Negli anni di Leone X la Stanza dell’Incendio è infatti la camera da pranzo del pontefice, mentre la Stanza di Eliodoro era la Stanza dell’Udienza privata. Prima del 1513 invece, negli anni di Giulio II, quella di Eliodoro era la Stanza della Segnatura, cioè del Tribunale presieduto direttamente dal pontefice.
Alla fine del 1514 Raffaello riceve una commissione molto importante da Leone X, cioè l’elaborazione del ciclo di cartoni destinati alla realizzazione degli arazzi da appendere sulle pareti della Cappella Sistina. Le pareti, decorate negli anni ottanta del Quattrocento da un’équipe di artisti che aveva realizzato una serie di affreschi con Storie di Mosè e di Cristo, avevano ancora infatti un ampio zoccolo monocromo libero da figurazioni. Leone X decide dunque di far tessere dieci splendidi arazzi con le Storie dei santi Pietro e Paolo per completare la decorazione. Come per tutti gli arazzi, i tessitori, ed in questo caso fu scelta la bottega di Pieter Van Aelst a Bruxelles, avevano bisogno di cartoni con disegni molto finiti su cui basarsi. Oggi si conservano gli arazzi, che sono esposti a rotazione nella Pinacoteca vaticana, e che anche nel Cinquecento erano appesi alle pareti soltanto nelle occasioni più importanti, e sette dei dieci cartoni originali, giunti, attraverso vari passaggi collezionisti, al Victoria and Albert Museum di Londra. Ci restano anche alcuni pagamenti risalenti al giugno 1515 e al 1516. Per Raffaello si trattava evidentemente di una commissione di grande importanza che sanciva una sorta di sfida ravvicinata con Michelangelo. I soggetti delle scene sono tratti dagli Atti degli apostoli. Nella Vocazione di San Pietro o Pesca Miracolosa ci colpisce lo stupendo scenario naturale con una distesa di acque resa come fosse uno specchio e con alcuni particolari naturalistici in primo piano, come un bellissimo gruppo di cicogne, forse realizzate da Giovanni da Udine. Nella Consegna delle chiavi, unita al Pasce Oves Meas, viene presentata una sorta di architettura fatta di figure. Cristo, seppur atletico, con il suo gesto e con l’abito bianco, sottolinea la sua appartenenza al mondo spirituale, ben distinto da quello degli uomini, rappresentato dagli apostoli. L’intera composizione sembra davvero elaborata sulla base della scena del Tributo affrescata da Masaccio alla Cappella Brancacci. Nella terza scena, il miracolo di San Paolo ricorda l’accecamento del mago persiano Elimas che aveva irretito il proncosole dell’Asia Sergio Paolo. Essa ci colpisce per l’architettura, animata da nicchie, inserite come sfondo, e per l’esagerazione dei gesti dei personaggi che dimostra la ricerca di uno stile figurativo grandioso, quasi michelangiolesco, ma al tempo stesso più rigoroso dal punto di vista della rievocazione archeologica. Il quarto cartone, con il Sacrificio di Listra, rievoca il momento in cui san Paolo, giunto in una città della Grecia, viene scambiato per una divinità pagana, Mercurio, e gli abitanti gli tributano un sacrificio. Il soggetto offre a Raffaello l’occasione della ricostruzione di una scenografia antichizzante con una statua, un altare triangolare ed i vittimari che si accingono a sacrificare il toro. Nella quinta scena è raffigurato San Pietro che risana lo storpio: Raffaello lo ambienta all’interno del tempio di Salomone che è per lui teatro di una ricostruzione archeologica in cui spiccano le colonne tortili ad andamento elicoidale come le si poteva vedere in San Pietro e che si credevano provenienti dal distrutto tempio di Salomone. In questa scena, il san Pietro in profilo può far pensare all’affresco di Masaccio alla Brancacci, mentre il bambino sulla sinistra è quasi una sfida ai nudi michelangioleschi. Il sesto cartone raffigura la Predica di san Paolo all’areopago di Atene e Raffaello ne trae spunto per una ricreazione dell’Atene classica con il Palazzo bramantesco sulla sinistra ed il Tempio circolare sulla destra.
L’ultimo fra i cartoni che ci sono giunti invece raffigura la Morte di Ananìa, cioè la raffigurazione di san Pietro che lo punisce poiché si era rifiutato di versare i suoi beni nella cassa comune. In questo caso non vi è alcun rapporto con l’analogo episodio della Cappella Brancacci, ma anzi Raffaello articola un linguaggio così classico ed arcaicizzante da anticipare molte delle soluzioni compositive che saranno care a pittori come Poussin e Domenichino. Negli anni successivi per Raffaello diventa sempre più importante l’architettura ed il desiderio di porsi come massimo interprete dell’antiquaria romana. Il primo esempio di realizzazione di un ambiente decorativo all’antica è offerto nel 1516 dall’appartamento del cardinal Bibbiena nei Palazzi Vaticani. Ambienti come la stufetta (bagno) o la galleria ci fanno capire come Raffaello (che ormai svolge quasi esclusivamente il ruolo di regista alla guida di un équipe di collaboratori) avesse perfettamente assimilato la sintassi decorativa delle antiche dimore romane nelle gamma cromatica (il rosso, il bianco dello sfondo) e nelle più minute decorazioni (grottesche, decorazioni leggerissime e minuziose).

 

lezione n. 27
15-XII-2003


La decorazione delle logge ed altre opere della fine della carriera

Nel biennio fra 1515 e 1516, Raffaello è nominato architetto papale ed è impegnato nella decorazione dell'appartamento del cardinal Bibbiena, ma guida anche l'équipe di artisti attivi alle Logge bramantesche, al secondo piano dei Palazzi Vaticani. Si tratta di cinquantadue scene di tema sacro realizzate nelle volte. Nelle nicchie ricavate nelle Logge era stata collocata una collezione di sculture antiche, a conferma del tono archeologizzante conferito all'intero ambiente. Fra gli artisti attivi alle Logge si ricordano Giulio Romano, Giovanfrancesco Penni, Giovanni da Udine, Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio. Le scene sono di piccole dimensioni, sono collocate piuttosto in alto, inoltre e sono state restaurate di recente. Il Ritrovamento di Mosè, con un bellissimo paesaggio fluviale che potrebbe ricordare quello della Chiamata di san Pietro negli arazzi vaticani, che mostra un tipo di linguaggio improntato alla chiarezza ed alla semplicità e l'Attraversamento del Mar Rosso ha un'impaginazione più scenografica. Potrebbe trattarsi di opere di Giulio Romano, ma è assai difficile distinguere le mani dei vari collaboratori ormai uniformate dall'abilissima regia raffaellesca. Da queste scene venne tratto anche un libretto di incisioni chiamato la 'Bibbia di Raffaello' che ebbe notevole diffusione. La decorazione delle Logge fu molto lodata e Baldassar Castiglione ebbe addirittura modo di scrivere che non c'era cosa più bella in tutta Roma. Esse furono ornate anche dagli stucchi di Giovanni da Udine (figg. 39-40). Si trattava di stucchi bianchi all'antica, come si potevano vedere nella Domus Aurea e al Colosseo. Di questa tecnica, adatta a simulare il marmo, ma assai più duttile, si era perso il segreto e furono proprio Raffaello e Giovanni da Udine a recuperarne la ricetta, occasione ulteriore per Raffaello di mostrare la sua coscienza di artista antiquario abile anche per reinventare le tecniche. Gli stucchi si caratterizzano anche per i temi all'antica: scene di sacrificio o dettagli francamente erotici introdotti senza alcuna censura, come si poteva vedere nell'arte antica. Il percorso di Giovanni da Udine, che raggiunge un apice nel momento di stretta collaborazione con Raffaello, per poi declinare dopo la scomparsa di questi, ci fa capire ancora una volta quanto fosse determinante il peso dell'intervento, sia pur indiretto, del maestro, in queste decorazioni. In questo momento di grande fervore antiquario per Raffaello, svolgono un ruolo importante anche le incisioni. Fra queste si rivela interessante il foglio noto col titolo di "Quos Ego". Si presenta come una finestra aperta con l'inserimento di molti commenti scritti. Raffaello, al termine della sua carriera, pur senza diventare mai un latinista, acquisì una notevole conoscenza della lingua latina, tanto da poter leggere direttamente le fonti classiche. Il Quos ego,realizzato da Marcantonio Raimondi su disegno di Raffaello, ha l'ambizione di riassumere in un'immagine, articolata in una serie di riquadri, il primo libro dell'Eneide. Il titolo è tratto dall'esclamazione pronunciata da Nettuno che, balzando fuori dalle acque, sgrida i venti. Raffaello vi si cimenta con una delle fonti letterarie più importanti e la scelta del primo libro, molto meno celebre del quarto o del sesto, fa credere che il maestro avesse fra i progetti stroncati dalla sua morte precoce ed improvvisa, anche quello di curare un'edizione illustrata del testo virgiliano. Un disegno realizzato verso il 1509 da Jacopo Ripanda, raffigurante il Trionfo di Scipione l'emiliano, ci fa capire il clima archeologizzante allora in voga a Roma, e in cui Raffaello seppe imporsi come massimo rappresentante tanto da soppiantare il Ripanda. Alfonso I d'Este, duca di Ferrara, grande mecenate, aveva commissionato a Raffaello un'opera che questi non eseguì mai, cioè il Trionfo di Bacco.
Il Duca aveva fatto eseguire ben due stanze, per ospitare le proprie collezioni: il Camerino per le Sculture e quello per le Pitture (detto d'Alabastro). Nel Camerino d'Alabastro (fig. 41) aveva riunito un ciclo di dipinti da leggersi tutto d'un fiato sebbene commissionato a diversi artefici (i maggiori pittori del tempo: Dosso Dossi, Giovanni Bellini, Tiziano). Nel primo progetto per la decorazione del camerino era incluso anche Fra’ Bartolomeo ed Alfonso cercava anche di coinvolgere Michelangelo e Raffaello. Se i suoi tentativi con Michelangelo furono decisamente vani, ebbe maggior successo con Raffaello. L'urbinate si impegnò con Alfonso, realizzò una serie di disegni e cercò di procastinare la realizzazione del dipinto a causa dei molti impegni sopraggiunti in quegli anni. La morte gli impedì poi di realizzare l'opera. Nel disegno conservato all'Albertina di Vienna sono incluse quasi tutte le figure previste per la redazione finale. Al centro vi è un elefante, Sileno ebbro a cavalcioni di un leone, ed il tipico corteo bacchico (Tìaso), mentre lo sfondo è interamente riempito da figure, proprio come d'uso presso gli scultori classici. Il Trionfo di Bacco si basa su un dialogo di Luciano in cui si racconta come il figlio illegittimo di Zeus, recatosi in India, aveva trionfato su quelle popolazioni, riuscendo così anche l'inventore del trionfo militare, a gloria di Giove e a dispetto della gelosia della matrigna Giunone.
Quando Raffaello muore, il 6 aprile 1520, a seguito di una febbre violentissima, il grande cordoglio collettivo (fra mecenati ed umanisti) si appunta sull'impossibilità di veder realizzato uno dei molteplici progetti avviati in quegli anni, cioè la ricostruzione grafica dell'antica Roma. Si trattava di una prodigiosa ricostruzione archeologica in cui una sola regione di Roma era stata affrontata (e purtroppo anche quei fogli andarono perduti dopo la morte dell'artista). Ce ne resta traccia considerevole nel Taccuino di Fossombrone (chiamato così perché conservato nella biblioteca della cittadina marchigiana), realizzato da un artista vicino a Raffaello, che ne mette in bella copia i progetti dell'ultima fase d'attività. Fra questi si è presa in esame una ricostruzione in alzato delle Terme di Diocleziano (f. 16r, fig. 42).
Fra le ultime opere pittoriche di Raffaello si distinguono ancora altri dipinti, come l’Andata al Calvario detto Spasmo di Sicilia conservato al Museo del Prado di Madrid che trae il nome dalla destinazione, il monastero palermitano di Santa Maria dello Spasimo. Fu dipinto fra 1515 e 1516 ed ha una storia avventurosa, poiché fu inviato a Palermo per mare e scampò prodigiosamente al naufragio della nave. A metà Seicento fu acquistato dal vicerè spagnolo il re di Spagna Filippo IV che lo fece collocare sull’altare della cappella dell’Alcàzar. Raffigura l'andata al Calvario, è firmato dall'artista, e ci presenta un'immagine di forte impatto emotivo, con uno stile fortemente tragico e drammatico, tanto da far sospettare una fonte nordica, ci mostra ancora l'ambizione di non sentirsi secondo all'eroismo potente di Michelangelo e ci rivela l'importanza di Raffaello per il mondo barocco. Nel 1518 Raffaello realizza due dipinti per la corte francese di Francesco I: il San Michele Arcangelo e la Sacra Famiglia, entrambi conservati al Louvre. Nella Sacra Famiglia con santa Elisabetta, san Giovannino e due angeli (207 x 140 cm), il maestro appare molto meno michelangiolesco e tonante, e sembra invece nuovamente molto sensibile al linguaggio di Leonardo che infatti si era da poco trasferito in Francia. Nel San Michele (268 x 160 cm), la vorticosa rotazione dell'arcangelo fa comprendere l'impatto di Raffaello sugli artisti barocchi. Appartiene all'ultima fase dell'attività del maestro anche la piccola tavola con la Visione di Ezechiele conservata alla Galleria Palatina. Ne fu committente il conte Vincenzo Ercolani e si trattava di un'opera destinata a Bologna. Anch'essa è a suo modo rivoluzionaria poiché Raffaello cambia radicalmente l'iconografia della scena ribaltandone la visuale: Ezechiele è piccolissimo e lontano, mentre la visone divina si presenta in tutta la sua potenza sotto i nostri occhi, dove Dio Padre, per il quale Raffaello si ispira ad un'immagine di Zeus, appare in uno sfolgorio di luci in mezzo ai simboli degli Evangelisti.

 

Lezione n. 28
16-XII-2003


Le ultime opere ed il riesame di una fonte

Fra le opere appartenenti all’ultima attività del maestro, realizzate poco prima della scomparsa, si incontrano alcuni ritratti come quelli celeberrimi della Fornarina (Roma, Galleria Nazionale, 85 x 60 cm) e di Bindo Altoviti (Washington, National Gallery of Art, 60 x 44 cm). 
L’Autoritratto con un amico, che si conserva al Museo del Louvre, è un olio su tela (cm 99 x 83) e mostra il volto dell’artista alla fine della sua breve esistenza, mentre non è nota l’identità del personaggio in primo piano, il cosiddetto “maestro di scherma”, che si volta a guardare l’amico pittore con una mano sull’elsa della spada, mentre l’altra presenta l’indice puntato verso l’osservatore (si è fatto di recente il nome di Giovanni Battista Branconio dell’Aquila, committente ed esecutore testamentario di Raffaello, e di Giulio Romano, suo principale collaboratore negli ultimi anni d’attività).  Il dipinto è documentato in varie città della Francia nel Seicento, ed entrò in seguito a far parte delle collezioni del Louvre.
La Trasfigurazione è un olio su tavola di grandissime dimensioni (410 x 279 cm) e si conserva alla Pinacoteca Vaticana. Fu commissionata dal cardinal Giulio de’ Medici alla fine del 1516, come dono per la Cattedrale di Narbonne, la città di cui era vescovo, insieme alla Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo. La tavola non era stata ancora incominciata da Raffaello nel luglio 1518, ma risultava quasi compiuta alla morte dell’artista. Esposta dapprima nel Palazzo della Cancelleria e quindi donata dal committente nel 1523, dopo la sua salita al soglio pontificio (come Clemente VII), alla chiesa bramantesca di San Pietro in Montorio, l’opera, dopo il temporaneo trasferimento a Parigi durante il periodo napoleonico, entrò a far parte della Pinacoteca Vaticana dal 1817. Essa segna il culmine del cosiddetto ‘stile tragico’ di Raffaello ed apre a ricerche che saranno condotte a compimento soltanto un secolo più tardi da Rubens e soprattutto da Caravaggio. La luce che deflagra nella zona superiore del dipinto emana da Cristo, acceca gli apostoli e trafigge i profeti. E’ lo strumento di uno svolgimento profondamente emotivo. Nelle figure degli apostoli, immersi nell’oscurità, alle pendici del monte Tabor, i volti sono studiati dal vero ed ombre e luci ne definiscono crudelmente l’epidermide, in un’oggettività che poteva facilmente attirare l’attenzione del giovane Caravaggio.
In particolare, per due dei volti di apostoli nell’ombra sembra di poter cogliere proprio un’anticipazione di Caravaggio.
Un’opera che Raffaello non ha neppure fatto in tempo ad iniziare è la decorazione della quarta Stanza degli Appartamenti papali, detta Stanza di Costantino.
Fu decorata fra 1520 e 1524 da Giulio Romano e dal Penni. Vi è raffigurata una grande scena di Battaglia, come se fosse un fregio all’antica: è una delle opere più importanti della produzione di Giulio Romano, ma anche per questa scena ci restano i disegni raffaelleschi, segno evidente che prima dell’aprile 1520 Raffaello ne aveva già approntato la composizione.
L’analisi del catalogo raffaellesco si chiude mostrando l’incisione del Raimondi che raffigura Raffaello melanconico, assai diverso da quell’immagine mitica ed apollinea alimentata nell’Ottocento (che infatti leggeva questa come una raffigurazione dell’artista ammalato, nel tentativo di dar una spiegazione alla sua ‘difformità’) e con l’Italiana dipinta da Picasso nel 1919, una sorta di visione dissacratoria, ironica e beffarda della bellezza delle Madonne raffaellesche. Lo stesso Picasso, tuttavia, cinque anni più tardi, in una tela preparata a pennello e poi non dipinta, raffigura la prima moglie con il figlioletto in grembo, mostrando di recuperare in qualche modo l’ideale di serenità legato a molte delle opere di Raffaello: indice della fortuna di Raffaello anche in un secolo in cui non fu amato.
Nel secondo volume redatto da John Shearman, fra i documenti ritenuti falsi è inclusa anche la lettera che il primo ottobre 1504 sarebbe stata inviata da Giovanna Feltria della Rovere al gonfaloniere di Firenze, Pier Soderini, per raccomandare Raffaello.
Solitamente viene citata in una versione leggermente corretta, non corrispondente al testo reso noto dall’erudito Bottari alla metà del Settecento. Nel testo pubblicato dal Bottari infatti, quando parla di Giovanni Santi, la Feltria lo elogia esprimendosi al presente. Poiché i commentatori erano a conoscenza che la morte dell’artista era avvenuta nel 1494, dieci anni prima della stesura della presunta lettera della Feltria, lo correggono introducendo un passato remoto. Quando monsignor Bottari pubblica la lettera, tuttavia, i documenti sul Santi non si conoscono ancora. Inoltre, la celebre espressione “ha deliberato stare a Firenze per imparare” è ripresa quasi di peso dalla Vita scritta da Vasari dove si afferma che “per l’amore che portò sempre all’eccellenza dell’arte, che, messo da parte quell’opera et ogni utile e comodo suo, se ne venne a Fiorenza”. Evidentemente, si tratta di una falsificazione nata per confermare la ricostruzione, peraltro attendibile, del percorso di Raffaello e fissarne l’andata a Firenze nel 1504.

 

Lezione n. 29
17-XII-2003


Tre fonti su Raffaello

Si prende in considerazione la Vita di Raffaello (Raphaelis Urbinati Vita) scritta dall’umanista Paolo Giovio intorno al 1525. Sono testi scritti in latino con uno spiccato senso critico ed una straordinaria densità: Giovio stila anche un catalogo delle opere raffaellesche e coglie alcuni degli aspetti particolari della sua intelligenza. Raffaello compare al terzo posto, dopo Leonardo e Michelangelo ed è degno di lode “suavitate et solertia”. Col primo dei due termini si intende l’amabilità del carattere, col secondo l’alacrità dell’ingegno e delle realizzazioni. E’ lodato anche per “ingenio docile” cioè per il talento duttile. Se ne ricorda l’intimità coi potenti, con gli umanisti, che, insieme all’eccellenza delle sue opere, gli procurò grande fama. Nel catalogo stilato dal Giovio non compare l’attività umbra, ma si inizia dall’attività romana, dalle Stanze della Segnatura e di Eliodoro. Il Giovio afferma che esse furono decorate “ad prescriptum ponteficis Iulii” cioè per ordine di papa Giulio. Si sofferma sul Parnaso con l’immagine delle nove Muse che appaiono ad Apollo che canta accompagnandosi con la lira. Il letterato tuttavia commette alcuni errori nelle descrizioni degli affreschi, facendoci capire che non ha scritto il suo testo di fronte agli affreschi, ma a diverso tempo di distanza da quando li aveva potuti osservare. Per quanto riguarda la Stanza di Eliodoro, ci aspetteremmo la descrizione dell’affresco da cui prende il nome, invece preferisce soffermarsi sulla Liberazione di san Pietro dal carcere. Catturano la sua attenzione i soldati messi a guardia del sepolcro che rifulgono di luce nella notte, ma al punto tale che ne fraintende il soggetto e la Liberazione di San Pietro viene scambiata con una Resurrezione di Cristo. Giovio tuttavia apprezza l’aspetto estetico della scena ed i suoi bellissimi giochi di luce, evidentemente ciò che restava chiaro anche dopo la scomparsa di Raffaello e di Giulio II. Arrivando alla terza stanza, Giovio la definisce triclinium,poiché negli anni di Leone X aveva svolto la funzione di sala da pranzo. Cita l’incontro fra Leone IV ed Attila davanti alle porte di Roma e parla della ferocia di Totila, evidentemente confuso con Attila. Con ordine cronologico chiaro, passa alla descrizione delle Logge che Raffaello “riempì con pari eleganza e con pennello ben capriccioso”, cioè conferendo a questi affreschi un aspetto più pagano rispetto a quelli delle Stanze. Lo colpiscono tutte le decorazioni, e trascura le scene veterotestamentarie delle tredici cupolette, preferendo concentrarsi sulla “mirabile varietà di fiori ed animali”. Per l’umanista tuttavia, le Logge sono di Raffaello: si mostra assai poco interessato alle distinzioni di mano fra gli allievi o alla precisazione dell’intervento della bottega e per lui resta invece fondamentale l’abilissima regia del maestro. Per Giovio, ultima opera di Raffaello fu la battaglia e sconfitta di Massenzio (nella Stanza di Costantino), da lui soltanto cominciata e compiuta molto più tardi dai discepoli. La Stanza fu conclusa nel 1524, appiglio cronologico utile anche per datare il testo del Giovio, che fu scritto nel 1525. Della Trasfigurazione (il dipinto che papa Clemente destinò all’altare di San Pietro in Montorio sul Gianicolo) lo colpisce il particolare in basso col fanciullo invasato, poiché vi coglie la capacità di mostrare i moti dell’animo. Quindi stila una sorta di valutazione complessiva dell’opera raffaellesca alla quale non venne mai meno la bellezza aggraziata, benché talvolta abbia ecceduto nel tendere le muscolature oltremodo, mostrando le capacità dell’arte al di là della natura. Non gli sembra neppure che Raffaello abbia rispettato la prospettiva e questa è un’affermazione assai discutibile. Raffaello fu comunque per Giovio un artista piacevolissimo, sapendo unire colore e disegno, e superando in ciò Michelangelo. Morì nel fiore degli anni, mentre per amore dell’architettura misurava i resti di Roma antica, cioè cercava di ricostruire l’aspetto dell’antica Roma. 
Un’altra fonte importante è la celeberrima lettera di Raffaello che di solito viene datata 1514 ed è indirizzata da Roma a Baldassar Castiglione. Essa sembra offrire una sintesi di alcune tendenze tipiche dell’arte di Raffaello. La lettera compare a stampa per la prima volta nel 1554 ed inoltre è scritta con un tono ed un linguaggio estremamente diversi da quelli solitamente usati da Raffaello nelle sue missive e persino nei suoi sonetti. Colma di topoi letterari, essa ha fatto ipotizzare con buon fondamento a John Shearman che si tratti di una creazione dello stesso Castglione che la scrisse probabilmente verso il 1521-22 tracciando un ritratto postumo dell’arte dell’amico ormai morto. A proposito della nomina ad architetto della Fabbrica di San Pietro si afferma che il pontefice gli avrebbe imposto “un gran peso”, circa la Galatea che “per dipingere una bella è necessario vedere più belle”. In queste ultime parole si cela il riferimento all’aneddoto di Zeusi riferito da Plinio: il pittore greco, dovendo dipingere il ritratto di Elena a Crotone, si fece mandare le fanciulle più belle di quella città,  e creò un’immagine di bellezza fondendo i dettagli più belli del corpo di ognuna. Si tratta evidentemente di un’allusione al concetto di bellezza ideale, ossia della bellezza artistica che nasce nella mente piuttosto che negli occhi. Si tratta dunque di una testimonianza letteraria di grande rilievo critico.
La terza fonte presa in esame è la lettera scritta da Raffaello insieme a Baldassar Castiglione ed indirizzata a Leone X. Essa si conserva nell’archivio degli eredi Castiglione a Mantova e ci è nota in tre diverse versioni; poteva essere anche un’introduzione alla ricostruzione grafica dei resti di Roma antica a cui Raffaello stava lavorando in quel periodo. Vi si esprime la disperazione ed il dolore di fronte alla sorte dei marmi dell’antica Roma. “quanti pontefici hanno atteso a rovinare i templi antichi…quanta calce si è fatta delle statue..”  Vi si può cogliere la radice della politica della tutela e vi si afferma che l’arte antica deve essere uno stimolo per i moderni per “aguagliarla et superarla”.

 

Fonte: http://infoumaold.di.unipi.it/Didattica/STA/Dispensa_Raffaello.doc

 

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