Arte grandi maestri del passato

 

 

 

Arte grandi maestri del passato

 

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GRANDI MAESTRI DELL’ARTE

 

Andrea del Castagno

 

 

Nato in un piccolo paese dell'Appennino toscano, giunge a Firenze poco più che ventenne e viene a contatto con i maestri del primo Quattrocento fiorentino, Masaccio, Donatello, Piero della Francesca e Domenico Veneziano, del quale è anche un probabile allievo.


Da queste esperienze trae quell'interesse per la figura umana, per l'anatomia e per la resa volumetrica dello spazio che caratterizzano interamente la sua opera. Dopo un soggiorno a Venezia nel 1442, vive sempre a Firenze realizzando cicli a fresco in chiese e conventi, alcuni dei quali sono perduti. Su di lui ha a lungo pesato la fama di uomo crudele diffusa dal Vasari e definitivamente smentita solo alla fine del secolo scorso. La pittura di Andrea del Castagno, una delle figure più originali del Quattrocento fiorentino, è rimasta pressoché sconosciuta e i suoi affreschi per buona parte coperti da strati di intonaco fino all'Ottocento.


Prima opera a lui attribuita è una Crocefissione e santi, dipinta in Santa Maria Nuova poco dopo il suo arrivo a Firenze. Nel 1442 realizza nella Chiesa di San Zaccaria a Venezia il suo primo ciclo con Dio Padre e i quattro Evangelisti. Rientrato a Firenze fornisce i disegni per la vetrata con la Deposizione in Santa Maria del Fiore e pone mano al suo capolavoro, la decorazione del refettorio del convento di Sant'Apollonia con Crocifissione, Deposizione, Resurrezione e la superba Ultima Cena, piena espressione dello stile individuale di Andrea.


Verso il 1450 realizza nella Villa Carducci di Legnaia la serie di affreschi di Gli uomini illustri, oggi staccata e conservata agli Uffizi. Trascorre gli ultimi anni della sua breve carriera lavorando a tre impegni principali: il ciclo lasciato incompiuto da Domenico Veneziano in Sant'Egidio, purtroppo oggi interamente scomparso; gli affreschi alla Santissima Annunziata, dove è riemersa la sola Trinità con San Girolamo; il celebre monumento equestre di Niccolò da Tolentino, affrescato nella chiesa di Santa Maria del Fiore.

 

    Giovanni Bellini

 

 

Nella Venezia della seconda metà del XV secolo, incarna il genio del Rinascimento, ma in modo conforme alle tradizioni e ai gusti dell'ambiente locale. Una lunga carriera e la diversità delle influenze subite spiegano le variazioni del suo stile, che ebbe una lenta maturazione.


Gli inizi e i primi capolavori
G. Bellini apprese il mestiere di pittore nella bottega del padre. Ma non tardò a subire un'influenza che doveva segnarlo profondamente: quella del Mantegna di cui sposò, nel 1453, la sorella Niccolosa.


Attraverso l'arte del cognato, Giovanni conobbe l'ambiente colto e innovatore di Padova, tributario della cultura fiorentina. Del Mantegna adottò la composizione serrata, la prospettiva rigorosa, il disegno preciso e lineare.


Tuttavia, il mondo del Bellini è meno incorruttibile, meno archeologico e meno impassibile di quello del Mantegna. Il suo colore è più profondo, più omogeneo e ha già un ruolo importante nella traduzione del rilievo. C'è più umanità nei sentimenti espressi: tenerezza, gioia o dolore. La natura è rappresentata, fatto del tutto nuovo, con tanta verità quanto amore; spesso le composizioni si stagliano su fondali paesaggistici dove si riconoscono la campagna o le colline di Venezia. Le prime opere, dipinte verso il 1450, sono piccoli pannelli, come la Pietà dell'Accademia Carrara, a Bergamo, che raggruppa, secondo un tema che sarà frequente nel Bellini, le figure a mezzo busto della Vergine, di San Giovanni Evangelista e del Cristo alla tomba. Possono essere datati agli anni successivi la Trasfigurazione, densa e cristallina, della pinacoteca Correr (Venezia) e l'Orazione nell'orto della National Gallery di Londra.
Verso il 1460, si situa l'ammirevole Pietà della pinacoteca di Brera di Milano, dipinta in una gamma di colori smorzati che traduce il sentimento tragico. Bellini comincia a moltiplicare le variazioni su un tema che non smetterà mai di interessarlo: quello della Madonna con il Bambino, per lo più ritratto a mezzo busto, su un fondo a volte neutro, a volte con elementi architettonici o paesaggistici (Madonna dal mantello rosso del Castello Sforzesco, a Milano).
Dopo essersi fatto conoscere con queste opere, Bellini è incaricato, attorno al 1465, di lavori più ambiziosi. Il Polittico di San Vincenzo Ferreri (Venezia, chiesa dei SS. Giovanni e Paolo) è più di ogni altro testimone di una forte personalità. La sua predella porta scene narrative animate: un'illuminazione arditamente contrastata sottolinea la potenza plastica delle figure dei santi del registro principale.


La maturità
Tra il 1470 e il 1475 Bellini dipinge la Pala di Pesaro, che segna una svolta capitale nella sua produzione. L'influenza del Mantegna si affievolisce, mentre si manifesta in modo più accentuato quella di Piero della Francesca. In uno spazio più ampio, le figure acquistano maggiore maestà, e l'aerea atmosfera che ne deriva viene ad attenuare la durezza dei contorni. Il Compianto sul Cristo morto, che formava la parte superiore, si trova nella pinacoteca Vaticana; il museo di Pesaro conserva la predella e il pannello principale, che riunisce le figure dell'Incoronazione della Vergine e quelle di quattro santi su un fondo che associa paesaggio e architettura, magistralmente messo in prospettiva. Gli anni seguenti dovevano dare al Bellini la pienezza dei suoi mezzi. Questo è il periodo dell'equilibrio tra la forma, la cui precisione si lega a un modello più morbido, e i toni che, caldi o freddi, tenui o penetrati di luce, si esaltano gli uni con gli altri. Il clima spirituale è quello di meditazione improntata di gravità. Una poesia profonda emana dal paesaggio, con il quale le figure si integrano in maniera perfetta. La sua importanza è fondamentale in molti pannelli dipinti tra il 1475 e il 1485 circa, come l'Estasi di S. Francesco (collezione Frick, New York) e la luminosa Trasfigurazione della Galleria Nazionale di Napoli: più tardiva è la Sacra allegoria degli Uffizi. Tra il 1480 e il 1490, Bellini dipinge per le chiese veneziane due dei suoi grandi retabli. LaPala di S. Giobbe (Accademia di Venezia) dispone a tre per tre su un solo pannello, in un'architettura simmetrica, sei maestose figure di santi che inquadrano una Vergine col Bambino seduta su un trono, ai piedi del quale giocano tre graziosi angeli musicanti. Bellini fissava così (preceduto da Antonello da Messina, nella Pala di S. Cassiano) un tipo di composizione che lascia ampio spazio al tema veneziano della sacra conversazione e che egli stesso avrebbe ripreso con la Madonna dei Frari, nella chiesa omonima. Nel periodo compreso tra il 1470 e la fine del secolo, sono commissionate al Bellini numerose madonne di piccolo formato, di un sentimentalismo più tenero ancora di quelle dipinte all'inizio della sua carriera (Madonna del prato, National Gallery di Londra). Il tema della sacra conversazione ritorna in diversi quadri. Tra le altre composizioni degli ultimi anni del secolo, di formato piccolo o medio, vanno citate la Circoncisione della National Gallery. Bellini ha anche dimostrato la sua maestria nell'arte del ritratto, con un dono di espressione che lo avvicina ad Antonello.


Gli ultimi anni
Lungi dal consacrarsi alla ripetizione delle formule che gli avevano assicurato il successo, Bellini seppe rinnovare la sua ispirazione e il suo linguaggio, traendo profitto dal contatto con giovani pittori quali Giorgione e Tiziano. Infatti il Battesimo del Cristo della chiesa S. Corona a Vicenza (tra il 1500 e il 1510) lega ancora più strettamente le figure a un paesaggio in cui regna un sentimento elegiaco: il tocco è più sfumato, i toni caldi predominano. LaPala di S. Zaccaria (1505, nell'omonima chiesa veneziana) riprende il tipo di composizione della Pala di S. Giobbe, ma con un modellato più arioso, che utilizza maggiormente le risorse del chiaroscuro. Del 1513 è la Pala di S. Giovanni Crisostomo, dove si avverte l'influenza di Tiziano, come nell'Ebbrezza di Noè del museo di Besançon. Nel 1514 Bellini si accosta al repertorio mitologico con il Festino degli dei (National Gallery di Washington) commissionatogli da Alfonso I d'Este e rimaneggiato da Tiziano. Le stesse influenze si ritrovano nelle madonne di questo periodo come nella Madonna con il Bambino, della pinacoteca di Brera, a Milano. Agli ultimi anni di vita del pittore risalgono alcuni dei più bei ritratti, come il Doge Leonardo Loredan (National Gallery di Londra) e il presunto Pietro Bembo (Hampton Court) di un accentuato romanticismo.
Bellini e la scuola veneziana
Bellini non può essere ritenuto un pittore rivoluzionario, ma la risonanza della sua opera fu enorme. Ai pittori di Venezia, egli insegnò la pienezza della forma, le risorse del colore, il gusto della natura, l'espressione del sentimento. Nella sua bottega, rivale di quella di Alvise Vivarini (1446 ca - dopo il 1503), formò numerosi allievi, alcuni dei quali andarono poi a lavorare sulla terraferma: Andrea Previtali († 1528) a Bergamo, Antonio Solario a Napoli. Nella prima metà del XVI secolo molti pittori avrebbero ancora subito il fascino della sua maniera: Vincenzo Catena (†1554), Francesco Bissolo ( † 1531), Bartolomeo Veneto, Rocco Marconi ( † 1529), e perfino il giovane Tiziano.

 

     Bernini

 

 

La fama di Gian Lorenzo Bernini è certamente più legata alla sua attività di scultore, architetto e regista del grandioso spettacolo pirotecnico costituito dal barocco romano, che non a quella di pittore, che si manifesta in poche occasioni, come nel Ritratto di Urbano VIII (Roma, Galleria Barberini), nei tre Autoritratti (uno a Montpellier, Museo Fabre, e due a Roma, Galleria Borghese) e nella Testa di giovane (Firenze, Uffizi).
Tuttavia i suoi rari dipinti incontrano un buon successo e addirittura gli procurano seguaci, tanto da meritargli la commissione di alcune pale d'altare per la basilica di San Pietro, che il Bernini progetterà lasciando la realizzazione al discepolo Carlo Pellegrini.
Testo a cura di: Tribenet - La Tribù italiana

     Boccioni

 

È tra i fondatori e leader incontestabile del futurismo, movimento di cui risulta anche il maggior teorico per quanto riguarda le arti figurative. Viene annoverato tra i grandi distruttori-innovatori che all'inizio del secolo hanno schiuso nuovi orizzonti all'arte moderna generata dalla rivoluzione dell'impressionismo.

Figlio di un impiegato statale (usciere) romagnolo, lo segue, dopo la nascita casuale in Calabria, nel suo vagabondare: Genova, Padova, Catania. Si accosta all'arte da ragazzo, seguendo la passione innata, cominciando a dipingere in maniera abbastanza tradizionale. Alla fine del secolo è a Roma dove stringe grande amicizia con Gino Severini, insieme a cui viene iniziato alla tecnica divisionista da Giacomo Balla. Sarà per sempre povero di quattrini, quanto ricco di talento, come i suoi amici e colleghi salvo rare eccezioni. Ventenne, soggiorna per la prima volta a Parigi con Severini, può seguire da vicino gli sconvolgimenti che tra mille fermenti squassano gli ambienti della cultura intrisi di creatività.
L'Europa sta vivendo il sogno della Belle Époque: niente più guerre; scoperte, invenzioni e progresso apparentemente senza limiti. Per vivere Boccioni insegna disegno a una ragazza russa di cui si innamora in un momento di profonda insoddisfazione. Quando lei torna in patria, la segue in una remota città di provincia della Russia, dalla quale torna portando con sé il colbacco che ha in testa nel famoso Autoritratto del 1908 (Milano, Pinacoteca di Brera).
Nel 1908, Boccioni arriva a Milano e, da allora, l'attenzione ai problemi sociali, ereditata probabilmente da Balla, prende un posto molto importante nella sua opera. Ai ritratti e ai paesaggi, in effetti, si vanno via via sostituendo evocazioni della vita degli umili, dello sviluppo urbano e delle lotte operaie. Alla tecnica divisionista, l'autore aggiunge allora le risorse espressioniste dell'arabesco proveniente dall'Art nouveau e, dal 1909, una punteggiatura colorata molto violenta che, in seguito, si accorderà all'animazione di superfici tagliate secondo linee geometriche.


Il periodo futurista
Boccioni è uno dei primi ad aderire al movimento futurista di Marinetti, all’indomani della pubblicazione del Manifesto. Svolge un ruolo determinante nella redazione dei due manifesti pittorici del 1910 e firma il Manifesto tecnico della scultura futurista. Inoltre, partecipa attivamente alle manifestazioni pubbliche del movimento e probabilmente all'orientamento generale delle imprese futuriste. Il contributo teorico a questo movimento è importante per la comprensione della poetica boccioniana. Boccioni vuole concentrare lo scorrere del tempo nella simultaneità rendendolo eterno. Distrugge, nello stesso momento in cui lo riconosce, il tempo e il suo continuo fluire per mezzo del dinamismo. Il moto, che è tempo, deve essere sintetizzato nella sua continuità ed eternato come tale. Afferma Boccioni: "Quando parliamo di movimento, vogliamo avvicinarci alla sensazione pura, creare cioè la forma nell'intuizione plastica, creare la durata dell'apparizione, vivere l'oggetto nel suo manifestarsi". Un contributo di prim'ordine all'estetica futurista è costituito dagli stati d'animo di cui il pittore fornisce nel 1911 un'ammirevole dimostrazione in un trittico: Gli addii; Quelli che vanno; Quelli che restano (versione definitiva custodita al Museum of Modern Art, New York). Alla fine dello stesso anno, un breve soggiorno a Parigi mette Boccioni al corrente delle conquiste del cubismo che l'aiuteranno a liberarsi dalle costrizioni figurative e a orientarsi verso una rappresentazione schematica, ma energica del dinamismo plastico.


La prima scultura astratta
Le sue ricerche intorno alle tre dimensioni, se sembrano, in un primo tempo, guidate da preoccupazioni pittoriche, lo conducono, poi, ben al di là delle possibilità della pittura nella costruzione di un corpo fatto interamente di movimento (Forme uniche della continuità nello spazio, 1913). In effetti, laddove la pittura non può che sfociare che in una brillante baraonda di forze diversamente colorate (Dinamismo di un corpo umano, 1913), solo la scultura autorizza la percezione chiara di uno spostamento nello spazio, sebbene anche la sua rappresentazione sia irrimediabilmente fissata in statua. Pervaso da un autentico furore creativo, aveva dipinto i capolavori che saranno ammirati nei più rinomati musei internazionali: La città che sale, e Rissa in galleria, 1910; La strada entra nella casa, Studio di donna tra case, La risata, 1911; Elasticità, 1912. Le sue opere sono esposte alle mostre di gruppo e personali anche all'estero dopo la prima così contestata-ammirata del 1910 a Parigi. Irrequieto e tormentato anche sentimentalmente, si lega a varie donne, tra cui Sibilla Aleramo, poetessa e letterata, antesignana del femminismo. A partire dal 1914, Boccioni sembra meno preoccupato dal movimento: numerose sue opere sono improntate a un espressionismo che trarrà sempre più i suoi mezzi al cubismo e a Cézanne. Sebbene, soprattutto attraverso parole in libertà), partecipi sempre all'attività futurista, Boccioni ritorna progressivamente allo spirito delle opere (ritratti, paesaggi) che precedettero la sua adesione a questo movimento. Continua a dipingere ritrovando l'estro dei momenti migliori. Nel 1916 inizia e finisce Ritratto dal maestro Busoni, nel quale i critici rilevano un ritorno a Cézanne): più esattamente, Boccioni torna alle proprie origini per acquistare nuova forza e sicurezza, nuova linfa e poesia. Scrive l'artista nella sua ultima lettera: “Da questa esistenza uscirò con un disprezzo per tutto ciò che non è arte. Non c'è nulla di più terribile dell'arte”..

Muore nel 1916 in seguito a una caduta da cavallo nel corso di un'esercitazione militare.
I dieci quadri per capire la sua opera
Officina di Porta Romana, 1908. È il suo primo quadro sulla vita urbana moderna, tema prediletto. Dipinto poco dopo l'arrivo a Milano, esprime la scoperta di una nuova società.
Rissa in galleria, 1910. Simultaneità e dinamismo in un episodio inquadrato nel “salotto di Milano”.
Bozzetto per la città che sale, 1910. Tenta di conciliare il verismo col simbolismo per descrivere la nuova civiltà industriale.
Visioni simultanee, 1911. Fu tra i suoi dipinti più conosciuti perché esposto nelle mostre futuriste di Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles.
La risata, 1911. Esposto subito a Milano, il quadro è “sfregiato” da un visitatore con una lametta. Boccioni, tornato da un soggiorno all'estero, lo ridipinge in parte in stile cubista.
Stati d'animo, 1911. Una trilogia dell'addio, tema particolarmente caro a Boccioni, che accusava la lontananza dalla madre.
Elasticità, 1912. Dipinto dopo una visita alla Pirelli, esalta la scienza, il progresso.
Sviluppo di una bottiglia nello spazio, 1912. La natura morta diventa natura dinamica, viva.
Dinamismo di un corpo umano, 1913. Boccioni tende con quest'opera, nella sua incessante ricerca, all'astrattismo.
Ritratto della signora Cragnolini Fanna, 1916. Un ritorno a Cézanne, al postimpressionismo.

 

      Botticelli

 

 

Figlio del conciatore fiorentino Mariano Filipepi, Alessandro, detto Sandro, venne soprannominato Botticelli per ragioni rimaste oscure. Intorno al 1464, entrò nella bottega di Filippo Lippi dove rimase per circa tre anni. Mise a profitto gli insegnamenti del maestro, creatore di forme piene ed eleganti, tuttavia sembra essere stato influenzato maggiormente da due artisti appartenenti alla seconda generazione del Rinascimento fiorentino: Andrea Verrocchio, del quale fu aiutante per un certo periodo, e Pietro Pollaiolo. Il loro stile, nervoso e raffinato, tendeva a valorizzare l'anatomia e il movimento. Anche Agostino di Duccio (1418 dopo il 1481), con le sue sculture ondeggianti, doveva contribuire alla formazione di Botticelli.


Il Pittore alla ricerca del suo stile
A questo primo periodo appartengono diverse Madonne con Bambino, spesso attorniate da angeli di grazia aristocratica; in questi dipinti, l'influenza del Lippi cede a poco a poco il posto a quella del Verrocchio. Tra queste Madonne, possiamo citare quelle dell'Accademia e della Galleria degli Uffizi a Firenze, della pinacoteca di Capodimonte a Napoli, del museo Fesch di Ajaccio, del Louvre, della National Gallery di Londra, della National Gallery di Washington, ecc. Nel 1470, con l'appoggio di Tommaso Soderini, persona di fiducia dei Medici, Botticelli ottiene la sua prima importante commissione ufficiale, la Fortezza, figura allegorica per il Tribunale della Mercanzia di Firenze. Questo pannello, che si trova oggi agli Uffizi, lascia chiaramente intravedere l'influenza del Lippi e di Pietro Pollaiolo, al quale era stato chiesto di dipingere l'intera serie delle sette Virtù. La Madonna con sei Santi (Uffizi) è stata dipinta in quello stesso periodo e si avvicina notevolmente allo stile della Fortezza. Nel 1472, Botticelli s'iscrive all'Accademia di San Luca. Appartengono a quest'epoca i due piccoli pannelli, preziosi e brillanti, del Dittico di Giuditta (Uffizi). Il San Sebastiano del Museo di Berlino, forse proveniente da Santa Maria Maggiore di Firenze, è considerato di poco posteriore; lo studio dell'anatomia ricorda il Pollaiolo, ma l'espressione meditativa introduce una spiritualità ben più profonda. Nel 1474, Botticelli viene chiamato a Pisa per completarvi il ciclo di affreschi del Campo Santo, tuttavia non può eseguire il progetto.


Il mecenatismo dei Medici
Ritornato a Firenze, Botticelli è incaricato della decorazione, in occasione della giostra del 1475 sulla piazza di Santa Croce, dello stendardo di Giuliano de' Medici con una raffigurazione di Pallade: i pittori dell'epoca non disdegnavano questo genere di lavoro. Così che Botticelli entra nella cerchia dei Medici. Un amico dell'illustre famiglia, Giovanni Lami, gli commissiona, sempre in quello stesso periodo, un pannello per la sua cappella in Santa Maria Novella: è l'Adorazione dei Magi (Uffizi), una composizione di grande pienezza, prima importane opera del maestro, ove egli stesso si ritrae in compagnia di alcuni membri della famiglia Medici: Cosimo il Vecchio, Giovanni, Giuliano, Lorenzo. Accanto a questo dipinto si possono citare altri due ritratti individuali di grande bellezza: quello di un uomo che porta una medaglia di Cosimo ilVecchio (Uffizi), e quello di Giuliano de' Medici (National Gallery, Washington). Nel 1478, Botticelli viene incaricato di ritrarre i membri della congiura dei Pazzi, ma quest'opera non fu mai eseguita. In quel periodo, l'artista dipinge inoltre la Madonna con otto Angeli (museo di Berlino), un tondo proveniente probabilmente da San Salvatore al Monte, e quello che viene definito il suo capolavoro, la Primavera, commissionato nel 1477 da due fratelli della famiglia de' Medici, Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco, e posto nella villa medicea di Castello, nelle vicinanze di Firenze (oggi agli Uffizi). La grazia lineare che vi è soffusa concretizza nell'apparenza sensibile il mondo ideale dei pensatori neoplatonici e attesta che Botticelli aveva ormai trovato un suo linguaggio assolutamente personale. Questa stessa grazia la ritroviamo nei due affreschi allegorici di villa Tornabuoni-Lemmi (oggi al Louvre), ove sono raffigurati un giovane dinanzi all'assemblea delle Arti, personificate da figure femminili, e una fanciulla che riceve doni dalle mani di Venere accompagnata dalle Grazie.


L’intermezzo romano: al servizio del Papa
Il 1481 segna l'inizio del soggiorno romano di Botticelli, periodo di capitale importanza per la sua attività artistica. Secondo i termini del contratto firmato il 27 ottobre 1481, il papa Sisto IV gli offriva di associarsi a Cosimo Rosselli, al Ghirlandaio e al Perugino - ai quali dovevano aggiungersi ben presto Luca Signorelli, il Pinturicchio (1554?-1613) e Piero di Cosimo (1462 c. - 1521) - per affrescare le pareti della cappella che il pontefice aveva da poco fatto costruire in Vaticano, la Cappella Sistina, con storie sacre del Vecchio e Nuovo Testamento che contenessero, nello stesso tempo, riferimenti al ministero del pontefice. La parte dipinta dal Botticelli consiste in tre composizioni: la Giovinezza di Mosé, la Punizione d Korah, Dathan, Abiron e la Tentazione di Gesù Cristo. È da notare che ognuna di queste opere, obbedendo alla tradizione medievale, riunisce diversi episodi. La brillante Adorazione dei Magi, conservata alla National Gallery di Washington, rappresenta un'altra testimonianza dell'attività romana di Botticelli.


Il periodo di gloria a Firenze
A Firenze, l'umanesimo appassionatamente coltivato da Lorenzo il Magnifico e dalla sua corte trova in Botticelli il suo migliore interprete nel linguaggio artistico. Poco dopo il suo ritorno, egli esegue, per Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco, i due celebri dipinti di argomento mitologico della villa di Castello, oggi agli Uffizi: Minerva e il Centauro, La nascita di Venere, e dipinge probabilmente per il Magnifico anche la Storia di Nastagio degli Onesti, in quattro pannelli, tre dei quali si trovano al Prado di Madrid e l'altro è proprietà di una collezione privata negli Stati Uniti. Probabilmente committente del dipinto Marte e Venere (visibile alla National Gallery di Londra) era un'altra illustre famiglia, i Vespucci. Verso il 1485 Botticelli torna al tema della Madonna, ma con la disinvoltura della maturità; le più celebri sono la Madonna del libro, al museo Poldi-Pezzoli di Milano, la Madonna del Magnificat e la Madonna della Melagrana degli Uffizi, dipinte entrambe in tondo, e infine la Madonna Bardi (Berlino), commissionata da Agnolo Bardi per la sua cappella in Santo Spirito a Firenze. Poco prima del 1490, il pittore ottiene un'ordinazione, assai rara lungo il corso della sua attività artistica, di due opere di notevoli dimensioni: la Pala di San Barnaba (Uffizi), per la corporazione fiorentina dei medici e dei farmacisti, che riunisce nel pannello principale, in primo piano su uno sfondo architettonico, la Vergine seduta sul trono, sei santi e quattro angeli, mentre scene diverse sono rappresentate sulla predella; la Pala di San Marco (Uffizi), per la corporazione degli orefici, con il tema dell'Incoronazione della Vergine e quattro santi nel pannello principale, con storie sacre sulla predella, insieme che è stato eseguito con l'aiuto di allievi del maestro.


La crisi finale di Botticelli
La morte di Lorenzo il Magnifico, avvenuta nel 1492, pone fine al periodo più brillante della civiltà fiorentina. Dopo il malgoverno di Piero de' Medici, la dittatura teocratica di Savonarola ebbe ragione dell'Umanesimo. La crisi politica e morale di Firenze segna l'ultima parte dell'attività artistica di Botticelli. Nelle sue ultime opere troviamo un'esaltazione del sentimento religioso cui non è estranea l'influenza di Girolamo Savonarola. È il periodo dei disegni per la Divina Commedia di Dante e di un solo quadro importante di soggetto profano, La calunnia, dipinto per Antonio Segni secondo le descrizioni dell'antico capolavoro di Apelle; anche in quest'opera l'umanesimo è impregnato di meditazione cristiana. L'Annunciazione, dipinta intorno al 1490 per Santa Maria Maddalena dei Pazzi (Uffizi) rinnovava il tema caratterizzandolo con accenti più mossi e drammatici e La Vergine in piedi col Bambino abbracciato da San Giovanni Battista (Palazzo Pitti), posteriore di alcuni anni, offre nuovamente l'esempio di una disposizione particolarmente ardita. Le due Pietà, dipinte intorno al 1495, quella della pinacoteca di Monaco e quella del museo Poldi-Pezzoli di Milano, segnano il culmine della tensione tragica. La figura isolata chiamata La derelitta (Palazzo Rospigliosi, Roma) esprime un sentimento di profonda angoscia. Nello stesso tempo, Botticelli dipinge piccoli pannelli di preziosa fattura, con un linguaggio pittorico meno aspro, seppur sempre adattato alla rappresentazione della vita interiore: Sant'Agostino scrivente, agli Uffizi, l'Annunciazione e la Comunione di San Gerolamo al Metropolitan Museum di New York, le scene della Vita di San Zenobi, raffigurate su quattro pannelli (Londra, New York e Dresda). La predicazione di Savonarola sembra aver direttamente ispirato la Natività mistica della National Gallery di Londra (1501) e La crocifissione al Fogg Art Museum a Cambridge (Massachusetts).
Alla morte di Botticelli, nel 1510, giovani artisti come Michelangelo, Leonardo da Vinci, Andrea del Sarto, Raffaello, davano al Rinascimento un nuovo orientamento. La sua opera cadeva ben presto nell'oblio e soltanto con il XIX secolo sarebbe stata rivalutata.


Linea, movimento e colore
Durante il Rinascimento fiorentino, un'importante corrente artistica, che ha inizio nella prima metà del XV secolo, è quella che fa capo a pittori come Masaccio e Paolo Uccello, la cui principale ambizione è rappresentare un mondo in cui le apparenze sensibili siano sottomesse alle leggi della ragione e in cui densi volumi occupino uno spazio razionalmente organizzato dalla prospettiva geometrica. In linea generale, Botticelli non attribuisce grande importanza a questi principi estetici che giunge addirittura a contraddire, ma non per incapacità tecniche: l'Adorazione dei Magi degli Uffizi e quella della National Gallery di Washington, costituiscono ambedue composizioni magistralmente costruite su calcoli a tre dimensioni, la cui stretta convergenza obbedisce a un principio di unità; il Sant'Agostino, dipinto in affresco nella chiesa di Ognissanti a Firenze (1480 c.), dà prova, col rilievo della figura, di un'autorità in materia che ricorda quella di Andrea del Castagno, mentre la rappresentazione dei dettagli denota un realismo meticoloso e robusto, che si riscontra raramente nelle opere del maestro.
Botticelli avrebbe potuto proseguire in queste ricerche, ma la sua personale visione è quella di un mondo più libero che ha saputo adornare con affascinante poesia. Le figure non sono disposte a diversi livelli secondo le esigenze di uno spazio sovrano, ma piuttosto presentate su un piano molto ravvicinato rispetto allo spettatore con uno sfondo che tende a limitare la profondità e che prende a prestito i suoi elementi dall'architettura, dai paesaggi.
Talvolta le sue figure sposano con grazia la forma circolare del tondo (Madonna del Magnificat), altre volte determinano la composizione di un fregio (Primavera), oppure vengono ordinate secondo una rappresentazione di tipo medievale e l'intenzione teologica (affreschi della Cappella Sistina, la Natività di Londra); ma ciò che le accomuna è il ritmo morbido e quasi musicale che traduce il movimento in una danza che ingentilisce e alleggerisce le forme. Questo movimento, essenziale nell'universo di Botticelli, è impresso soprattutto dal tratto, che assume maggior importanza rispetto al volume.
Nervoso, imprevisto, dotato di una sensibilità originale, il disegno fa muovere la figura umana o talvolta la tormenta, la spezza secondo il capriccio dell'artista; insiste sui contorni, sulle particolarità asimmetriche dei volti; ed è proprio questa irregolarità che lo distingue dagli arabeschi decorativi: è insomma l'espressione stessa del pensiero. Tuttavia, il primato del tratto non implica, in Botticelli, quell'indifferenza alla materia pittorica che si attribuisce ai pittori della scuola fiorentina. La raffinatezza della sua fattura e il suo gusto per il colore si riscontrano soprattutto in una serie di piccoli dipinti, preziosi come delle miniature, dalla Storia di Giuditta alla Vita di San Zenobio. E ciò vale anche per le opere di maggiori dimensioni, siano esse affreschi, tempere oppure all'uovo. Il colore si presenta particolarmente brillante, come nella Madonna del Magnificat, oppure più opaco, come nella Nascita di Venere, o un po' soffuso, come nella Primavera; è sempre, comunque, armonioso e trasparente, tanto da sembrar penetrato da una luce cristallina.


Umanesimo e Cristianesimo
Lo stile lineare e l'inquieta grazia farebbero di Botticelli quasi un precursore dei manieristi del XVI secolo, se non fossero in primo luogo l'espressione delle esigenze spirituali del suo tempo. Componente essenziale dell'opera del maestro è la cultura dell'umanesimo fiorentino, e più ancora il neoplatonismo che fioriva allora nell'ambiente di Lorenzo il Magnifico e di cui Marsilio Ficino era il maggior esponente. La filosofia neoplatonica proponeva di trascendere il mondo sensibile, il mondo dell'esperienza, per approdare all'idea. Nell'opera di Botticelli raramente l'umanesimo si esprime attraverso la raffigurazione storica e archeologica, fatta eccezione per la rappresentazione di alcuni monumenti, quali: l'Arco di Costantino negli affreschi della Cappella Sistina, o per il rifacimento della Calunnia, per il quale si basò sui testi di Luciano e di Leon Battista Alberti. Gli elementi che compongono le sue opere sono, più spesso, miti di cui Botticelli, a volte in modo esoterico e d'accordo con i suoi mecenati, ha cercato di esprimere il contenuto. La Primavera, per esempio, la cui interpretazione è soggetta a molte controversie, sembra contrapporre tra loro, da una parte e dall'altra della figura di Venere, l'amore carnale e le aspirazioni dell'anima.
La Nascita di Venere sarebbe un inno alla fecondità universale, e Minerva e il Centauro rappresentano un simbolo delle contraddizioni della natura umana. Tutto ciò è espresso con un riserbo che testimonia la spiritualità cristiana dell'artista. Si passa così tranquillamente dai dipinti profani alla pittura sacra ove l'approfondimento del soggetto ha la stessa incisività: umanesimo e religione sono per Botticelli i due volti della medesima ricerca spirituale. Tuttavia la serenità dominante delle sue Madonne dipinte in gioventù si trasforma a poco a poco in penosa inquietudine. La Madonna della Melagrana esprime il presentimento della Passione. Il pessimismo si accentua durante gli ultimi anni della vita del pittore, quando questi rimette in discussione il pensiero dell'umanesimo e si esprime in tono tragico nelle due Pietà e la Crocifissione del Fogg Art Museum chiude la sua opera con una sorta di predizione delle disgrazie di Firenze.

 

      Bramante

 

 

Per rispondere nei vari campi dell'arte alle aspirazioni artistiche dell'Umanesimo, si era diffusa in quell'epoca la tendenza a un ritorno alle origini nel tentativo di conciliare il mondo cristiano con quello dell'età che l'aveva preceduto: nell'ambito dell'architettura, il maggiore artista di questo gusto dev'essere considerato il Bramante. Prima di lui, Brunelleschi e Alberti avevano creato o diffuso una nuova tipologia strutturale. Col Bramante, questo linguaggio raggiunge la sua piena maturità, e il Rinascimento si modella sullo spirito classico. La sua vocazione autentica si manifesta tardivamente: fino all'età di trentacinque anni Bramante presta la propria opera in qualità di pittore al servizio di Ludovico il Moro, al quale era stato ceduto sette anni prima (1472) dal duca di Urbino.
Come era avvenuta la sua prima formazione? Ci si attiene soltanto a ipotesi; l'artista avrebbe preso parte alla trasformazione del Palazzo Ducale di Urbino (a partire dal 1466) dove sarebbe stato influenzato dal dalmata Luciano Laurana (1420 - 1479). Le sue rare opere pittoriche a Milano (al Castello Sforzesco, in casa Fontana e, soprattutto, in casa Panigarola, queste ultime ora conservate alla pinacoteca di Brera) mostrano un Bramante assai vicino alla maniera di Melozzo da Forlì (1438-94); vi si riscontrano lo stesso vigore di colori e la medesima grandezza monumentale dell'allievo di Piero della Francesca. Bramante conosceva certamente il trattato di prospettiva pittorica di quest'ultimo, complemento del Della pittura di Alberti.
Sulla facciata della chiesa di Abbiategrasso, la profonda nicchia, con i suoi due ordini sovrapposti, ricorda infatti il tempio di Rimini; anche Santa Maria presso San Satiro subisce l'influenza di Sant'Andrea di Mantova; quest'opera lo occuperà per vent'anni e verrà interrotta soltanto dalla sua partenza da Milano. Qui l'artista ovvierà alla mancanza di spazio creando una finta prospettiva; ma non ha ancora raggiunto la sobrietà che caratterizzerà il suo stile romano, e la deliziosa sagrestia ottagonale appartiene allo stile fiorito e delicato del milanese, dal quale trarrà ispirazione il Rinascimento francese. A motivo della sua fama, viene chiamato come consigliere per la fabbrica del duomo di Milano, e il duca gli affida diversi lavori.


Ricordiamo, per la fine policromia dei mattoni e del marmo, Santa Maria delle Grazie e il suo chiostro e, come esempio di sistemazione di piazza, la Piazza Ducale a Vigevano. Il re di Francia, frattanto, conquista il Milanese e, nel 1499, Bramante, come anche Leonardo da Vinci, al quale è legato da profonda amicizia già da diciassette anni, fugge l'invasore e si trasferisce a Roma; ha, ora, cinquantacinque anni. A contatto con le rovine romane, gli si rivela un nuovo ideale artistico; l'eleganza raffinata del suo stile cede dunque il posto a una sobrietà e a un rigore che lo indurranno a realizzare opere di rara bellezza e maestria. Il chiostro di Santa Maria della Pace (1500-04) è tra le sue prime opere di questo nuovo periodo, e attira su di lui l'attenzione di molti; poi esegue un'opera di notevole rilievo, il Tempietto di San Pietro in Montorio (1502), a pianta circolare come gli antichi tholos o i battisteri. Nel 1503, Giulio II succede a Pio III. Il nuovo papa desidera riunire intorno a sé artisti capaci di costruirgli opere colossali, e Bramante si dimostra all'altezza del compito. Nella basilica di San Pietro, in mezzo alle rovine del vecchio edificio, il papa vuole che sia edificata la sua tomba. Questo programma funerario basterebbe a motivare l'adozione di una planimetria centrale, tanto cara al Bramante, ossessionato (come lo saranno altri architetti) dalla visione del Pantheon. Il progetto comporterà una cupola, all'incrocio di quattro navate uguali che termineranno con absidi; tra le nervature, piccole cupole e campanili. Il complesso, equilibrato e leggero, ricorda un progetto eseguito nel 1488 (con la partecipazione dello stesso Bramante) per la cattedrale di Pavia, ove si risente l'influenza bizantina e ottomana. Eppure l'essenza resta soprattutto romana: è quella stessa delle grandi terme e della villa di Adriano a Tivoli. Michelangelo riprenderà il tema del duomo, ma dopo di lui San Pietro tornerà a essere concepita come basilica. Giulio II volle anche avere un suo palazzo, e Bramante gli presentò un progetto grandioso, realizzato solo parzialmente. Vennero eretti tre piani di logge per la corte di San Damaso, che sarebbero state decorate da Raffaello; poi il palazzo di Nicola V e di Sisto IV venne ricongiunto alla villa Belvedere, situata su un'altura, a trecento metri di distanza, tramite due gallerie che racchiudevano un immenso cortile. Per dissimularne la posizione (era posta “di sbieco”), la villa fu mascherata con una facciata scavata da un'enorme nicchia ove, su un piedistallo, si ergeva la pigna che dà il nome al cortile, nel quale era previsto lo svolgimento di tornei. Il dislivello venne magistralmente corretto con una serie di scalinate, accorgimento, questo, che verrà ripreso a villa d'Este. Tramontata la moda dei tornei, le scalinate vennero sostituite da un complesso trasversale che rende inintelligibile la composizione del Bramante.
Tutta Roma seguì l'esempio del pontefice: i vecchi palazzi feudali cedettero il posto alle ville (alla romana), edificate dal vecchio maestro o dai suoi discepoli. Si manifestava con urgenza la necessità di pianificare la città e di assicurare al già rinnovato Vaticano vie d'accesso più agevoli. Bramante sfondò interi vecchi quartieri, non esitando a demolire antiche vestigia, anche al fine di recuperare il materiale di cui aveva bisogno. Per soddisfare le velleità di Giulio II, Bramante lavorò in tutte le direzioni, ma non poté portare a compimento i suoi grandiosi progetti: si spense nel 1514, dopo un lavoro incessante durato dieci anni.


L’artista e la sua epoca
Il Bramante fu, come uomo e come artista, un genio caratteristico del Cinquecento, il secolo delle riforme, della rivalutazione dell'individualità contro lo strapotere centrale, della trasformazione di tanti valori sui quali è destinata a nascere l'Europa culturale moderna. La rivolta di Lutero costringe la Chiesa romana a rivedere le proprie posizioni sino a cercare di continuo l'impronta di Dio nel cuore di ogni uomo anziché praticare una religione che si accontenti semplicemente di verità rivelate valide per l'eterno. Anche l'arte diventa indagine, ricerca, confronto. L'artista non si accontenta più di dipingere o di scolpire gli elementi del creato ma si interroga sul suo modo d'essere nella vita e nella storia, quanto di concorrere al fine ultimo della salvezza spirituale. Un periodo definito “il più famoso dell'arte italiana e uno dei più splendidi d'ogni tempo”. L'epoca di Leonardo, ma anche di Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Correggio e Giorgione, mentre a Nord fioriscono Holbein e Dürer. Giorgio Vasari, che per primo postula che il Cinquecento sia il secolo classico per eccellenza identificando in Michelangelo il vertice dello spirito e della cultura, ci descrive la personalità del Bramante (molto allegra e si dilettò di giovare a prossimi suoi). Modesto nonostante i grandissimi meriti, schietto e generoso, amava la musica e la matematica, studiava e conosceva alla perfezione la Divina Commedia: trascorse l'inverno 1510-11 commentando il capolavoro dantesco con papa Giulio II. Bramante e Giulio II: due giganti che sapevano comprendersi. Il primo conosceva le regole antiche, le proporzioni e le misure delle colonne e dei cornicioni dorici, ionici, corinzi. Trascorreva il tempo a misurare le rovine antiche, a studiare i manoscritti dei classici, come Vitruvio, in cui erano illustrate le norme degli architetti greco-romani. La sua vera aspirazione era di progettare un edificio senza preoccuparsi dell'uso cui fosse destinato, soltanto per l'armoniosa bellezza delle proporzioni, per la spaziosità dell'interno e la grandiosità imponente dell'insieme, per la possibilità di innovare. Dal canto suo Giulio II già nel 1506 aveva deciso di abbattere la venerabile basilica di San Pietro che sorgeva nel luogo in cui, secondo la tradizione, era stato sepolto il primo papa. Intendeva riedificarla in modo da sfidare le consuetudini e le funzioni secolari dell'architettura ecclesiastica. Quasi una sfida in previsione della fama che avrebbe ottenuto con una costruzione capace di superare le sette meraviglie del mondo. Ossia, un'autentica meraviglia del cristianesimo. Da qui la scelta del Bramante, che aveva dimostrato di aver assimilato e riproposto con personalità inimitabile la lezione dell'architettura classica. Bramante disegnò una chiesa circolare con una serie di cappelle disposte intorno alla gigantesca sala centrale, che a sua volta doveva essere coronata da un'alta cupola sostenuta da archi colossali. Quindi contravvenendo alla millenaria tradizione dell'Occidente in base alla quale una chiesa di questo genere avrebbe dovuto avere forma rettangolare: i fedeli, guardando verso l'altare maggiore al momento della celebrazione della messa, si sarebbero allora trovati rivolti verso oriente. Ma è proprio la grandiosità dell'opera a rendere necessario tanto danaro da dover ricorrere alla vendita delle indulgenze in maniera così smaccata da suscitare la prima protesta pubblica di Lutero in Germania, anche se la ribellione avverrà soltanto nel 1520. Il progetto viene avversato quindi nella stessa Roma, negli ambienti più vicini al pontefice. Quando la costruzione è già in fase piuttosto avanzata, l'idea di un edificio circolare (più esattamente: una croce greca inscritta in un quadrato) viene accantonata. Resta il fatto che il Bramante aveva avuto l'ingegno e il coraggio di elaborare un piano ardimentoso all'altezza dei compiti e del tempo: l'epoca in cui, alla scoperta dell'America, segue la riscoperta dell'uomo quale centro di ogni interesse e iniziativa. L'uomo eterno, Ulisse, che sfida i misteri dell'oceano sconosciuto e carpisce alla natura i reconditi meccanismi dell'armonia. Il Bramante, la cui sapienza nel costruire coincide con la visione pittorica di Raffaello, riuscì comunque a condizionare il fulcro di San Pietro con i quattro piloni e gli arconi di raccordo che egli eresse nell'ambito della pianta centrale, passata alla storia come la concezione architettonica più grandiosa e più originale dell'intero Rinascimento. Fu calunniato, proprio come capita ai grandi, e collocato in posizione di rivalità nei confronti di Michelangelo. Invece fu suo precursore nel concepire l'architettura come monumento e simbolo: un segno lasciato dagli uomini del suo tempo alle generazioni future.

 

      Duccio di Buoninsegna

 

 

Le prime notizie relative a questo grande pittore senese lo rammentano (1278) intento a dipingere dodici casse per la custodia di documenti dell'Ufficio della Biccherna del Comune di Siena, andate successivamente perdute. Negli anni seguenti continua ad essere citato come esecutore di opere per il Comune, nonostante sia conosciuto come un cittadino particolarmente turbolento: restio a partecipare ad azioni di guerra in Maremma, a prestare giuramento agli ordini del Capitano del Popolo, e persino collegato a pratiche di stregoneria per le quali gli viene comminata una multa nel 1302. Non sono invece documentati gli eventuali spostamenti ipotizzati dagli studiosi per spiegare le diverse componenti della sua cultura; se i viaggi ad Assisi e a Roma sembrano molto probabili è più difficile sostenere la sua permanenza nel Mediterraneo orientale e a Parigi dove il Duch de Sienne o il Duch le Lombard citati in un testo potrebbe essere un omonimo del nostro pittore. La data di morte, tra il 1318 e il 1319, va collegata verosimilmente all'atto di rinuncia da parte dei sette figli all'eredità paterna. Perduti i primi lavori per il Comune di Siena, l'opera più certa di questa fase giovanile è la piccola Madonna di Crevole, oggi al Museo dell'Opera di Siena. Seguono: la grande tavola con Maestà conosciuta coma Madonna Rucellai, oggi agli Uffizi e per molti secoli ritenuta opera di Cimabue, una vetrata circolare nell'abside del Duomo di Siena, la Madonna dei francescani (Siena, Pinacoteca), la Maestà di Berna (Kunstmuseum), la Madonna col Bambino e sei angeli della Galleria Nazionale di Perugia. Del 1308 è invece il primo documento che menziona la commissione della grande tavola con Maestà conclusa nel 1311 per il Duomo di Siena, senza dubbio il capolavoro assoluto di questo pittore; tenuto conto però dell'impegno richiesto da un'opera di tale complessità, la critica attuale tende ad anticiparne la data di inizio. Rimossa dall'altare maggiore del Duomo e successivamente smembrata nel corso del Settecento, risulta sparsa nei musei di tutto il mondo mentre il corpus principale è nel Museo dell'Opera di Siena. Esso mostra un artista capace di rinnovare profondamente la trama della pittura bizantina, attento al dato quotidiano e naturale reso con una gamma cromatica di grande intensità. Sono ascrivibili agli ultimi anni il Trittichetto della National Gallery di Londra e il Polittico n° 47 della Pinacoteca di Siena, molto compromesso quanto a conservazione e con larghi apporti di bottega.

 

     Canaletto

 

 

Canaletto si formò alla bottega del padre, dove collaborò alla creazione di scenografie teatrali. Ma presto iniziò a dipingere vedute raffiguranti paesaggi urbani, che furono principalmente quelli della sua città natale. In questo nuovo genere di pittura, il cui rappresentante era a quei tempi a Roma Pannini (1691 ca - 1765), e il cui lontano precursore era stato, a Venezia, Gentile Bellini, si cimentavano anche Luca Carlevarjis (1655-1731) e un temibile rivale: Francesco Guardi. È facile contrapporre la fantasia, la sensibilità, il tocco vibrante di Guardi all'impassibile visione di Canaletto, alla sua abilità meticolosa e volontariamente impersonale. Una prospettiva rigorosa, la cui perfezione tradisce l'impiego della camera oscura, ordina lo spettacolo veneziano dei canali e dei palazzi, cui l'ambientazione luminosa conferisce un tono di poesia soffusa. I contrasti chiaroscurali, che segnano la successione dei piani, e le numerose piccole figure, talvolta raccolte con il pretesto di qualche festa, animano la composizione e danno un'idea della dimensione degli edifici. Il successo consentì a Canaletto di assicurarsi la collaborazione di una bottega, come è possibile notare da numerose sue opere. Alcune vedute tuttavia appaiono più personali, come per esempio Chiesa della Carità dal laboratorio dei marmi di San Vitale, considerata il suo capolavoro (National Gallery, Londra).
All'inizio italiana, la clientela di Canaletto fu poi essenzialmente inglese. Il console John Smith fu il suo «impresario» presso i collezionisti interessati alle vedute veneziane, spesso come ricordo di un viaggio. L'artista ebbe rapporti ancor più stretti con l'Inghilterra, dopo avervi soggiornato a lungo per tre volte, nel periodo tra il 1746 e il 1755. Rappresentò la campagna inglese con la stessa minuziosità e il senso dello spazio dimostrati a Venezia; seppe rendere, con l'impasto trasparente dei colori, la luminosità diffusa dei paesaggi. Dipinse anche vedute di Londra, di Oxford, di Cambridge, di Windsor, ecc., che si trovano in numerose collezioni inglesi. Canaletto praticò l'arte del capriccio, dipingendo insiemi architettonici compositi o immaginari. È curioso constatare che proprio un quadro realizzato secondo questo genere pittorico, e non una veduta realista, gli consentì, nel 1763, di entrare a far parte dell'accademia di pittura della sua città natale. Canaletto eseguì anche alcuni disegni a penna, molto luminosi che sono serviti come studio per i dipinti. Le acqueforti, che costituiscono una raccolta di vedute di Venezia e dintorni, commissionategli da John Smith, rivelano, più di ogni altra opera, la sensibilità dell'artista. Una Venezia scenografica e affascinante, riflessa nell'acqua che si muove di continuo dando alla città una sensazione di perenne movimento e che, durante il Settecento attirava viaggiatori da ogni parte d'Europa desiderosi di ammirare le vestigia del passato e di portare con sé ricordi di quanto avevano veduto. Già gli artisti italiani dell'epoca erano famosi all'estero per la loro abilità quali decoratori di interni, per gli stucchi e gli affreschi capaci di trasformare qualunque salone in un ambiente fastoso.
A Venezia, in particolare, sorse una scuola di pittura proprio per accontentare le richieste dei visitatori stranieri. Canaletto, in questo ambito, ebbe il grande merito di inserire il «vedutismo» veneziano nel cuore della cultura illuministica, della ragione che trionfa sul secolo delle ciprie e delle parrucche. Dopo il periodo giovanile del chiaroscuro elaborò una pittura che si basava da un lato sul colore dalle tonalità più diverse, comunque già cariche di luce, e dall'altro sull'uso della prospettiva quale elemento scientificamente semplificatore. Usò la prospettiva non per creare un'immagine che si allontana bensì un'immagine che si avvicina. Il punto di fuga all'orizzonte non respinge nel mare della distanza i palazzi e i canali, il paesaggio, ma sembra sospingerli verso chi guarda, in primo piano. Questa intuizione raggiunse il massimo dell'efficacia con le vedute inglesi, che per lungo tempo sono state considerate inferiori alle vedute veneziane: la critica più recente ha invece ribaltato la valutazione, almeno per quanto riguarda la tecnica pittorica. Certo, il fascino di Canaletto, il suo nome e la sua opera sono indissolubilmente legati alla città natale, al punto da potersi chiedere se egli sarebbe stato altrettanto grande qualora non avesse mai potuto conoscere Venezia.
La superba e prospera Venezia, che infiniti traffici legavano all'Oriente, era stata a suo tempo più lenta degli altri centri italiani ad accettare lo stile rinascimentale e l'applicazione brunelleschiana delle forme classiche restituite all'architettura. Ma, una volta accettata la nuova moda e il nuovo stile, vi aggiunge di suo una gaiezza e un calore che evocano la grandiosità delle famose città mercantili del periodo ellenistico da Alessandria ad Antiochia. Mentre l'atmosfera lagunare, che sembra sfumare i contorni troppo netti delle cose e fondere il loro colore in una luminosità diffusa, insegna ai pittori veneziani a usare il colore forse con maggiore consapevolezza e attenzione di quanto avessero mai fatto in passato i pittori sia nel resto dell'Italia sia all'estero. Canaletto approfondisce le ricerche sulla prospettiva dando nuove dimensioni e possibilità al genere paesaggistico.
Egli non inventa, piuttosto risolve il problema con accenti molto personali. Prima di lui il già citato Carlevarijs, figlio di un matematico, nel dilemma tra veduta esatta e veduta di fantasia aveva rifiutato di usare la prospettiva solo come mezzo di illusione spaziale. Canaletto ordinò e approfondì, conservando un primato di rigore anche nella considerazione dei contemporanei, che sotto questo profilo lo preferirono al grandissimo virtuoso Francesco Guardi (1712-93). Suo nipote, Bernardo Bellotto, chiamato anch'egli il Canaletto, (Venezia, 1720 - Varsavia, 1780), fu suo discepolo ma ben presto si allontanò dallo stile dello zio, come è dimostrato dallo stile delle vedute dell'Italia settentrionale. Sviluppò la sua arte lontana dalla patria, presso le corti dell'Europa centrale. Dal 1747 fino alla morte lavorò a Dresda, a Vienna, a Monaco e infine si stabilì a Varsavia a servizio del re di Polonia. Nelle vedute di queste città, generalmente di grande formato, l'esigenza di precisione è spinta all'estremo come in Canaletto, e i magnifici ordini dell'architettura barocca sono rappresentati, come le folle che li animano, con tale profusione di dettagli da dare l'illusione della realtà. L'aspetto vetrificato dell'impasto è caratteristico di Bellotto, come la luce fredda, che evoca a meraviglia quella dell'Europa centrale.

 

     CARRACCI

 

 

La vicenda artistica di Annibale Carracci si articola in due fasi ben distinte. Una prima legata all'attività con il fratello Agostino e il cugino Ludovico, coi quali fonda a Bologna una celebre accademia e realizza grandi cicli decorativi, come le Storie di Giasone in Palazzo Fava e le Storie di Romolo in Palazzo Magnani, legati alle suggestioni dell'ambiente manierista dell'Italia settentrionale.
Contemporaneamente, in dipinti di genere quali La bottega del macellaio (Oxford, Christ Church), Il mangiafagioli (Roma, Galleria Colonna), l'Uomo con scimmia (Uffizi) o mitologici come Venere, satiro e amorini (Uffizi), Annibale tenta una propria e originale ricerca in direzione spiccatamente naturalistica.
Il 1595 rappresenta una drastica svolta per l'artista, che si trasferisce a Roma, dove negli affreschi del Palazzo Farnese con Le storie di Ercole e Gli amori degli dei si esibisce in grandiose e animate composizioni, che si aprono su squarci architettonici e cieli azzurri, prime codifiche della rutilante decorazione barocca.

 

      Caravaggio

 

 

Caravaggio occupa un posto di primo piano tra i pittori che hanno provocato una rivoluzione, una rottura nelle teorie e tecniche artistiche del suo tempo. Il suo destino particolare - una gloria precoce, una fine prematura, solitaria e miserabile - contrappone, come avviene nelle sue grandi tele, ombre e luci; il crudo realismo nell'interpretazione degli episodi religiosi, e la forza del gusto tenebroso hanno suscitato, quando il pittore era ancora vivo, aspre critiche e grandi entusiasmi. Si è così formata un'immagine leggendaria e romanticamente semplificata dell'artista, tramandata di generazione in generazione per tre secoli. Soltanto ai nostri giorni, con la rivoluzione del barocco, le ricerche degli storici italiani e stranieri - primi fra tutti Hermann Voss, Lionello Venturi, Roberto Longhi, René Jullian - hanno sensibilmente modificato il giudizio sull'opera del pittore. Per quanto riguarda la biografia, gli storici dell'arte hanno corretto o precisato molti punti essenziali della sua vita. Di natura violenta, impulsiva, girovago impenitente, provocatore di risse, sempre pronto a metter mano alla spada: i documenti conservati negli archivi non ci lasciano alcun dubbio in merito alla sua indole. Ebbe influenti protettori e amici fedeli che non poterono però evitare le tragiche vicende degli ultimi anni della sua vita.


La vita
Se l'ultimo periodo della vita di Caravaggio è conosciuto, poco si sa degli anni della formazione. Nato a Caravaggio, appartiene a una famiglia stimata e abbastanza agiata: suo padre è architetto e intendente del marchese di Caravaggio. La sua vocazione deve essersi manifestata molto presto, poiché già nel 1584 entra come allievo nella bottega del pittore bergamasco Simone Peterzano, allievo di Tiziano. Dodici anni dopo ripara a Roma, dove lavora presso Giuseppe Cesari (il cavalier d'Arpino [1568-1610]), pittore specializzato nelle composizioni di fiori e frutta, nonché pittore di temi religiosi. Si avvale di alcuni protettori, come per esempio il cardinale Del Monte, che lo alloggia nel suo palazzo e gli commissiona nature morte. Ma gli episodi della vita dell'artista durante questi primi anni romani rimangono oscuri. Nel 1597 gli viene chiesto di dipingere alcune tele per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi (Vocazione e martirio di San Matteo, San Matteo e l'angelo) che lo rendono celebre e contestato. Di quest'ultima opera dovrà fornire una nuova versione, poiché era stata giudicata volgarmente irriverente. Da allora e fino al 1606, la storia di Caravaggio è costellata da vari avvenimenti che si sovrappongono. Da un lato realizza numerose opere di notevole importanza che sottolineano la fecondità e la potenza creativa: tra il 1600 e il 1601 Caravaggio dipinge la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo (Santa Maria del Popolo, Roma); nel 1604 la Madonna dei pellegrini o di Loreto (Sant'Agostino, Roma); nel 1605, la Morte della Vergine (museo del Louvre, Parigi), rifiutata dai religiosi di Santa Maria della Scala e acquistata invece dal duca di Mantova, su consiglio del giovane Rubens. Sin dal 1604, nel Libro della pittura, Karel Van Mander include Caravaggio tra i pittori celebri. Ma nello stesso tempo, a partire dal 1603, si succedono senza interruzione denunce alla polizia, risse, processi: nel 1605 Caravaggio si rifugia a Genova, dopo aver ferito un cancelliere in tribunale. Nel maggio del 1606, un duello si conclude tragicamente: l’artista, ferito, uccide il suo avversario ed è costretto a fuggire, prima a Palestrina e poi nell’Italia meridionale. Comincia allora una vita da fuggiasco, in cui si alternano successi e sventure. Nel 1607 si reca a Napoli dove esegue per chiese e conventi alcuni capolavori: la Flagellazione di Cristo (San Domenico Maggiore, Napoli), le Sette opere di misericordia. A Malta, ove giunge all'inizio del I608, il ritratto del gran maestro Alof de Wignacourt (Louare) gli vale altre ordinazioni, in particolare il grande «notturno» della Decollazione di san Giovanni Battista(duomo di La Valletta). Caravaggio è accolto nell'ordine dei Cavalieri, ma notizie provenienti da Roma. riguardanti i motivi del suo esilio, provocano un'inchiesta e quindi la fuga del pittore... In autunno si reca in Sicilia. dove, spostandosi da una città all’altra lascia numerosi esempi del suo genio: il Seppellimento di Santa Lucia, eseguito a Siracusa per l’omonima chiesa; la Resurrezione di Lazzaroe l’Adorazione dei pastori oggi esposte al museo di Messina; una Natività (oratorio di San Lorenzo a Palermo). Ritornato a Napoli nell’ottobre del 1609, è aggredito e gravemente ferito. Nel contempo i suoi protettori romani si adoperano per ottenergli la grazia. Ancora convalescente si imbarca nel luglio del 1610 per lo Stato pontificio. Arrestato per errore alla frontiera di Porto Ercole e liberato due giorni dopo, vaga lungo le spiagge alla vana ricerca della barca che lo aveva trasportato lì. Colpito dalla febbre, si spegne in una locanda, in solitudine, qualche giorno prima che fosse annunciata l’approvazione della domanda di grazia.
L'opera
Recentemente, l'evoluzione della carriera clamorosa e tormentata del pittore è stata definita con maggior precisione. Le grandi opere romane si inquadrano tra il periodo giovanile, ricco e contrastato, e il periodo del profondo rinnovamento artistico, interrotto dalla sua morte improvvisa. Il primo periodo romano è dominato dall'influenza del realismo popolare e dal luminismo lombardo-veneto della seconda metà del XVI secolo (Peterzano, i Campi, Lattanzio, Gambara, ecc.) Caravaggio dimostra la padronanza perfetta della tecnica realista. Giovanni Pietro Bellori ha scritto: «Per lui non vi è nulla di meglio che seguire la natura: non vi è tratto che non sia eseguito direttamente secondo un modello vivente». Nature morte di fiori e frutta, pittura di genere (suonatori di liuto, indovine, musicisti, bevitori e bari e quel Bacco sensuale e melodico esposto agli Uffizi), soggetti sacri su sfondi paesaggistici (Riposo nella fuga in Egitto, esposto a Roma nella galleria Doria Pamphili), pongono in evidenza la genialità dell'artista, la cui ambizione non supera però il «ritratto» di personaggi. A partire dalle opere realizzate per San Luigi dei Francesi, si rivelano intendimenti più elevati, con la creazione di un nuovo stile. La composizione semplice e potente, la volgarità grandiosa degli atteggiamenti e dell'espressione, l'ardita interpretazione realistica degli episodi religiosi (il corpo gonfio di Maria, simile a quello di un corpo annegato, rappresentato nell'opera la Morte della Vergine, i piedi sporchi dei pellegrini, in primo piano nel dipinto la Madonna di Loreto), l'incisività dell'illuminazione artificiale, che sottolinea violentemente i rilievi, i colori vivaci (i rossi) sugli sfondi scuri, sono i mezzi tecnici caratteristici dell'arte caravaggesca, che affermano il genio innovatore di un artista pienamente cosciente delle proprie possibilità. Ma la pittura degli anni successivi si fa sempre più incerta, sfuggente, misteriosa: il fremito della luce, proveniente da fonti moltiplicate, la disposizione dei personaggi, il vuoto inquietante dei grandi spazi pieni d'ombre (Decollazione di san Giovanni Battista) creano un'atmosfera poetica e quasi fantastica, nuova e ossessiva. Se Caravaggio fosse vissuto più a lungo, sarebbe divenuto un altro Rembrandt? Sembra che l'interpretazione di Caravaggio e della sua collocazione storica abbiano compiuto sensibili progressi. Parlare di realismo e di tenebrismo non è più sufficiente per definire questo grande e geniale pittore. Infatti i brani di vita popolare e gli effetti dei suoi «notturni» sono caratteristici di tutta la pittura della fine del XVI secolo, e in particolare dell’Italia del Nord, nell'opera di artisti di primo piano quali Bassano e perfino Tintoretto. L'originalità di Caravaggio consiste nell'uso della luce per affermare la pienezza delle forme e dei volumi, ma anche per drammatizzare i personaggi più umili. Soprattutto questo aspetto eroico ha colpito l'attenzione degli storici dell'arte contemporanei: quest'arte plastica, espressiva, diretta, che esprime un sentimento semplice e profondo della vita umana, rispondente alle aspirazioni della Controriforma. Tale arte non è necessariamente iconoclastica: l'influenza di Michelangelo è spesso percettibile nella pittura del suo giovane omonimo. E la reazione umanista dei Carracci contro gli artifici del manierismo è più affine, che non contraria, al caravaggismo.


La fortuna
L'enorme successo ottenuto da questa pittura dimostra che corrispondeva alle esigenze e agli ideali del tempo. Il caravaggismo si manifesta come un fenomeno internazionale fin dal suo primo apparire, e si diffonde in tutta Europa grazie agli artisti girovaghi che transitano da Roma. Questa corrente artistica annovera in Italia diverse personalità, tra le quali vanno ricordate, tra il 1600 e il 1610, le figure di Bartolomeo Manfredi (1580 c.a - 1624), Carlo Saraceni (1585 c.a - 1620), Giovanni Battista Caracciolo (1570 ca - 1637) che contribuisce a diffondere il nuovo stile a Napoli, Orazio Borgianni (1578 - 1616) che lo introduce in Spagna. Seguaci del caravaggismo saranno anche artisti olandesi e fiamminghi come Karel Van Mander (1548 - 1606) e alcuni pittori francesi, come Jean De Boullongne, detto Valentin. Con la successiva generazione e durante i primi due terzi del secolo, cioè attorno al 1630, il caravaggismo si diffonde in tutta Europa; ma anche i pittori che, come i fratelli Carducho (di origine italiana), a causa della loro formazione accademica, considerano questa corrente pittorica come l’opera dell’anticristo della pittura, devono pur riconoscere il valore universale del suo insegnamento. La scuola pittorica ispano-italiana di Napoli, guidata da Ribera, la scuola di Siviglia con Zurbarán, quella della Linguadoca di Tolosa rappresentata da Nicolas Tournier (prima del 1600 - dopo il 1660), la scuola della Lorena con Georges de La Tour, il gruppo olandese di Utrecht con Gerard Van Honthorst (1590 - 1656) ed Hendrik Terbrugghen (1588 - 1629) sono i maggiori interpreti del caravaggismo: poche rivoluzioni pittoriche hanno avuto una tanto grande risonanza.

 

     Cimabue

 

 

Le notizie attualmente in nostro possesso non permettono di conoscere con precisione la vita dell'artista nella seconda metà del XIII secolo. Due date giunteci attraverso documenti dell'epoca sono in pratica i soli indizi in grado di indicarci l'arco cronologico della sua produzione: Cimabue è menzionato in un documento romano del 1272 e si testimonia inoltre la sua presenza a Pisa negli anni 1301-02 allorché egli assume l'incarico di eseguire, oltre ad altre commissioni, la figura a mosaico di San Giovanni nell'abside della cattedrale. Si sa inoltre che lavorò, intorno al 1285, alla decorazione delle basiliche superiore e inferiore di San Francesco in Assisi. È necessario usare grande precauzione nel ricostruire la genesi della sua opera, diffidando di interpretazioni fantastiche di alcuni periodi oscuri della sua vita o di valutazioni troppo schematiche; lo stesso atteggiamento va tenuto nei confronti delle affermazioni del Vasari, tendenti a mitizzare la figura artistica e umana del grande pittore toscano. Tuttavia non è impossibile tracciare un quadro generale dell'evoluzione artistica di Cimabue. Risale verosimilmente al periodo del viaggio romano (1270-75) l'elaborazione di uno stile originale sorto come reazione alla «maniera greca» bizantineggiante assai diffusa in quel periodo a Firenze e in numerose città italiane. Lo stile di Costantinopoli si era diffuso in Italia con l'afflusso degli artisti orientali che emigravano a causa dell'affermazione degli iconoclasti. Alla fine del XIII secolo la fonte ispiratrice della loro arte, i cui modelli erano stati tramandati di generazione in generazione senza che vi si apportassero sostanziali innovazioni, appariva ormai inaridita. Il giovane Cimabue compie il suo apprendistato di pittore e mosaicista in questo ambiente. L'aneddoto del piccolo Cenni che si allontana dalla scuola per ammirare i Greci venuti a restaurare le decorazioni della cattedrale fiorentina testimonia assai bene, pur nei toni leggendari del racconto vasariano, l'atmosfera culturale della Firenze di quegli anni. Cimabue prende così a prestito dalla tradizione bizantina i diversi modelli iconografici: i grandi crocifissi, le ieratiche immagini della Vergine e i «dossali» d'altare. I crocifissi sono le opere più antiche; in quello conservato al museo dell'Opera di Santa Croce a Firenze, gravemente danneggiato dall'inondazione del 1966, la disposizione a «S» della grande figura dolorosa del Cristo sembra staccarsi dalla croce le cui estremità hanno la forma di piccole icone raffiguranti la Vergine e San Giovanni; l'impassibile solennità dei modelli orientali sembra ripiegarsi su se stessa assumendo, come il volto dell'evangelista, un atteggiamento pensoso. L'originalità di questa visione iconografica può forse essere messa in relazione col soggiorno romano dell'artista; in molti centri italiani infatti (la Siena di Duccio, la Pisa dei nuovi scultori, la Roma di Pietro Cavallini, attivo tra il 1270 e il 1330) fervevano intense ricerche artistiche. Ad Assisi, dove vari importanti pittori partecipano alla decorazione della basilica di San Francesco, Cimabue entra in contatto diretto con l'architettura (si tratta infatti di dipingere a fresco) inserendo in essa le immagini a lui più congeniali: un disegno più morbido determina forme più ampie ed espressive non senza una certa influenza dei ritmi gotici. La Vergine in trono con angeli e profeti, dipinta per Santa Trinità di Firenze e oggi agli Uffizi, risale probabilmente al 1285. In essa l'unità plastica non è ancora perfettamente realizzata ma il linguaggio formale, ormai delineato, preannunzia l'arrivo di un nuovo artista, Giotto, iniziatore di una lunga gloriosa stagione dell'arte italiana. Come nel Giudizio e nella Crocifissione, un abisso separa queste immagini dalle interpretazioni bizantineggianti dei pittori della stessa generazione. Del resto i contemporanei furono i primi a dare alla personalità del Cimabue lo spessore di un maestro, giustamente collocandolo in una posizione superiore rispetto a quelli che erano venuti prima di lui e insieme con lui. Con il mosaico di San Giovanni nell'abside della cattedrale di Pisa si chiude il ciclo delle opere attribuite a Cimabue lasciando tuttavia aperto un problema riguardante ancora una volta la città di Roma e l'inizio della carriera del pittore: la sua opera non si ispira in qualche punto all'arte dell'antichità? La lenta riscoperta dell'arte classica, verso cui la città di Firenze prima e in seguito tutta la civiltà rinascimentale avranno debiti notevoli, compie i suoi primi passi nell'arte del XIII secolo.

Ragazzo prodigio nel racconto di Vasari

«... crescendo, per esser giudicato dal padre e da altri di bello e acuto ingegno, fu mandato, acciò si esercitasse nelle lettere, in S. Maria Novella a un maestro suo parente, che allora insegnava grammatica a' novizi di quel convento; ma Cimabue in cambio d'attendere alle lettere, consumava tutto il giorno, come quello che a ciò si sentiva tirato dalla natura, in dipingere, in su' libri et altri fogli, uomini, cavalli, casamenti et altre diverse fantasie; alla quale inclinazione di natura fu favorevole la fortuna; perché essendo chiamati in Firenze, da chi allora governava la città, alcuni pittori di Grecia, non per altro, che per rimettere in Firenze la pittura più tosto perduta che smarrita, cominciarono, fra l'altre opere tolte a far nella città, la cappella de' Gondi, di cui oggi le volte e le facciate sono poco meno che consumate dal tempo, come si può vedere in S. Maria Novella allato alla principale cappella, dove ell'é posta. Onde Cimabue, cominciato a dar principio a questa arte che gli piaceva, fuggendosi spesso dalla scuola, stava tutto il giorno a vedere lavorare que' maestri; di maniera che, giudicato dal padre e da quei pittori in modo atto alla pittura, che si poteva da lui sperare, attendendo a quella professione, onorata riuscita; con non sua piccola soddisfazione fu da detto suo padre acconciò con esso loro; là dove di continuo esercitandosi, l'aiutò in poco tempo talmente la natura, che passò di gran lunga, sì nel disegno come nel colorire, la maniera de' maestri che gli insegnavano». Giorgio Vasari.

 

     Correggio

 

 

Figlio di Pellegrino e di Bernardina Piazzoli detta Degli Aromani, di cultura modesta ma economicamente benestanti, tra l'altro proprietari della casa in cui vivono, sposa Girolama Merlini, che muore giovane, nel 1529, sette anni dopo la nascita del loro unico figlio, Pomponio. Studia arte dapprima nell'ambito familiare, presso uno zio e un cugino, quindi nella Mantova dominata dalla personalità del Mantegna. È comunque in contatto con le principali correnti della cultura figurativa del suo tempo. Il suo cammino artistico viene solitamente suddiviso dagli studiosi in tre periodi: quello dei dipinti giovanili su temi e forme tradizionali dell'Emilia e del Mantegna; quello delle opere cosiddette di ricerca personale tra il 1513 e il 1518, prima del viaggio a Parma; e, infine, quello dei cicli trionfali di Parma, compimento dello sviluppo della sua personalità con il passaggio alla decorazione monumentale (dopo il 1518).

Gli affreschi della Camera della Badessa

Tra le sue prime opere ricordiamo gli affreschi in Sant'Andrea a Mantova e alcuni dipinti come Madonna con bambino e angeli (Firenze, Uffizi) e Natività (Milano, Brera): con quest'ultima dimostra di aver assimilato la lezione leonardesca del chiaroscuro elaborando soluzioni personali che influenzeranno le scuole successive. L'opera è dapprima dominata dalla figura del pastore che ha appena avuto la visione degli spazi celesti spalancati con gli angeli che cantano: «Gloria a Dio nell'alto dei cieli». Per contrapposizione la stalla, in basso, è oscura, rischiarata solo al centro dal Bambino appena nato che irradia luce tutt'intorno, illuminando anche il volto bellissimo della madre felice. Ecco due servette, una abbagliata dalla luce che proviene dalla mangiatoia trasformata in culla e l'altra intenta a osservare il pastore. Intanto san Giuseppe, nell'oscurità fitta dello sfondo, rigoverna l'asino. Correggio, tra il 1514 e il 1515, realizza la pala della Madonna di San Francesco (Dresda, Staatliche Gemaeldegalerie) quindi compie un viaggio a Roma ammirando la magnificenza delle Stanze Vaticane e della Cappella Sistina. Viene chiamato a Parma, per suggerimento di Scipione Montino della Rosa, da una nobile piacentina, Giovanna Piacenza, badessa del monastero di San Paolo. Riceve l'incarico di decorare la camera in cui la badessa accoglie abitualmente le rappresentanti dell'aristocrazia cittadina intrattenendole in alati conversari, in dotte disquisizioni religiose. Correggio trasforma la volta della Camera della Badessa in un padiglione a tralicci, con fronde e ghirlande di frutti, sostenuto da un fregio e da un giro di lunette con figurazioni mitologiche monocrome dentro delle nicchie. Le finte sculture sono animate da luci argentee come se le figure prendessero vita. L'artista si ispira al mito di Diana-Artemide, dea della caccia, ma anche protettrice delle vergini e della castità. Veramente memorabile è la raffigurazione della dea sul carro trainato da cervi veloci, che torna alla sua dimora dopo una battuta di caccia. L'antica favola della bellissima fanciulla e delle sue ninfe trova qui una seconda giovinezza. Di questo ciclo, la cui grandezza non viene subito intesa appieno, si scriverà che «è uno dei più violenti trapassi tra il vecchio e il nuovo mai veduti in arte».

Le opere della maturità

Durante le pause tra i viaggi e le commissioni il maestro torna volentieri nella terra natale. Ama la campagna e vi investe quasi tutti i guadagni. Per uno dei suoi dipinti più belli, La Madonna di San Girolamo, accetta a completamento dei pagamenti una partita di maiali e di fascine di legna. Dopo i quadri del periodo di transizione come La Madonna Campori (ora custodito nella Galleria Estense di Modena), come Madonna col Bambino e San Giovannino (Madrid, Prado) e Zingarella (Napoli, Pinacoteca di Capodimonte), ecco la serie della maturazione, ricchezza di colori e raffinata armonia di composizione: Sposalizio mistico di Santa Caterina (Parigi, Louvre); Madonna di San Sebastiano (Dresda, Staatliche Gemaeldegalerie), Ecce Homo (Londra, National Gallery), Martirio dei Santi Flavia e Placido (Parma, Galleria nazionale). Nel 1520 è di nuovo chiamato a Parma, stavolta per decorare l'abside (che sarà abbattuta nel 1587) e la cupola di San Giovanni Evangelista con Ascensione di Cristo. I lavori per questa commissione durano un triennio. Alla fine si grida al miracolo. Intanto, la cupola è stata affrescata non più suddivisa in tanti scompartimenti, come usava a quei tempi, ma mediante un'unica composizione. Inoltre, le figure, per il senso audace dello scorcio e del loro moto vorticoso, raggiungono un effetto molto singolare di prospettiva aerea. Correggio sarà imitato nei secoli successivi per la sua tecnica intesa a dare ai fedeli, raccolti nella navata sottostante, l'illusione che la cupola si fosse spalancata sulla visione della gloria dei cieli. La padronanza degli effetti di luce gli consente di riempire la volta di nubi illuminate dal sole e fra le quali paiono librarsi stuoli celesti, con le gambe penzoloni. La figura di Cristo sembra quasi risucchiata nel vuoto. Per usare un'espressione moderna: «pedala nel vuoto», cioè partecipa con lo scorcio delle gambe (ma anche delle braccia) al moto e alla prospettiva delle figure in basso, con la veste chiara svolazzante nella luminosità delle nubi e del cielo. Intanto stende il contratto per la decorazione pittorica della cupola del duomo, sempre a Parma, sul tema Assunzione della Vergine. È la prima risposta del mondo cattolico latino ai fermenti della Riforma, che con Lutero e Calvino esige tra l'altro l'abolizione del culto della Madonna. Chiede e ottiene un compenso di mille ducati d'oro. Il contratto viene firmato con grande solennità e alla presenza di molti testimoni, tanta era la convinzione che ne sarebbe scaturito una sorta di prodigio pittorico. I diametri dell'opera nel suo complesso sono di metri 10,93 e 11,55. Si tratta in sostanza di affrescare una superficie pari a circa 250 metri quadrati. I lavori iniziano effettivamente nel 1526 e si concludono nel 1530, date entro le quali risultano effettuati, secondo documenti giunti sino a noi, i pagamenti previsti. Il maestro riprende qui l'impianto compositivo già messo a fuoco per affrescare la cupola della chiesa di San Giovanni Evangelista moltiplicandolo e complicandolo. Dopo aver aumentato, dando loro la forma di grandi conchiglie, la cavità e lo slancio dei pennacchi (strutture portanti della cupola), nasconde gli spigoli del tamburo ottagonale dietro grandi figure dipinte di scorcio. Figure che hanno le vesti agitate dal vento: l'insieme dà la sensazione di una rotazione sempre più rapida dei giri alternati di figure e di nuvole. Tra queste nubi i personaggi sembrano letteralmente nuotare muovendo con forza le gambe e le braccia. Un altro accorgimento consiste nell'accentuare il chiaroscuro sfumato dei corpi la cui sostanza viene a imparentarsi con quella soffice e luminosissima delle nuvole. Insomma, se Raffaello e Michelangelo contengono le figure e lo spazio entro precisi ordini architettonici, il Correggio rovescia qui l'ideologia del tempo: inventa cioè uno spazio dominato dalla luce e dal movimento, dipingendo per primo non solo le figure ma l'aria che si interpone tra queste e l'occhio.

Il commento ammirato del grande Tiziano

Correggio ha l'audacia e la personalità del precursore, la cui influenza è destinata a durare a lungo nel tempo (il barocco, per esempio, guarderà più a lui che a Raffaello). «Mai in nessun tempo è stato rilevato» e «in nessun paese la pittura aveva raggiunto altrettanti movimento, varietà e coraggio d'atteggiamenti». Ma non tutti comprendono, non subito. Un canonico del duomo riferendosi alla danza frenetica degli angeli che la luce del paradiso sembra strappare verso gli abissi celesti la paragona a un disgustoso «brodetto di rane». Eppure il contemporaneo Tiziano passando per Parma al seguito dell'imperatore Carlo V dopo aver ammirato la volta dice ai cittadini che lamentano il prezzo pagato: «Rovesciate la cupola, riempitela d'oro e non sarà pagata abbastanza». Mentre all'incirca due secoli e mezzo più tardi il famoso tipografo-editore Giambattista Bodoni propone questa immagine: «Il Correggio cammina a grandi passi sull'orlo del precipizio, senza tema di sdrucciolare e di cadere».

Come attirare l’attenzione dello spettatore

Nella parte finale della sua non lunga esistenza il Correggio continua anche la pittura di cavalletto. Accanto a soggetti religiosi come La Madonna di San Giorgio (Dresda, Pinacoteca) dipinge per il duca Federico Gonzaga di Mantova la famosa serie mitologica dedicata agli amori di Giove: Antiope (Parigi, Louvre); Ganimede, Io (Vienna, Kunsthistorisches Museum); Danae (Roma, Galleria Borghese); Leda (Berlino, Staatliche Museun).Il nucleo principale dei quadri religiosi e dei dipinti mitologici appartiene allo stesso periodo delle due cupole. E come nelle due cupole, ma con tecnica ancora più elaborata, il maestro cerca di attirare l'attenzione dello spettatore «trasportandolo» nello spazio pittorico: facendo affiorare al piano-limite figure che poi sfuggono con rapido scorcio verso l'interno in uno spazio reso come sdrucciolevole dalle prospettive rapide, dall'atmosfera morbida dello sfumato, dai colori cangianti. Dall'interno proviene anche il sentimento, l'amore, impulso degli uomini verso gli altri uomini o verso Dio (non c'è confine tra i due tipi di amore). Un concetto, questo, che ha le sue origini nelle teorie leonardesche (i moti del corpo in relazione e sintonia con i moti della mente) e che sarà sviluppato in epoca barocca soprattutto dal Bernini. Il Correggio fa appena in tempo a esprimersi compiutamente, a concludere il messaggio antesignano della sua magica pittura. Nel 1534, quando ha soltanto 45 anni, rimane vittima di una disavventura che il Vasari collega maliziosamente alla sua avarizia. Dunque: il maestro riceve in Parma un sacco di monete in pagamento di un'opera e subito si affretta al paese dove lo attendono delle scadenze economiche. A piedi, carico, sotto il solleone. Strada facendo, accaldato, si ferma più volte alla fontana in cerca di ristoro. Giunto a casa, viene colto da una febbre violenta e si mette a letto con il corpo squassato dai brividi. Non si riprenderà più. Spira nel volgere di pochi giorni dopo aver raccomandato Pomponio, il suo unico figlio, agli anziani genitori. Le cronache riferiscono di funerali piuttosto miseri avvenuti il giorno 6 del mese di marzo e della sepoltura nella chiesa di San Francesco. Ma della sua salma i posteri non troveranno traccia alcuna.

 

      Filippo Lippi

 

 

Pronuncia i voti nel 1421 nel convento di Santa Maria del Carmine a Firenze, e vi rimane dieci anni. Il suo esordio come pittore risale probabilmente al 1432, anno in cui realizza l'affresco Conferma della regola dei Carmelitani, in cui l'artista mostra di seguire gli insegnamenti di Masaccio e di Masolino da Panicale; l'influenza di quest'ultimo è ancor più evidente nella Madonna Trivulzio, anch'essa del 1432, conservata al museo del Castello Sforzesco a Milano, nel quale l'uso vigoroso del colore sostiene il plasticismo delle figure. Nel 1434 è attivo a Padova, per attendere a un nuovo lavoro andato perduto, nella Basilica del Santo. La Madonna di Corneto Tarquinia (1437, Museo di palazzo Barberini, Roma) e la Pala Barbadori (1437-38, Louvre), al contrario dell'affresco della Consegna, hanno uno sfondo cupo, che ricorda le opere degli artisti fiamminghi, e il cui stile è ancora vicino a quello delle opere veneziane tardogotiche. Ma l'interpretazione dei volumi attraverso il filtro cangiante dei colori e delle linee dinamiche, segna, rispetto a Masaccio, l'evoluzione che farà di Lippi uno dei più grandi artisti del suo tempo. Tale sviluppo si coglie decisamente nell'Incoronazione della Vergine (1441-47, Uffizi, Firenze), in cui il ritmo decorativo si impone sui volumi. Nel 1447, in seguito a una commissione della signoria fiorentina, Lippi realizza l' Apparizione della Vergine (National Gallery, Londra), dai colori vivaci che traducono un naturalismo ancora vicino a quello del Beato Angelico. Nel 1452 Lippi viene nominato cappellano nel convento di San Niccolò di Frieri a Firenze: vi dipinge il tondo con la Madonna col Bambino e storie di sant'Anna (Palazzo Pitti, Firenze). Entra così nel periodo più fecondo della propria vita artistica: sostituendo il Beato Angelico, esegue la decorazione della cappella maggiore del duomo di Prato con gli affreschi delle Storie di santo Stefano e di san Giovanni Battista (1452-64), coadiuvato da fra' Diamante (1430-98). Questo lavoro, interrotto più volte, impegnerà Filippo Lippi sino al 1464. Qui l'artista si dimostra maestro nell'uso del linguaggio plastico, conferendo alla Morte di santo Stefano un coerente equilibrio spaziale. L'abilità nella narrazione drammatica che traspare nella Pietà (Museo Poldi Pezzoli, Milano), permette di datare a questo stesso periodo di grande attività e successo tale opera. Alla piena maturità appartengono le due Adorazioni del Bambino conservate agli Uffizi e la Madonna del Museo Mediceo di Firenze. Nel 1458, Lippi completa il lavoro incompiuto di Francesco Pesellino (1422-57) della predella della Trinità di Pistoia (National Gallery, Londra). La ricerca della bellezza pura e di una lirica spirituale segnano gli ultimi lavori di Filippo Lippi, come testimonia la Madonna col Bambino e due angeli degli Uffizi, ove la Vergine, davanti a una finestra aperta, si staglia sullo sfondo di un paesaggio minuziosamente descritto. La sua attività artistica si chiude con gli affreschi delle Storie della Vergine nell'abside del duomo di Spoleto, iniziati nel 1467 e nei quali si preannuncia la lirica di Botticelli e del figlio, Filippino.

 

      Giotto

 


Considerato il padre della nuova pittura dopo il conservatorismo bizantino, Giotto nacque da Bondone, poverissimo «lavoratore di terra». Vasari, primo scrittore di biografie di artisti, nelle sue Vite, (1555, 1568), racconta che all'età di dieci anni gli furono affidate in custodia dal padre alcune pecore ed egli, spinto da una naturale inclinazione, andava tracciando vari disegni sulle pietre o in terra. Un giorno passò dalle sue parti Cimabue che lo vide intento a ritrarre una pecora; stupito dalla sua bravura chiese al padre di poterlo condurre con sé a Firenze nella sua bottega. Questo racconto, preso dai Commentari, (1447-55) di Ghiberti, sembra una favola, tale da confermare e sottolineare la fama di un artista che da umili origini salì per merito del proprio ingegno a grandi altezze. In un Commento anonimo della Divina Commedia scritto alla fine del XIV secolo, pubblicato a Bologna (1866-74), si legge invece che il padre di Giotto l'aveva messo a bottega per apprendere l'Arte della lana. Egli, invece di recarsi al lavoro, andava nella bottega di Cimabue dove infine rimase per le pressioni del maestro e con il consenso paterno. L'anonimo ne sottolinea anche l'eloquenza con un altro episodio. Mentre Giotto dipingeva a Bologna, un cardinale lo andava a trovare spesso intrattenendosi con lui. Un giorno gli domandò come mai si ritrassero i vescovi con la mitra. Giotto rispose che le due corna dimostravano che i vescovi dovevano conoscere il Vecchio e il Nuovo Testamento. Il cardinale compiaciuto gli domandò allora il significato delle due bende che pendevano dietro il copricapo liturgico; e Giotto, accortosi della trappola, rispose che esse significavano l'ignoranza che a quel tempo dimostravano i pastori della chiesa e del Nuovo e del Vecchio Testamento. Questi aneddoti sul suo ingegno e sulla sua abilità rientrano nelle leggende che Firenze stessa diffuse sulla fama di Giotto manifestando l'orgoglio comunale per la grandezza di questo suo cittadino.
Consapevolezza di un'arte nuova
I contemporanei si convinsero immediatamente dell'importanza della sua pittura. Dante nella Divina Commedia celebra l'amico con la nota terzina: «Credette Cimabue nella pittura/ tener lo campo, e ora ha Giotto il grido/ si che la fame di colui oscura» (Purgatorio, XI, 94-96). Boccaccio nel Decameron (1349-53) dice che per merito di Giotto «quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni, che più a dilettar gli occhi degli ignoranti che a compiacere allo 'ntelletto de' savj dipingendo, era stata sepulta» (Novella V, giornata VI). È questo un esplicito riconoscimento della lucida coscienza di una nuova era, opposta al mosaico bizantino, tutto luce e oro, che affascinava chi non si lasciava guidare dalla ragione ma solo dal piacere della vista. Nella Lettera ai posteri (1370-71) Petrarca afferma che la bellezza dell'arte di Giotto si comprende più con l'intelletto che con gli occhi. Cennino Cennini con chiaro senso critico scrive che «Giotto rimutò l'arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno; ed ebbe l'arte più compiuta che avesse mai più nessuno» (Il libro dell'arte 1370), rifiutando quindi la tradizione bizantina (greco) per adottare un linguaggio moderno fondato sulla cultura latina Per Filippo Villani, nel libro che scrisse in lode di Firenze (1381-82), Giotto è diventato uguale per fama ai pittori antichi e anche superiore, affermandone il valore assoluto e determinandone il carattere, che è significato dalla sua cultura storica e dal suo desiderio di gloria: segni evidenti della sua modernità. È da tutti accettato che Giotto fu discepolo di Cimabue e in poco tempo non solo eguagliò lo stile del maestro, ma lo superò allontanandosi dai modi ieratici e statici della pittura precedente per ritrarre le figure con più naturalezza e gentilezza. Fu Lorenzo Ghiberti nel Commentario secondo a scrivere infatti che egli «lasciò la rozzezza de' Greci... arrecò l'arte naturale e la gentilezza con essa, non uscendo dalle misure». Abbandonò quindi la rigidità d'espressione dell'arte bizantina proponendo una novità che non esce però da un senso di misura morale, che non lascia cioè esasperare i sentimenti. La sua naturalezza non significa osservazione diretta del vero; essa «è recuperata dall'antico attraverso il processo intellettuale del pensiero storico» (G. C. Argan). La lezione non propone quindi modelli da seguire, ma è esperienza storica da rivivere nel presente. Nonostante la coscienza di un'arte nuova, E. H. Gombrich fa rilevare che Giotto nei suoi metodi è molto debitore dei maestri bizantini, e nelle finalità e negli orientamenti della sua arte deve molto anche agli scultori delle cattedrali del Nord, cioè la sua novità è pur sempre inserita in un divenire storico.


Gli affreschi della cattedrale di Assisi
Non si hanno notizie certe sulle prime attività di Giotto. Negli affreschi della basilica superiore di San Francesco ad Assisi per esempio, nella parte alta della navata, le storie dell'Antico e del Nuovo Testamento mostrano una qualità pittorica così diversa, una sintesi tra l'esperienza lineare di Cimabue e il colore plastico di Pietro Cavallini, che la critica ha creduto di riconoscervi il giovane Giotto. Subito dopo il 1296 il nuovo ministro generale dei Francescani, fra' Giovanni di Muro, lo chiamò a dipingere nella chiesa superiore affidandogli l'incarico del ciclo delle Storie di San Francesco (1296-1300) nella parte inferiore della navata. Sono 28 riquadri sottostanti le finestre che si rifanno alla Leggenda maior di san Bonaventura come tema e come ispirazione. L'episodio di L'omaggio dell'uomo semplice che «ispirato da Dio», ogni volta che incontrava Francesco subito stendeva ai suoi piedi il mantello, proclamando che sarebbe diventato un giorno degno di ogni riverenza», mostra sullo sfondo la Torre del popolo di Assisi incompiuta, particolare prezioso per la datazione di questo ciclo di affreschi poiché essa fu terminata nel 1305. Giotto narra gli episodi più popolari della vita di Francesco, come Il dono del mantello al povero: «Or avvenne che si incontrò con un cavaliere nobile, ma povero e malvestito; mosso a compassione, spogliatosi lo rivestì»; Il miracolo della fonte: «Trovandosi il Santo su un arido monte con un povero stremato dalla sete, mosso a compassione, implorò e ottenne dell'acqua fresca e zampillante da una roccia; La predica agli uccelli: «Un'altra volta incontrando una moltitudine di uccelli, salutandoli li esortò: «Fratelli miei uccelli, lodate grandemente il vostro creatore che vi diede penne per volare e vi concesse di dimorare nella limpidezza dell'aria e nei cieli»». Ma il pittore trasferisce con una nuova dimensione lo spazio e l'umanità dei personaggi nella concretezza della vita quotidiana dando spazio reale al leggendario. L'azione non si esprime in gesti concitati, ma in un equilibrio che riporta alla classicità. Lo spazio è costruito e disposto in tutto il riquadro e l'azzurro del cielo ne è suggello. Non c'è tra le varie storie una continuità di narrazione: ogni rapporto consiste tra lo spazio del dipinto e quello architettonico della navata. Le città medievali con gli edifici e i personaggi reali negli abiti del tempo di Giotto, appaiono in La rinuncia ai beni paterni: «L'amante vero della povertà non indugiò un minuto. Eccolo dinanzi al Vescovo. In un baleno, alla presenza di tutti si spoglia e ridona le vesti a suo padre»; in La cacciata dei demoni da Arezzo: «Trovandosi ad Arezzo quando la città era tutta sconvolta da lotte, vide demoni esultanti che incitavano i cittadini all'odio. Mandò allora frate Silvestro alla porta della città perché li cacciasse. Questi cominciò a gridare: «In nome di Dio, via di qui demoni tutti»; in La predica dinanzi a Papa Onorio III: «una volta, indotto dal Signore di Ostia, il Santo aveva imparato a memoria un discorso con tutti gli artifici della retorica da recitare al cospetto del Papa e dei cardinali. Quando però si trovò in loro presenza, dimenticò tutto. Allora sorridendo, confessato pubblicamente com'erano andate le cose, invocò lo Spirito Santo, ed eccolo pronunziava parole così efficaci da commuovere i presenti»; in L'improvvisa morte del cavaliere di Celano: «Un giorno il Santo fu invitato a pranzo da un cavaliere. Entrato nella casa, prima di prender cibo Francesco compì la preghiera e rimase un po' con gli occhi al cielo. Tornato in sé, chiamò in disparte l'ospite dicendogli:«Ecco, fratello, ascolta prontamente i miei consigli, giacché non è qui che mangerai. Confessa i peccati pentendoti». Il cavaliere obbedì, mise in ordine la sua casa e si preparò. Sedutisi a tavola d'improvviso spirò; secondo la parola del Santo». I vari episodi della vita di Francesco sono descritti in modo tale che rivelino la storia: la realtà borghese e mercantile della Firenze dell'Arte della lana e dei banchieri; la Chiesa che, travagliata da crisi interne, aveva bisogno di un nuovo spirito evangelico: Francesco ripara la mia casa, sono le parole del Crocifisso a Francesco: «mentre era presso la chiesa di San Damiano che decrepita minacciava di crollare». Tuttavia non è quell'edificio ma la Chiesa di Roma ad aver bisogno di lui, così come in Il sogno di Papa Innocenzo III: « papa Innocenzo III vide in sogno la basilica del Laterano sul punto di crollare, e un tale, un poverello che la sosteneva con le sue spalle perché non cadesse». L'apparizione al capitolo di Arles: «Ai capitoli provinciali Francesco non poteva essere presente di persona, ma inviava sollecite direttive. Qualche volta vi compariva però in forma visibile», rivela ormai la stabilità dell'Ordine fondato dal Santo che preferì invece l'umiltà di una vita vissuta secondo il Vangelo preso alla lettera. Il presepe di Greccio: «Onde però non esser tacciato di stranezze, chiesta licenza al Papa, fece allestire un presepe con fieno e accanto un bue e un asino. Un cavaliere affermò di aver veduto nella greppia un fanciullo addormentato e Francesco che lo spingeva fra le braccia»; La prova di fuoco davanti al Sultano: «Meravigliato di tanto ardire, chiese da chi fosse stato mandato. Il Poverello rispose che non un uomo, ma Dio stesso lo inviava»; Francesco riceve le stigmate: «Pregando lassù al monte della Verna, vide Francesco il Cristo in aspetto di Serafino crocefisso il quale gl'impresse nel corpo le stigmate della passione. Queste scene vogliono rappresentare dei fatti storici di un Santo che ebbe un ruolo storico ben stabilito in una realtà precisa e individuabile. A questo stesso periodo appartiene il dipinto su tavola con il Cristo crocifisso (1296-1300) per la chiesa di Santa Maria Novella a Firenze ormai lontano dagli schemi iconografici bizantini del maestro Cimabue e più teso invece alla rappresentazione naturale del dolore fisico.


L'attività' nella capitale e a Padova
Nel 1300 Giotto si recò a Roma chiamato dal papa Bonifacio VIII in occasione del giubileo. Vi dipinse un affresco nella basilica di San Giovanni in Laterano con la scena del papa che indice l'anno giubilare; compose un mosaico per la facciata di San Pietro con la Navicella degli Apostoli, opere che purtroppo sono entrambe pervenute in maniera frammentaria e in pessime condizioni per i vari rifacimenti delle due chiese. A Roma Giotto tornò più volte; nel frattempo la sua fama gli procurava importanti commissioni. Enrico degli Scrovegni lo chiamò a Padova per decorare le pareti della cappella (1303-10), che egli aveva fatto costruire sui ruderi della arena romana, dedicandola alla Madonna della Carità in espiazione delle colpe del padre che era stato finanziere e usuraio, tanto famoso da essere ricordato da Dante nel canto XVII dell'Inferno. I muri nudi della cappella, privi di membrature architettoniche, presenti invece nella basilica di Assisi, furono ricoperti interamente da dipinti: sulle pareti, le Storie della Vergine e di Cristo con i vari episodi dalla Cacciata di Gioacchino dal tempio fino alla Pentecoste, sono disposte su tre ordini sovrapposti, incorniciate da fasce dipinte con medaglioni di santi e profeti, al di sopra di uno zoccolo con riquadri di finto marmo, alternati a figure allegoriche di Virtù e Vizi. La volta a botte, azzurra e stellata, accoglie altri tondi; nella controfacciata la scena del Giudizio finale con il ritratto di Enrico Scrovegni che offre alla Madonna il modello della cappella. Fra gli affreschi dell'arco trionfale, disposti simmetricamente, vi sono dipinti due spazi senza figure, detti coretti o cappelle segrete che nella finzione di due vani coperti a crociera danno l'illusione della profondità spaziale. Una conquista senza paragoni che era già stata tentata negli affreschi di Assisi: Il presepe di Greccio infatti, con i vari elementi del ciborio e del leggio da una parte e l'ambone e il crocifisso dall'altra, vogliono appunto suggerire la profondità dello spazio. La ricerca giottesca a Padova si approfondisce in valori spaziali e plastici: le figure dipinte ricordano le sculture gotiche poiché su una superficie piatta egli crea con i colori graduati dalla luce l'illusione della profondità. Nel Compianto su Cristo morto la scena è descritta in modo tale che allo spettatore sembra di essere testimone di un fatto vero i cui personaggi rivelano l'intensità drammatica e si muovono in uno spazio libero e reale, pur senza trascendere il senso di misura. La continuità fra Antico e Nuovo Testamento trova il suo punto espressivo nel rapporto tra la Madonna e il Cristo; ma per Giotto è anche il punto culminante della storia dell'umanità cui la presenza reale di Cristo pone l'alternativa morale del bene e del male, come sottolinea Argan. Per far fronte ai numerosi lavori Giotto si avvaleva di aiuti ai quali talvolta affidava la stesura pittorica, riservandosi però le parti più importanti e difficili. Così l'invenzione resta sua e la novità è immediatamente rivelabile come nella Maestà degli Uffizi (1305-10), proveniente dalla chiesa Ognissanti. Non c'è più il tono distaccato, ieratico delle Madonne bizantine, ma l'umanità e la realtà fisica della Vergine.


Le ultime opere di Giotto


Firenze rimase pur sempre il centro dell'attività di Giotto nonostante le sue permanenze a Roma, Assisi, Rimini e Padova. Nel 1328 si recò anche a Napoli e quindi a Milano (1335-36), ma non resta più traccia della sua opera anche se gli furono attribuiti molti lavori data la fama e la sequela di vari artisti che si rifecero al suo stile. Molti dipinti su tavola riportano anche il suo nome ma sono completamente o in parte opere di bottega. Le fonti, fra cui quella di Vasari, riportano la notizia di affreschi per quattro cappelle nella Chiesa di Santa Croce a Firenze. La decorazione di due di esse è andata completamente distrutta, mentre, nonostante i vari restauri, restano in condizioni non certo ottimali gli affreschi della cappella Peruzzi con le Storie di san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista (1315-20) e quelli della cappella Bardi con Storie di san Francesco (1325). Anche questa volta i committenti, i Bardi e i Peruzzi, ricchi banchieri fiorentini, sono rappresentanti altolocati della società del tempo e le opere sono senz'altro di alta qualità. La lezione di colore appresa nel Veneto ormai è una sicura acquisizione che Giotto approfondisce fondendola con la visione spaziale che conferisce un senso di serenità e coralità al tempo stesso. Negli affreschi della cappella Bardi egli riprende il tema di Assisi con maggiore commozione umana comunicandolo in un linguaggio pittorico che da poesia si fa prosa.
Il campanile di Santa Maria del Fiore

Nel 1334 Giotto, che aveva già dimostrato interesse e una certa competenza in campo architettonico, avvertibile anche in alcuni affreschi, fu nominato magister et gubernator dell'Opera del duomo e il suo interesse si appuntò sulla costruzione del campanile accanto alla cattedrale. Egli progettò il modello, «che fu di quella maniera tedesca che in quel tempo s'usava, disegnò tutte le storie che andavano nell'ornamento, e scompartì di colori bianchi, neri e rossi il modello in tutti que' luoghi, dove avevano a andare le pietre e i fregi, con molta diligenza» (G. Vasari, Vite). L'idea fu completamente nuova rispetto ai modelli tradizionali e, nonostante la morte di Giotto che ne diresse personalmente la costruzione fino alla prima cornice, la torre con gli spigoli sottolineati dai torrioncini poligonali e l'apertura progressiva e finale verso l'alto delle bifore fu compiuta successivamente da Francesco Talenti. Al riguardo di quest'opera è interessante l'annotazione dell'anonimo del XIV secolo, secondo il quale Giotto vi commise due errori: «L'uno che non ebbe ceppo da piè, l'altro che fu stretto»; perciò si afflisse tanto che si ammalò e morì. Villani ne registra la morte di ritorno dal suo viaggio a Milano, presso Azzone Visconti, dove era stato inviato dal Comune di Firenze.

 

      Vincent Van Gogh

 


L'immagine del genio folle e sfortunato che avvolge una certa idea dell'arte e degli artisti, ha trovato in Van Gogh una delle incarnazioni più convincenti. La sua vita, tragica e breve, è stata trasformata in mito da una copiosa letteratura. È vero però che, figlio di un pastore protestante, con una madre portata per le lettere e le arti, cerca di realizzarsi, prima nella religione poi nella pittura, con una intensità dolorosa e violenta che arriva al parossismo.
Dopo un'infanzia taciturna e sognatrice, deve mettersi a lavorare (1869) e trova un lavoro all'Aia, poi a Londra e a Parigi, presso un mercante d'arte che lo licenzia nel 1876. Si sente chiamato a una missione più alta, ma anche più dura: si mette al servizio di un altro pastore di un quartiere popolare di Londra, poi, dopo essersi cimentato negli studi teologici, viene mandato nel Borinage come predicatore, presso una comunità di minatori. Spingendo la dedizione fino all'estremo sacrificio, raggiunge il fondo della sua crisi interiore e rinuncia all'incarico, disapprovato dalla Chiesa (1879). Rivolge allora tutte le sue energie al disegno, cercando attraverso ritratti e paesaggi di nature morte la verità sull'uomo e sulla sua condizione disperata.


Gli inizi, 1880-85
Comincia con fiducia il suo apprendistato di artista, aiutato finanziariamente e moralmente dal fratello Thèo (1857-91), con il quale intrattiene una corrispondenza eccezionale, sia per l'abbondanza sia perché rivela la sua sensibilità, i suoi pensieri, la sua esistenza e il suo modo di lavorare. Oltre allo studio di raccolte di incisioni e di opere tecniche, copia le opere di Millet e ne riprende incessantemente i temi (il seminatore), acquisisce l'arte dei maestri fiamminghi e olandesi e le leggi della prospettiva, disegna in modo naturalistico (presso i suoi genitori, a Etten, nel 1881) paesaggi, strumenti agricoli, laboratori artigiani e ritratti. Questo ardore nel lavoro è dovuto a un crescente sconforto: dopo una crudele delusione sentimentale con sua cugina Kee, una violenta disputa con il padre (Natale 1881) e la sua partenza per L'Aia (dove un parente, il pittore Anton Mauve [1838-88], lo inizia alla pittura a olio), ha una relazione con una prostituta, da lui vista come incarnazione del declassamento che corrisponde alla sua volontà di rottura. Passato il periodo dell'entusiasmo l'avventura termina, nel 1883, nella solitudine, nel cuore della selvaggia regione della Drenthe; poi, con l'avvicinarsi dell'inverno, a Nuenen presso i suoi genitori. Qui, riprende le sue letture, specialmente Zola, e il suo lavoro, con figure di contadini, con serie di scene con personaggi (tessitori ricurvi nella penombra sul loro telaio) e di nature morte. Le tematiche, le modalità di composizione, l'amore dei dettagli e dei volumi squadrati da luci violente indicano il suo ritrovare la lezione del realismo olandese ( Mangiatori di patate, 1885, Museo Van Gogh, Amsterdam). Ma presto, sotto l'influenza di Rembrandt, Hals, Delacroix, Chardin (che egli avvicina a Vermeer) e soprattutto di Rubens (scoperto ad Anversa nel 1885), per il giovane pittore il problema del colore diventa fondamentale: rischiara la sua tavolozza, addolcisce il suo stile e, contemporaneamente, privilegia il ritratto. A Parigi può, tuttavia, trovare, oltre alla presenza del fratello Thèo, che lo rassicura, un clima di fermento artistico che lo stimolerà in modo decisivo. Vi arriva, all'inizio del 1886, già libero dagli obblighi dall'apprendistato.
Parigi, 1886-87
Il soggiorno a Parigi, è quello delle scoperte: quando vengono pubblicati Les illuminations di Rimbaud e l'Oeuvre di Zola, gli impressionisti fanno nel 1886 la loro ultima esposizione (la Grande Jatte di Seurat è accanto alle tele di Signac, Pissarro, Redon, Degas, Gauguin, Guillaumin); l'anno seguente, l'opera di Millet è oggetto di una retrospettiva. È anche il momento degli incontri e delle amicizie fruttuose: nel laboratorio di Fernand Cormon (1845-1924), dove lavora in base a modelli viventi e a gessi, Vincent si lega a Toulouse-Lautrec, a Louis Anquetin (1861-1932) e a Emile Bernard (1868-1941). Con Pissarro impara le nuove idee sulla luce e il trattamento divisionista del colore. Tramite Thèo, conosce Gauguin, mentre tramite il pére Tanguy, la cui bottega di colori racchiude anche opere come quelle di Cézanne, si lega a Signac. In questo ambiente creativo, i mazzi di fiori ispirati da Adolphe Monticelli (1824-86) seguono presto gli studi accademici e i paesaggi passano dai marroni compatti e dai grigi vaporosi ai colori puri. Nelle vedute di Montmartre, così caratteristiche con le viuzze in pendenza, i riverberi e i mulini a vento, la vibrazione luminosa acquisita dall'impressionismo arricchisce la sensibilità grafica propria di Vincent (Montmartre, Stedelijk Museum, Amsterdam). Con la tecnica divisionista, cerca il suo personale approccio al colore (Interno di ristorante, 1887, museo Kroller-Muller, Otterlo), e allo stesso tempo cerca nei sobborghi parigini e presso gli argini della Senna gli stessi motivi di Signac e di Emile Bernard. Abbandona a poco a poco la frammentazione impressionista e tende a semplificare la forma e il colore per concentrarsi meglio sull'unità strutturale della superficie e per mantenere la caratterizzazione espressiva degli oggetti (Natura morta con libri e gesso, 1887, Otterlo). In questa direzione, nella ricerca di uno stile veramente personale, l'influenza della stampa giapponese, tanto ammirata e copiata da Vincent, segna una tappa importante. Se ne ritrova la presenza nel ritratto del pére Tanguy (1887, Museo Rodin, Parigi), il cui sfondo è completamente tappezzato con queste stampe. Il ritratto, genere prediletto da Van Gogh, trova il suo profondo significato nei numerosi autoritratti, contemporaneamente analisi di se stesso e bilancio della sua arte (Museo nazionale Vincent van Gogh). In questo soggiorno parigino, fondato sulla fraternità senza contrasti tra Vincent e Thèo, il prossimo matrimonio di Thèo getta un'ombra di ambiguità. Vincent preferisce lasciare Parigi, trovando una scusa nell'attrazione che esercita su di lui la Provenza, già sognata attraverso le tele di Monticelli e di Cézanne, le opere di Zola e di Alphonse Daudet. Nel 1888 si stabilisce ad Arles.


La Provenza, 1888-90
Affascinato dalla natura provenzale, Vincent ne sposa il ritmo e le stagioni nelle serie successive dei Frutteti (dipinti nel rosa e nel bianco), delle Mietiture (nei gialli aranciati) e dei Giardini (nei verdi). L'inverno scompare davanti al trionfo dell'estate: lo splendore del sole, la fascinazione violenta dei gialli costituiscono la scoperta fondamentale. In questo chiarore torrido del Mezzogiorno dove la realtà delle cose appare senza il velo atmosferico che altrove le avvolge, l'arte della stampa giapponese subisce una vera trasmutazione (Il ponte di Langlois, maggio 1888, Wallraf-Richartz Museum, Colonia e altre versioni). Gli stessi disegni, attraverso la loro eccezionale qualità pittorica arrivano con semplici elementi a trascrivere la trama della colorazione luminosa degli oggetti. La rapidità di esecuzione, che gli sembra indispensabile, richiede a Vincent una grande tensione che egli tiene alta - per «meditare il colpo» - con il caffé e l'alcool. Raggiunge presto un livello di sovraffaticamento che influirà pesantemente sulla crisi imminente. Ripone tutte le sue speranze nella «casa gialla» che ha affittato per creare l'associazione degli artisti che sogna fin dall'Olanda. Per mediazione di Thèo, invita Gauguin a stabilirsi con lui, ma la loro grande diversità, mirabilmente espressa nel contrasto tra La sedia di Van Gogh (con pipa) [Tate Gallery, Londra] e La sedia di Gauguin (con libri e candela) [Museo nazionale Vincent van Gogh] , sfocia nella notte di Natale del 1888 in un grave alterco. Sconvolto, Vincent si amputa il lobo dell'orecchio sinistro e lo offre a una prostituta che frequenta. Curato in ospedale, si ristabilisce e dipinge ancora parecchi quadri, come il suo Autoritratto del gennaio 1889, col capo bendato (1889, collezione Block, Chicago). Internato per un certo periodo in seguito a una petizione, attanagliato dall'angoscia e dalla solitudine all'annuncio del matrimonio del fratello, pensa al suicidio e preferisce farsi ospedalizzare lui stesso a Saint-Rèmy-de-Provence. Il periodo di Arles rimase sotto la duplice influenza del blu e del giallo, cielo e terra sotto il sole dei precedenti Covoni (1885, Otterlo) o notte illuminata dalle stelle della Notte stellata sul Rodano (1888, collezione Moch, Parigi, che Vincent dipingerà con una corona di candele intorno al cappello), o ancora scene notturne dove le passioni umane si esprimono in ciò che hanno di più esasperato dallo sconforto (Caffé di notte, 1888, Yale University Art Gallery, New Haven). Il punto estremo di questa tensione e allo stesso tempo di questa ebbrezza è raggiunto nella serie dei Tornasole, trattati senza ombre né modellati, con gialli spinti al limite estremo: il pittore diviene colui che si avvicina al fuoco solare e che, in questo stesso modo, si brucia e si consuma. Come nei ritratti, dove i toni verdi creano una certa temperanza ( L'Arlesiana, Metropolitan Museum of Art, New York), il colore unito strettamente alla luce, incarna la presenza reale delle cose e il loro destino spirituale. Dopo l'arrivo di Vincent a Saint-Rèmy, nel 1889, la malattia, ma anche il carattere tormentato della Provenza delle Alpille e di Baux portano modifiche nel suo stile. Il tocco si fa più veemente e furioso e le ocre tendono a sostituire i colori di Arles, ancora presenti nella seconda bellissima versione della Notte stellata (Museum of Modern Art, New York). Il lavoro di Van Gogh in ospedale dipende dal suo stato di salute e, a seconda che sia obbligato a rimanere in camera o autorizzato a uscire nella proprietà o anche ad andare a passeggiare, dipinge i cespugli di fiori del giardino, i campi scorti dalla finestra, gli ulivi e i cipressi della campagna circostante (Campo di grano con cipressi, National Gallery, Londra e altre versioni). Dopo la crisi che segue l'annuncio di una prossima nascita nella casa di Thèo, ricercando nel lavoro il «miglior rimedio alla malattia», esegue alcune copie in base a delle incisioni dei suoi maestri preferiti ( Pietà secondo Delacroix, Museo nazionale Vincent van Gogh). Nuovamente stroncato verso Natale, si raffigura nella Prigione (Il giro dei carcerati ) secondo Gustave Dorè (1890, Museo Puskin, Mosca). Vuole ancora sperare e credere in una ripresa quando nasce suo nipote Vincent (Rami di mandorlo in fiore, Museo nazionale Vincent van Gogh) e quando gli giungono buone notizie riguardo l'attenzione prestata alla sua opera (un articolo di Albert Aurier [1865-92] apparso nel «Mercure de France», su Vigneto rosso, la sola tela venduta quando è in vita, a Bruxelles). Ma quando i frutteti sono in fiore un altro incubo lo condanna all'inazione per due mesi. Ritornato in sé (la Resurrezione di Lazzaro, secondo Rembrandt, dove si riconosce il suo viso livido, Museo nazionale Vincent van Gogh), chiede di lasciare l'ospizio. Su consiglio di Pissarro, Thèo pensa al suo trasferimento presso il dottor Gachet, medico e amatore d'arte stabilitosi a Auvers-sur-Oise. Saint-Rèmy, periodo di crisi acuta, resta segnato dagli ulivi e dai cipressi di cui le fiamme e le torsioni trascinano cielo, terra e astri nello stesso movimento: Van Gogh è ossessionato da «le forme convulse e contorte, [...] un universo di tumulto e di tempesta nel quale si proiettano i suoi tormenti, come se le forze motrici del suo essere, inibite dalla malattia e dall'internamento, scoppiassero bruscamente in liberazioni angosciate» (Jean Leymarie). L'intensità non si concentra più nel colore, ma nel movimento delle forme, mentre un'armonia smorzata dai grigi e dalle ocre conferisce una risonanza tragica a tele come Il parco dell'asilo Saint-Paul (Saint-Rèmy 1889, Folkwang Museum, Essen).
Auvers-sur-Oise, 1890
Dopo un breve soggiorno a Parigi per rivedere Thèo, Vincent raggiunge Auvers-sur-Oise nel maggio 1890. Alloggia nella modesta pensione del Cafè Ravoux, frequenta il dottor Gachet, che lo invita e posa per lui. Appassionato di incisioni e amico degli artisti, Paul Ferdinand Gachet (detto Paul van Rijssel, 1828-1909), ha saputo attirare artisti come Cézanne, Guillaumin e Pissarro. L'ambiente e il clima fanno dimenticare a Vincent le sue recenti crisi e ritrova piena fiducia. Riprende i suoi temi rurali, con i campi, i giardini, le stoppie, le vedute del villaggio (La chiesa d'Auvers , museo del Louvre) in toni lattiginosi, verdi, viola e blu scuro. Disponendo di nuovi modelli ridà importanza ai ritratti. Una certa tensione si sviluppa fra Thèo e Vincent. E quando Thèo, di salute malferma, vuole condurre suo figlio convalescente e la moglie in Olanda, Vincent si sente abbandonato. L'artista esprime la sua tristezza e la sua estrema solitudine in immense distese di grano sotto dei cieli minacciosi, come Corvi sul grano (Museo nazionale Vincent van Gogh), la sua ultima tela. Domenica 27 luglio 1980, si avvia nei campi e si spara un colpo di pistola al petto, ma il colpo non lo uccide. Ritorna nella sua camera, dove viene trovato insanguinato. Sopravvive ancora due giorni, poi muore nella notte del 29 luglio, di una morte voluta in tutta coscienza. Senza entrare nelle diverse ipotesi mediche emesse sulla malattia di Van Gogh e che nascondono spesso l'essenziale, si può vedere nella sua opera l'intensa lotta condotta da un individuo contro un mondo che lo rifiuta, una società che produce, con l'industrializzazione e le sue conseguenze sociali conflittuali, l'asservimento e la distruzione dell'uomo. Chi altro poteva parlare meglio di Van Gogh, delle sue spaventose crisi di angoscia e della soffocazione umana, se non Antonin Artaud (Van Gogh , il suicida della società [ Van Gogh, le suicidè de l a sociètè ]). Distinguendosi dai freddi specialisti, Artaud ha saputo affermare che «un giorno la pittura di Van Gogh armata di calore e di buona salute ritornerà per gettare all'aria la polvere di un mondo oppresso che il suo cuore non poteva più sopportare».


       Leonardo

 


Le opere dipinte, disegnate, scritte di Leonardo rivelano tre aspetti della sua attività: l'arte, la ricerca scientifica, la tecnologia. Nelle sue carte non si legge purtroppo nulla della sua vita privata e dei suoi affetti; da altre fonti si ricavano notizie, in particolare da Giorgio Vasari che nelle sue Vite (1550; 1568) traccia la biografia di Leonardo offrendone un ritratto idealizzato. «Mirabile e celeste», infatti, definisce il figlio di ser Piero, notaio; in lui si trovano bellezza, grazia, virtù, forza, destrezza, valore e bontà, tali che nessuno gli fu pari. Accolto nella casa del padre di cui era «figliuolo non legiptimo» e della matrigna, lontano dalla madre, una certa Caterina andata poi sposa a Cattabriga o Accattabriga, dimostrò in modo precoce interesse a molte cose senza tuttavia portarne a termine alcuna. Frequentando poi la scuola di abbaco del paese, come riporta Vasari, apprese così in fretta, da confondere spesso con i suoi dubbi, le sue domande e le sue obiezioni il maestro stesso. Dopo il trasferimento a Firenze, il padre, constatata la sua costante passione per il disegno, lo mandò a bottega da Andrea del Verrocchio, suo amico, che era artista completo. Allora Leonardo doveva avere 17 anni e imparò tutte le nozioni che a quel tempo si richiedevano a un artista: scultura e pittura, ma anche architettura di chiese, di edifici, di mulini, di macchinari idraulici e per ogni tipo di lavoro. Non studiò il latino e i classici, cosicché a ragione Leonardo si definiva «uomo senza lettere» in una città, Firenze, dalla cultura neoplatonica e dedita alle arti «liberali», indirizzate cioè alla contemplazione della verità; si applicò invece alle arti «meccaniche», considerate all'epoca vili. In bottega egli apprese tutto quanto concerneva l'attività manuale e i precetti raccolti nel «libro di bottega», che in forma concisa e con discorso spezzato il maestro compilava a mano a mano annotandovi anche i fatti più salienti. Un modo che Leonardo fece proprio nelle sue carte e dal quale non poté mai distaccarsi, nonostante le sue speranze di organizzare tutto il materiale frammentario; qui il passaggio da un argomento all'altro, più che a una conoscenza febbrile, è imputabile al particolare modo di annotare i vari argomenti anche a lunghi intervalli di tempo gli uni dagli altri, senza poter ricordare quanto già scritto in precedenza.


Gli anni fiorentini del giovane Leonardo
Il suo apprendistato iniziò con la raffigurazione di «teste di femmine che ridono [...] e teste di putti», riproduzioni di sé stesso com'era nell'infanzia e repliche della madre, come interpreta Sigmund Freud nel suo saggio su Leonardo (1910), che mette in rilievo tre caratteristiche della sua personalità: l’insaziabile curiosità per l'investigazione scientifica e la sete di sapere che impedisce talvolta la sua attività artistica; la lentezza nell'esecuzione delle sue opere pittoriche; il rifiuto della sessualità, inconsueto in un uomo «piacevole nella conversazione, che tirava a sé gli animi delle genti», affabile e amante della bellezza e della vita raffinata. Il suo ingegno lo portava a non accontentarsi di una conoscenza superficiale della realtà, ma a dare valore all'esperimento e all'osservazione diretta: «I'esperientia» sola «è madre di ogni certezza». I suoi primi disegni nascono da questo metodo di lavoro: l'Arno (5 agosto 1473) che si restringe alla stretta della Gonfolina è un paesaggio osservato nelle sue singole componenti e ricreato nella sua suggestione atmosferica. In collaborazione con il Verrocchio dipinse una tavola con il Battesimo di Cristo (147075) in cui è ravvisabile la mano leonardesca nel paesaggio e nell'angolo di sinistra. Vasari racconta che questo fu dipinto così da superare l'abilità del maestro che non volle più toccare i colori, «sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui». Certo il racconto è poco verosimile per alcuni elementi contraddittori, ma evidenzia il fatto che ben presto Leonardo mutò i consueti rapporti tra allievo e maestro: si può pensare che diventassero presto colleghi seppure con esperienze e fama differenti. Lo conferma il fatto che già dal 1472 il nome di Leonardo appare nella lista dei pittori di Firenze. Il primo dipinto di lavoro autonomo è l'Annunciazione (1475 c.ca), oggi conservata agli Uffizi, in cui però è ancora evidente l'influenza della scuola verrocchiana, come pure nell'altra Annunciazione, oggi al Louvre, che faceva parte della predella di un'opera dipinta da Lorenzo di Credi (1459‑1537), anch'egli a bottega dal Verrocchio. Molti critici sono concordi nel far rientrare in questo primo periodo il Ritratto di donna, che dovrebbe essere quello di Ginevra Benci, figlia di quel Benci al quale Leonardo dice di aver dato un suo libro e un mappamondo. Il rametto di ginepro sul retro della tavola sembrerebbe alludere al nome della giovane, ritratta su uno sfondo di alberi e di acque, dominato da una grande conifera in controluce. Pur lavorando autonomamente, Leonardo aveva continuato ad abitare con il Verrocchio fino al 1478, anno in cui gli fu commissionata una tavola per l'altare della cappella della Signoria. Invece di preoccuparsi di quest’opera, egli si dedicò ad altri dipinti il cui soggetto lo attraeva di più: la Madre e il Bambino, sui quali impostò parecchi schizzi. È probabile che le due Vergini Maria annotate da Leonardo in una delle sue carte siano la Madonna del Fiore, oggi all'Ermitage di Leningrado, e la Madonna del garofano di Monaco, dai tratti molto più umani e poco divini, colte nella gioia del loro compito materno. Leonardo aveva però bisogno di guadagnare e accettò ben volentieri la commissione dei monaci di san Donato a Scopeto presso Firenze, che integravano il pagamento con offerte di prodotti della campagna, dell'Adorazione dei Magi (1481). La impostò in numerosi disegni, studiandone rigorosamente i piani prospettici e le espressioni dei personaggi, così che il momento dell'esecuzione poi sulla tela dovette sembrare svuotato di interesse creativo, se egli abbandonò improvvisamente il convento e non terminò più il quadro. L'opera è assolutamente originale sia per il tema dell'adorazione risolta come epifania, cioè manifestazione del divino, non in un'idea astratta ma nel fenomeno che coinvolge la natura, gli animali e gli; uomini, le cui emozioni e pensieri si esprimono mediante i gesti e le espressioni del viso; ma anche per l'attenzione alle forme anatomiche e alla prospettiva resa dalla linea e dal rapporto luce-ombra. Fra i personaggi che fanno corona alla Vergine, si presume che il primo a destra sia l'artista stesso. All'ultimo periodo della permanenza di Leonardo a Firenze risale il San Gerolamo, anch'esso incompiuto, che esprime la stessa preoccupazione per la forma anatomica e la gestualità che si ritroveranno poi sempre nei dipinti dell'artista. Le altre opere menzionate da Vasari sono la Rotella, la Medusa, il Nettuno per Antonio Segni suo amico, il cartone di Adamo ed Eva.


Leonardo a Milano
Diversi motivi concorsero probabilmente a che Leonardo lasciasse Firenze, che aveva attraversato momenti di gravi tensioni politiche: la congiura dei Pazzi e la conseguente repressione da parte di Lorenzo de' Medici doveva essere apparsa feroce anche ai suoi occhi. Vasari riporta la notizia di un concorso per musici cui avrebbe partecipato superando gli altri concorrenti, con una lira d'argento «in forma d'un teschio di cavallo», strana, ma tale da essere più sonora e armoniosa, come egli stesso aveva voluto costruirla. Non è inverosimile una siffatta invenzione, anche se la notizia non è più ripresa altrove. Un altro motivo poteva essere stato offerto dalla volontà di Ludovico Sforza, detto il Moro, di erigere un monumento equestre a Francesco Sforza suo padre. E fosse stato Leonardo richiesto dal duca stesso o presentato da Lorenzo il Magnifico, che riteneva il signore di Milano un alleato importante, alla fine del 1482 egli giunse a Milano. Presentandosi al duca gli offrì i suoi servigi con una lettera in cui si descriveva capace di qualsiasi opera di ingegneria militare; mentre il Moro, secondo Vasari, ne conosceva già il talento artistico attraverso uno strano dipinto. Egli aveva infatti comprato da alcuni mercanti una rotella di legno di fico consegnata da un contadino al padre di Leonardo, ser Piero, perché la facesse dipingere. L'artista vi aveva rappresentato un animalaccio orribile e spaventoso ricavato dall'insieme di molti animali. In seguito il padre, anziché ridarla al contadino, l'aveva venduta. Gli inizi a Milano, dominata dal potere e dallo sfarzo ducale, furono difficili per Leonardo, che non era stato accettato immediatamente nella cerchia degli artisti milanesi. Solo nel 1483, assieme ai fratelli De Predis, ebbe una commissione importante, la Vergine delle rocce, di cui si conservano due versioni, una esclusivamente di Leonardo, oggi al Louvre, l'altra di mano leonardesca a Londra. Lo sfondo naturalistico imponente e preciso accoglie i personaggi composti secondo uno schema piramidale e soffusi di una quieta serenità. La consegna del dipinto, data la lentezza dell'artista, avvenne in ritardo rispetto agli impegni presi, cioè nel 1490, e ciò comportò strascichi legali. Di lui si diceva che fosse lentissimo e dubbioso e severo critico di se stesso. Nel 1495 iniziò a dipingere a fresco nel Castello, che il duca stava ampliando e abbellendo, i «camerini»: è rimasta integra la volta della Sala delle Asse, con il fitto intrico del pergolato. Ma l'8 giugno del 1496 il lavoro s'interruppe bruscamente; da una minuta purtroppo frammentaria si conosce la lamentela di Leonardo con il duca, dal quale non riceveva il salario da due anni. Il dissidio comunque si compose con la ripresa dei lavori e la donazione di una vigna all'artista nel quartiere di san Vittore. L'episodio può inserirsi in quel rapporto difficile e strano del duca, mecenate e signore, da una parte, e Leonardo, artista libero nelle sue attività e tuttavia legato alla vita di corte e ai desideri del signore, dall'altra. Nei primi anni (1483-89), dipinse per lui le donne che aveva amato: Cecilia Gallerani, probabilmente nella Donna con l'ermellino, oggi a Cracovia; Lucrezia Crivelli; in seguito anche la moglie nel Ritratto di Beatrice d'Este della Pinacoteca ambrosiana. Il problema della statua equestre, che Leonardo avrebbe dovuto realizzare per onorare la memoria di Francesco Sforza, sembra che fosse stato affrontato già nei primi mesi dopo il suo arrivo a Milano. Più che dalla figura del cavaliere, egli fu attratto da quella del cavallo: e schizzò minuziosamente i movimenti e le pose dopo averle osservate dal vero in alcune scuderie. Il progetto era ambizioso: Leonardo avrebbe voluto fermare il cavallo ritto sulle zampe posteriori, al momento dell'impennata: il disegno a sanguigna nel foglio 12336 di Windsor esprime tutto il dinamismo dell'animale. Nel frattempo affrontava anche il problema della fusione, come si ricava anche da un altro disegno del Codice di Madrid II. Abbandonò per qualche tempo il progetto e lo riprese il 23 aprile 1490 quando iniziò un nuovo quaderno, il Codice C, con l'idea del cavallo. La monumentalità dell'opera doveva essere un'impresa difficile anche per la difficoltà della fusione. Vasari ne ricorda la realizzazione solo in un modello di «terra» che durò fino all'entrata in Milano dei Francesi, che lo distrussero. Così pure si smarrì un piccolo modello in cera che era ritenuto perfetto.


Attività teatrali
Nel frattempo Leonardo fu uno dei grandi protagonisti della corte di Ludovico il Moro. Paolo Giovio, che scrisse una breve biografia su di lui verso il 1527, ma pubblicata solo nel 1796, lo definisce esperto di eleganza e raffinatezze e soprattutto creatore di spettacoli teatrali. Alcuni di questi sono documentati e datati, ma senza i disegni preparatori. Nell'allestimento del Paradiso di Bernardo Bellincioni, in occasione della festa del 13 gennaio 1490 per le nozze di Gian Galeazzo Sforza e Isabella d'Aragona, è ricordato non solo come pittore sublime, un altro Apelle, ma anche come tecnico teatrale. La gloria del Paradiso con i sette pianeti, rappresentati da attori che giravano, doveva aver superato in splendore gli altri aspetti della festa se ne conserviamo ancora una precisa relazione di un testimone oculare. Come scenografo dovette senz'altro abbagliare il suo pubblico con luci, suoni e l'arditezza del volo simulato in scena durante la rappresentazione della Danae di Baldassarre Taccone, l'ultimo giorno di gennaio del 1496 in casa di Giovan Francesco Sanseverino, conte di Caiazzo, a Milano. Da una lista si apprende che i personaggi erano impersonati da ben noti cortigiani. Particolari e disegni teatrali completi ci sono pervenuti attraverso il Codice Arundel, in cui Leonardo aveva progettato un sistema di palcoscenico mobile; manca però la documentazione che sia mai stato costruito e rimane in forse l'identificazione con la rappresentazione dell'Orfeo del Poliziano. Fu anche animatore instancabile di feste, che rendeva vivaci con le Profezie, indovinelli che scrisse per essere recitati «in forma di frenesia e farnetico, d'insania di cervello», come quello che è così presentato: «Qual è quella cosa che dalli omini è molto desiderata e, quando si possiede, non si pò conoscere?» per significare il dormire. Disegnò Rebus, raccontò Facezie agli amici, scrisse Favole i cui protagonisti sono animali e piante; mentre il Bestiario, definendo i vizi e le virtù degli animali, poteva ben servire alla composizione di figure allegoriche assai diffuse a quel tempo.


Il Cenacolo


Nel 1495 Ludovico il Moro decise di affidare a Leonardo l'incarico di affrescare il refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie, chiesa cara alla famiglia Sforza. Lo scrittore Matteo Bandello, che aveva tra i monaci uno zio, si recava spesso a vedere i lavori e ne descrive i ritmi discontinui. Vasari racconta che il priore sollecitava spesso l'artista perché terminasse l'opera, sembrandogli strano che stesse parecchio tempo a meditare ozioso. Non riuscendo nell'intento, si lamentò con il Duca, il quale lo fece chiamare. Leonardo parlò a lungo con lui della sua arte, sostenendo che è proprio degli ingegni elevati concepire quelle idee perfette che poi esprimono con l'attività manuale. Aggiunse che gli mancavano da fare due teste: quella di Cristo e di Giuda, per la quale, non trovando di meglio, avrebbe ritratto il priore tanto importuno e indiscreto. La cosa fece ridere il Duca che gli diede ragione. Nel dipinto, Leonardo fissa il momento successivo alle parole profetiche di Cristo sul tradimento da parte di uno degli apostoli: stupore e indignazione movimentano la scena al di là di una lunga tavolata su cui l'unico ad appoggiarsi è Giuda, quasi a tradire la sacralità del convito. L'opera si deteriorò rapidamente e fu più volte restaurata in passato. Il restauro, iniziato nel 1979 e affidato a Pinin Barcilon Brambilla, ha rimosso lo sporco, i fissaggi e le muffe, avvalendosi di tecniche avanzate, che hanno evidenziato particolari sconosciuti e filmato i vari momenti. Si sono scoperti tocchi raffinati e volti già presenti e noti agli studiosi attraverso i disegni. Carlo Pedretti, ultimo e assiduo curatore delle carte vinciane, ha affermato di aspettarsi grandi sorprese.


Leonardo e la scienza
Milano lo ospitò per diciotto anni e questa permanenza segnò una svolta importante nella sua ricerca, volta agli studi matematici, fisici e ingegneristici di cui la città conserva ancora numerose testimonianze. Mentre partecipava alle discussioni dei letterati lombardi. Leonardo si accorgeva che le loro dotte affermazioni e il loro sapere risultavano tanto più ricchi quanto era loro permesso attingere alla tradizione degli autori antichi. D'altra parte si accorgeva che il loro metodo era lontano dalla certezza scientifica e manteneva in vita per secoli falsità e ignoranza, mentre solo «con isperienzia ognora si possono chiaramente conoscere e trovare». Dalla coscienza della propria superiorità metodologica, osserva Augusto Marinoni, studioso delle carte vinciane, scaturisce in Leonardo la decisione di scrivere un gruppo di trattati che poggiano su basi scientifiche. Nessun libro fu mai terminato da lui, neppure il Trattato della pittura che pure Luca Pacioli menziona, dedicando nel 1498 a Ludovico il Moro la sua opera De divina proportione, pubblicata nel 1509 e corredata da 60 poliedri disegnati da Leonardo, i cui studi preparatori si ritrovano anche nel Codice atlantico, così chiamato dal formato intero del foglio. Si deve perlopiù all'opera del suo allievo ed esecutore testamentario Francesco Melzi la raccolta e sistemazione dei numerosi appunti, che andarono a formare il trattato sulla pittura. All'antica affermazione di una imitazione ignorante della realtà, Leonardo rivaluta la pittura, difesa come scienza, perché fondata su principi veri, basata sulla prospettiva matematica e sullo studio della natura. Non solo: egli afferma anche che la pittura è l'arte più nobile perché «fa con più verità le figure delle opere di natura che il poeta». Il pittore, intento a imitare fedelmente la natura, non si deve porre alcun limite, perché essa mostra la bellezza in ogni suo aspetto. Scienziato, quindi, ma anche creatore: «Possiamo esser detti nipoti a Dio»; e ancora: «La deità, ch'a la scientia del pittore, fa che la mente del pittore si trasmutta in una similitudine di mente divina», che supera la natura «nelle fintioni d'infinite forme d'animali et erbe, piante e siti». Questa doppia funzione, di scienziato che osserva attentamente la natura e di artista che la ricrea con la fantasia, è poi espressa nei suoi dipinti. Da qui si evidenzia la differenza tra Leonardo e gli altri pittori del Quattrocento, che pure avevano riprodotto, nei loro quadri, fiori, piante e paesaggi, utilizzando però le forme naturali come sfondo, mentre Leonardo le guardò con occhio da botanico. Ramo di more, Ghiande, Stella di Betlemme, Paesaggio montano, Tempesta sopra una vallata sono esempi pieni di fascino di copie dal vero. La necessità di consultare testi scientifici costrinse Leonardo a studiare il latino. Ci sono pervenuti alcuni specchietti e un glossarietto che indicano la sua volontà di superare l'ostacolo di una lingua di cui non raggiunse però mai una sicura conoscenza. Sotto la guida di Luca Pacioli, matematico, cercò di chiarirsi, pur attraverso questa lingua ostica, gli elementi di geometria euclidea, con passione e puntiglio tali, da allontanarsi persino dalla pittura; è una nuova passione che lo condurrà poi a scrivere nel 1505 un Libro titolato de strasformazione, cioè d'un corpo 'n un altro senza diminuzione accrescimento di materia, forse il più organico tra gli scritti vinciani, fondato su una visione dinamica della geometria. Come dal punto mobile, generatore della linea che genera la superficie e a sua volta la forma dei solidi, così le forme geometriche si trasformano: i rettangoli in quadrati, i cubi in parallelepipedi e piramidi e viceversa. Ma Leonardo va oltre: il moto curvilineo, «linea flexuosa, linea spiralis» aggiunge alla vivacità dell'atto una fluidità graduata, requisito della grazia; la verità e la bellezza si fondono così insieme. E la «notte di sant'Andrea» del 1504 raggiunge «il fine della quadrature del cerchio»: in un milionesimo di circonferenza la differenza tra l’arco e la sua corda sarà una «grandezza vicina al punto matematico», cioè, come diremmo oggi, e tende a zero, principio del calcolo infinitesimale.
La figura umana
Il 2 aprile 1489 Leonardo iniziò il libro intitolato De figura umana : è quindi il primo tema trattato dall'artista in relazione all'attività pittorica; il pittore deve, secondo lui, conoscere «la notomia di nervi, ossa, muscoli e lacerti». Com'è noto, fu egli stesso attivo anatomista secondo il procedimento di studio ricordato da Carlo Pedretti: prima la prospettiva e poi disegnare da figure (fatte da buoni maestri per assuefarsi a bone membra) e infine disegnare dal vero. Il modello condiziona la riuscita del dipinto. «E se questo modello non mostrassi bene i muscoli dentro ai termini delle membra, non monta niente». Da atteggiamenti simili negli animali e nell'uomo, Leonardo passa a concepire l'uomo dotato di intelligenza razionale, l'unico strumento che può riscattare un'esistenza altrimenti ferina. La sapienza è raggiunta attraverso l'esperienza e forse per questo motivo l'uomo leonardesco si identifica nell'uomo maturo che alla bellezza fisica unisce l'esperienza intellettuale; ne è un esempio l' Uomo Vitruviano. Ma in natura esiste anche la bruttezza e la bizzarria fisica: le Figure grottesche, che a lungo furono scambiate per caricature, descrivono invece la degenerazione fisica che accompagna la vecchiaia. Alla concezione quattrocentesca dell'uomo come misura di tutte le cose, corrisponde un interesse per lo studio delle proporzioni che portò Leonardo a conoscere l'interno e scoprire il funzionamento della macchina-uomo. La maggior parte dei disegni anatomici è conservata a Windsor; essi sono databili variamente dal 1489 al 1513. Commozione e stupore destano ancora oggi il disegno del Feto umano nell'utero; in tutto circa 600 disegni, che illustrano gli apparati e i sistemi dell'anatomia dell'uomo, che egli aveva cominciato a raccogliere prima della partenza per Milano, come testimonia il materiale che portava con sé al momento di lasciare Firenze.


Scienza e tecnica
Attratto dal dinamismo dei corpi nello spazio e nel tempo, Leonardo tentò di definire la forza: «Forza dico essere una virtù spirituale, una potenzia invisibile la quale per accidentale violenza è causata dal moto e collocata e infusa nei corpi». Ogni tipo di movimento affascinò l'artista: l'acqua, i venti, il volo degli uccelli furono studiali anche nelle loro cause. Così l'acqua, oltre a essere paragonata al corpo umano, gli diede lo spunto per immaginare barche a pale, meccanismi a manovella e pale per la propulsione di natanti fino a programmare un'attività sott'acqua a opera di un palombaro che respira attraverso tubi tenuti fuor d'acqua da un galleggiante a forma di campana. Lo scafandro con un contenitore metallico destinato ad accogliere un otre con la riserva d'aria e le apparecchiature per camminare sott'acqua con scarpe e racchette galleggianti anticipano nei disegni e nella scrittura speculare leonardesca progetti già intuiti anche prima di lui ma realizzati sulle sue precise osservazioni. Il volo degli uccelli, che sembra liberasse dalle loro gabbie già nei primi anni a Firenze per studiarli meglio, gli fece intuire la possibilità per l'uomo di volare: ali meccaniche, combinando la forza delle braccia e delle gambe, macchine ad ali per l'uomo sono anticipazioni delle macchine moderne. La canalizzazione delle acque dei Navigli, cui era stata data particolare cura nel Milanese da parte delle autorità e delle persone competenti, lo avviarono a studi per risolvere alcuni problemi di ordine tecnico quali le chiuse, o la ristrutturazione di tutta una zona come quella della Sforzesca, vicino a Vigevano, dove Ludovico il Moro aveva deciso di iniziare la coltura del riso.


Architetto e urbanista
Quando Leonardo giunse a Milano, in città fervevano i lavori in vari cantieri; così la povera gente poteva guadagnarsi mezza lira una razione di vino e talvolta anche di pane al giorno. Per il Duomo, Leonardo fu chiamato nel 1487 a dare un parere per la costruzione del tiburio. Intervenne con una lettera appassionata ai fabbriceri perché eleggessero un «medico architetto al malato domo», dopo aver studiato il mezzo per irrobustire i piloni e impiegare archi capaci di sostenere le spinte laterali. Presentò anche un modello in legno che poi ritirò; il Codice trivulziano ne raccoglie i numerosi schizzi. Questi studi lo portarono ad analizzare le chiese a pianta centrale. I riferimenti culturali sono evidenti: Vitruvio e Leon Battista Alberti; mentre si evidenzia uno scambio di esperienze con Bramante, che lavorava per abbellire e terminare la chiesa di Santa Maria delle Grazie; il progetto realizzato in seguito da Bramante per la fabbrica di San Pietro a Roma ricorderà in modo straordinario i progetti di Leonardo, che però rimasero tutti allo stadio di disegni senza che ne seguisse la realizzazione. Luigi Firpo, che ha studiato Leonardo (1963) sotto questo profilo, ha tentato di rimuovere l'accusa di utopismo visionario di alcuni interpreti, in nome di uno studio minuzioso di carpenterie, ponteggi, travi, centine, coperture di tetti, conche, canali e ponti, che non si dissocia mai da un ideale di conoscenza simultanea e totale. Egli è un teorico che si accompagna a interessi tecnici e operativi, ma non si allontana mai dalla ricerca d'arte. L'assoluto realismo dei progetti ne garantisce la capacità professionale. Le concezioni più suggestive di Leonardo sono di urbanistica, adunate nel Manoscritto B dell'lstituto di Francia, riletto ultimamente da Eugenio Garin (La città di Leonardo, 1971), che ha saputo superare le contrastanti opinioni di coloro che hanno sempre voluto leggere Leonardo solo in chiave utopistica senza far emergere le fondamentali esperienze concrete. Della città di Milano Leonardo ebbe un'impressione sgradevole se nel Codice atlantico esprime il proprio disgusto per gli uomini che vi si affollano «a modo di torme di capre», abbandonata la vita solitaria e contemplativa, mettendosi «infra i popoli pieni d'infiniti mali», come la pietra della favola, calpestata e coperta di fango e di sterco, che ha lasciato la compagnia di erbe e di fiori. Da qui il desiderio e il progetto di una città spaziosa e luminosa, con i canali d'acqua che servono da mezzi di comunicazione, di irrigazione, di igiene e di inserimento nella vita e nel ritmo della natura. La città di Leonardo è pensata in corrispondenza fra uomo e mondo: schema antropomorfico e immagine cosmica esprimono l'adesione alla vita e ai bisogni dell'uomo e le strutture del corpo umano. È costruita su due piani diversi: le strade alte «solamente per li gentili omini»; le strade basse per «i carri e altre some a l'uso e comodità del popolo». Fiumi e canali separano la zona dei signori da quella del popolo, con una netta distinzione, dovuta al clima lombardo ancora feudale, come sottolinea Corrado Maltese nel suo saggio Il pensiero architettonico e urbanistico di Leonardo ( 1954). Una città comunque completamente nuova: risanata, con strade e cortili spaziosi, acque correnti, zone rurali e dimore signorili, concezione forse non del tutto aliena dallo spirito signorile di Leonardo, che contempla la natura per spiegare la vita del mondo e la sua, nella piena e sempre rinnovata consapevolezza della irresistibile compagine in cui tutto il mondo vive e si trasforma. Come la storia delle conchiglie marine, che «ci testificano la mutazione della terra intorno al centro de' nostri elementi». Esse ora sono diventati fossili «ricoperti di tempo in tempo dalli fanghi di varie grossezze, condotti al mare dalli fiumi con diluvi di diverse grandezze»; prima le conchiglie, «li nichi», stavano sul fondo marino, ma «ora questi tali fondi sono in tanta altezza, che son fatti colli o alti monti». E le conchiglie son diventate fossili; nel divenire del tempo «quello che è detto niente si ritrova nel tempo e nelle parole. Nel tempo si trova infra 'I preterito e 'I futuro, e nulla ritiene del presente, e così infra le parole che si dicano che non sono, o che sono impossibile». Non esiste il nulla che è «privazione dell'essere», conclude la meditazione metafisica di Leonardo, che si accompagna alle riflessioni più profonde insieme alle osservazioni più particolari.


Gli ultimi anni
L'ultimo mese dell'anno 1499 e del secolo Leonardo preferì andarsene da Milano piuttosto che restare dove i Francesi avevano seminato brutture e devastazioni facendo prigioniero il Duca: «Il Duca ha perso lo Stato, la roba e la libertà», è il suo essenziale commento. Se ne andò con i suoi allievi e Luca Pacioli verso Venezia, dove sperava poter svolgere qualche attività. Si fermò a Vaprio d'Adda, nella casa dei Melzi, e a Mantova, dove la duchessa Isabella d'Este avrebbe voluto trattenerlo. Ma il soggiorno a Venezia fu di breve durata, ed egli ritornò a Firenze carico di esperienze e di fama, tanto che gli fu offerta subito una commissione: la Sant'Anna con la Madonna, il Bambino e san Giovannino, per la quale preparò in fretta il cartone, esposto nel 1501 e ammirato da tutti. Lasciò Firenze per impegnarsi come architetto e ingegnere generale sotto Cesare Borgia, detto il Valentino, signore di Romagna, figlio di papa Alessandro VI. Ma già nel marzo 1503 era di ritorno a Firenze. I tre anni successivi furono molto intensi e proficui. Riprese i vari studi iniziati a Milano e dipinse nella Gioconda il ritratto di Lisa del Giocondo, moglie di un borghese fiorentino, che sintetizza le concezioni leonardesche sull'arte, la bellezza e il mondo. Freud spiega che il suo sorriso seducente ed enigmatico sia dovuto al risveglio, in Leonardo ormai maturo, del ricordo della madre dei suoi primi anni. La tecnica dello sfumato, in cui il contorno è irreale e invisibile, gli permette di ritrarre la donna su cui si riflettono i colori delle acque e degli alberi dello sfondo. La figura umana è immersa nell'atmosfera: Leonardo realizza la sua visione dell'uomo inserito nell'universo della natura e l'elemento d'unione è l'ombra, che non è nera ma azzurra; tecnica di un artista ormai padrone di sé, che ha stabilito due punti di osservazione: uno per la figura, che è vista dal basso; l'altro per il paesaggio, visto dall'alto. Vasari narra che Leonardo, mentre ritraeva Monna Lisa, la divertisse con canti, musiche e facezie di buffoni. Di altri dipinti non rimane traccia sicura, neppure della Battaglia di Anghiari, che avrebbe dovuto decorare la Sala del Consiglio di Palazzo Vecchio. Il 9 luglio 1504 morì il padre, ser Piero, all'età di 80 anni, lasciando 10 figli maschi e 2 femmine. Sorsero contrasti per l'eredità e Leonardo accolse l'invito del governatore francese Carlo d'Amboise a recarsi a Milano, dove rivide gli amici e ritrovò quel clima di lavoro che gli permise di dedicarsi ancora all'anatomia, alla canalizzazione delle acque, agli studi per la statua equestre in onore di Gian Giacomo Trivulzio, capitano dei Francesi alla conquista di Milano. Ritornò a Firenze, si recò a Roma e di nuovo a Firenze, dove preparò un leone automatico per accogliere Francesco I re di Francia, che lo invitò alla sua corte. Leonardo si rimise in viaggio con l'allievo prediletto, Francesco Melzi, per raggiungerla nel 1516, e fu nominato «primo pittore, architetto e ingegnere del re». Trascorse gli ultimi anni studiando, annotando e disegnando.

 

       Michelangelo

 


«Michelagniolo», come si firmava, «Michelagnolo», come fu annotato dal padre nelle sue Ricordanze, nacque, secondo di cinque fratelli, nel castello di Caprese nel Casentino da Lodovico Buonarroti Simoni, podestà di Caprese e Chiusi. Da parecchi scrittori, fra i quali Ascanio Condivi scolaro e amico dell'artista, che scrisse una sua biografia, Vita di Michelagnolo Buonarroti (1553), è stato asserito che la famiglia discendesse dai conti di Canossa, ma lo studio dei documenti antichi non conferma la notizia. Quando il padre tornò a Firenze, Michelangelo fu messo a balia dalla moglie di uno scalpellino di Settignano, tanto che Giorgio Vasari nelle sue Vite (1568) ricorda che scherzando con lui un giorno gli disse: «Giorgio, s'i'ho nulla di buono nell'ingegno, egli è venuto dal nascere nella sottilità dell'aria del vostro paese d'Arezzo, così come anche tirai dal latte della mia balia gli scarpegli e 'l mazzuolo con che io fo le figure». Dato il suo amore per il disegno fu messo dal padre nella bottega di Domenico e Davide Ghirlandaio per impararne l'arte. Lasciato il Ghirlandaio in seguito a contrasti, molto probabilmente dovuti a invidie e gelosie del maestro nei confronti dei rapidi progressi del discepolo, nel 1490 andò nel Giardino dei Medici sulla piazza di San Marco a studiare scultura sotto la guida di Bertoldo di Giovanni, allievo di Donatello.
Esordio fiorentino di Michelangelo
Il Giardino di San Marco era stato ornato di statue antiche da Lorenzo de' Medici perché voleva fondarvi una scuola di pittori e scultori; e in questo ambiente Michelangelo scolpì una copia in marmo della testa di un fauno, «di sua fantasia supplendo tutto quello che nell'antico mancava», scrive il Condivi. Da questo momento Lorenzo il Magnifico si interessò di lui: invitato a palazzo Michelangelo fu ammesso ad ammirare le gioie, corniole, medaglie e oggetti pregevoli del principe, tanto da acquisire ampia competenza in gemme e monete antiche ed essere quindi in grado anche di acquistarle per conto di Piero de' Medici, figlio di Lorenzo. Fu accolto nella cerchia degli eruditi neoplatonici: Marsilio Ficino, Angelo Poliziano, che lo portarono allo studio dell'antico e alla fede nella bellezza umana. I due mondi apparentemente contrastanti della cristianità e del paganesimo si fusero nella bellezza visibile e in quella ideale. Scolpì il bassorilievo della Centauromachia (1490-92, casa Buonarroti, Firenze), il cui soggetto mitologico gli fu suggerito da Poliziano; mentre con la Madonna della scala (1490-92, casa Buonarroti, Firenze), si riferì in modo evidente a Donatello nell'uso dello «stiacciato».


La lezione dell'antico
Lo studio delle «anticaglie» gli aveva fatto acquisire una conoscenza tale dell'arte classica che quando Michelangelo ventenne scolpì a Firenze la statua di un Cupido dormiente (1496), questa fu venduta per antica a Roma. Ma quando l'acquirente, il cardinale Raffaele Riario, dubitando della sua antichità, non volle acquistarla e volle invece conoscerne l'autore, Michelangelo si recò per la prima volta a Roma dove si diffuse la fama della sua abilità. Gli fu commissionata subito un'opera, il Bacco (1496-97 Bargello), per il quale è difficile ricercare un modello fra gli antichi; mentre il Condivi lo descriveva corrispondente in ogni sua parte all'intenzione degli scrittori classici. La Pietà (1498-99) commissionatagli dal cardinale francese Jean Bilhéres de Lagraulas per una cappella della basilica di San Pietro a Roma è l'unica opera firmata da Michelangelo, che si qualifica con l'aggettivo «florentinus». Vasari giustifica questa firma raccontando che la statua, molto ammirata da alcuni visitatori lombardi, era stata poi loro indicata come opera di un altro artista; per cui l'autore, di notte, vi incise il suo nome. Ma fu con la scultura del David (1501-04, Galleria dell'Accademia, Firenze) che Michelangelo eccelse al di sopra di tutte le statue moderne e antiche sia greche sia latine. Firenze stava vivendo in quegli anni il periodo repubblicano dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, la cacciata dei Medici e la breve ma incisiva predicazione catastrofica del Savonarola - di cui Michelangelo era assiduo lettore -, retta dal gonfaloniere Pier Soderini che cercava di richiamare in patria gli artisti che se n'erano allontanati. Michelangelo, rientrato nel 1501, ricevette la commissione della statua che avrebbe dovuto ricavare da un pezzo di marmo già sbozzato. In quattro anni egli lavorò a questa figura alta m 4, 10 che rappresenta David prima dello scontro con il gigante Golia, nel momento della massima concentrazione e tensione. Il giovane che nella Bibbia aveva difeso il suo popolo e lo aveva governato con giustizia, diventava simbolo di chi reggeva la città e si proponeva lo stesso intento. La perfezione del nudo era stata raggiunta da Michelangelo attraverso lo studio assiduo dell'anatomia, non solo indiretto, ma anche sezionando cadaveri di uomini e animali, come riferisce Vasari. Condivi sottolinea inoltre la ricerca del bello che fu una sua costante fino al 1530: « [...] egli non solamente ha amata la bellezza umana, ma universalmente ogni cosa bella... il bello della natura scegliendo, come l'api raccolgono il mel da' fiori, servendosene poi nelle loro opere». Negli stessi anni Leonardo, rientrato a Firenze, fu incaricato di affrescare il salone di Palazzo Vecchio con la Battaglia di Anghiari (1503) che gli studiosi si affannano invano fino ai nostri giorni di ricercare. L'anno successivo a Michelangelo fu commissionata la Battaglia di Càscina di cui eseguì solo il cartone, andato perduto, riempiendolo di nudi virili che diventarono oggetto di studio per artisti italiani e stranieri. Nel 1504 giunse a Firenze Raffaello e le loro ricerche posero le basi del Rinascimento maturo. In questo clima di attività intensa e di reciproca comunicazione furono scolpiti (1502-04) il Tondo Taddei (Royal Academy, Londra) e il Tondo Pitti (Bargello, Firenze) che raffigurano nel marmo la Madonna con il Bambino e san Giovannino. Soprattutto nel primo pare quasi di assistere alla nascita dell'opera d'arte che per Michelangelo consiste nella liberazione dell'idea contenuta nel blocco di marmo da parte dello scultore che la rivela. Infatti Michelangelo lavorava direttamente sul blocco marmoreo senza modellare preventivamente dei bozzetti in creta, come fecero altri scultori, il Canova per esempio. In una lettera a Varchi egli spiega il suo metodo di lavoro: «Io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare: quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura». L'arte è un dono divino, così si esprime nelle sue Rime , che accompagnano e riflettono il suo travaglio di uomo e di artista dal 1503 al 1560 in uno stile che è stato definito «scalpellato» e «sfaccettato».


Michelangelo a Roma
Giulio II della Rovere (1503-13) a Roma era rivolto a ricostituire la grandezza della Chiesa. Riprendendo il programma di papa Sisto IV con sicurezza e audacia egli rinnovò e ampliò la città chiamandovi i migliori artisti del momento. Ideò progetti grandiosi come quello della basilica di San Pietro e la sua tomba. A realizzarla fu chiamato nel 1505 Michelangelo, che si recò nella cave di Carrara per scegliere i marmi adatti. Fu in questi luoghi che all'artista venne l'idea di scolpire un colosso in uno di quei monti; e certo l'avrebbe fatto, scrive Condivi, tanto che da vecchio ancora si rammaricava che quella «pazzia venutami per l'età non fosse stata realizzata». Il primo progetto (1505) del sepolcro, che superava «ogni antica sepoltura», concepito come una grandiosa scultura sepolcrale, non fu compiuto. Mentre attendeva i marmi per la sua realizzazione Michelangelo e Giovan Cristoforo Romano in qualità di «primi scultori di Roma» andarono a prendere visione della statua greca di Laocoonte appena ritrovata: si presentava un'ulteriore occasione per studiare e ricordare la statuaria classica, accresciuta dalle nuove scoperte archeologiche che furono rivelatrici di quella bellezza cui aspirava sempre e si manifestava più chiaramente nella figura umana: una figura irruente di forza giovanile. Il progetto accantonato del monumento sepolcrale riempì la fantasia di Michelangelo anche quando accettò di nuovo di lavorare per Giulio II dopo ampi contrasti che l'avevano indotto ad abbandonare per breve tempo Roma. Non solo questi erano stati i motivi della sua improvvisa partenza; in una lettera a Giuliano di Sangallo Michelangelo afferma di temere di essere assassinato: «Basta che la mi fé pensare, s'i' stavo a Roma, che fussi fatta prima la sepoltura mia che quella del Papa». Pare che Bramante cercasse in ogni modo di ostacolare il lavoro di Michelangelo e di farlo allontanare dalla città. Comunque sia, Giulio II incaricò l'artista di affrescare la Cappella Sistina, con una tecnica certo a lui desueta ma non sconosciuta, come si è creduto fino agli ultimi restauri che termineranno nel 1990. Nonostante l'artista in una lettera al padre nel 1509 scrivesse: «E questa è la difficultà del lavoro, e anchora el non esser la mia professione», la padronanza michelangiolesca del colore, emersa a seguito della pulitura degli affreschi, non poté certo essere stata improvvisata in pochi mesi, ma può esser fatta risalire al periodo di tirocinio nella bottega del Ghirlandaio. Era fatale che Michelangelo dovesse lavorare sempre solo: congedò in modo brutale i pittori fiorentini che erano stati chiamati per aiutarlo in quanto esperti dell'affresco, dopo aver tolto l'impalcatura fissa, predisposta dal Bramante, che però non rendeva possibile lo svolgimento delle cerimonie liturgiche, e progettato al suo posto una struttura pensile con gradini laterali in modo tale da non lasciare buchi a lavoro ultimato. Tra il 1508 e il 1510 Michelangelo eseguì la decorazione della prima parte della volta che si interruppe per l'assenza di Giulio II e la mancanza di soldi; fu ripresa tra il 1511 e il 1512. In quattro anni di duro lavoro in una posizione che gli provocò anche seri disturbi alla vista, dipinse la volta con le Storie della Genesi, gli Ignudi, i Profeti , le Sibille , le Miracolose salvazioni d'Israele e i Re biblici da bambini nelle vele e nelle lunette. Il papa, impaziente di vedere il lavoro, un giorno minacciò di buttarlo giù dall'impalcatura e quando gli affreschi furono scoperti tutti ammutolirono per la sorpresa e l'ammirazione. Vasari scrisse: «Questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell'arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all'arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo». Tre mesi e mezzo dopo l'inaugurazione della Cappella Sistina Giulio II morì e Michelangelo riprese il progetto della tomba con gli eredi del papa, destinata ora alla chiesa di San Pietro in Vincoli, realizzandola in forma ridotta, con sette statue soltanto. Per essa scolpì due figure di schiavi i Prigioni (1513-36, Louvre, Parigi) e il Mosè (1515-16, San Pietro in Vincoli, Roma) che fu collocato al centro della tomba nella versione finale. Su questa scultura si sono soffermati studiosi e scrittori. Anche Sigmund Freud, affascinato dallo sguardo del profeta che sta indugiando prima di esprimere con violenza il suo disappunto nei confronti del popolo ebreo che ha rinnegato Dio mentre egli stava sul monte Sinai per ricevere le tavole della legge, in un suo saggio, Il Mosè di Michelangelo (1914), ha ricercato l'origine del messaggio oscuro e ambiguo eppure così penetrante di quest'opera. Dopo un'attenta analisi della statua conclude dicendo che Michelangelo ha creato un altro Mosè che va al di là del Mosè storico, e tutta la prestanza fisica è il mezzo per esprimere qualcosa di nuovo: la volontà di «soggiogare la propria passione a vantaggio e in nome di una causa alla quale ci si è votati».
Michelangelo e i Medici
Nel 1515 il nuovo papa Leone X (1513-21) bandì un concorso per la facciata della chiesa di San Lorenzo, la chiesa dei Medici a Firenze, dove nel frattempo avevano ripreso il potere (1512). Fra i vari progetti prevalse quello di Michelangelo al quale fu commissionato il lavoro nel 1516. Dapprima restio ad accettare perché legato alla realizzazione della tomba di Giulio II, in seguito sempre più infervorato e trascinato da questo progetto, ne realizzò solo il modello ligneo che insieme ai disegni documentano la volontà dell'artista di realizzare una robusta facciata architettonica integrata da numerose statue. Volle sovrintendere egli stesso all'estrazione dei blocchi di marmo ma anche questa volta sorsero difficoltà perché i Medici volevano utilizzare le cave di Pietrasanta invece di quelle di Carrara. Michelangelo si schierò dalla parte dei Carraresi e si vide sospettato di essersi fatto comprare. Obbedì quindi al papa e fu perseguitato dai Carraresi. La fatica e le preoccupazioni lo prostrarono ed egli si ammalò a Serravezza. Il contratto fu scisso nel 1520 con grande tristezza di Michelangelo che aveva già scritto in una lettera. «Perché io muoio di passione per non poter fare quello che io vorrei, per la mia mala sorte... Io muoio di dolore, e parmi essere diventato uno ciurmatore contro a mia voglia». La delusione, lo sconforto di tre anni perduti di cui egli accusa il papa, ebbero riflesso nelle opere successive. Leone X e il cardinale Giulio de' Medici, salito poi al soglio pontificio con il nome di Clemente VII, gli affidarono la realizzazione di una Cappella funeraria Medicea (1520-34) che avrebbe dovuto accogliere le tombe di Lorenzo il Magnifico, del fratello Giuliano e dei discendenti, Lorenzo duca di Urbino e Giuliano duca di Nemours. Posta simmetricamente alla Sagrestia Vecchia nella chiesa di San Lorenzo rispetta l'impianto architettonico della costruzione brunelleschiana: a pianta quadrata coperta dalla cupola, con elementi in pietra serena su fondo bianco, accentua l'aspetto monumentale che ben si confaceva alla casa medicea e al suo potere che era giunto fino a Roma. Mentre era intento a questo lavoro Michelangelo era angustiato dalla preoccupazione di non aver portato a termine la tomba di Giulio II e di essere debitore agli eredi, ai quali avrebbe dovuto restituire quanto aveva già ricevuto. Il papa continuava a dimostrargli la sua simpatia, come emerge nella Vita di Michelangelo di Roman Rolland (1905), basata soprattutto sull’epistolario dell'artista. Il complesso della Cappella Medicea ebbe quindi una realizzazione travagliata, interrotta anche da eventi storici drammatici per la politica dell'Italia. I sarcofagi dei due duchi, Lorenzo e Giuliano, sono adorni di figure allegoriche: la Notte e il Giorno, l' Aurora e il Crepuscolo; mentre nelle nicchie sovrastanti sono poste le loro statue, figure ideali che esprimono la virtù del signore. Incompiuto è rimasto il sepolcro di Lorenzo e del fratello Giuliano su cui è stata posta la statua della Madonna con il Bambino, che riprende per l'ultima volta il tema iconografico della maternità divina e umana di Maria. Oscuro rimane il significato delle parole che accompagnano i disegni per le tombe: «La fama tiene gli epitaffi a giacere; non va né inanzi né indietro, perché son morti, e el loro operare è fermo». Ma ne emerge una meditazione sulla morte che forse può essere superata solo dall'arte, che fissa per sempre la fama. E allora il Giorno e la Notte possono pure affermare in un'altra breve prosa che con la morte di Giuliano sulla terra non hanno più alcuna luce: la forza della scultura di Michelangelo con tutta la sua tensione spirituale ed emotiva rimarrà però a testimoniare il suo breve passaggio sulla terra. Nel 1523 gli fu affidato anche il progetto di una libreria capace di contenere la raccolta dei testi posseduti dai Medici. Gli assegnarono il terreno del convento di San Lorenzo, adiacente alla chiesa, e su di esso Michelangelo realizzò la Biblioteca laurenziana, ideata come una grande sala con le pareti ritmate da lesene in pietra serena che incorniciano un doppio ordine di finestre. Il vestibolo d'accesso presenta una scala che si allontana dalla consuete forme lineari per anticipare in qualche modo il capriccio e l'anomalo.


Il sacco di Roma
Anthony Blunt nel suo saggio su Michelangelo (1940), riscoperto attraverso la sua produzione poetica, distingue nella vita dell'artista un primo periodo, espresso dalla volta della Cappella Sistina e dalla Pietà, caratterizzato da una continua ricerca del bello, influenzato dalla filosofia neoplatonica e conclusosi verso il 1530. Disordini religiosi, economici e fallimenti politici segnano la crisi che culmina nel 1527 con il saccheggio di Roma. I conflitti, le aspirazioni a un rinnovamento anche all'interno della Chiesa accusata di preoccuparsi troppo del potere temporale e di dedicarsi troppo poco al messaggio evangelico, travagliarono le coscienze degli intellettuali, tanto più degli artisti, sensibili alle speranze e alle delusioni. Michelangelo quindi non stupisce se nel 1527, alla caduta dei Medici e alla instaurazione della Repubblica, parteggiò per essa mettendosi due anni dopo, nel 1529, al suo servizio come membro del Collegio dei Nove della Milizia e come esperto di fortificazioni. Implicato in tresche di potere e in denunce, Michelangelo si credette perduto e fuggì a Venezia da dove ritornò perdonato per riprendere il suo posto. Quando nel 1530 papa Clemente e gli Spagnoli assediarono Firenze egli fortificò la collina di san Miniato, inventò nuovi ordigni e, come narra il suo biografo Francisco de Hollanda (Dialoghi romani con Michelangelo, 1548), salvò il campanile fasciandolo con balle di lana e materassi. Per il tradimento di Malatesta Baglioni, previsto da Michelangelo che aveva inutilmente confidato i suoi timori alla Signoria, Firenze capitolò e dalla metà d'agosto fino all'ottobre del 1530 Michelangelo si tenne nascosto nel piccolo vano sotto l'abside della Cappella Medicea dopo essere sfuggito ai sicari mandatigli da Baccio Valori per conto dei Medici che ritornati di nuovo in città perseguitarono i repubblicani che avevano gioito della loro cacciata. Michelangelo trascorse due mesi nel bugigattolo in cui l'artista tracciò sulle pareti numerosi disegni a carbone che realizzerà in seguito. Aperti al pubblico nel 1979, essi erano stati sepolti quando Giorgio Vasari trenta e più anni dopo, concludendo il complesso della Cappella, murò la botola d'accesso. Ma ormai i fatti storici e quelli personali avevano compromesso il senso di sicurezza dell'artista: «Oihmé, oihmé» , scrive in una poesia, «ch'i' son tradito da' giorni mie fugaci... si trova come me 'n un giorno vecchio». Egli che tanto aveva amato la figura umana, la bellezza vivente, il fascino che emana dall'uomo, come annota Thomas Mann in L'eros di Michelangelo (1950), si accorse che la bellezza fisica è un inganno e solo il vero amore, quello per la bellezza spirituale, poteva soddisfarlo perché non si affievolisce con il tempo e innalza la mente alla contemplazione di Dio. Nel giugno del 1531 si ammalò e qualche mese dopo un breve papale proibì a Michelangelo, sotto pena di scomunica, di lavorare ad altro che alla tomba di Giulio II e alle tombe medicee. Più volte il papa prese le sue difese con gli eredi di Giulio II che nel frattempo stipularono un quarto contratto. Neppure le tombe medicee ebbero migliore fortuna, poiché, morendo Clemente VII, Michelangelo si trovò fuori Firenze dove non poté più ritornare per timore di essere ucciso. Dal 23 settembre 1534 Roma fu la sede definitiva dell'artista fino alla morte; d'altra parte nulla lo tratteneva più nella sua terra natale: durante la peste del 1528 aveva perso il fratello cui era molto affezionato e il padre nel giugno del 1534.
«L'amor di quel ch'i' parlo in alto aspira»
La sensazione che il mondo gli stesse crollando attorno fu superata dall'amore per Tommaso dei Cavalieri, gentiluomo romano, di incomparabile bellezza fisica ma anche di costumi gentili e di eccellente ingegno, che gli fu devoto fino alla fine e dopo la morte fu esecutore delle ultime volontà. Inoltre nel 1535 conobbe Vittoria Colonna: i suoi sonetti, composti nella solitudine e nel ricordo dell'amore per il marito morto, l'avevano fatta apprezzare in tutta Italia e i grandi scrittori del tempo erano in relazione con lei. La religione e le idee di una riforma cattolica l'avevano entusiasmata tanto da diventare l'anima di un gruppo di persone che intendevano la religione pura da ogni potere mondano. Quando ella morì Michelangelo, che le aveva già dedicato altre rime, compose due sonetti: l'uno, ispirato all'idea platonica, paragona Vittoria al martello dello scultore divino che suscita i pensieri più elevati; l'altro, esalta la vittoria dell'amore sulla morte. In questi anni, sotto papa Paolo III Farnese (1534-49), Michelangelo eseguì le ultime grandi opere: il Giudizio Universale nella Cappella Sistina, gli affreschi della Cappella Paolina e infine la tomba di Giulio II. Per comprendere l'arte di quest'ultimo periodo occorre sottolineare una forma di misticismo che allontanava Michelangelo dal contatto diretto con la natura e gli faceva credere, come riferisce Francisco de Hollanda, che il pittore non dovesse essere soltanto esperto di soggetti religiosi ma «deve tener buona vita e, se possibile, essere santo». Questo aspetto lo avvicina al pensiero di Savonarola sull'arte religiosa. Dall'aprile 1536 al novembre 1541 fu occupato nell'affresco del Giudizio Universale, che esprime appunto la sua nuova visione dell'arte e della vita. La bellezza fisica come fine a se stessa non interessava più Michelangelo; essa diventava invece un mezzo per significare uno stato spirituale superiore. Durante questi lavori, racconta Vasari, il papa lo andava spesso a visitare accompagnato dal suo maestro di cerimonie Biagio da Cesena, il quale, richiesto di un suo parere, affermò che tutte quelle nudità sarebbero state più adatte a decorare una sala da bagno o un albergo. Michelangelo allora dipinse il ritratto di Biagio nel personaggio di Minosse all'inferno. E quando il cerimoniere si lamentò, Paolo III scherzando rispose di non poter far nulla nell'inferno dove non c'è alcuna redenzione. Anche l'Aretino trovò indecenti i suoi nudi, vendicandosi di alcune risposte negative avute dal maestro alle sue offerte di collaborazione. Egli non disse nulla neanche quando la sua opera fu giudicata «porcheria luterana» e quando Paolo IV volle distruggerla o Daniele da Volterra rivestì il Cristo ignudo, per cui gli fu dato il soprannome di «braghettone». Mentre affrescava la Cappella Sistina con i temi della Conversione di san Paolo e il Martirio di san Pietro, che lo occuparono dal 1542 al 1550, fu inaugurato nel gennaio 1545 il monumento di Giulio II in San Pietro in Vincoli, cosa che lo liberò finalmente da un lungo incubo. Ma gli affreschi si interruppero più di una volta perché l'artista fu colpito dal «mal della pietra». Il linguaggio di Michelangelo evidenziava sempre più una semplificazione formale che seppure già perseguita fin dall'inizio della sua attività, ora appariva nella sua tragica essenzialità: tolta ogni rappresentazione in profondità, le figure prendevano la consistenza di enormi blocchi e una fissità allucinante nel paesaggio nudo. La religiosità dell'artista si fece sempre più solitaria per il rifiuto di ogni condizionamento esterno che lo avrebbe condotto a esprimere la sua idea di fede cristiana in modo personale e mistico attraverso la Pietà Rondanini (Castello Sforzesco, Milano). Il 1º gennaio del 1547 era stato nominato da Paolo III prefetto e architetto di San Pietro con il conferimento di pieni poteri nella costruzione del nuovo edificio. L'attività architettonica fu l'impegno predominante degli ultimi anni; per San Pietro riprese lo schema a pianta centrale progettato dal Bramante ampliandolo e concludendolo con la grande cupola che avrebbe dovuto coprire con la sua ampia ombra tutti i popoli cristiani. Alla morte dell'artista era terminato il tamburo. Attese inoltre alla ristrutturazione della piazza del Campidoglio per la quale aveva studiato la collocazione della statua di Marco Aurelio, che nel 1537 fu sistemata per ordine del papa in disaccordo con lo stesso Michelangelo, che tuttavia partì da essa per l'articolazione dell'area capitolina, centro ideale della città storica, come rileva G.C. Argan, mentre San Pietro era il centro ideale della città religiosa. Successivamente studiò il progetto per la ricostruzione della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini (1559-60), che tuttavia non venne mai realizzato. Tra il 1545 e il 1555 lavorò a una Pietà di Palestrina (Galleria dell'Accademia, Firenze). Ma quando l'ebbe terminata, la ruppe e l'avrebbe completamente distrutta se un suo servitore non l'avesse supplicato di donargliela. Un amico di Michelangelo, Tiberio Calcagni, l'acquistò e chiese il permesso di ripararla. La morte lo colse il venerdì sera del 18 febbraio 1564.

 

       Picasso

 

 

Considerato come il pittore più celebre del XX secolo. Egli non smise mai, fino all'ultimo attimo della sua vita, di produrre un'arte sconcertante e sovrabbondante, né di alimentare controversie e discussioni, come nessun altro artista aveva fatto fino ad allora. Era ritenuto da molti l'incarnazione stessa dello spirito del male teso a distruggere la tradizione artistica, ma già a partire dagli ultimi quindici o vent'anni della sua vita, per le nuove generazioni, egli non faceva più parte dell'avanguardia. Il mito della costante originalità e vigoria della sua arte, ampiamente sostenuto dalla stampa internazionale e dai suoi numerosi ammiratori, non poteva più nascondere il reale e sensibile inaridimento della sua vena creativa, soprattutto in ambito pittorico. In effetti, in confronto ai profondi sconvolgimenti che le sue opere avevano provocato nel campo dell'arte nella prima metà del Novecento, la sua più recente produzione appariva normale, se non addirittura conservatrice. Tuttavia, ciò non diminuisce la straordinaria importanza dell'artista negli anni 1907-14 e 1926-34, né il suo contributo decisivo allo sviluppo del cubismo e in seguito del surrealismo. Nella seconda metà del secolo, Picasso aveva solamente cessato di essere un artista rivoluzionario per divenire un simbolo remoto, senza più legami reali con le problematiche dell'arte.


Il bambino prodigio
Nei primi anni della sua formazione artistica, il giovane Picasso ha un eccellente maestro nel padre, pittore e professore di disegno (a Malaga, a La Coruña, poi a Barcellona), che intuisce il genio precoce del figlio. Di fatto, quest'ultimo non tarda ad affermarsi e, benché le opere del periodo tradiscano ancora una certa goffaggine nella composizione, l'acquisizione accademica del «mestiere» si dimostra già straordinaria, soprattutto nei ritratti. L'opera Scienza e Carità del 1897 (Museo Picasso, Barcellona), che riceve una menzione onorifica all'Esposizione nazionale di belle arti di Madrid e una medaglia d'oro a Malaga, testimonia che questa acquisizione ha ormai raggiunto la perfezione. La trasformazione di Picasso da pittore accademico ad artista d'avanguardia si attuerà attraverso l'esempio di Thèophile-Alexandre Steinlen e di Toulouse-Lautrec, nonché grazie all'atmosfera culturale creata dal movimento dell'Art nouveau, diffusosi allora a livello internazionale e sensibile sia a Barcellona sia a Parigi.


«Un pittore dell'avanguardia artistica»
Picasso non ha mai negato di essere stato, secondo le sue stesse parole, «un pittoredell'avanguardia». I suoi esperimenti lo condurranno a una sintesi tra un certo verismo che pone l'accento sugli aspetti più miserabili e drammatici della vita, caratterizzato dalla scelta di soggetti popolari e patetici (bambini, mendicanti, infermi, madri sofferenti), e un trattamento decorativo dell'immagine derivato dal «sintetismo» di Gauguin e degli artisti di Pont-Aven, che una quasi totale monocromia (in blu e color carne) spinge verso l'idealismo. Dal 1901 al 1904 si sviluppa quello che più tardi verrà definito il «periodo blu» di Picasso. Esso corrisponde a un momento particolare della sua vita, nel quale il giovane pittore vive tra Barcellona e Parigi (dove si reca per ben tre volte dal 1900 al 1903). Nel 1904, Picasso si stabilisce definitivamente a Parigi e trova uno studio nel famoso «Bateau-Lavoir» di rue Ravignan, prendendo così una decisione di importanza capitale in quanto nella vita culturale parigina, la sua arte trovò innumerevoli stimoli fecondi. Risale a quest'epoca l'incontro, per lui decisivo, con la poesia, nella persona di Guillaume Apollinaire, Max Jacob e, un po' più tardi, di Pierre Reverdy. Il meraviglioso testo che Apollinaire gli dedica nel numero di La Lume del 15 maggio 1905, suggella il profondo legame (generalmente trascurato dai critici) tra Picasso e la poesia. È allora che la pittura dell'artista inizia a trasformarsi: siamo nel «periodo rosa».


Il pellegrinaggio alle fonti
A dire il vero, si può a malapena parlare di un «periodo rosa», ma è innegabile che a partire dal 1905 Picasso si liberi dagli eccessi del sentimentalismo che aveva caratterizzato le sue opere precedenti e che da allora gli ocra, le terre, i rossi comincino a scaldare la sua fredda tavolozza. I saltimbanchi sognanti che egli dipinge a quel tempo non rivelano solamente l'amore del pittore per il circo, ma anche una visione meno esasperata della vita (legata forse alla diminuzione della miseria degli anni vissuti a Montmartre) e una modificazione della sua teoria estetica. In particolare, cambia la relazione tra il soggetto e la pittura. Fino al 1905, cioè, la pittura non aveva altra funzione che quella di descrivere il soggetto, senza escludere una deformazione espressionistica, ma tuttavia con gran rispetto per la realtà descritta. In seguito, tendono ad affermarsi le emozioni propriamente materiali della pittura: così, un particolare tocco di rosso viene ad avere la stessa importanza del sentimento della malinconia o della tenerezza materna. Inoltre il disegno tende a essere semplificato. Picasso non pensa certamente di eliminare dai suoi quadri la rappresentazione delle emozioni: al contrario, gli pare più giusto esprimere i sentimenti invece di descriverli. Impegnato a rafforzare l'intensità del suo linguaggio pittorico, egli incontrerà naturalmente sul suo cammino l'espressionismo proprio delle arti primitive, tese soprattutto a mettere in risalto le dimensioni sovrumane del sacro. Sia che si ispiri all'arte africana od oceaniana, all'arte iberica o all'arte romanica della Catalogna (richiamandosi addirittura al Greco), Picasso non fa che confermare la propria volontà di sostituire lo spirito del sentimento alla sua rappresentazione letterale. Ma, curiosamente, questo periodo di transizione primitivista lo conduce a una espressività pura, molto lontana dalla figurazione.


«Les demoiselles d'Avignon»


L'influenza del primitivismo inizia ad agire sulle concezioni estetiche di Picasso nel 1906 a Gósol, durante un'estate trascorsa in Catalogna. Essa raggiunge il culmine con la lunga elaborazione di Les Demoiselles d'Avignon (fine del 1906 - autunno del 1907, Museum of Modern Art, New York). Questo quadro è senza dubbio il primo esempio di un'opera che s'impone innanzitutto come rottura, come lacerazione, come dissonanza; prima di allora non era mai avvenuto niente di simile né nell'arte di Delacroix, né in quella di Courbet, di Manet, di Cézanne o di Van Gogh, nelle cui opere si manifestava ancora un certo desiderio di armonia, un tentativo di piacere e di convincere. Ancora oggi, le Demoiselles d'Avignon appaiono come un irreparabile affronto inferto alle tradizionali regole della pittura: lo scandaloso trattamento usato nella rappresentazione del viso delle due donne sulla destra della composizione ha permesso qualsiasi libertà stilistica alla pittura successiva di Bacon, di Kooning o di Dubuffet, ma non è più stato uguagliato, se non da Picasso stesso; quanto alla violenza imposta allo spazio pittorico, una volta ammessa, ha dato inizio a una serie ininterrotta di sconvolgimenti spaziali, nell'arte di Kandinskij, di Mondrian o di Polock. I detrattori di Picasso affermano che questo quadro ha definitivamente aperto la strada all'arbitrario, su cui, in ultima analisi, si fonda la maggior parte dell'arte moderna: ormai, l'artista si concede qualsiasi licenza sia nella concezione dell'opera sia nella sua esecuzione. Non si può far a meno di pensare che questa manifestazione dei diritti inderogabili dell'artista costituisca l'elemento ambiguo di tutta l'opera successiva di Picasso, stretta tra l'ansia di espressività dell'autore e le esigenze strutturali del quadro. Liberatosi presto da questi problemi, Picasso entra in contatto con l'opera del grande artefice della pittura moderna, Cézanne, mentre risente ancora l'influenza dell'arte primitiva del cosiddetto «periodo negro». A conclusione di questa fase, l'esempio di Cézanne lo porterà a inventare il cubismo; tuttavia al termine del periodo cubista, la sua tendenza all'espressionismo senza ostacoli gli farà svolgere un ruolo non trascurabile nell'ambito della pittura surrealista.


Picasso cubista e surrealista
In effetti, il cubismo di Picasso (ma anche quello di Braque) si disinteressa rapidamente dell'oggetto figurato. Il tocco costruito di Cézanne, la sua geometrizzazione dello spazio conducono non già a un'integrazione razionale del soggetto osservato (natura morta, ritratto o paesaggio) al supporto, come nel caso del maestro di Aix, ma a una pittura di tipo puramente irrazionale che, non contenta di liquidare rapidamente il soggetto, struttura lo spazio immaginario del quadro. Sembra che il cubismo di Picasso si opponga all'arte di Cézanne come l'idealismo al materialismo. Ma, nel 1912, Picasso ha un ripensamento che lo riconduce all'oggetto, grazie alla tecnica del collage, mediante la quale il mondo esterno entra nella pittura. L'uniformità dei colori del cubismo detto «sintetico» costituisce un ulteriore tradimento nei confronti di Cézanne, questa volta a favore di Gauguin. L'esperienza cubista ha messo fine alla dissociazione, introdotta durante il «periodo rosa», tra la rappresentazione letterale e lo spirito delle forme: quando l'artista desidererà di nuovo «trattare» un soggetto (per esempio, dipingere una donna), potrà ormai farlo senza più preoccuparsi di rispettare la logica delle strutture anatomiche. Lasciando da parte il «ritorno a Ingres» del 1915, la collaborazione ai Balletti russi a partire dal 1917 e il periodo detto «pompeiano», caratterizzato dalla raffigurazione di pesanti matrone, sembra esserci, dunque, una perfetta continuità tra la pittura cubista di Picasso e la sua pittura di carattere surrealista, che s'inaugura nel 1925 con La danza (Tate Gallery, Londra) e che prosegue praticamente per una ventina d'anni, con un'estrema libertà nei confronti dei principi anatomici. Non è un caso se, durante questi vent'anni, il corpo e il viso della donna costituiscono i temi favoriti di Picasso: incoraggiandolo a seguire i suoi istinti più profondi, il surrealismo facilita la rappresentazione plastica dei suoi desideri erotici, in cui si mescolano tenerezza e sadismo.


Eros e Thanatos


In questo periodo, e soprattutto a partire dal 1931 (al castello di Boisgeloup, nell'Eure), la scultura comincia ad assumere un ruolo molto importante nell'attività artistica di Picasso. In passato l'artista aveva già creato alcune opere plastiche, tra cui una Testa di donna del 1909 e numerose costruzioni realizzate in materiali diversi dal 1912 al 1914. Ma non sorprende che il ricorso sempre più erotizzato all'oggetto, e in particolare all'oggetto donna, si traduca ben presto nelle tre dimensioni con uno sviluppo di creatività tale per cui molti ritengono che Picasso scultore sia altrettanto grande, se non addirittura più grande, di Picasso pittore (lavorazione del ferro, assemblaggio degli oggetti e modellatura). Peraltro, benché nella sua produzione del periodo prevalga l'ispirazione voluttuosa, egli s'interessa anche ai problemi del tempo (si pensi innanzitutto allo scoppio della guerra in Spagna). Il celebre quadro Guernica (1937 Carsón del Buen Retiro, Madrid) riflette curiosamente non soltanto la profonda indignazione dell'artista per il bombardamento della città basca da parte dell'aviazione nazista, ma anche la propria situazione sentimentale, segnata dall'amore per tre donne contemporaneamente. Visi di donne dai tratti distorti dall'angoscia e non già rallegrati dalle gioie amorose si succedono nella sua opera fino al 1944, connessi in parte alla travagliata storia della compagna dell'artista, Dora Maar, che stava attraversando un momento particolarmente infelice. Mentre si svolgono molto vicino all'atelier dell'artista, in rue des Grands-Augustins, i combattimenti per la liberazione di Parigi, Picasso dipinge un Baccanale (collezione privata) che s'ispira a Poussin e poco tempo dopo aderisce ufficialmente al Partito comunista francese. Questa adesione lo porterà a eseguire alcuni quadri «impegnati», come il Massacro di Corea (1951, collezione dell'artista) o le allegorie di La Guerra e la Pace (1952, Vallauris) e anche a pubblicizzare, grazie alla sua celebre Colomba, il Movimento della Pace.


La donna e la pittura di Picasso
Il breve periodo felice, dovuto all'incontro con Françoise Gilot e alla fine della guerra, è caratterizzato dal quadro Joie de vivre (o Pastorale) dipinto ad Antibes (1946, Museo Grimaldi, Antibes). Straordinarie sculture si succedono, da l'Uomo con l'agnello (1944, eretto a Vallauris nel 1950) a la Capra (1950) anticipazione delle figure di lamiera piegata e dipinta del 1960-63. Nel 1947, l'artista inaugura a Vallauris una nuova e feconda attività, quella di ceramista. Nel 1950, Le signorine in riva alla Senna (Kunstmuseum, Basilea), che si rifà a Courbet, è forse l'ultima opera ricca d'inventiva di Picasso e segna l'inizio di un periodo di riflessione sui capolavori della pittura, durante il quale l'artista dipingerà una serie di varianti delle Donne d'Algeri (1954-55) di Delacroix, di Las Meniñas (1957) di Velázquez del Déjenuer sur l'herbe (1960-61) di Manet e delle Sabine (1962-63) di David. Oltre a meditare sui grandi pittori del passato per tentare forse di scoprire i loro segreti o di compararli ai suoi, la donna e il mistero della carne diventano i suoi maggiori interessi. Nel corso degli ultimi anni della sua vita, sia nella pittura sia nell'incisione (anch'essa ugualmente abbondante), il tema che l'artista predilige è il rapporto tra il pittore e la donna, generalmente nuda, della quale fa il ritratto. Si deve riconoscere a Picasso il merito di aver consacrato i suoi ultimi sforzi a mettere instancabilmente in luce il significato essenzialmente amoroso del gesto pittorico.

 

       Piero della Francesca

 


Toscano di nascita e di carattere, Piero della Francesca non è tuttavia un artista legato a una sola città, poiché la sua attività si estende a tutta l'Italia centrale. La sua formazione artistica avviene a Firenze ed è segnata dall'influenza di Brunelleschi, di Donatello e dei pittori Masaccio e Andrea del Castagno, rigorosi creatori della forma e dello spazio geometrico. È comunque accertato che Piero della Francesca fu allievo e collaboratore di Domenico Veneziano, con cui lavorò all'esecuzione di un ciclo di affreschi (ora perduto) nel coro di Sant'Egidio. Come il Beato Angelico, Domenico Veneziano proponeva ai suoi allievi uno stile meno teso, una scelta di toni più freschi e più luminosi.


Le grandi tappe della carriera
Commissionato nel 1445, ma portato a termine dieci o quindici anni più tardi, il Polittico della Misericordia (comprendente, a parte la predella e i santi laterali, opera di collaboratori, i pannelli che raffigurano San Sebastiano e San Giovanni Battista, i Santi Andrea e Bernardo, Benedetto e Francesco, l'Annunciazione, la Crocifissione e la Madonna della Misericordia) di San Sepolcro, oggi nella pinacoteca comunale di questa città, testimonia già uno stile maturo e molto personale, nel quale tuttavia predomina ancora, sotto la probabile influenza di Masaccio, una tendenza scultorea e austera. Imposto dall'autore, lo sfondo d'oro arcaico non contrasta, ma fa addirittura risaltare la densità delle figure, in particolare quelle del pannello centrale, che rappresenta la Vergine della Misericordia e, ai lati, otto devoti inginocchiati disposti simmetricamente. Alla stessa epoca appartengono certamente alcuni pannelli nei quali la ricerca della luminosità è già tanto importante quanto l'espressione del volume e la costruzione dello spazio: La Flagellazione (Palazzo Ducale di Urbino), legata a un episodio tragico della casata dei Montefeltro, ha una struttura di ispirazione classica che attribuisce una collocazione precisa alle figure della scena principale, piuttosto defilate, così come ai tre personaggi enigmatici che compaiono in primo piano sulla destra; il San Gerolamo (Galleria dell'Accademia, Venezia) e, di maggiore formato, il Battesimo di Cristo (National Gallery, Londra), devono il loro senso di profondità al vasto paesaggio. Intorno al 1448 si colloca il viaggio di Piero della Francesca a Ferrara, importante sia per la sua carriera sia per la storia artistica della città, nella quale la corte estense aveva creato un clima di umanesimo e di innovazione. Il pittore vi incontra il Pisanello, Mantegna, Rogier Van der Weiden, che lo inizia al realismo e alla tecnica meticolosa dei maestri del Nord. Nulla però rimane degli affreschi da lui dipinti al castello degli Estensi e a Sant'Agostino. Si è conservata, in compenso, una testimonianza dei suoi rapporti con un'altra corte umanistica del rinascimento, quella di Rimini. Nel Tempio Malatestiano, realizzato su progetto di Leon Battista Alberti, un affresco datato 1451, Sigismondo Malatesta con il suo santo protettore, mostra il signore della città accompagnato da due levrieri e in ginocchio davanti a San Sigismondo. Queste figure, dalle linee molto rigide, si inseriscono mirabilmente nella struttura fittizia. Nella carriera di Piero della Francesca, l'episodio fondamentale è costituito dagli affreschi eseguiti in San Francesco d'Arezzo. La decorazione del coro di questa chiesa viene affidata nel 1447 al pittore fiorentino Bicci di Lorenzo, il quale muore nel 1452, dopo aver dipinto i quattro evangelisti della volta. La prosecuzione del lavoro è subito offerta a Piero della Francesca, che vi dedicherà fino al 1460 circa, insieme con alcuni collaboratori il cui intervento appare piuttosto limitato. Il ciclo è dedicato essenzialmente alla Leggenda della vera Croce e comprende numerosi episodi: la Morte di Adamo, la Restituzione della Croce, l'Incontro di Salomone con la regina di Saba, l'Invenzione e prova della vera Croce, la Vittoria di Costantino, la Disfatta di Cosroe, il Sogno di Costantino, l'Annunciazione, la Rimozione del sacro ponte, la Tortura dell'ebreo, oltre a due Profeti, due Santi, due teste nella volta, un San Pietro Martire e un Angelo. Le due pareti laterali del coro sono ripartite in tre zone orizzontali sovrapposte, separate da cornici; un elemento verticale, albero, colonna, ecc., divide in due parti ciascuna delle varie scene. Piero della Francesca fornisce qui una prova di grande padronanza dei suoi mezzi espressivi. L'aneddottica vi è bandita e la leggenda, ridotta all'essenziale, assume una risonanza epica. La luminosità dei toni esalta il carattere scultoreo della forma, la traduzione dello spazio attraverso il paesaggio o la struttura. Diverse scene, come per esempio quella della morte di Adamo o quella dell'arrivo della regina di Saba con il suo seguito, hanno una gravità statica e una solennità alle quali si contrappone la tensione di altri episodi, come quelli del trasporto del legno di Croce, della tortura dell'ebreo e delle due battaglie. L'episodio del sogno di Costantino serve da spunto per un magistrale saggio di abilità nell'uso del chiaroscuro. Nel periodo dedicato soprattutto al ciclo di Arezzo, Piero della Francesca compie due viaggi a Roma: intorno al 1455, sotto il pontificato di Niccolò V, affresca la volta di una cappella di Santa Maria Maggiore con gli Evangelisti, dei quali rimane soltanto San Luca; nel 1459, sotto Pio II, orna una delle camere del Vaticano di affreschi che sarebbero ben presto scomparsi per far posto a quelli di Raffaello. Tali opere hanno comunque notevoli influssi sull'arte pittorica romana. Nonostante i suoi numerosi viaggi, Piero della Francesca non trascura il paese natale. Nel 1454, gli viene commissionato un polittico con sfondo d'oro per Sant'Agostino di Sansepolcro, di cui restano quattro figure di santi disseminate in altrettanti musei (a Londra, New York, Lisbona e Milano). Altre opere, di datazione incerta, si collocano nel periodo degli affreschi di San Francesco ad Arezzo: nel duomo di Arezzo, una figura della Maddalena, su pannello, dall'espressione altera, che va contro la tradizione; nella cappella del cimitero di Monterchi (in provincia di Arezzo), un affresco di argomento insolito, la Madonna del parto (1460 c.ca), che ritrae la Vergine incinta con due angeli; una Santa Monica e un San Domenico (Galleria Liechenstein, Vaduz); e soprattutto la Risurrezione, affresco di ispirazione maestosa, nel palazzo comunale di San Sepolcro, diventato pinacoteca della città. Completati gli affreschi di Arezzo, Piero della Francesca si lega alla corte brillante e raffinata dei duchi di Urbino, Federico da Montefeltro e in seguito suo figlio Guidobaldo, al quale l'artista dedicherà i suoi trattati De prospectiva pingendi e De quinque corporibus (quest'ultimo usurpatogli dall'allievo Luca Pacioli). Una testimonianza dell'intenso rapporto tra il pittore e i Montefeltro è costituita dal duplice ritratto, sotto forma di dittico, di Federico e della moglie Battista Sforza (Dittico di Urbino, 1465, Galleria degli Uffizi, Firenze). I due profili, il cui realismo è pari alla fermezza, si stagliano su un ampio paesaggio collinare, trasfigurazione idealizzata dei dintorni di Urbino, come quella che, sul rovescio del dittico, fa da sfondo ai «trionfi» allegorici del duca e della duchessa. Quest'opera prelude al periodo conclusivo, durante il quale Piero della Francesca pare addolcire alquanto il proprio stile e ricercare effetti più sottili, ispirati talvolta ai maestri fiamminghi. Del polittico si Sant'Antonio di Perugia (oggi nella pinacoteca della città) si può considerare autografo il pannello superiore, una Annunciazione collocata in una suggestiva prospettiva di colonne corinzie, mentre la parte restante lascia trasparire l'intervento piuttosto consistente dei collaboratori. Nella Natività proveniente dalla famiglia del pittore (National Gallery, Londra), si nota l'importanza del paesaggio e un nuovo tono intimo, al quale contribuisce il realismo discreto dei pastori e degli animali; gli angeli musici richiamano quelli della Cantoria del Duomo di Firenze di Luca della Robbia. Ancora più vicina al gusto fiammingo, la Madonna di Senigallia (Madonna con figlio e due angeli), dipinta per Santa Maria delle Grazie di Senigallia (oggi alla Galleria nazionale di Urbino), unisce alla delicatezza dei toni la finezza delle luci. La grande pala della pinacoteca di Brera a Milano, la Sacra conversazione, proveniente da Urbino, unisce in una struttura perfettamente simmetrica la Vergine con il Bambino, sei santi, quattro angeli e Federico da Montefeltro in ginocchio; quest'opera, certamente l'ultima che si conosca di Piero della Francesca, ha costituito un importante fonte di ispirazione per le pale d'altare della scuola veneziana.


Lo stile e il pensiero
Il linguaggio di Piero della Francesca, uno dei più originali del Quattrocento, rivela una conoscenza profonda delle regole matematiche (formulate dallo stesso pittore nei due trattati citati) che sono alla base della costruzione di un universo ideale. L'organizzazione dello spazio attraverso la prospettiva si applica sia alle strutture, delineate secondo lo spirito del Rinascimento fiorentino, sia al paesaggio, dove la natura è interpretata in modo tale da giungere a un effetto di straordinaria vastità. La densità plastica delle figure e degli oggetti procede di pari passo con il rigore che presiede alla loro disposizione. Tutto appare collegato in questo mondo, che sarebbe minerale senza la gamma di colori trasparenti e dolci di cui Piero della Francesca possiede il segreto. Essa rende più convincente l'illusione del rilievo, diffonde sullo spazio e sulle forme una luce cristallina, che completa l'unità del pannello o dell'affresco. Questo linguaggio rivela un'alta ispirazione. L'arte di Piero della Francesca, nonostante alcuni soggetti, concede poco al genere narrativo, reprimendo più spesso la contemplazione che l'azione. Alla grazia, alla tenerezza o al dolore, egli preferisce una dignità tranquilla che rasenta l'impassibilità. Vi si avverte una sorta di solidità terrena, che tuttavia inclina verso ritmi solenni. L'universo di Piero della Francesca sembra sottrarsi alle leggi del tempo. Ciò non ha impedito al maestro di dimostrare, sotto la probabile influenza della scuola fiamminga, un interesse sempre più vivo per il realismo delle forme e delle figure, di cui i ritratti ducali di Urbino costituiscono una prova lampante. Egli ha dimostrato di prediligere anche le trasparenze dell'affresco.
L'influenza e la fortuna critica
Piero della Francesca va annoverato tra i maestri che hanno avuto un ruolo preminente nello sviluppo della pittura italiana. Non gli sono mancati imitatori nell'Italia centrale e la sua influenza è avvertibile nello stile, più aggraziato, del fiorentino Alessio Baldovinetti (1425-99). Soprattutto, è importante sottolineare il profondo insegnamento che il suo esempio ha saputo trasmettere a grandi costruttori dello spazio e dei volumi, quali Melozzo da Forlì, Luca Signorelli e i pittori di Ferrara. La visione geometrica di Piero della Francesca sembra avere ispirato diversi architetti, come Luciano Laurana a Urbino, e ha probabilmente avuto ripercussioni sulle ricercate composizioni in legno frastagliato che costituiscono la gloria dell'arte italiana dell'intarsio nel quattrocento. L'altro aspetto della sua arte, la sublimazione dei toni per mezzo della luce, ha profondamente influenzato il Perugino e diversi pittori di Venezia, in particolare Giovanni Bellini. Il genio di Piero della Francesca ha trovato riconoscimento presso i suoi contemporanei italiani, che sembrano tuttavia averlo ammirato più come teorico della prospettiva che per le sue qualità di pittore. Nel XVI secolo, Vasari, suo compatriota, testimonia ancora una viva ammirazione nei suoi confronti. Segue un lungo periodo di indifferenza, se non di oblio, verso l'artista e la sua opera. Occorre attendere il XX secolo perché gli studi di Bernard Berenson, di Adolfo Venturi e di Roberto Longhi restituiscano a Piero della Francesca il titolo che merita: uno dei più importanti pionieri del rinascimento italiano.

 

      Pisanello

 


Nato da padre pisano e da madre veronese, Antonio Pisano (detto «il Pisanello») si forma nell'ambito di Verona, dove, nella seconda metà del XIV secolo, si è costituita una scuola di pittura con Turone e Altichiero da Zevio.
Suoi maestri sono Stefano da Verona (o da «Zevio», 1374/75 - dopo il 1438), uno dei rappresentanti dello stile «gotico internazionale», e Gentile da Fabriano. La Madonna della quaglia del museo di Castelvecchio a Verona, nella quale è avvertibile l'influenza di Stefano da Zevio e di Michelino da Besozzo, è la prima opera che gli si possa attribuire con certezza. Il tratto rapido e fluido, lo sfondo fiorito richiamano il mondo astratto e paradisiaco di Stefano, ma la disposizione dei fiori e degli uccelli mette già in evidenza quel sentimento della natura che avrebbe caratterizzato tutta l'opera del pittore. Tra i lavori giovanili - oltre ad alcuni disegni conservati a Parigi nel museo del Louvre (Vergine col libro, Animali, Diavoli) - vanno ricordati gli affreschi della Leggenda di sant'Eligio (Santa Caterina, Treviso), le quattro tavole delle Storie di san Benedetto (Galleria degli Uffizi, Firenze; museo Poldi Pezzoli, Milano) e, forse, la Madonna in trono di palazzo Venezia a Roma, che alcuni critici attribuiscono però a Stefano da Zevio. Tra il 1419 e il 1422, egli dipinge nel palazzo Ducale di Venezia alcuni affreschi (tra i quali Ottone davanti al padre Federico Barbarossa, nella sala del Maggior Consiglio, ben presto deterioratosi e perciò ridipinto da Alvise Vivarini), in collaborazione con Gentile da Fabriano (1370 c.ca-1427); gli affreschi sono andati perduti, ma se ne ritrovano gli echi in alcuni disegni conservati a Londra e a Parigi. C'è chi ha voluto vedere una partecipazione dell'artista anche nell' Adorazione dei Magi eseguita da Gentile da Fabriano nel 1423, a Firenze, per la cappella di Palla Strozzi in Santa Trinità (oggi alla Galleria degli Uffizi, Firenze.
Pittore cortese che incarna l'ideale estetico e spirituale della sua epoca, il Pisanello viene chiamato in tutte le corti dei signori dell'epoca. Lo si trova a Mantova, a Roma (e, di passaggio, a Firenze), a Ferrara, a Napoli, ecc. Tra il 1424 e il 1426, nella chiesa di San Fermo Maggiore a Verona, dipinge l'affresco dell' Annunciazione per il monumento funebre della cappella Brenzoni. Se la scelta del modello richiama Gentile da Fabriano, il tratto è quello di Stefano da Zevio; ma, più audace e più deciso, esso si sviluppa con uno sfoggio di virtuosismo nelle strutture leggere e aeree, ornate di rami fioriti. Alla stessa epoca risalgono gli affreschi eseguiti per il palazzo dei Gonzaga a Mantova e per il castello di Pavia, oggi scomparsi. Nel 1431-32, l'artista è a Roma, dove termina gli affreschi iniziati da Gentile da Fabriano in San Giovanni in Laterano, raffiguranti le Storie del Battista; anche questi ultimi sono stati distrutti nel Seicento e ne resta soltanto una riproduzione eseguita da Borromini. Nel 1432, alla morte di Gentile da Fabriano, il Pisanello eredita la sua bottega. È soprattutto nei ritratti e nei disegni che l'artista riesce a liberarsi dai vincoli gotici. Gli schizzi magistrali che raffigurano i personaggi del seguito dell'imperatore Sigismondo ( Dignitari imperiali ) anticipano certamente la creazione della sua opera maggiore: l'affresco della Partenza di san Giorgio, eseguito nel 1437-38 per la cappella Pellegrini della chiesa di Santa Anastasia a Verona. Esso descrive un momento angoscioso, quello che precede la battaglia contro il drago. Pallido e deciso, San Giorgio è raffigurato con un piede nella staffa, lo sguardo fisso sul suo avversario; un po' in disparte, la principessa, abbigliata sfarzosamente, ha un'espressione intensa. Il paesaggio immaginario, i cavalli e gli altri animali ritmano la composizione. Tutta l'opera è immersa in un'atmosfera di tragedia imminente, accentuata dal patibolo che campeggia sullo sfondo. La Visione di sant'Eustachio (National Gallery, Londra) appartiene allo stesso periodo; colti dal vivo, gli animali lasciano trasparire un'evidente ricerca di naturalismo da parte dell'autore. Sempre più legato alla corte dei Gonzaga di Mantova, il Pisanello si dedica all'attività di ritrattista mondano, eseguendo, oltre a un Ritratto dell'imperatore Sigismondo (Kunsthistorisches Museum, Vienna) di attribuzione controversa, il Ritratto di Lionello d'Este (Accademia Carrara, Bergamo), in gara con Jacopo Bellini, e il Ritratto di Margherita Gonzaga (1435 c.ca, Museo del Louvre, Parigi), che richiamano l'estetica della medaglia: i personaggi sono rappresentati di profilo, con il contorno grafico che determina le grandi masse del modellato e anche l'equilibrio degli spazi che costituiscono lo sfondo. Al gioco lineare caratteristico dello stile cortese si aggiungono una forza morale e una densità nuove.
Nel 1438-39, il Pisanello, allontanato da Verona per essersi schierato con i Gonzaga contro Venezia, crea, forse sotto gli influssi di Ghiberti, la prima medaglia del Rinascimento, quella di Giovanni VIII Paleologo, seguita da numerose altre; in particolare, ricordiamo quelle di Gian Francesco Gonzaga (1439), Filippo Maria Visconti (1440), Niccolò Piccinino (1441), Lionello d'Este (1442 c.ca-49), Sigismondo Novello Malatesta (1445), Vittorino da Feltre (1446), Ludovico e Cecilia Gonzaga (1447-48), Inigo d'e Alfonso d'Aragona (1448-49). Attraverso composizioni equilibrate e un impiego estremamente libero del metallo, egli tende a rivelare i tratti psicologici dei suoi modelli, benché idealizzati, mentre dà libero corso alla fantasia nelle allegorie del rovescio. Nel 1440, è documentata la presenza dell'artista a Milano; alcuni critici ritengono che possano essere attribuiti a lui gli affreschi dei Giuochi, in casa Borromeo. Nel 1448, egli è a Napoli, e da questo momento esistono soltanto indicazioni piuttosto incerte sulle sue vicende. Una delle ultime opere è certamente la Madonna con i santi Antonio abate e Giorgio (National Gallery, Londra), risalente al 1447-48. Pisanello non è soltanto un pittore cortese, un grande ritrattista e uno dei maggiori medaglisti del Quattrocento italiano; è soprattutto un osservatore della natura, che egli rappresenta nei suoi disegni (in particolare raffiguranti animali) con un'incomparabile delicatezza espressiva. Uomo capace di anticipare i futuri sviluppi artistici, egli si stacca dal formalismo decorativo e dalla magniloquenza della tarda arte gotica attraverso un sentimento lirico e poetico, una forza esoterica e una profonda vita interiore che lo avvicinano agli umanisti del Rinascimento.

 

      Pollaiolo

 


Eccellente esempio di artista poliedrico rinascimentale, Antonio esordisce come orafo, realizzando a partire dal 1475 la base per la croce d'argento e una formella per l'altare del Battistero di San Giovanni (Firenze, Museo dell'Opera del Duomo).
Allievo di Domenico Veneziano, subisce anche l'influenza del Castagno e di Donatello. Insieme al fratello Piero dipinge I Santi Giacomo, Vincenzo ed Eustachio (Firenze, Uffizi), il Martirio di San Sebastiano (Londra, National Gallery) e una serie di Fatiche di Ercole e l'Idra (Firenze, Uffizi). Altri suoi dipinti di rilievo sono il San Michele Arcangelo (Firenze, Museo Bardini); l'Apollo e Dafne (Londra, National Gallery); il Ritratto muliebre degli Uffizi e quello del Museo Poldi Pezzoli di Milano; l'affresco con Nudi danzanti (Firenze, Villa La Gallina).
A partire dal 1475 si dedica con eccellenti risultati anche alla scultura, spesso coadiuvato dal fratello.
Celebri sono il gruppo bronzeo con Ercole e Anteo (Firenze, Bargello) e i monumenti funebri per Sisto IV e di Innocenzo VIII in Vaticano.

 

      Raffaello

 


L'itinerario dell'artista nell'Italia centrale giustifica la divisione tradizionale della sua breve carriera, in tre periodi di crescente importanza.
Le Marche e l'Umbria per Raffaello
A Urbino Raffaello si avvicina all'arte nella bottega del padre Giovanni Santi, discreto ed eclettico artista, ma senza dubbio più decisivo per la sua formazione è il contatto con il centro raffinato della corte ducale. Poi completa il suo apprendistato a Perugia presso il Perugino, che sa comunicargli un senso dell'ampiezza che egli stesso ha preso da Piero della Francesca. Le opere prodotte da Raffaello in questo periodo (dal 1500 fino al 1504 circa) riflettono lo stile del Perugino, e talvolta anche quello del Pinturicchio (1454-1513), lasciando intravedere un accento più umano e un gusto della semplicità che non contraddice il raffinamento dell'esecuzione. Tra i primi lavori, troviamo la Madonna leggente col Bambino (Staatliche Museen, Berlino), il San Sebastiano (Accademia Carrara, Bergamo), la Resurrezione (Museu de arte, San Paolo), dove è più evidente l'influenza del Pinturicchio, e la Crocifissione Mond (National Gallery, Londra). La pala d'altare della chiesa di San Francesco al Monte di Perugia (1502-03, Pinacoteca vaticana) fa dell' Incoronazione della Vergine il soggetto di una composizione a due piani, dove la varietà degli atteggiamenti e delle espressioni testimonia una ricerca personale. Dipinto nel 1504 per San Francesco di Città di Castello, lo Sposalizio della Vergine (Pinacoteca di Brera, Milano) riprende con più grazia la dimostrazione di geometria spaziale che il Perugino aveva raggiunto nella Consegna delle chiavi per la Cappella Sistina.
Firenze per Raffaello
Trasferitosi a Firenze nel 1504 (dove rimarrà quattro anni, inframmezzando il soggiorno fiorentino a brevi ritorni a Perugia e a Urbino), il giovane maestro provinciale scopre nuovi orizzonti. Egli non può ignorare né la tradizione del Quattrocento né la presenza simultanea di Leonardo da Vinci e Michelangelo. Le composizioni monumentali di Fra' Bartolomeo (1472-1517) contribuiscono ad allargare il campo della sua esperienza. La sua produzione dell'epoca risente di queste correnti diverse, ma l'umanità sempre più profonda di cui essa è impregnata si deve già tutta alla sua visione personale. La cultura fiorentina è alla base di alcuni piccoli quadri dall'aspetto raffinato: San Michele, San Giorgio (Museo del Louvre, Parigi); San Giorgio e il drago e Madonna col Bambino detta «piccola Madonna Cowper» (National Gallery, Washington); il dittico un tempo formato dal Sogno del cavaliere (National Gallery, Londra) e le Tre Grazie (museo Condé, Chantilly). Ma Raffaello, a Firenze, si consacra soprattutto a variazioni sul tema della Madonna, dando alla figura della Vergine accenti inimitabili di femminilità e di tenerezza. A volte sola col Bambino, la Vergine è spesso accompagnata da altri personaggi, anch'essi inseriti in un paesaggio di tradizione umbra, luminoso e sereno. Le più celebri Madonne fiorentine di Raffaello sono quelle dette del granduca (Palazzo Pitti, Firenze) e d'Orlèans (museo Condè, Chantilly), la Madonna del Prato (Kunsthistorisches Museum, Vienna), dove il gruppo a piramide si ispira alla Sant'Anna di Leonardo, come nella Madonna del cardellino (galleria degli Uffizi, Firenze) o nella Belle Jardiniére (Louvre); ricordiamo ancora la Madonna Bridgewater (National Gallery, Edimburgo), la Madonna Esterházy (museo di Belle Arti, Budapest) e la celebre Madonna Tempi (Alte Pinakothek, Monaco), in cui l'artista raggiunge un sommo equilibrio tra reale e ideale. Lo stesso tema è anche al centro di composizioni più ambiziose, ma chiaramente articolate, che si amplificano in «conversazione sacra»: la pala «Colonna» (Metropolitan Museum, New York), la pala Ansidei (National Gallery, Londra), la Madonna del baldacchino (Palazzo Pitti). Il Trasporto di Cristo morto (galleria Borghese, Roma) è il soggetto principale della pala «Baglioni», dipinta nel 1507 per San Francesco di Perugia; vi si trova eccezionalmente uno stile teso, con una ricerca plastica ispirata a Michelangelo. L'affresco con la Trinità e santi, dipinto a San Severo di Perugia, mostra in compenso un'ampiezza tranquilla che annuncia il Trionfo dell'Eucarestia. Al periodo fiorentino appartengono infine alcuni bei ritratti nei quali è manifesta l'influenza di Leonardo: Donna gravida , Agnolo Doni e Maddalena Doni (Palazzo Pitti), sullo sfondo di un paesaggio come la Dama con il liocorno (galleria Borghese). Del 1508 circa è la Muta (Galleria nazionale, Urbino), capolavoro della ritrattistica di Raffaello, anch'esso caratterizzato dall'adesione a motivi leonardeschi.


Roma: le commissioni pontificie
Arrivato a Roma nel 1508, Raffaello vi trova il terreno favorevole al fiorire del suo genio. Esaltato e maturato dalla rivelazione dell'antichità, oltre che dall'esempio di Bramante e di Michelangelo, egli appare ben presto come l'artista più abile nel tradurre in un linguaggio di portata universale i grandi disegni dei papi umanisti del Rinascimento, e in particolare di Giulio II, che sogna di resuscitare la Roma imperiale sotto la dominazione spirituale, temporale e culturale della Chiesa. Nei Palazzi Vaticani, una squadra di pittori senesi e umbri aveva appena iniziato la decorazione dell'appartamento situato sopra quello di Alessandro VI Borgia. Dal 1508, Giulio II decide di sostituirli con Raffaello, che Bramante aveva introdotto alla corte pontificia. Nascono così le Stanze vaticane, il più celebre ciclo di affreschi dovuti all'artista e, in gran parte, alla sua bottega. La stanza detta «della Segnatura» viene dipinta dal 1509 al 1511, quasi completamente dalla mano di Raffaello. Questo insieme, dove la sua arte raggiunge il punto d'equilibrio e obbedisce a un'ispirazione particolarmente elevata, dà forma a un grande progetto dell'umanesimo, la riconciliazione della cultura pagana con l'ideale cristiano. Tra le figure grottesche già eseguite dal Sodoma (1477-1549), i quattro medaglioni della volta rappresentano le allegorie della Teologia, della Filosofia, della Poesia e della Giustizia, alle quali si riferiscono i soggetti dei cassettoni vicini (Adamo ed Eva, Astronomia, Apollo e Marsia, Giudizio di Salomone). Il tema quadripartito è sviluppato nei grandi affreschi delle pareti, dove l'allegoria lascia spazio a figure viventi. Illustrando la teologia, il Trionfo dell' Eucarestia (celebre con il nome di Disputa del Sacramento) sovrappone magistralmente una zona terrestre, quella della Chiesa militante (dottori, papi e fedeli), e una zona celeste, quella della Chiesa trionfante (profeti, apostoli e santi), in uno spazio curvo dove tutto converge verso l'ostensorio centrale. La filosofia è celebrata nella Scuola di Atene , le cui figure di filosofi e sapienti popolano la prospettiva maestosa di un tempio ispirato a Bramante. Per la poesia, vi è la composizione non meno chiara del Parnaso, dove i poeti antichi e moderni accompagnano Apollo e le Muse; per la giustizia, infine, due scene, Gregorio IX che promulga le decretali e Triboniano che consegna le pandette a Giustiniano , separate da una finestra e sormontate da una rappresentazione allegorica delle Virtù. Dipinta dal 1511 al 1514, la stanza detta «di Eliodoro» denota un'evoluzione rispetto alla precedente. Meno ideale, più storico, contenente anche allusioni alla politica pontificia, il tema delle pareti (i medaglioni della volta offrono quattro episodi dell'Antico Testamento) è quello dell'intervento divino a favore della Chiesa. D'altra parte, il registro dei mezzi pittorici si è esteso: con la scena della Cacciata di Eliodoro dal Tempio (da notare la presenza significativa di Giulio II), è il movimento a entrare in gioco; con la Liberazione di san Pietro dal carcere , il chiaroscuro in una versione notturna; con la Messa di Bolsena, il realismo, come testimoniano i ritratti dei dignitari della corte pontificia, e il colore, trattato più generosamente, senza dubbio sotto l'influenza veneziana; con Attila e Leone Magno (sotto i tratti di Leone X, successore di Giulio II), infine, una nuova formula di composizione, per masse ineguali. Già sensibile nella stanza di Eliodoro, il contributo dei collaboratori di Raffaello diviene più consistente nella camera detta «dell'Incendio di Borgo», dipinta per Leone X dal 1514 al 1517 e incentrata su un tema che privilegia la storia e l'attualità. Le quattro scene principali hanno come protagonisti i papi di nome Leone. L'affresco che raffigura l' Incendio di Borgo è il più notevole per la composizione in profondità, la passione archeologica di cui è testimone, la qualità plastica dei suoi frammenti, alcuni dei quali paiono appartenere alla mano di Raffaello. Nella sala detta «di Costantino», solo la concezione dell'insieme appartiene al maestro; l'esecuzione è interamente dovuta ai suoi allievi, tra cui Giulio romano, al quale viene attribuito l'affresco grandioso e tumultuoso raffigurante la Battaglia di Ostia (o Vittoria di Costantino su Massenzio ). È senza dubbio nel 1514 che Leone X ordina a Raffaello un altro insieme capitale: i cartoni per i dieci arazzi degli Atti degli Apostoli , destinati alla Cappella Sistina. Tessuti a Bruxelles, gli arazzi sono oggi esposti alla Pinacoteca vaticana. I sette cartoni superstiti sono conservati al Victoria and Albert Museum di Londra; queste grandi composizioni, in particolare la Pesca miracolosa , che sembra autografa, hanno valore per la semplicità classica e l'efficacia di una messa in scena che dà ai personaggi un ruolo essenziale. Dal 1518 alla sua morte, Raffaello dirige infine il cantiere delle «Logge» vaticane. Si tratta di una galleria di tredici arcate la cui decorazione delicata e fastosa, eseguita in particolare da Giovanni da Udine (1487-1564), associa grottesche dipinte a stucchi modellati, lasciando spazio a piccole composizioni a fresco, quattro per arcata, che illustrano in modo conciso e vivace i principali episodi dell'Antico Testamento. Questa celebre «Bibbia» è un'invenzione del maestro, ma l'esecuzione è opera di Giulio Romano, Polidoro da Caravaggio (1500-46), Perin del Vaga (1501 c.ca-1547), Giovan Francesco Penni (1488-1530 c.ca) e altri.


Roma: altri lavori
I cantieri del Vaticano non assorbono completamente la prodigiosa attività di Raffaello, che decora con affreschi numerosi edifici romani. Quello che rappresenta Isaia tra due putti, nella chiesa di Sant'Agostino (1511), ricorda molto da vicino i profeti di Michelangelo. Le commissioni di Agostino Chigi meritano un'attenzione particolare. Al piano terra della sua villa, chiamata più tardi «la Farnesina», Raffaello dipinge nel 1511 il Trionfo di Galatea, composizione agile e impregnata di delicata umanità. È ancora il sentimento plastico di Michelangelo che ispira le quattro Sibille, gli angeli e i putti che sormontano un arco di Santa Maria della Pace (1514). A Santa Maria del Popolo, la cappella Chigi, la cui architettura è di Raffaello, presenta alcuni mosaici eseguiti su suo disegno (1516). Il maestro viene infine incaricato, nel 1517, di decorare ad affresco la loggia di villa Chigi. A discapito dell'esecuzione, l'invenzione, molto originale, gli appartiene, come testimoniano alcuni bei disegni. Il salone imita un pergolato con festoni di fiori e di frutti; la favola di Psiche occupa il centro della volta e le sue dieci linee di imposta. La serie delle Madonne romane continua quella del periodo fiorentino, in uno stile più maturo e spesso più serio. La Madonna d'Alba (National Gallery, Washington) è in tondo, come la celebre Madonna della seggiola (Palazzo Pitti). La Madonna del diadema (Louvre) è di piccolo formato, mentre un'ampia composizione contraddistingue la Madonna di Foligno (Pinacoteca vaticana), la Madonna del pesce (museo del Prado, Madrid) e la Madonna Sistina (Gemäldegalerie, Dresda); quest'ultima, che proviene da San Sisto di Piacenza, è la più mistica nella sua sobrietà. Altri quadri religiosi risalgono al periodo romano: la Visione d'Ezechiele (Palazzo Pitti), di effetto monumentale malgrado il piccolo formato; Santa Cecilia (pinacoteca di Bologna), con la sua natura morta di strumenti musicali; infine la celebre Trasfigurazione (Pinacoteca vaticana), a due ordini, la cui parte inferiore tradisce l'intervento degli allievi. L'intensa attività di Raffaello non gli impedisce di dipingere, a Roma, ritratti la cui raffinatezza eguaglia la semplicità: un Ritratto di cardinale (Prado), Baldessar Castiglione (Louvre), Fedra Inghirami (Palazzo Pitti), la Donna velata (Palazzo Pitti), il presunto Bindo Altoviti (National Gallery, Washington), Leone X tra due cardinali (Uffizi).


L'universo di Raffaello
Ciò che rivela prima di tutto l'opera del maestro in questi tre periodi, e ciò che spiega più facilmente il suo successo, è la prodigiosa facoltà che egli ebbe di tradurre concetti elevati in un linguaggio naturale e accessibile a tutti, in un mondo di forme percorso da un soffio profondamente umano. L'esempio delle Madonne è significativo. L'accento può essere posto sulla maternità felice ( Belle Jardiniére, Madonna della seggiola ), o sulla gravità della sua missione ( Madonna Sistina); in ogni caso, ci si trova di fronte all'immagine vivente di una femminilità che unisce grazia e nobiltà. Ma i grandi cicli romani permettono a Raffaello di dimostrare in modo più completo la sua originalità e inventiva. Non si può, certo, attribuire all'artista tutto il merito di un programma come quello della stanza della Segnatura, dove l'umanesimo acquista una risonanza neoplatonica. Il pensiero pontificio ha avuto qui la sua parte, ma l'interpretazione di Raffaello lo traduce in modo comprensibile. La vocazione dell'artista non era quella di tracciare figure allegoriche (presenti tuttavia per fissare il tema), ma piuttosto di svilupparne il significato in scene diverse, ciascuna delle quali racconta un'avventura dello spirito umano. La composizione ha evidentemente un ruolo fondamentale. Essa esprime attraverso se stessa, per il bilanciarsi delle masse, per l'equilibrio finale delle forze che mette in gioco, per il posto che assegna a ogni cosa, ma anche per l'agilità delle sue linee determinanti, l'idea di un ordine spirituale. Essa respira all'interno di uno spazio che amplifica la prospettiva, dove le figure contano soprattutto per la loro disposizione. Tutto questo è segno di un temperamento classico, ma il genio di Raffaello è abbastanza ricco da ammettere anche tendenze apparentemente contrarie. La stanza d'Eliodoro ne è la prova, con l'interesse che vi si manifesta per il movimento, per l'illuminazione notturna, per l'accidentale, e per quella verità individuale che esprimono con tanta penetrazione gli ammirevoli ritratti dipinti a Roma o a Firenze.
La mano di Raffaello
Bisogna guardarsi da un errore abbastanza frequente che consiste nel credere che il merito di Raffaello risieda nella concezione e forse nella composizione, ma non nell'esecuzione, e nel ridurre l'artista, come voleva Bernard Berenson, a un geniale «illustratore». Raffaello è anche un grandissimo pittore. È vero che una specie di pudore l'ha spesso spinto a dissimulare i suoi mezzi e la sua scienza sotto un'apparenza di semplicità, persino di ingenuità. È vero anche che egli ha avuto il ruolo di maestro di bottega, che l'ampiezza del suo compito l'ha spesso obbligato ad affidare, in parte o anche completamente, l'esecuzione degli incarichi ai suoi allievi o collaboratori, che non è facile infine determinare il grado esatto d'importanza dei suoi interventi. Ci si accorda tuttavia a giudicare autografe un certo numero di opere la cui qualità è evidente: qualità del disegno, testimoniata d'altronde dai numerosi studi preparatori del maestro che le grandi collezioni mondiali conservano e che fanno gustare tutta la sensibilità dei contorni nati da un gioco di curve; qualità del colore, generalmente discreto e in funzione della forma, qualche volta più ricco come dimostra la Messa di Bolsena; qualità del tocco, leggero e vibrante nei migliori casi, ma di un virtuosismo che non si manifesta volentieri.
Il pittore e la posterità
Le incisioni di Marcantonio Raimondi (1480-1534), contemporaneo di Raffaello, hanno contribuito alla popolarità della sua opera. La diffusione dello stile si è attuata grazie ai suoi numerosi aiutanti e discepoli, tra i quali Giulio Romano appare di gran lunga il più personale. È pur vero che l'uso fatto da questi del linguaggio del maestro è spesso sfociato nel manierismo. Per lungo tempo, e non senza abusi, l'opera di Raffaello è stata considerata come una sorta di manifesto del classicismo. È forse questo il motivo principale del disdegno che essa incontra spesso dalla metà del XIX secolo e che si esprime in particolare nella ribellione dei preraffaelliti. Ancora ai nostri giorni, le qualità di Raffaello non riescono sempre a soddisfare un gusto piuttosto teso alla ricerca dell'inatteso e dell'incompiuto. Uno sguardo attento permette d'altra parte di scoprire sotto la veste della semplicità la freschezza e l'elevazione del suo messaggio. Le opere architettoniche di Raffaello contribuiscono a definire lo spirito del Rinascimento classico. La maggior parte dei lavori si trova a Roma. La chiesa di Sant'Eligio degli Orefici risale al 1513 circa. Nel 1514, Raffaello viene nominato, dopo Bramante, direttore dei lavori della basilica vaticana; adotta un progetto che abbandona la croce greca per quella latina, ma che non verrà mai eseguito come tale. In compenso, s'ispira a un progetto di Bramante per San Pietro nel costruire verso il 1515, a Santa Maria del Popolo, la cappella Chigi. La loggia di Villa Madama, del 1516 circa, è notevole per la sua volta decorata a stucco.

 

       Reni

 


Formatosi alla scuola manierista di D. Calvaert, Reni frequenta a vent'anni l'Accademia degli Incamminati a Bologna, città dove si era sviluppata la ricerca dei fratelli Carracci nell'ambito del rigore classicista e attraverso il recupero di una dimensione moderna del naturalismo. Alla base della sua formazione sono perciò l'approccio con l'antico, la rimeditazione dell'opera di artisti come Raffaello e Correggio e lo studio della cultura emiliana e veneta. Ma ben presto Reni si rende autonomo sia dall'influsso manierista sia dal gruppo di artisti che ruotano intorno ad Annibale Carracci. Dal 1602, anno in cui si reca a Roma, viene a contatto con un ambiente nuovo e stimolante e consolida la propria preparazione, arricchendola anche della lezione caravaggesca.
Ne è esempio una delle prime opere più significative: la Crocefissione di san Pietro dipinta per la chiesa di San Paolo alle Tre Fontane tra il 1604 e il 1605, oggi alla Pinacoteca Vaticana di Roma. Mentre nella precedente opera, l' Assunta di Pieve di Cento, era ancora presente la componente accademica, qui, nella Crocefissione, l'autore evidenzia un suo linguaggio personale trattando un tema analogo a quello proposto nell'omonimo quadro di Caravaggio in Santa Maria del Popolo, con elementi di affinità ma anche di differenziazione. Comune è il tentativo di entrambi di superare la finzione e l'artificiosità barocca, aderendo alla realtà e rendendola credibile. Ma se Caravaggio si propone un contesto dinamico di grande coinvolgimento emotivo e di drammatizzazione, Reni controlla e disciplina la composizione attraverso rapporti e regole di derivazione classicista.
La struttura compositiva è emblematica: Caravaggio pone l'asse della croce in un'audace diagonale che crea un contrappunto dinamico e con la luce indaga violentemente le figure, potenziando l'espressività dei volti e delle mani; Reni dispone la croce sull'asse mediano verticale, in una struttura simmetrica, quindi, di compostezza e di rigore. In questa concezione compositiva e nella tecnica accurata si configura la ricerca estetica di Reni, che è anche modello comportamentale legato alla natura filosofica di quella che sarà definita come «arte d'idea». Questa ricerca così teorizzata si sviluppa dall'incontro con letterati e trattatisti e si pone come mediazione tra arte del sentimento e dimensione del fantastico. Le tematiche che Reni traduce sono religiose, mitologiche e letterarie ma, indipendentemente dai contenuti, il linguaggio è teso in modo costante a teorizzare il bello nell'accezione di morale. G.C. Argan parla di osmosi tra due forme (l'espressione letteraria e quella poetica) e di classicismo staccato dalla realtà e recuperato come bene perduto. Questa componente è già evidente nella contemporanea letteratura manieristica e nella poesia di Tasso, in particolare, dove, sotto la superficie classicista, è latente un sentimento di malinconia e rimpianto.
Reni si fa anche interprete del gusto colto e aristocratico dei committenti e a Roma trova la protezione di Paolo V e di Scipione Borghese. Egli divide la sua attività tra Roma e Bologna: in quest'ultima esegue nel 1605 un affresco nel chiostro di San Michele in Bosco, opera oggi molto deteriorata e quasi illeggibile. Nel 1608 è di nuovo a Roma dove realizza opere prestigiose nella Sala delle Nozze Aldobrandine e nella Sala delle Dame in Vaticano. Intorno al 1610 è impegnato a decorare nel Palazzo del Quirinale la cappella dell'Annunciata e contemporaneamente affresca la cappella Paolina in Santa Maria Maggiore. Al ritorno dall'ultimo soggiorno romano Reni lavora, tra il 1611 e il 1612, a Bologna, a una delle opere che più esprimono la poetica dell'idea: la Strage degli Innocenti (Pinacoteca nazionale, Bologna). In quest'opera è evidente la lezione di Raffaello delle Stanze Vaticane e il recupero di una gestualità antica. È presente un tono melodrammatico, sottolineato dal fitto incrociarsi di gesti non privi di ostentazione; lo sfondo architettonico si integra alle figure di primo piano articolate in scorci complessi. In quest'opera viene a definirsi sempre più la concezione di una bellezza «morale» che non si identifica necessariamente con quella di natura. Intorno al 1613-14 Reni affresca a Roma, nel casino del Palazzo Rospigliosi Pallavicini, l' Aurora opera che risente maggiormente dello studio della scultura antica oltre che della conoscenza di Raffaello e Correggio.
Qui il tema mitologico si traduce in apparizioni sempre più immateriali e cromatiche, che intendono superare l'opacità della materia. L'autore, che è tra l'altro grande sperimentatore di tecniche pittoriche, riesce anche a fondere la normativa rinascimentale alla musicalità dei ritmi, accentuando i toni virtuosistici e dando al mito una trasposizione melodrammatica. Secondo Argan la teoria dell'idea attua un rapporto dialettico tra regola classica e natura. Alcuni elementi formali del linguaggio di Reni porteranno a un grande successo dell'autore in Francia dove artisti come Poussin e altri svilupperanno analoghe teorie estetiche. Il rischio dell'autore è di un eccesso di edonismo e dello sconfinamento nella finzione, elementi presenti in Atalanta e Ippomene (1620, museo di Capodimonte, Napoli) esempio di meticolosa ricerca di perfezione formale e di realtà trasfigurata: in quest'opera le due figure dinamiche e fluttuanti emergono da un fondo scuro di memoria caravaggesca. Ma l'uso della luce è diverso: se Caravaggio indaga esaltando il segno e la tensione espressiva, Reni modella le figure sottolineandone la fisicità sensuale secondo canoni classici.
Dopo la parentesi di Napoli del 1622 e di Roma del 1627, Reni si stabilisce definitivamente a Bologna. Dipinge in quegli anni per il duca di Mantova la favola profana delle Fatiche di Ercole (Museo del Louvre, Parigi), in seguito il Cristo al Calvario e Lucrezia. Degli ultimi anni si ricordano: Fanciulla con ghirlanda, opera significativa per conoscere il suo atteggiamento sperimentale nell'uso del colore, l' Adorazione dei pastori (1640-42, National Gallery, Londra) e Cleopatra (1640-42, Pinacoteca Capitolina, Roma).

 

     Renoir

 


Renoir occupa un posto preponderante nell'ambito dell'impressionismo. Infatti si devono a lui e a Monet (del quale seguì l'esempio) i primi quadri dipinti secondo questa tecnica che si chiamerà «impressionista», nei quali la luce crea spazi vibranti e dove gli impulsi del sentimento generano una freschezza nuova. Ma, contrariamente a Monet, Renoir quasi non può concepire un quadro senza la presenza umana. Così, pur dedicandosi completamente al paesaggio è innanzitutto un pittore di figure e in special modo il pittore della donna. Presenta attitudini che fanno pensare a Boucher, a Fragonard, che avvalorano la grazia carnale in maniera squisita. Gli stessi colori, di grande finezza, partecipano all'ambiente agrodolce dei motivi, che lo sguardo dei personaggi, privi di desiderio d'amore, «sensualizza». Figlio di un modesto sarto del Limousin, stabilitosi nel 1844 a Parigi, Auguste Renoir trascorre l'infanzia nei vari quartieri della capitale.
Alla scuola comunale, rivela attitudine per il disegno, ma è anche dotato per il canto e la musica, il che attira l'attenzione di Charles Gounod, maestro di cappella della scuola, che consiglia al padre di orientarlo verso una carriera musicale. Ma Renoir padre giudica più adatto trarre partito dalla vocazione plastica del figlio. A tredici anni, lo mette come apprendista in una bottega, dove egli si applica nella decorazione, dipingendo mazzetti di fiori, di piatti e tazze di porcellana. Grazie alla sua abilità, dopo pochi mesi dal suo arrivo, ha compiuto tali progressi che gli affidano i pezzi più delicati. Ma le ordinazioni si fanno sempre più rare, e la fabbrica che l'impiega, lo licenzia nel 1857. Prima di avere una occupazione stabile, in una casa specializzata nella confezione di tende, svolge vari mestieri: orna principalmente ventagli e decora con pitture murali numerosi caffè di Parigi. Per mezzo di prolungate economie, Renoir può finalmente realizzare il suo sogno più caro: seguire i corsi della Scuola nazionale delle belle arti.
Promosso agli inizi del 1862 al concorso d'ammissione, s'iscrive allo studio di Charles Gleyre (1806-74). Sebbene sia studioso, i suoi professori lo giudicano indisciplinato, e gli rimproverano uno stile ardito, non abituale in quel luogo. Infastidito dai suoi colori vivi e dalla sua maniera realista di vedere il motivo, Gleyre un giorno gli domanda: «È senza dubbio per divertimento, che voi dipingete?». «Ma certamente», risponde Renoir, «e se non mi divertisse, vi prego di credere che non lo farei.» Nell'autunno del 1862, Renoir fa amicizia con Alfred Sisley, Claude Monet e Frèdèric Bazille, nuovamente entrati nello studio di Gleyre; tutti e tre professano apertamente la loro ammirazione per i pittori anticonformisti dell'epoca. Ed è grazie a Monet che Renoir e i suoi nuovi amici guardano ciò che sta accadendo nel mondo dell'arte, perché Monet ha goduto di una buona scuola conoscendo Boudin e Jongkind, i pittori all'aria aperta, così come Camille Pissarro, e si avventura fino alla birreria dei Martyrs, luogo d'incontro dei partigiani del realismo, discepoli di Courbet. Il gruppo che dieci anni dopo costituirà il nucleo fondamentale degli impressionisti si trova riunito, quando Bazille, nel giro di qualche mese, presenta ai compagni Cézanne e Pissarro, che lavorano all'accademia svizzera.
È doveroso ricordare che Renoir non è, in quest'epoca, alla testa della battaglia per la nuova arte. Il desiderio di uscire dal percorso battuto appare più nei suoi propositi che nelle opere. Certo il suo talento e l'intuizione gli hanno permesso di evitare i luoghi comuni accademici, ma non resta meno attaccato ad alcuni valori tradizionali e spesso si reca anche al Louvre per fare delle copie dei pittori francesi del XVIII secolo ch'egli predilige. Con la chiusura dello studio di Gleyre nel gennaio del 1844 Renoir supera un ultimo esame per la Scuola di belle arti, e non vi rimette più piede. Si reca allora, su iniziativa di Monet e in compagnia di Sisley e Bazille, a Chailly-en-Bière, vicino Fontainebleau, per dipingere ogni aspetto della natura. Inizialmente vi incontra Narcisse Diaz de la Peña, in seguito Thèodore Rousseau, Corot e infine Charles François Daubigny e Millet. Nel Salone del 1864, Renoir è accettato e figura nel catalogo come allievo di Gleyre. In seguito, non avrà sempre questa possibilità anche se eviterà di inviare le tele più audaci.
Se la sua arte ancora non volta le spalle alla tradizione, egli lascia già trasparire quella grazia venata di sensualità che impregnerà tutta la sua opera. Dal 1866, si fanno sentire gli accenti moderni, soprattutto visibili nei ritratti, ma essi sono più improntati verso il realismo di Courbet che all'esaltazione della luce dei pittori all'aperto ( Diana cacciatrice, 1867, National Gallery of Art, Washington). Per vederlo compiere il passo decisivo, bisogna aspettare l'anno 1869, quando, avendo raggiunto Monet a Bougival, esegue con quest'ultimo numerose versioni di una trattoria di campagna, La Grenouillère (collezione Reinhart, Winterthur). Come lui, egli analizza allora il fenomeno luminoso con occhi nuovi, impiegando nuovi procedimenti, come la soppressione dei dettagli e la frammentazione del tocco. Senza che i due pittori se ne rendano conto, il loro modo di interpretare la natura, abbandonando il contorno, dà il segnale al grande movimento che rivoluziona la pittura: l'impressionismo.
Dopo qualche anno Renoir vive nella peggior miseria sostenendosi solo grazie alla generosità di qualche amico, soprattutto di Bazille, che godeva di una certa agiatezza. Al caffé Guerbois, dove egli ritrova Cézanne, fa la conoscenza di Degas, di Zola, di Louis Edmond Duranty (1833-80). Discreto, egli ascolta, più che partecipare, alle animose discussioni di questi acuti conversatori. Dopo la guerra del 1870, Renoir incontra Paul Durand-Ruel (1831-1922) che diventerà suo mercante, e il critico Thèodore Duret (1838-1927). Risale a quest'epoca il quadro La rosa (museo del Louvre, Parigi), che rappresenta una giovane donna, a seno nudo, che tiene in mano una rosa. Si può, per la prima volta, vedervi l'immagine che Renoir darà della donna: un corpo dalle forme piene, un viso rotondo con gli occhi stretti e a mandorla e un'aria di innocenza nell'atteggiamento. Nel 1874 partecipa alla prima mostra degli impressionisti, che si tiene al boulevard des Capucines.
Le tele di Renoir sono, come quelle dei suoi amici, vivamente criticate, ma tuttavia esistono anche degli amatori. Il funzionario del ministero Victor Chocquet (1821-98) a cui farà il ritratto, poi l'editore Georges Charpentier (1846-1905), che gli compra un quadro e gli commissiona dei ritratti della famiglia ( Madame Charpentier con i figli, esposto con successo al Salone del 1879; Metropolitan Museum, New York). Renoir dipinge durante questi anni le sue tele migliori. Queste esaltano la bellezza del corpo umano e l'armonia della natura, mettendo l'accento sulla gioia di vivere: La loggia (1874, Tate Gallery, Londra), Il mulino della Gallette e L'altalena (1876, museo Jeu de Paume, Parigi). Alcuni visi gli ispirano queste tavole luminose, nelle quali fa affiorare il fascino segreto della donna ( La lettrice , 1875-76, museo Jeu de Paume, Parigi), dipinge I canottieri a Chatou (1879, National Gallery of Art, Washington), riflesso cangiante degli svaghi all'aria aperta sulla Senna. Ma ben presto Renoir interrompe per un certo tempo la sua ricerca impressionista, stimando di non poter andare oltre su questa strada. Questo ritorno alla tradizione classica si realizza nel corso di un viaggio in Italia (1881-82) dove, dopo Venezia, scopre a Roma gli affreschi di Raffaello e a Napoli la pittura pompeiana.
Sentendo di non saper «né dipingere, né disegnare», si concentra sulla qualità del disegno, sulla raffigurazione dei dettagli per rendere più precisi i contorni delle forme, più netti i volumi. Una buona parte di ciò che costituiva il fascino del suo modo di dipingere viene abbandonato. I suoi toni diventano severi e la luce fredda, e la sua arte non è più animata dalla magia. Questo periodo è segnato da opere che non hanno ricevuto altra definizione che quella di «solide»: Gli ombrelli (1881-86, National Gallery, Londra), La danza a Bougival (1883, Museum of Fine Arts, Boston). Dopo aver partecipato alla settima manifestazione degli impressionisti nel 1882, l'anno seguente fa una mostra presso Durand-Ruel. Talvolta evade da Parigi per dipingere a Guernesey, o all'Estaque in compagnia di Cézanne. Non ha più preoccupazioni finanziarie grazie a Durand-Ruel che si accanisce nel diffondere le sue opere, così come quelle degli altri impressionisti, organizzando mostre a Parigi, Londra, Bruxelles, Vienna e New York. Ma Renoir, avendo un temperamento più dionisiaco che apollineo, si lascia indietro le costrizioni pittoriche che si era volontariamente imposto e, dopo questi anni di disciplina, ritorna verso il 1889 agli antichi amori.
Allora nascono, nel ritrovato splendore, tele vivaci dove sono rese tutte le sottili dispersioni della luce. I raggi si impigliano alle forme, accentuano la pienezza e la freschezza delle carni, caricandole d'un potere di suggestione quasi magico (La dormiente , 1897, collezione privata). A partire dal 1898, l'artista è colpito da un reumatismo articolare che lo fa soffrire terribilmente e gli impedisce di lavorare. Decide anche di ritirarsi nel sud della Francia, a Cagnes, dove acquista una casa (Les Colettes). Il Salone d'autunno del 1904, gli consacra una importante retrospettiva. A partire dal 1912, il suo stato di salute peggiora, dipinge solo con grande difficoltà. La mano non può afferrare i pennelli e deve far ricorso all'aiuto di membri della famiglia per riuscire a fissarli alle dita. Tuttavia continua a dipingere molto.
La sua arte afferra sempre, con lo stesso slancio comunicativo, i momenti più caldi della vita, che sembrano anche acquistare una maggiore intensità nei colori, perché i rossi sontuosi, che non gli erano abituali, appaiono in questo periodo. Renoir prende allora per modelli i suoi familiari: la moglie, i figli Pierre, Jean e Claude, detto Coco, e anche Gabrielle Renard, la governante, che ritrae in diverse pose: Gabrielle con la rosa (1911, museo Jeu de Paume, Parigi), Donna nuda sdraiata (collezione Jean Walter-Paul Guillaume, 1906 e 1908). Verso la fine della sua vita, Renoir si dedica maggiormente alla scultura, con l'aiuto di un giovane alunno di Maillot, Richard Guino (1890-1973). Sono interamente suoi solo un medaglione e un busto del figlio Coco (1907-1908). Al suo ritorno a Cagnes dopo un viaggio a Parigi, dove ha ancora visitato il Louvre, Renoir si spegne il 3 dicembre 1919.

 

        Rubens

 


Nato in una famiglia della borghesia di Anversa rifugiatosi in Germania in seguito ai contrasti religiosi che avevano travagliato i Paesi Bassi, Rubens vive per diversi anni a Colonia. Dopo la morte del padre, nel 1587, la madre rientra con i figli ad Anversa. Il giovane Rubens frequenta una scuola privata, dove riceve un'educazione umanistica che gli permette, in tempi relativamente brevi, di parlare sei lingue vive, oltre al greco e al latino, e dove incontra Balthazar Moretus (1574-1641), nipote dello stampatore Christophe Plantin, di cui sarebbe diventato amico e collaboratore. Compie quindi il proprio apprendistato di pittore nelle botteghe di tre artisti mediocri: Tobias Verhaecht (1561-1631), Adam van Noart (1562-1641), maestro anche di Jacob Jordaens, e Otto van Veen (1558-1629). Quest'ultimo, che aveva soggiornato in Italia per più di cinque anni, era stato profondamente influenzato dai maestri italiani del XVI secolo, sviluppando un manierismo raffinato.
L'Italia, Mantova, Roma, la Spagna
Diventato membro della gilda di San Luca nel 1598, iscritto con il nome di «Peeter Rubbens», il giovane intraprende nel 1600 il tradizionale viaggio «al di là dei monti», secondo la formula in uso presso i pittori fiamminghi. Dopo aver visitato numerose città, tra le quali Firenze (dove esegue alcune copie di opere di Tiziano, Tintoretto e Veronese, e dove assiste al matrimonio per procura di Maria de' Medici), entra al servizio di Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, collezionista di opere d'arte e protettore di artisti: Claudio Monteverdi è il suo maestro di cappella e Frans Pourbus il Giovane (1569-1622) il suo pittore di corte. Assunto per eseguire copie delle opere di artisti celebri, Rubens riesce, in capo a qualche mese, a farsi inviare a Roma con il pretesto di completare gli studi; qui dipinge tre grandi quadri destinati alla chiesa di Santa Croce in Gerusalemme: Sant'Elena, Gesù coronato di spine e l' Erezione della croce (oggi all'Hôpital de Petit-Paris di Grasse, in Francia), in cui si avverte nettamente l'influenza dei maestri italiani. Nel 1603, il duca di Mantova lo incarica di portare in Spagna alcuni doni destinati a Filippo III; a Madrid Rubens riesce a dipingere un ritratto equestre del primo ministro, l'onnipotente duca di Lerma. Di ritorno a Mantova vi dipinge tre grandi quadri per la chiesa dei Gesuiti, tra cui un Battesimo di Cristo (museo di Anversa) e la Trasfigurazione (museo di Nancy). Nel 1608, a Roma, esegue su ardesia tre grandi pitture per la chiesa di Santa Maria in Vallicella, detta Chiesa Nuova. Tutte queste opere risultano notevolmente influenzate dai maestri italiani.
Il ritorno ad Anversa
Ricevute notizie preoccupanti sullo stato di salute della madre, Rubens lascia precipitosamente Roma per Anversa nello stesso anno, ma quando arriva la madre è già morta. Il pittore viene tuttavia invitato a trattenersi nella città natale. Gli arciduchi Alberto (1599-1621) e Isabella (1599-1633), che regnano sui Paesi Bassi spagnoli, lo nominano pittore di corte e gli commissionano i loro ritratti. Ad Anversa, Rubens viene accolto nella confraternita dei manieristi «romanisti», della quale Jan Bruegel, detto Bruegel dei Velluti, è decano (funzione che eserciterà lo stesso Rubens nel 1613); il comune gli commissiona inoltre una Adorazione dei Magi (Museo del Prado, Madrid), destinata al palazzo municipale. L'artista rimarrà ad Anversa, e il ricordo dell'Italia si ritroverà nella sua firma: «Pietro Paolo Rubens». Nel 1609 sposa Isabella Brandt, che gli darà una figlia, Clara Serena (morta a dodici anni, nel 1623) e due figli, Alberto e Nicola. La città di Anversa lo colma di favori: nel 1610, Rubens viene dispensato dal pagamento delle tasse ed è esentato dall'obbligo di iscrivere i suoi allievi alla gilda di San Luca. Da allora, la sua carriera conosce uno sviluppo eccezionale, sia per l'abbondanza delle opere sia per il costante successo, dovuto a uno stile che corrisponde alle concezioni estetiche della Controriforma, elaborate dal concilio di Trento. In contraddizione con il rigore calvinista, la religione cattolica si mostra nel suo aspetto più affascinante e Rubens asseconda questa tendenza con un barocchismo deciso, che trasforma gli episodi più drammatici in pagine luminose giocate a macchie e dissolvenze. Due nuovi lavori (1610-11) consolidano definitivamente la sua fama: l' Erezione della croce e la Discesa dalla croce (cattedrale di Anversa); tali opere riecheggiano lo stile caravaggesco, ma, contemporaneamente, affermano la personalità del pittore attraverso lo slancio del disegno e la predilezione, che gli è propria, per le potenti muscolature. Tuttavia, pur continuando a dedicarsi a soggetti religiosi, Rubens rivela gusti umanistici nel frequente ricorso alla mitologia («Venere e Adone», «Toeletta di Venere», «Venere con Cupido, Bacco e Cerere», ecc.), che costituisce un pretesto per dipingere nudi. Il pittore mostra una netta propensione per il nudo, in particolare quello femminile, e, dato che i soggetti religiosi non si rivelano adatti al tema (la casta Susanna costituisce una delle rare eccezioni), egli ricorre sovente agli dei dell'Olimpo.
Un'opera multiforme
Accanto ai due temi maggiori, religione e mitologia, ai quali si collegano per identità di concezione le allegorie e i soggetti storici, l'artista si cimenta in tutti gli altri generi, e in particolare nel ritratto. Rubens dipinge le sue due mogli (molto spesso la seconda, Elena Fourment), i figli, se stesso, numerosi amici, ma soprattutto grandi personaggi: Filippo IV e la moglie, Elisabetta di Borbone, Sigismondo III, gli arciduchi Alberto e Isabella in varie occasioni, il cardinale-infante Ferdinando, Anna d'Austria, il duca di Buckingham, il marchese di Spinola e tanti altri; esegue anche il ritratto di personaggi che non ha mai visto: Carlo il Temerario, l'imperatore Massimiliano, Filippo II, Christophe Plantin e i suoi familiari. Mentre i disegni preliminari rivelano volti spesso sgradevoli, l'opera finale offre figure sempre idealizzate e piene di fascino. Rubens riporta in auge il quadro di caccia. Il genere si addice al temperamento del pittore, che realizza vivaci insiemi in cui uomini e cavalli sono alle prese con leoni, leopardi o cinghiali. Nell'opera di Rubens, il paesaggio ha una parte importante, che spesso è stata trascurata dalla critica. Fedele a una concezione immutabile, l'artista, pur rivelandosi un osservatore attento, qui come altrove interpreta il motivo a suo modo, idealizzando il soggetto. Per certi versi, egli si ricollega a Gillis van Coninxloo (1544-1607), ma va ben oltre la semplice volontà di liberarsi da una rappresentazione eccessivamente fedele e preannuncia il paesaggio romantico. Egli eccelle in tutti i generi, come testimoniano anche gli straordinari schizzi, ma il gran numero dei lavori eseguiti lo induce a circondarsi di uno stuolo di collaboratori specializzati: Jan Bruegel per i fiori e i frutti, Frans Snijders e Paul de Vos per gli animali, Jan Wildens (1586-1653) e Lucas van Uden (1595-1672) per il paesaggio, e, per un periodo piuttosto breve, Van Dyck per i volti. Innumerevoli sono le scene religiose ispirate di preferenza al Nuovo Testamento, destinate alla decorazione di diverse chiese. Alcuni episodi ispirano opere straordinarie, come la Pesca miracolosa (Notre-Dame di Malines [Mechelen] ) e l' Adorazione dei Magi, del 1624 o 1625, eseguita per San Michele d'Anversa (oggi nel Museo reale di belle arti della città). I colori si fanno più chiari e, accompagnati a un disegno dinamico, conferiscono all'insieme un'impressione di vita gioiosa. Anche un combattimento come la Battaglia delle Amazzoni (1618-20, Alte Pinakothek, Monaco) colpisce per il suo carattere spumeggiante. Rubens passa indifferentemente da un genere all'altro, da una grande tela a una piccola tavola: dipinge per il principe di Neuburg il grande Giudizio universale (Monaco), immensa tela brulicante di personaggi, e fornisce a Balthazar Moretus (diventato il capo della celebre bottega di Plantin) dieci ritratti realizzati in base a documenti. Per la nuova chiesa dei Gesuiti ad Anversa, San Carlo Borromeo, consacrata nel 1621, egli realizza il suo primo grande insieme decorativo: trentanove dipinti per ornare i cassettoni del soffitto, che andranno distrutti in un incendio nel 1718. Nel 1622, viene incaricato di decorare la galleria Medici, nel nuovo palazzo del Lussemburgo, a Parigi, con episodi della vita della reggente Maria de' Medici e dello scomparso re Enrico IV. I ventidue quadri (oggi al museo del Louvre), pur non essendo tra i migliori della sua opera, sono senz'altro tra i più conosciuti. Il lavoro, al quale collaborano alcuni aiutanti, illustra perfettamente lo stile del pittore. L'estro inventivo dell'artista, che moltiplica allegorie e simboli, maschera con virtuosismo la povertà del soggetto, mentre i particolari prevalgono sull'essenziale. La serie prevista per Enrico IV, invece, non viene realizzata a causa dell'opposizione del cardinale Richelieu; ne restano soltanto alcuni schizzi. Nel frattempo, Rubens fa costruire, nel quartiere elegante di Anversa, il lussuoso palazzo nel quale abiterà fino alla morte (attuale museo Rubens), realizzato nello stile italiano che gli era caro, come aveva dimostrato nell'opera Palazzi di Genova (1622).
Gloria e diplomazia
Nel 1624, Rubens ottiene un titolo nobiliare e due anni dopo perde la prima moglie. La sua instancabile attività di pittore non gli impedisce di dedicarsi a un'altra delle sue grandi passioni: la politica. Alla morte dell'arciduca (1621), Rubens diventa consigliere dell'arciduchessa Isabella, che gli affida alcune missioni segrete. Nel 1628, egli partecipa alle trattative di pace tra l'Inghilterra e la Spagna. A Madrid, incontra Velázquez, e Filippo IV gli conferisce la carica di segretario del consiglio privato dei Paesi Bassi. A Londra, Rubens viene nominato cavaliere da Carlo I e magister artium a Cambridge, ma fallisce nella sua missione. Poco dopo il ritorno in patria, sposa in seconde nozze Elena Fourment, che gli darà cinque figli. Al momento della fuga di Maria de' Medici nei Paesi Bassi spagnoli (1631), egli torna nuovamente a occuparsi di politica e conserva l'incarico di agente segreto dell'arciduchessa fino alla morte di quest'ultima (1633), nonostante l'opposizione degli stati generali, che in seguito pongono bruscamente fine alla sua carriera politica. Il nuovo governatore, il cardinale-infante Ferdinando (1609-41), gli concede lo stesso favore dei suoi predecessori. In occasione dell'ingresso del principe ad Anversa nel 1634, Rubens concepisce una decorazione fastosa della città, disegnando archi di trionfo, dipingendo ritratti e chiedendo la collaborazione di numerosi artisti, pittori e scultori. Il principe lo nomina pittore di corte (1636) e gli commissiona diverse opere. La più riuscita è la serie che illustra le Metamorfosi di Ovidio, destinata ad adornare il padiglione di caccia della Torre de la Parada (vicino a Madrid) e composta da 112 quadri, alcuni dei quali costituiti da nudi improntati a vivacità e gioia di vivere. Nello stesso tempo, altri lavori lo attendono. Egli si dedica in particolare alla realizzazione dell' Apoteosi di Giacomo I Stuart per il soffitto della sala dei banchetti di Whitehall a Londra. Il grande talento inventivo dell'artista si esplica anche in un altro settore, quello dei cartoni per arazzi, di cui esegue diverse serie: le Storie di Decio Mure (in collaborazione con Van Dyck), i dodici arazzi delle Storie di Costantino (eseguite per Luigi XIII di Francia), la Vita di Achille, il Trionfo dell'Eucarestia. Secondo una tradizione inaugurata da Raffaello, questi cartoni non si differenziano affatto dallo stile dei grandi dipinti.
Il coronamento degli ultimi anni
Sovraccarico di lavoro fino agli ultimi giorni, l'artista porta a termine un'opera gigantesca, accumulando un notevole patrimonio. Non lasciando nulla al caso, ha incisori personali, in grado di adattarsi al suo stile: Lucas Vorsterman (1595-1675), Paulus Pontius (1603-58) e i fratelli Bolswert, Boëtius Adam (1580 ca -1633) e Schelte Adam (1586 ca -1659). Accanto a questi artisti del bulino, egli contribuisce anche alla formazione di un incisore su legno: Christoffel Jegher (1596-1652 ca). La diversità dei suoi lavori non influenza il suo stile. Dopo aver assimilato la lezione dei maestri italiani, si libera della loro influenza, creando uno stile personale, il più rappresentativo del barocco settentrionale, al quale rimane fedele per tutta la vita. Soltanto la tecnica e, negli ultimi anni, la scelta dei soggetti subiscono una trasformazione. L'artista abbandona progressivamente i toni scuri e la sua pennellata diventa sempre più leggera. A partire dal 1635, data dell'acquisto del castello di Steen, a Elewijt (presso Malines), i soggetti pomposi destinati alla clientela, che testimoniano sempre dello stesso vigore (gli Orrori della guerra a palazzo Pitti, Firenze; il Martirio di san Livinio e l'Ascesa al Calvario, nei Musei reali delle belle arti a Bruxelles), lasciano spazio anche ad altri, più semplici e talvolta più immediati. Frenando il suo estro, il poeta guarda intorno a sé. Dopo aver dipinto il Giardino d'amore (Prado), che evoca ancora la casa di Anversa, Rubens abbandona i personaggi eleganti per dolci scene di vita pastorale e contadina, che mostrano, dietro la maschera dell'aristocratico, un uomo vicino ai godimenti pagani e popolari. Esegue anche numerosi nudi, con o senza intreccio mitologico, fino al mirabile La pelliccia (1638-40, Kunsthistorisches Museum, Vienna). Nello stesso tempo dipinge un Autoritratto (Kunsthistorisches Museum, Vienna) in cui cerca di nascondere i segni di una vecchiaia precoce, come rivela il disegno preparatorio conservato a Parigi, al museo del Louvre. La lezione di Rubens verrà assimilata soprattutto dagli artisti francesi del XVIII secolo, come Watteau, Fragonard e Boucher; l'influenza del pittore fiammingo è ancora evidente in Delacroix nel XIX secolo e in Renoir nel XX.

 

       Tiepolo

 


Giambattista (Venezia, 1696-Madrid, 1770) pittore italiano. All'inizio della sua attività frequenta la bottega di Gregorio Lazzarini, ma ben presto la abbandona per aderire alla riforma di Giambattista Piazzetta. È per questo motivo che i suoi dipinti giovanili, quali il Sacrificio di Isacco (chiesa dell'Ospedaletto, 1715, Venezia), il Martirio di san Bartolomeo (San Stae, Venezia, 1721) e la Madonna del Carmelo (Brera, Milano, 1720-22) sono caratterizzati da un'intensa gamma cromatica e da forti effetti chiaroscurali che non ritroveremo più nelle sue opere della maturità. Già negli affreschi dell'arcivescovado di Udine, considerati il capolavoro dei suoi anni giovanili, si constata che l'artista ha acquisito una maggior libertà e scioltezza nella costruzione spaziale, ha schiarito i colori in gamme più delicate e luminose e ha arricchito la composizione di figure dinamiche ed eteree. È evidente il disinteresse che Tiepolo mostra nei confronti dell'introspezione psicologica e della realtà fisica; l'aspetto che lo interessa è soltanto la distribuzione della scena, il gioco della luce, l'accordo dei colori. Da ciò l'impressione costante di «spettacolo» offerta dai suoi dipinti.
Nel 1725 Tiepolo lavora con Gerolamo Mengozzi Colonna, famoso quadraturista, con il quale collaborerà per molti anni. Verso il 1730 si volge a uno studio sempre più approfondito delle tele e degli affreschi di Veronese, in quanto ritiene che la pittura del grande artista cinquecentesco sia tecnicamente molto più avanzata della pittura veneta a lui successiva. Inoltre il temperamento estroso e pieno di fantasia lo orienta verso soluzioni compositive sempre nuove e ricche di movimento. Nel 1731 Tiepolo si reca a Milano dove porta a compimento alcune opere di indubbio valore a soggetto mitologico (soffitti di palazzo Archinto, distrutti durante la Seconda Guerra Mondiale; Allegoria della Magnanimità, Palazzo Dugnani). Nel 1739 la congregazione del Carmine a Venezia gli dà l'incarico di decorare i soffitti della propria scuola. L'esecuzione di quest'opera tiene impegnato Tiepolo fino al 1743 e suscita in lui un immenso entusiasmo. Prima di terminarla, si reca nuovamente a Milano dove dipinge il soffitto di Palazzo Clerici con La corsa del carro del Sole. In quest'opera, costruita secondo un gusto essenzialmente scenografico, prevale l'intensa luminosità del cielo che filtra attraverso le nubi e avvolge gruppi e figure con una luce magica. A questi stessi anni appartengono le teatrali Scene della Passione (Sant'Alvise, Venezia), il grandioso Miracolo della Santa Casa di Loreto distrutto nel 1915, gli affreschi con Storie di Scipione (Villa Cordellina, Montecchio Maggiore) e le Storie di Antonio e Cleopatra (palazzo Labia, Venezia). Nel 1750 l'artista si trasferisce a Würzburg con i figli Giandomenico e Lorenzo che ormai lo affiancano nella realizzazione delle sue grandi opere.
Qui egli decora la sala da pranzo e lo scalone della residenza del pricipe-vescovo Carl Philipp von Greiffenklan con affreschi celebranti le imprese dell'imperatore Federico Barbarossa. Anche queste opere suscitano un'incondizionata ammirazione per l'acuto senso coloristico, la luminosità soffusa e la grandiosità della composizione. Tornato in Italia, esegue numerose altre opere, tra cui gli affreschi della Villa Valmarana (con episodi tratti dall'Iliade, dall'Eneide, dall'Orlando Furioso e dalla Gerusalemme liberata) e l'Apoteosi della famiglia Pisani nella Villa Nazionale di Stra. Nel 1762, sempre accompagnato dai due figli, Tiepolo parte per Madrid e si mette al servizio del re Carlo III che l'ha invitato a decorare tre sale del Palazzo Reale. L'artista ha ormai sessantasei anni, ma intraprende con l'abituale slancio questa opera colossale. Nascono così la Gloria di Spagna, l'Apoteosi della monarchia spagnola e l'Apoteosi di Enea che, nonostante la loro solennità, sono totalmente pervase da quella atmosfera leggera, quasi incantata, che sempre caratterizza la pittura di Tiepolo. Alla sua morte il suo posto viene preso da Raphael Mengs, nuovo pioniere dell'arte neoclassica, che già aveva osteggiato l'artista in vita non avendone compreso la straordinaria inventiva. Tra le opere di Tiepolo si possono ricordare anche alcune tele di soggetto religioso e profano nonché parecchi ritratti di notevole efficacia espressiva.

Giandomenico (Venezia, 1727-id., 1804) pittore italiano. Allievo del padre Giambattista, collabora con lui alla realizzazione dei suoi più grandi affreschi. Giandomenico però non si limita all'attività di cooproduzione col padre, ma coltiva anche un'arte propria. Suoi sono infatti gli affreschi della foresteria della Villa Valmarana (1757), nonché alcune opere nel Palazzo Ducale di Genova (1783). Dipinge anche molti quadri religiosi in cui trasforma la luminosità diffusa, tipica di suo padre, in un luminismo a raggio diretto, forse di reminescenza rembrandtiana. Svolge anche un'intensa attività incisoria, il cui capolavoro è la Fuga in Egitto, eseguito a Würzburg nel 1753. La sua opera più importante, in cui manifesta il meglio della propria personalità, rimane però senza dubbio il complesso degli affreschi della Villa di Zianigo (1791-93) in cui ritrae con spietata ironia la società veneziana del suo tempo.

Lorenzo (Venezia, 1736-Madrid, 1776) pittore italiano. Figlio di Giambattista e fratello di Giandomenico, seguì il padre a Würzburg (1750-53) e a Madrid (1761) dove collaborò a uno dei soffitti del Palazzo Reale. Figura artistica alquanto incolore, raggiunse però una certa maestria quale incisore (soprattutto di soggetti tratti dalle opere paterne). Opera di discreto valore è il Ritratto di dama con ventaglio (Ca' Rezzonico, Venezia, 1756).

 

      Tintoretto

 


Figlio di un tintore di panni da cui deriva il soprannome, vive sempre a Venezia (escludendo un viaggio a Roma che si suppone abbia avuto luogo nel 1545 e una visita a Mantova nel 1580). Frequenta, giovanissimo, la bottega di Tiziano. Il carattere geniale e turbolento dell’artista lo porta ben presto a distaccarsi da quel particolare classicismo veneto di cui Tiziano è uno dei maggiori esponenti. Tintoretto si avvicina maggiormente a Pordenone e a Schiavone e il suo temperamento versatile e ricettivo lo porta ad accettare il nuovo corso della pittura italiana. Fin dagli inizi la visione di Tintoretto è legata al manierismo toscoromano: studia con interesse le opere di Sansovino e Michelangelo arrivando così a mediare il «disegno di Michelangelo con il colorito di Tiziano» come vuole la tradizione stesse scritto sulla porta del suo studio (Pini, 1548; ma anche Vasari e Borghini).
Il primo periodo dell'attività di Tintoretto culmina nell'Ultima Cena (1547) della chiesa di San Marcuola, in cui il pittore prende già le distanze dal tonalismo tizianesco impegnandosi in una dialettica figurativa sempre più geniale. Anche il Miracolo di san Marco (Accademia di San Marco, 1548), già considerato un capolavoro dai contemporanei, esprime l'anelito dell'artista a realizzare un più saldo equilibrio della sintesi cromatico-plastica. Per la scuola della Trinità, tra il 1550 e il 1553, dipinge le Storie della Genesi di cui la Creazione degli animali, Adamo ed Eva e l'Uccisione di Abele si conservano nell'Accademia di Venezia. In queste opere si afferma un nuovo senso della natura, nel paesaggio è proiettato il sentimento stesso dell'artista e ne è rappresentato il culmine lirico. Avvenimento importante per l'esperienza artistica di Tintoretto è l'arrivo sulla scena veneziana di Paolo Veronese nel 1553. Alcune opere, quali la Presentazione di Gesù al Tempio e la Crocefissione di san Severo (Accademia di Venezia) rivelano una vivacità cromatica che si discosta dall'intima tendenza di Tintoretto verso il chiaroscuro.
A questo momento della sua vita artistica appartengono anche il Viaggio di sant'Orsola (San Lazzaro dei Mendicanti) e il Mosè che fa scaturire l'acqua (Städelsches Kunstinstitut, Francoforte). Dal 1560 è la bellissima Susanna di Vienna in cui ritornano i richiami a Veronese. Nel 1562 Tintoretto esegue per la scuola di San Marco tre episodi della vita del santo: Trasporto della salma di san Marco, San Marco salva il Saraceno dal naufragio (Accademia di Venezia) e Scoperta del corpo di San Marco (Brera, Milano). Queste tre opere documentano la piena maturità dello stile dell'artista; in ciascuna di esse predomina un gusto melodrammatico che tende all'effetto, un dinamismo rivolto all'evento, al miracolo. Poco prima del 1556 esegue la decorazione della Madonna dell'Orto che comprende due tele, una raffigurante l'Adorazione del vitello d'oro e l'altra il Giudizio Universale. Per quest'ultimo viene naturale il confronto con Michelangelo il cui Giudizio poteva esser stato visto da Tintoretto nel suo soggiorno romano. Nonostante le similitudini iconografiche, una differente concezione spaziale caratterizza in modo evidente l'opera dei due artisti. Nel 1564 Tintoretto inizia una grandiosa impresa che lo terrà impegnato fino al 1587: la decorazione della Scuola Grande di San Rocco.
L'opera viene compiuta in tre momenti successivi: dal 1564 al 1566 decora la sala dell'albergo, tra il 1576 e il 1581 la sala grande superiore e tra il 1583 e il 1587 la sala inferiore. Nella sala dell'albergo dipinge la Crocifissione in cui si afferma una nuova grandiosità spaziale, uno spazio definito dai movimenti concitati della folla, dal balenio delle luci, da un dinamismo che crea un effetto altamente espressivo. Nella Cena e nel Battesimo della sala superiore si esprime, attraverso la tensione chiaroscurale portata al massimo rendimento, un profondo senso religioso ed evocativo. L'accentuazione luministica è ancora più evidente nei «teleri» della sala inferiore. La Fuga in Egitto, la Maddalena e la Maria Egiziaca rappresentano il punto di arrivo stilistico di Tintoretto; la sapiente orchestrazione chiaroscurale crea effetti suggestivi e sublimi. Tintoretto realizza, in questi «notturni», un luminismo integrale giungendo a effetti poetici altissimi.
In questi anni, nonostante l'attività predominante sia a San Rocco, Tintoretto esegue le tele mitologiche (1577-78) per Palazzo Ducale in cui, come una recente pulitura ha mostrato, si allontana dai toni chiaroscurali facendo anzi un uso timbrico del colore. L'attività dell'artista tra l'ottavo e il nono decennio è in aumento; assumono, quindi, un ruolo importante i collaboratori e i figli che partecipano alla realizzazione delle opere: la grande tela del Paradiso (1588-92) di Palazzo Ducale è, per esempio, in gran parte di scuola. Le ultime opere di Tintoretto rappresentano una continua ricerca in senso luministico come, per esempio, la Flagellazione di Cristo (Kunsthistorisches Museum, Vienna) nella quale la luce evidenzia la tensione plastica. Infine meritano particolare attenzione le due tele del coro si San Giorgio Maggiore: La caduta della manna e l'Ultima Cena (1594). In quest'ultima opera, che ripropone un tema tanto caro all'autore, la luce trasfigura la realtà quotidiana creando toni surreali: ed è questa dialettica fra realtà e astrazione, profondamente manieristica, che caratterizza l'ultima fase stilistica del grande artista veneto.

      Tintoretto

 


Figlio di un tintore di panni da cui deriva il soprannome, vive sempre a Venezia (escludendo un viaggio a Roma che si suppone abbia avuto luogo nel 1545 e una visita a Mantova nel 1580). Frequenta, giovanissimo, la bottega di Tiziano. Il carattere geniale e turbolento dell’artista lo porta ben presto a distaccarsi da quel particolare classicismo veneto di cui Tiziano è uno dei maggiori esponenti. Tintoretto si avvicina maggiormente a Pordenone e a Schiavone e il suo temperamento versatile e ricettivo lo porta ad accettare il nuovo corso della pittura italiana. Fin dagli inizi la visione di Tintoretto è legata al manierismo toscoromano: studia con interesse le opere di Sansovino e Michelangelo arrivando così a mediare il «disegno di Michelangelo con il colorito di Tiziano» come vuole la tradizione stesse scritto sulla porta del suo studio (Pini, 1548; ma anche Vasari e Borghini).
Il primo periodo dell'attività di Tintoretto culmina nell'Ultima Cena (1547) della chiesa di San Marcuola, in cui il pittore prende già le distanze dal tonalismo tizianesco impegnandosi in una dialettica figurativa sempre più geniale. Anche il Miracolo di san Marco (Accademia di San Marco, 1548), già considerato un capolavoro dai contemporanei, esprime l'anelito dell'artista a realizzare un più saldo equilibrio della sintesi cromatico-plastica. Per la scuola della Trinità, tra il 1550 e il 1553, dipinge le Storie della Genesi di cui la Creazione degli animali, Adamo ed Eva e l'Uccisione di Abele si conservano nell'Accademia di Venezia. In queste opere si afferma un nuovo senso della natura, nel paesaggio è proiettato il sentimento stesso dell'artista e ne è rappresentato il culmine lirico. Avvenimento importante per l'esperienza artistica di Tintoretto è l'arrivo sulla scena veneziana di Paolo Veronese nel 1553. Alcune opere, quali la Presentazione di Gesù al Tempio e la Crocefissione di san Severo (Accademia di Venezia) rivelano una vivacità cromatica che si discosta dall'intima tendenza di Tintoretto verso il chiaroscuro.
A questo momento della sua vita artistica appartengono anche il Viaggio di sant'Orsola (San Lazzaro dei Mendicanti) e il Mosè che fa scaturire l'acqua (Städelsches Kunstinstitut, Francoforte). Dal 1560 è la bellissima Susanna di Vienna in cui ritornano i richiami a Veronese. Nel 1562 Tintoretto esegue per la scuola di San Marco tre episodi della vita del santo: Trasporto della salma di san Marco, San Marco salva il Saraceno dal naufragio (Accademia di Venezia) e Scoperta del corpo di San Marco (Brera, Milano). Queste tre opere documentano la piena maturità dello stile dell'artista; in ciascuna di esse predomina un gusto melodrammatico che tende all'effetto, un dinamismo rivolto all'evento, al miracolo. Poco prima del 1556 esegue la decorazione della Madonna dell'Orto che comprende due tele, una raffigurante l'Adorazione del vitello d'oro e l'altra il Giudizio Universale. Per quest'ultimo viene naturale il confronto con Michelangelo il cui Giudizio poteva esser stato visto da Tintoretto nel suo soggiorno romano. Nonostante le similitudini iconografiche, una differente concezione spaziale caratterizza in modo evidente l'opera dei due artisti. Nel 1564 Tintoretto inizia una grandiosa impresa che lo terrà impegnato fino al 1587: la decorazione della Scuola Grande di San Rocco.
L'opera viene compiuta in tre momenti successivi: dal 1564 al 1566 decora la sala dell'albergo, tra il 1576 e il 1581 la sala grande superiore e tra il 1583 e il 1587 la sala inferiore. Nella sala dell'albergo dipinge la Crocifissione in cui si afferma una nuova grandiosità spaziale, uno spazio definito dai movimenti concitati della folla, dal balenio delle luci, da un dinamismo che crea un effetto altamente espressivo. Nella Cena e nel Battesimo della sala superiore si esprime, attraverso la tensione chiaroscurale portata al massimo rendimento, un profondo senso religioso ed evocativo. L'accentuazione luministica è ancora più evidente nei «teleri» della sala inferiore. La Fuga in Egitto, la Maddalena e la Maria Egiziaca rappresentano il punto di arrivo stilistico di Tintoretto; la sapiente orchestrazione chiaroscurale crea effetti suggestivi e sublimi. Tintoretto realizza, in questi «notturni», un luminismo integrale giungendo a effetti poetici altissimi.
In questi anni, nonostante l'attività predominante sia a San Rocco, Tintoretto esegue le tele mitologiche (1577-78) per Palazzo Ducale in cui, come una recente pulitura ha mostrato, si allontana dai toni chiaroscurali facendo anzi un uso timbrico del colore. L'attività dell'artista tra l'ottavo e il nono decennio è in aumento; assumono, quindi, un ruolo importante i collaboratori e i figli che partecipano alla realizzazione delle opere: la grande tela del Paradiso (1588-92) di Palazzo Ducale è, per esempio, in gran parte di scuola. Le ultime opere di Tintoretto rappresentano una continua ricerca in senso luministico come, per esempio, la Flagellazione di Cristo (Kunsthistorisches Museum, Vienna) nella quale la luce evidenzia la tensione plastica. Infine meritano particolare attenzione le due tele del coro si San Giorgio Maggiore: La caduta della manna e l'Ultima Cena (1594). In quest'ultima opera, che ripropone un tema tanto caro all'autore, la luce trasfigura la realtà quotidiana creando toni surreali: ed è questa dialettica fra realtà e astrazione, profondamente manieristica, che caratterizza l'ultima fase stilistica del grande artista veneto.

 

      Diego Velàzquez

 


Diego Velázquez è figlio di un portoghese, Juan Rodríguez de Silva, la cui famiglia apparteneva alla piccola nobiltà trasferitasi da Porto a Siviglia; la madre, di cui il pittore adotterà il nome, era un andalusa, Jerónima Velázquez. Gli episodi che scandiscono e strutturano a grandi linee la sua carriera in quattro periodi sono il trasferimento da Siviglia alla corte (1623) e i due soggiorni in Italia (1629-30 e 1649-51). La sua vocazione precoce gli permette di entrare a dodici anni nella bottega di Francisco Pacheco (1564-1654), un buon pittore di secondo piano, a metà strada tra il manierismo in voga a Siviglia alla fine del XVI secolo e un realismo ancora timido.
Pacheco era peraltro un eccellente professore, scrittore e umanista: Velázquez gli dovrà una cultura assolutamente rara presso i pittori spagnoli. L'adolescente, divenuto l'allievo preferito di Pacheco, supera brillantemente nel 1617 l'esame di maestro pittore e, l'anno seguente, sposa Juana Pacheco che gli dà ben presto due figlie e gli assicurerà un avvenire familiare costantemente felice. Pacheco è un ammiratore del genero, il quale ha un rapido successo come pittore di bodegones, così come di soggetti religiosi; il suocero approfitta così del favore di un andaluso, il conte-duca d'Olivares, presso il nuovo re, Filippo IV, per mandare Velázquez a Madrid.
Un primo viaggio, nel 1622, gli procura contatti preziosi; esegue allora il ritratto del poeta Góngora. L'estate seguente, dopo essere stato convocato insieme al suocero dal conte-duca, Velázquez ottiene la commissione del ritratto del re, che immediatamente lo ammette nel proprio seguito come pittore della camera. Un ritratto equestre di Filippo IV, esposto all'entrata della Calle Mayor nel 1625, gli conferisce un successo trionfale. Nel 1627, la vittoria di Velázquez sui pittori blasonati della corte (come Vincente Carducho [1576-1638] ) nel concorso che deve celebrare la cacciata dei Mori da parte di Filippo III (quadro andato perduto nell'incendio del palazzo reale nel 1734), ne consacra definitivamente la superiorità.
Egli riceve il titolo di «guardaporta della camera» (del re), il primo di un cursus honorum che gli assicurerà una carriera di funzionario di palazzo parallela, e non meno brillante, di quella di pittore. Il re gli offre un alloggio all'Alcázar, con un atelier dove egli viene quasi quotidianamente a far visita al pittore. Quando Rubens giunge a Madrid in missione diplomatica (1628), è Velázquez ad accompagnarlo all'Escorial, ed è anche il solo tra i pittori madrileni a ottenere la sua amicizia; è proprio Rubens che lo sollecita ad andare a studiare sul posto i maestri italiani. Ottenuto il congedo da Filippo IV, e viaggiando ufficiosamente come «favorito del re», Velázquez si imbarca a Barcellona nell'agosto del 1629. Le sue tappe principali sono Genova, Milano, Venezia, Roma, dove alloggia in Vaticano e poi a Villa Medici, e infine Napoli, dove fa visita a Ribera (detto lo Spagnoletto). Una volta rientrato in patria, alla fine del 1630, le sue attività ufficiali continuano a intensificarsi.
Mentre la figlia maggiore sposa nel 1633, il suo assistente Juan Bautista Martínez del Mazo (1612 c.ca-67), Velázquez dirige dal 1634 al 1636 la decorazione del «salone dei Regni» al nuovo palazzo del Retiro e successivamente quella del padiglione di caccia della Torre de la Parada nella foresta del Pardo. Nominato nel 1643, super-intendente de obras reales, diventa conservatore di tutte le collezioni reali. Alcuni anni più tardi, Velázquez approfitta del rinnovo di numerosi saloni dell'Alcázar per richiedere una missione in Italia allo scopo di acquistare quadri e pezzi antichi: si imbarca a Málaga nel gennaio del 1649.
A vent'anni di distanza, il pittore rivede le medesime città, ma questa volta in qualità di personaggio ufficiale che acquista per conto del re opere di Tintoretto a Venezia e alcune statue a Roma e a Napoli. Un lungo soggiorno a Roma costituisce il punto culminante del suo viaggio: viene chiamato a eseguire i ritratti di papa Innocenzo X e di numerosi cardinali, e il loro successo gli apre le porte dell'accademia di San Luca. Velázquez si attarda in Italia nonostante i richiami del re, e rientra infine in patria nel giugno del 1651. Vi trova una corte rinnovata, e un re invecchiato dai lutti e dagli eventi, e tuttavia in luna di miele in seguito al suo nuovo matrimonio (con la giovanissima nipote Maria Anna d'Austria). Il sovrano rinnova il proprio favore nei confronti dell'artista imponendo la sua nomina come a posentador («maresciallo» o «furiere» di palazzo), incaricato dell'alloggio degli ospiti di riguardo e dell'organizzazione degli spostamenti reali.
Velázquez svolge con coscienza, tatto e cortesia i compiti relativi a questa carica, piuttosto impegnativa che peraltro egli aveva auspicato. La sua carriera trova il proprio coronamento nel 1658 quando, nonostante i pareri contrari dei dirigenti dell'ordine, il doppio intervento del papa e del re gli assicura l'«abito» di cavaliere di Santiago, privilegio assolutamente insolito per un pittore. Non avrà modo di goderne a lungo: nella primavera del 1660, Velázquez viene incaricato di preparare l'incontro dell'isola dei Fagiani (alla foce del Bidassoa, ove venne siglata la Pace dei Pirenei) e il matrimonio di Luigi XIV con l'infanta Maria Teresa; trascorre allora alla frontiera dei Pirenei un periodo di due mesi che sfibra il suo stato di salute già precario. È costretto a mettersi a letto dopo il suo ritorno a Madrid, e muore in pochi giorni, senza dubbio a causa di un infarto.

L'opera di Velásquez
Destinata, a partire dal 1623, quasi esclusivamente al re, la sua produzione costituisce oggi, al museo del Prado, un insieme caratterizzato da una densità impressionante, a eccezione della mal rappresentata epoca sivigliana. I quadri di quest'epoca, ricercati sin dalla fine del XVIII secolo dagli appassionati stranieri - in primo luogo inglesi -, e dispersi oggi in tutto il mondo, sono rimasti per lungo tempo poco conosciuti. Religiosi o profani, tutti rivelano una capacità e una sicurezza stupefacente in un artista così giovane. Più che l'influenza di Pacheco, essi riflettono quella del focoso Herrera (presso il quale Velázquez avrebbe lavorato per qualche tempo), di Montañés grande maestro della scultura su legno e amico intimo di Pacheco, e soprattutto del naturalismo tenebrista di Caravaggio, giunto a Siviglia verso il 1610. La forte luminosità delle macchie di colore ampiamente contrapposte, i volumi nettamente sottolineati dai contrasti di luce e ombra, conferiscono alle forme un rilievo di legno scolpito.
Non esistono differenze tra i bodegones e i soggetti religiosi, tra l'Apostolado incompleto - (musei di Barcellona di Orléans, ecc.) dai modelli robustamente plebei, Sant'Ildefonso riceve la pianeta (museo di Siviglia) o l'Adorazione dei Magi del 1619 (Prado, Madrid) che devono il loro valore innanzitutto ai magnifici ritratti - e le scene della vita popolare sivigliana. Citiamo, per esempio, la Vecchia friggitrice (1618, museo di Glasgow) o il Portatore d'acqua (collezione privata inglese), entrambi caratterizzati da una pacifica maestosità.
Anche nei quadri a tema sacro (Cristo in casa di Marta e Maria, National Gallery, Londra; i Discepoli di Emmaus, collezione privata irlandese), il primo piano è occupato da modelli dello stesso tipo, a mezzo busto, secondo l'esempio dei quadri olandesi dei secoli precedenti (Aertsen), che Velázquez ha avuto modo di conoscere. Nel corso dei primo anni trascorsi alla corte, il pittore spagnolo accoglie nel suo stile la lezione delle collezioni reali, degli Italiani e di Rubens, che gli insegna a snellire e ad aerare le sue figure. Attraverso i primi ritratti della famiglia reale (Filippo IV [in piedi] , l'Infante don Carlos, Prado), è possibile apprezzare come il giovane pittore raccolga la tradizione quasi centenaria del ritratto di corte, ereditata da Antonio Moro (1519-76) e da Alonso Sanchez Coello (1531 o 1532-88) - dignità della cosa rigida e impassibile, accessori di rigore: sipario e tavolo, mantellina e guanti - alleggerendone tuttavia la sagoma e rallegrando la propria tavolozza di carminii che evocano Tiziano (Filippo IV [a mezzo busto] , Prado).
Ben presto Velázquez si avvicinerà al mondo dell'umanesimo e della favola; alla vogolia della partenza per l'Italia, nel 1629, riceve un premio per i Bevitori (Prado), quadro ancora per metà tenebrista che contrappone, non senza dissonanza, il giovane bacco a ilari contadini andalusi. L'Italia - e soprattutto Venezia, dove egli trova il «meglio della pittura» - gli insegna a raggruppare con naturalezza le proprie figure e a immergerle in un'atmosfera omogenea: lo si può constatare in La tunica di Giuseppe (1630, Escorial), unico quadro che egli abbia sicuramente dipinto a Roma in quel periodo (piccoli paesaggi così moderni di Villa Medici e Villa Borghese [Prado] sono stati diversamente assegnati dalla critica moderna a ciascuno dei due soggiorni romani).
Con il ritorno a Madrid, Velázquez raggiunge la pienezza di un'arte che subirà in seguito solo una lenta evoluzione. L'artista gioca con eguale padronanza, a seconda delle commissioni reali, con toni molto diversi, creando armonie personali di ocra, verdi e grigi e adottando spesso come fondali vasti paesaggi chiari. I diversi ambiti della sua produzione sono ineguali per numero di opere, non per qualità. Si è in presenza di rare composizioni religiose, la più commovente delle quali è il Cristo flagellato (National Gallery, Londra), la più sottilmente barocca il San Tommaso (museo diocesano, Orihuela), le più conosciute, infine, quelle che egli dipinse per monasteri od oratori reali (attualmente al Prado): il Crocefisso scultoreo olimpico, gli Eremiti e l'Incoronazione della Vergine, caratterizzate da chiare armonie e ispirate ad alcune incisioni di Dürer. Parallelamente a questo gruppo, e un po’ più nutrito (malgrado le perdite subite nell'incendio del 1734), quello dei soggetti tratti dall'antichità classica che non ha ancora smesso di appassionare i commentatori. Questi quadri traspongono liberamente modelli antichi o rinascimentali in un'atmosfera moderna e familiare, seguendo l'esempio di Ribera, ma in modo più sottile e ambiguo.
Derisione degli idoli consacrati o sentimento della continuità del mondo, della perennità dei tipi e dei caratteri? Si può rimanere esitanti davanti alle figure buffe, e tuttavia sempre dignitose, dipinte tra il 1636 e il 1639 per la Torre de la Parada (Prado): Marte, che è allo stesso tempo il pensieroso di Michelangelo e un sottufficiale baffuto, e quei pittoreschi accattoni, l'Esopo o il Menippo, nobilmente ammantato nella sua cappa. Tuttavia, l'ampio realismo di La fucina di Vulcano (Prado) non ha nulla di burlesco, e ogni secondo fine ironico sembra essere bandito dalla meravigliosa Venere allo specchio (National Gallery, Londra): il mistero del volto rivelato dal suo riflesso. Dipinta prima del 1651, forse in Italia - nonostante la grazia nervosa di questo nudo inarcato «a chitarra» sia tutta spagnola -, quest'opera fa la sua apparizione eccezionale nel «secolo d'oro». A questi due gruppi si aggiunge un solo grande quadro storico, destinato al «salone dei Regni» del Retiro (1635): Le lance o La resa di Breda (Prado), capolavoro di ritmo nella sua composizione a fregio, di raffinatezza cromatica con i toni contrapposti dei suoi due gruppi sugli ampi sfondi bluastri e infine di dignità umana nell'accoglienza offerta dal vincitore al vinto.
Malgrado tutto, Velázquez si specializza sempre più nel ritratto e per prima cosa in quelli della famiglia reale, spesso sugli sfondi delle rupi e delle verdi querce del Guadarrama, circondati da una luce argentea. Vi sono grandi ritratti equestri alla Rubens destinati al Retiro e passati al Prado (Filippo III, Filippo IV, l'Infante Balthasar Carlos [1634] ), e ritratti di cacciatori per la Torre de la Parada, anch'essi al Prado (Filippo IV, suo fratello Don Ferdinando e l'Infante Balthasar Carlos in abito da caccia [1635] accompagnati dai loro cani). Tra i diversi ritratti reali, in piedi o a mezzo busto - di cui Mazo eseguì buone copie -, emerge il Ritratto di Filippo IV o di Fraga (1644, Frick Collection, New York) che lascia stupefatti per la libertà della fattura e l'imprevisto degli accordi rosa, nero e argento. Agli antipodi si situa «quel mondo di mezzo» che nel palazzo era il gruppo degli hombres de placer, nani e buffoni di cui la corte di Spagna - e la pittura di corte - conservavano la tradizione di origine medievale. Velázquez, che ne ha dipinti parechi tra il 1635 e il 1645 (Prado), l'individualizza con un vigore e una naturalezza unici: buffoni in piedi nelle loro pose ironiche o teatrali, altri invece seduti, «ritardati» o nani intelligenti (El Primo, il fiammingo Don Sebastian de Mora), il cui sguardo è caratterizzato da un'acutezza quasi insostenibile. Sono figure che da sole bastano a esprimere l'umanità profonda di Velázquez, estranea all'enfasi così come alla caricatura.
Il pittore spagnolo fu chiamato a dipingere alcuni visitatori di riguardo (il duca Francesco I d'Este, pinacoteca di Modena) e alti dignitari (il Conte di Benavente, 1649, Prado, il più «tizianesco» dei suoi ritratti). In quell'occasione egli si preoccupò di fissare anche i tratti di alcuni amici o familiari: la moglie, Juana Pacheco (Prado), l'illustre scultore Montañés (Prado) e il proprio fedele collaboratore, il mulatto Juan de Pareja (collezione privata inglese) che dipinse a Roma nel 1650 «per farsi la mano» prima di eseguire il ritratto di Papa Innocenzo X (galleria Doria-Pamphilj, Roma). Questo quadro, per l'autorevolezza della posa, la luminosità dello sguardo, l'audace sinfonia dei toni russi, ispirata forse al Cardinal Guevara di El Greco, è forse il capolavoro dell'autore e del ritratto europeo barocco. Tuttavia, le opere - poco numerose - dei dieci anni che seguono il secondo viaggio in Italia rivelano un rinnovamento dei temi e soprattutto dello stile. Mentre negli ultimi ritratti il re pare sciupato e indebolito, sono la giovane regina Maria Anna e i nipoti a occupare un posto di maggior rilievo; i ritratti di questi ultimi sono suddivisi tra Madrid e Vienna (Infanta Margarita Maria in veste blu, Infante Felipe Prospero), essendo stati inviati al ramo austriaco degli Absburgo. Di questi modelli fragili e graziosi Velázquez accentua il tono di indifferenza, rappresentandoli rigidi nei loro gesti; più che come «personaggi» li tratta come «elementi armonici» con tonalità dominanti grigio argento, blu o rosa, e sostituisce ai contorni un gioco di macchie e di tocchi vibranti che fa brillare le grandi e semplici forme. Queste ultime si fondono con la cornice delle cortine, di console dorate e di specchi.
Lo stesso avviene nelle due ultime grandi composizioni di Velázquez. La prima, Le filatrici (1657, Prado) è allo stesso tempo l'evocazione del mito di Aracne e la rappresentazione di un atelier di tappezzeria i cui operai, ritmati con suprema naturalezza, sfumano nella penombra. La seconda, L'infanta Margherita e le sue dame (Las meninas, 1658, Prado) è un'«istantanea» della vita quotidiana della corte in un pomeriggio d'estate. Attorno alla piccola infanta Margarita, sono riuniti le due damigelle d'onore (meninas), gli amici nani, il suo cane e lo stesso pittore che dipinge una tela di cui si vede il rovescio, mentre la coppia dei sovrani, supposto soggetto della tela, è riflessa in uno specchio sul muro di fondo. Si tratta di un quadro unico, sia per la composizione insolita e la naturalezza dei gesti e degli atteggiamenti, sia per la dolcezza misteriosa della luce e dello spazio: «salvezza» dell'istante fuggitivo catturato da uno sguardo la cui acutezza non trova eguali. La parabola di Velázquez, che ha avuto come punto di partenza il «tenebrismo», trova così il proprio completamento in una sorta di «impressionismo». Dopo aver rinnovato la visione dei pittori madrileni della seconda metà del secolo, da Carreño a Claudio Coello, e risvegliato il genio di Goya - che incise numerose delle sue opere e si avvicinò al suo stile del ritratto -, nel XIX secolo l'influenza esercitata da Velázquez assume connotati europei. Secondo l'espressione di Manet che, a Madrid, saluta in lui il «pittore dei pittori», questo artista ha «fatto cadere i paraocchi» ai realisti del 1850. Ma Velázquez incarna anche la figura di un iniziatore per Monet, Renoir, Whistler, poiché propone alcune anticipazioni delle loro ricerche cromatiche e della loro immagine «fluida» del mondo.

 

      Il Veronese

 

 

Con Tiziano e Tintoretto, Veronese è una delle tre principali figure della scuola veneziana del Cinquecento. Originario di Verona, importante centro dell'arte romanica, romana, gotica e rinascimentale, si forma in seno alla scuola locale, una scuola eclettica, in cui il gusto del colore si incontrava con l'influenza di Raffaello, Michelangelo, Correggio e del manierismo.


Se ne percepisce una eco nel primo dipinto importante di Veronese, Madonna in trono fra santi e donatori , del 1548, che fa parte della Pala Bevilacqua-Lazise (Museo di Castelvecchio, Verona). Un ambiente, malgrado tutto provinciale, non poteva tuttavia soddisfare le aspettative del pittore che, infatti, si reca a Venezia, dove si fa conoscere a partire dal 1553 lavorando, nel Palazzo Ducale, alla decorazione dei soffitti a scomparti del Consiglio dei Dieci. Le sei tavole di sua mano, con soggetti mitologici o allegorici (quattro sono sul posto, due sono oggi al museo del Louvre di Parigi), rivelano ancora dei prestiti da Michelangelo e dai manieristi.
Nel 1556-57, Veronese collaborò a un'altra grande impresa veneziana, il soffitto principale della Libreria Vecchia di San Marco; egli vi partecipa con tre tele (l'Onore; Aritmetica e geometria; la Musica), notevoli per la loro composizione adattata a un formato circolare, per l'audacia degli scorci e la raffinatezza di un colore ispirato a Tiziano. Nel 1555, il pittore veronese aveva cominciato a San Sebastiano, la chiesa dei Gerosolimitani di Venezia, una serie di lavori che dovevano tenerlo impegnato per quindici anni e che gli avrebbero permesso di affermare la propria personalità. Dipinte nel 1556, le tre grandi tele del soffitto della navata, i cui soggetti sono tratti dalla storia di Ester, fanno già presagire la maturità artistica per la naturalezza della realizzazione prospettica concepita per una visione obliqua, e per il vigore e la luminosità del colore.


La Cena in Emmaus (museo del Louvre, Parigi) del 1560 circa, inaugura un tipo di composizione a sviluppo orizzontale con una grande ricchezza di figure, e include ritratti e scene di genere. È un preludio alle immense tele dipinte per alcuni refettori di comunità che rappresentano fastosi banchetti inquadrati da architetture ispirate a Sansovino e Palladio: innanzitutto la Cena in casa di Simone dei Santi Nazario e Celso di Verona (Galleria Sabauda, Torino); nel 1562-63, le Nozze di Cana in San Giorgio Maggiore a Venezia (museo del Louvre, Parigi), la cui ampiezza e ricchezza di dettagli sono eccezionali. In una composizione più articolata troviamo, nel 1572, il Convito di San Gregorio nel santuario di Monte Berico nei pressi di Vicenza, poi la Cena in casa di Simone , dipinto per il refettorio dei Serviti a Venezia (museo del Louvre, Parigi). Nel 1573, infine, la Cena in casa di Levi per il refettorio del convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia (attualmente esposto alle Gallerie dell'Accademia); a causa di profani presenti in quest' ultimo quadro, Veronese venne convocato dall'Inquisizione che lo costrinse a «correggere et emendare» il dipinto che, in origine, si intitolava Ultima Cena . Veronese si limitò a cambiare il titolo. Intorno al 1560-61, Veronese gode di un momento artistico molto felice che si estrinseca nella decorazione ad affresco di villa Barbaro, costruita a Maser su progetto di Palladio.


Alle pareti del vestibolo cruciforme e di cinque stanze vicine, alcuni portici «trompe l'oeil» incorniciano paesaggi illustrati con fantasia poetica, o figure che hanno l'apparenza di statue. Gli scomparti delle volte e le lunette, con i soggetti mitologici o allegorici, fanno trionfare la prospettiva del soffitto; il colore possiede una luminosità intensa, soprattutto nella composizione celeste e girevole della sala centrale, in cui le divinità dell'Olimpo sono riunite al disopra di finti balconi. È l'apoteosi dell'illusionismo, illustrato anche nel vestibolo e alle due estremità dell'infilata delle stanze da alcuni personaggi «trompe l'oeil» che appaiono davanti a porte simulate. Si collocano intorno al 1565 quattro allegorie provenienti da un soffitto (National Gallery, Londra), caratterizzate da scorci audaci. Nel 1566, Veronese dipinse nella sua città natale la grandiosa pala dell'altare maggiore di San Giorgio in Braida, il Martirio di san Giorgio e, per la medesima chiesa, San Barnaba guarisce gli ammalati (Museo di Belle Arti, Rouen). Le brillanti Nozze mistiche di Santa Caterina, antica pala d'altare in Santa Caterina a Venezia (Gallerie dell'Accademia) sono datate intorno al 1570.
Dipinto in collaborazione con Benedetto Caliari (1538-98), fratello di Paolo, sull'altare maggiore della chiesa di Santa Giustina a Padova, il Martirio di santa Giustina (1575) ricorda quello di san Giorgio per l'ampiezza della composizione a due tonalità. A Palazzo Ducale di Venezia, il soffitto a cassettoni della sala del Collegio accolse, tra il 1575 e il 1577, alcune pitture allegoriche le cui figure si stagliano su un cielo dal ricercato luminismo.
All'incirca della stessa epoca, l' Adorazione dei Magi, grande tela a sviluppo verticale (Chiesa di Santa Corona a Vicenza) presenta tonalità più cupe, in un'atmosfera di misterioso crepuscolo; al contrario, la serie di quadri mitologici dipinti per l'imperatore Rodolfo II, oggi dispersi (due alla collezione Frick, uno al Metropolitan Museum di New York e uno al Fitzwilliam Museum di Cambridge) ricordano l'ispirazione dei «poemi» di Tiziano. A partire dal 1580 circa, l'intervento di consistenti aiuti finanziari spiega una certa incostanza nell'esecuzione: come avviene, per esempio, nel Trionfo di Venezia, un grande arazzo caratterizzato da una composizione a ripiani che occupa uno scomparto del soffitto della sala del Maggior Consiglio al Palazzo Ducale. Quest'ultimo periodo ha visto nascere, tuttavia, alcune opere molto personali, dal colorito intenso, come il Sacrificio di Isacco (Museo del Prado, Madrid), Giuditta e Oloferne (Palazzo Rosso, Genova) e, soprattutto, l'ultima opera del maestro (1587), San Pantaleone guarisce un fanciullo (chiesa di San Pantaleone a Venezia), di alta ispirazione.
Il mondo di Veronese ignora, quasi sempre, l'espressione del dolore o della tristezza; non vi si può cercare, in generale, né raccoglimento, né intimità. È un mondo sereno e fastoso che traduce l'aspirazione alla felicità della società veneziana in composizioni le più caratteristiche delle quali sono ampie, ritmate da architetture teatrali e popolate da numerose figure. È un mondo immaginario, nonostante accolga il ritratto - talora facente parte della messa in scena, talora isolato - e alcuni elementi realistici come buffoni, nani, paggi, soldati, cani e scimmie, la cui presenza nell'ambito di episodi sacri e mitologici è giustificata dal gusto del dipingere.
Si è spettatori di una festa del colore. Veronese gioca magnificamente con i rapporti di toni, i loro accordi o, a volte, con le loro dissonanze e i loro scambi reciproci attraverso i riflessi. Le sue tonalità sono più luminose di quelle dei suoi rivali. Nell'affresco come nella pittura a olio, in cui gli impasti contrastano con le velature, il tocco lieve o evidente sfuma i contorni, ma fa scintillare luci dorate nei panneggi di stoffe sontuose. Sarebbe tuttavia limitante attenersi a un'interpretazione basata esclusivamente sulla sensualità di quest'arte. Nelle sue composizioni, Veronese annoda le figure in morbide ghirlande oppure crea delle possenti diagonali. Questo artista possiede il senso dello spazio; la sua prospettiva originale e ardita moltiplica i punti di fuga (come nelle Nozze di Cana al fine di valorizzare, in seguito, i vari elementi) e gli scorci; abbassa frequentemente la linea dell'orizzonte per ingrandire le figure in primo piano, mentre quelle del fondo o della parte superiore (come nel Martirio di san Giorgio) obbediscono piuttosto a una prospettiva frontale. Nella decorazione dei soffitti e delle volte, lo spazio viene concepito per una visione obliqua a partire dal suolo. Tutto questo fa di Veronese un precursore del barocco.
Sarà proprio seguendo il suo esempio che S. Ricci, agli inizi del Settecento, risveglierà la scuola veneziana dal suo torpore, seguito da G.B. Tiepolo che saprà trarne un'ispirazione più libera. In generale, i grandi coloristi devono molto a Veronese: per esempio Delacroix, il suo più fedele discepolo postumo, o Cézanne, suo ammiratore.


Testo a cura di: Tribenet

Fonte: http://www.scicom.altervista.org/storia%20sociale%20arte/GRANDI%20MAESTRI%20ARTE%20(appunti%20Stefania).doc

 

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