Storia della chimica dalle origini ai giorni nostri

 

 

 

Storia della chimica dalle origini ai giorni nostri

 

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Fuoco e pietra

 

Gli uomini primitivi, quando cominciarono e servirsi di utensili, accettavano la natura come la trovavano. Il femore di qualche grosso animale poteva servire da comodo bastone; lo stesso uso potevano avere i rami strappati agli alberi. Le pietre erano buone armi da lancio.

Col passare dei millenni, gli uomini impararono a foggiare le pietre in modo da dotarle di bordi taglienti oppure di impugnature. Trovarono il sistema di fissare delle pietre a manici di legno opportunamente adattati. Comunque, la pietra rimaneva pietra e il legno rimaneva legno.

A volte, tuttavia, la natura della materia si trasformava. Poteva accadere che un fulmine incendiasse una foresta, e allora la cenere e I resti carbonizzati non avevano niente in comune con il legno che era esistito prima dell'incendio, oppure un pezzo di carne guasta cominciava a puzzare, del succo di frutta inacidiva col passare del tempo, o diventava stranamente inebriante.

Questo genere di modificazione della natura della materia (accompagnato come l'umanità arrivò a scoprire col passar del tempo, da fondamentali trasformazioni di struttura) costituisce l'oggetto della scienza detta chimica. Le alterazioni fondamentali nella natura e nella struttura delle sostanze costituiscono trasformazioni chimiche.

I£ possibilità di effettuare volontariamente vantaggiose trasformazioni chimiche si presentò dopo che l'uomo ebbe appreso l'arte di accendere e di tenere in vita il fuoco. (Sotto il profilo storico, questa fu la « scoperta del fuoco ».) Una volta appresa quest'arte, l'uomo diventò chimico di professione, perché dovette escogitare sistemi che permettessero al legno o ad altri combustibili di combinarti con l'aria a velocità. Abbastanza elevata da generare una quantità notevole di luce e di calore, oltre a cenere, fumo e vapori. Era quindi necessario essiccare il legno, ridurne in polvere una parte per preparare l'esca, portare la temperatura fino al punto di accensione per mezzo dello sfregamento o con altri metodi, e così via.

Si poteva utilizzare il calore generato dal fuoco per provocare ulteriori trasformazioni chimiche. Si cuoceva Il cibo, alterandone in tal modo il colore, i tessuti e il sapore. Si poteva cuocere l'argilla per fare mattoni e vasellame. A lungo andare si arrivò alla produzione di oggetti di ceramica di smalti, perfino di qualche tipo di vetro.

Le prime sostanze utilizzate dall'uomo furono quelle universalmente presenti nel suo ambiente: legno, ossa, pelli e pietre. Di queste sostanze la più durevole è la pietra: sono infatti gli utensili di pietra dell'uomo primitivo a fornirci, oggi, le più chiare testimonianze su quell'epoca ormai lontana. A per questa ragione che si parla di età della pietra.

L'umanità viveva ancora nell'età della pietra quando, verso l'8000 a.C., in alcune zone di quello che al giorno d'oggi si chiama Medio Oriente fu introdotta una rivoluzionaria innovazione nella produzione degli alimenti. Prima di allora l'uomo andava a caccia di cibo come qualsiasi altro animale. A questo punto imparò ad addomesticare gli animali e ad averne cura, m quanto fonti sicure di nutrimento e, cosa anche più importante, l'uomo imparò a coltivare le piante. Con lo sviluppo dell'allevamento del bestiame e dell'agricoltura si rese disponibile una fonte di alimenti più stabile e abbondante, e la popolazione aumentò. Inoltre, l'agricoltura esigeva che la popolazione fosse stabile, cosicché si cominciò a costruire abitazioni permanenti e sorsero le città. Questa evoluzione segna, letteralmente, l'inizio della civiltà, dato che « civiltà » deriva dalla parola latina che significa « città ».

Per i primi duemila anni circa di questa antichissima civiltà, la pietra continuò ad essere la materia prima caratteristica dei vari utensili, anche se furono elaborate nuove tecniche per la sua lavorazione. Questa nuova età della pietra, o periodo neolitico, ha come caratteristica l'accurata levigazione della pietra. Anche nel vasellame si raggiunse un elevato grado di sviluppo. Poco per volta i progressi del periodo neolitico si diffusero a partire dal Medio Oriente. Nel 4000 a.C., ad esempio, le caratteristiche di questa cultura erano comparse nell'Europa occidentale. Ma ormai i tempi erano già maturi per nuovi cambiamenti nel Medio Oriente, cioè in Egitto e in Sumeria, la zona che corrisponde al moderno Iraq.

L'umanità cominciò ad imparare a servirsi di sostanze relativamente rare., Per poter sfruttare la proprietà di questi materiali nuovi, l'uomo imparò a sopportare tutte le difficoltà legate a noiose ricerche e lavorazioni. I materiali in questione si dicono metalli  parolache, di per sé, esprime questa remota evoluzione, poiché deriva probabilmente da una parola greca che significa « cercare ».

 

I metalli

I primi metalli devono esser stati rinvenuti sotto forma di pepite. Deve essersi trattato di pezzi di rame o di oro, dato che questi rientrano nel numero lirnitato dei metalli che si incontrano talvolta in natura allo stato libero. Il colore rossastro del rame o quello giallastro dell'oro avranno certamente colpito l'attenzione dell'uomo primitivo, e la lucentezza metallica, tanto più bella e interessante del colore piatto e indefinito di quasi tutte le pietre, sarà stata motivo di ulteriore interessamento. P‑ indubbio che i metalli vennero utilizzati in primo luogo come ornamento, indipendentemente dalla forma dei frammenti rinvenuti, così come venivano probabilmente usati i ciottoli colorati o le conchiglie di madreperla.

Il vantaggio dei metalli, rispetto ai vari pezzetti di qualsiasi altra sostanza di bell'aspetto, derivava tuttavia dal fatto che il rame e l'oro sono malleabili; ciò significa che è possibile batterli fino a ridurli in lamine sottili senza che si rompano. (Sottoposta allo stesso trattamento, la pietra si ridurrebbe in polvere, mentre il legno o l'osso si spaccherebbero, scheggiandosi.) Questa proprietà fu senza dubbio scoperta per caso, ma non dovette passare molto tempo dalla sua scoperta prima che il senso artistico dell'uomo lo spingesse a battere i frammenti di metallo, dando loro forme intricate che ne accrescessero la bellezza.

Era inevitabile che chi lavorava il rame si accorgesse che questo metallo era in grado di ricevere facilmente, con la battitura, un bordo più tagliente di quello che si poteva ricavare sugli utensili di pietra. Inoltre, le lame di rame, una Volta smussate, potevano venire affilate di nuovo molto più facilmente che non i bordi taglienti degli strumenti di pietra. Soltanto la rarità del rame ne impediva l'utilizzazione su vasta scala negli utensili, oltre che negli ornamenti.

Il. rame divenne meno raro, tuttavia, quando si scoprì che non occorreva trovarlo necessariamente sotto forma di rame: era possibile ottenerlo partendo dalla pietra. Non si sa esattamente come, dove, o quando fu fatta questa scoperta, e forse non si saprà mai.

Si può supporre che la scoperta abbia avuto origine in un fuoco di legna, acceso sopra uno strato di sassi comprendenti alcune pietre di colore azzurrognolo. Può darsi che poi, nella cenere, si siano trovate delle pallottolline lucenti di rame. Forse la cosa si ripeté molte volte prima che, alla fine, ‑a qualcuno venisse in mente che, se si trovavano le pietre azzurre adatte, riscaldandole in un fuoco di legna si sarebbe ottenuto ogni volta del rame. La scoperta definitiva può aver avuto luogo verso il 4000 a.C. e può darsi che si sia verificata nella penisola del Sinai, ai confini orientali dell'Egitto, oppure nella zona montagnosa a est della Sumeria, nell'attuale Iran o forse la scoperta si verificò indipendentemente in entrambe le località.

In ogni caso, il rame divenne abbastanza comune da venire impiegato negli utensili, almeno nei centri di civiltà più progredita. Una padella di rame trovata in una tomba egiziana viene fatta risalire al 3200 a.C. Nel 3000 a.C. era già stata scoperta una qualità di rame particolarmente dura, prodotta (in principio per caso, senza dubbio) riscaldando insieme minerale di rame e minerale di stagno. Questa lega (si chiamano così le miscele di metalli) di rame e stagno prende il nome di bronzo. Nel 2000 a.C. il bronzo era già abbastanza comune da venire utilizzato nella fabbricazione di armi e di armature. Sono stati rinvenuti utensili egiziani di bronzo nella tomba del faraone Iteri, che regnò verso il 3000 a.C.

L'avvenimento più famoso dell'età del bronzo fu la guerra di Troia, combattuta da guerrieri muniti di armature e scudi di bronzo, che si scagliavano addosso lance dalla punta di bronzo. Un esercito privo di armi di metallo non sarebbe stato assolutamente in grado di resistere ai guerrieri armati di bronzo, e chi lavorava il metallo, in quei tempi, godeva di un prestigio paragonabile a quello dei fisici nucleari moderni. Il fabbro era un uomo veramente potente, e aveva perfino un posto tra gli dei. Efesto, il dio zoppo della fucina, era il fabbro divino della mitologia greca. Anche al giorno d'oggi non è un caso che « Smith » (fabbro), o il suo equivalente, sia il cognome più diffuso tra i popoli europei.

Il fulmine colpì due volte. Gli uomini dell'età del bronzo conoscevano un metallo ancora più duro del bronzo: era il ferro. Disgraziatamente. il ferro era troppo raro e prezioso perché potesse venire utilizzato su vasta scala nelle armature o almeno, sembrava raro, poiché gli unici campioni rinvenuti nell'antichità erano frammenti di meteoriti, che non sono molto frequenti, e pareva che fosse impossibile estrarre il ferro dalla pietra.

Il guaio è che il ferro è legato al minerale molto più strettamente che non il rame. Per fondere il minerale di ferro occorreva un calore più Intenso che per la fusione del rame e il fuoco di legna era insufficiente; bisognava ricorrere al fuoco di carbone di legna, capace di raggiungere temperature più elevate, ma solo in condizioni di buona ventilazione.

Il segreto della fusione del ferro fu scoperto finalmente nell'Asia Minore orientale, forte già nel 1500 a.C. Gli Ittiti, un popolo che creò un grande impero in Asia Minore, furono i primi a fare largo uso del ferro nella produzione di utensili. Sono state rinvenute lettere spedite verso il 1280 a.C. da un re ittita al suo viceré in una zona montagnosa ricca di ferro, nelle quali viene esplicitamente citata la produzione di ferro.

Nella sua forma pura (ferro dolce) il ferro non è molto resistente. Tuttavia, gli utensili e le armi di ferro possono assorbire dal carbone di legna una quantità di carbonio sufficiente a formare uno strato superficiale della lega di ferro e carbonio chiamata acciaio. Questo rivestimento è più resistente della ‑miglior qualità di bronzo, e conserva più a lungo un filo più tagliente. Questa scoperta del « rivestimento in acciaio », avvenuta in territorio ittita, rappresentò il punto cruciale dell'evoluzione della metallurgia del ferro. Gli eserciti forniti di corazze e armi di ferro duro avevano la ragionevole certezza di sconfiggere gli altri eserciti dotati di armi e corazze di bronzo. Sorse così l'età del ferro.

Fig. 1. I forni degli antichi fonditori erano fatti in modo da sviluppare k temperature adatte alla riduzione dei vari minerali. Nel forno per rame (a) il minerale fondeva in un crogiolo riscaldato da un fuoco di legna. La riduzione del minerale di ferro (b) richiedeva maggior calore, che si otteneva rivestendo di carbone di legna il forno, e fornendo ossigeno per mezzo dei mantice.

La tribù barbarica greca dei Dori, equipaggiata con alcune armi di ferro, invase la penisola greca dal nord verso il 1100 a.C., travolgendo gradualmente i Greci di Micene, più civili ma dotati soltanto di armi di bronzo, che si erano stabiliti su quel territorio. Alcuni Greci si spinsero fino nella terra di Canaan, portando con sé armi di ferro. Erano questi i Filistei, che hanno una parte così importante nei primi libri della Bibbia. Contro di essi gli Israeliti non erano in grado di combattere, fino a quando non ottennero, a loro volta, armi di ferro, durante il regno di Saul.

Il primo esercito che venne dotato, su vasta scala, di armi di ferro di buona qualità fu quello degli Assiri, ai quali la superiorità delle armi permise di edificare, prima del 900 a.C., un potente impero.

Prima che spuntasse l'alba dello splendore greco, quindi, l'arte della chimica pratica aveva raggiunto un discreto grado di sviluppo, particolarmente in Egitto, dove si poteva notare un vivo interesse religioso per i metodi di imbalsamazione e di conservazione del corpo umano dopo la morte. Gli Egiziani erano esperti non soltanto in metallurgia, ma anche nella produzione di pigmenti minerali e nell'estrazione di succhi e infusi dal mondo vegetale *.

Secondo una teoria, la parola khemeia deriva dal nome usato dagli Egiziani per indicare la propria terra, Kham. (E` il nome che comparve anche nella Bibbia, sotto la forma Ham, nella versione di Giacomo I d'Inghilterra). Khemeia potrebbe quindi essere « l'arte egiziana ».

Un'altra teoria, assai più popolare al giorno d'oggi, afferma che khemeia deriva dal greco khumos, che significa « succo di pianta », cosicché la khemeia può essere considerata « l'arte di estrarre i succhi ».

Può anche darsi che il « succo » al quale ci si riferiva fosse il metallo fuso, nel qual caso la parola potrebbe significare « l'arte della metallurgia ».

Ma qualunque sia l'origine di khemeia, questa parola è l'antenata della
nostra « chimica ».

* Le arti della chimica fiorirono anche in India e in Cina, ma il filone dello sviluppo concettuale della chimica passo per l'Egitto; mi limiterò quindi a esaminare questo paese.

 

Gli « elementi » dei Greci

Verso il 600 a.C. l'estrosa intelligenza dei Greci cominciava ad attirare la loro attenzione sulla natura dell'universo e sulla struttura delle sostanze che lo compongono. Gli studiosi greci, o « filosofi » (amanti della saggezza) si preoccupavano non tanto della tecnologia o della possibilità di applicazioni pratiche, quanto del « perché * dei vari fenomeni. In breve, furono i primi di cui si possa dire che abbiano studiato quella che oggi
chiameremmo chimica teorica.

Questa teoria ebbe origine con Talete (ca. 640‑546 a.C.). Può darsi che altri Greci prima di Talete, e magari anche altri uomini prima dei Greci, abbiano meditato profondamente, e a ragion veduta, sul significato delle trasformazioni della natura della materia, ma in questo caso i loro nomi e le loro meditazioni sono andati perduti.

Talete era un filosofo greco che viveva a Mileto nella Ionia, territorio sulla costa occidentale, bagnata dall'Egeo, della moderna Turchia. Talete deve essersi posto questa domanda: se una sostanza può trasformarsi in un'altra, come le pietre azzurrognole che si trasformano in rame rosso, qual è la vera natura della sostanza? P, pietra o rame? Oppure si tratta di qualche cosa di completamente diverso? t possibile trasformare qualsiasi sostanza in qualsiasi altra sostanza (magari per fasi successive), in modo che tutte le sostanze risultino aspetti diversi di una sola materia fondamentale?

A Talete sembrava che la risposta all'ultima domanda dovesse essere positiva, se non altro perché così si sarebbe potuto introdurre nell'universo un ordine e una semplicità basilari. Rimaneva quindi da stabilire quale potesse essere la sostanza, o elemento, di base *.

Talete decise che l'elemento in questione era l'acqua. Tra le sostanze, l'acqua sembrava essere quella presente in maggiore quantità. L'acqua circondava la terra; permeava l'atmosfera sotto forma di vapore; goccio. lava attraverso il sottosuolo e senza di essa la vita era impossibile. Talete immaginava che la Terra fosse un disco piatto, sormontato da un emisfero di cielo e galleggiante su un oceano infinito di acqua.

La congettura di Talete sull'esistenza di un elemento base che costituisse tutte le sostanze fu accolta con notevole favore da vari filosofi di epoche posteriori. La sua affermazione, secondo cui l'elemento base sarebbe stato l'acqua, venne invece contestata.

* « Elemento » è parola latina di origine incetta. I Greci non si servivano di questo termine, il quale però è talmente importante per la chimica moderna, che non è possibile evitarne l'uso, anche trattando del periodo greco.

Nel secolo dopo Talete il pensiero astronomico arrivò, poco per volta, alla conclusione che il cielo non era un emisfero, ma una sfera completa. La Terra, sferica anch'essa, era sospesa al centro della sfera cava del cielo.

I Greci respingevano l'idea che potesse esistere il vuoto assoluto, o vacuo, e ritenevano di conseguenza che lo spazio compreso tra la Terra sospesa e il firmamento lontano non potesse essere vuoto. Dato che la porzione di spazio tra Terra e cielo direttamente accessibile all'esperienza umana conteneva aria, sembrava ragionevole supporre che tutto lo spazio contenesse aria.

Può darsi che sia stato un ragionamento di questo genere a convincere Il filosofo greco Anassimene, anch'egli di Mileto, ad affermare verso il 570 a.C. che l'elemento dell'universo era l'aria. Secondo lui, verso il centro dell'universo l'aria veniva compressa, trasformandosi in sostanze di tipo più denso e duro, come l'acqua e la terra (figura 2).

D'altra parte, il filosofo Eraclito (ca. 540‑ca. 475 a.C.), della vicina città di Efeso, faceva un ragionamento diverso. Se la caratteristica dell'universo era la trasformazione, si doveva scegliere come elemento una sostanza in cui la trasformazione avesse le caratteristiche più salienti. Questa sostanza, secondo Eraclito, era il fuoco, sempre mutevole e sempre in movimento. Era il principio del fuoco, presente in ogni cosa, a rendere così inevitabile la trasformazione *.

Al tempo di Anassimene I Persiani avevano conquistato la costa ionica. Dopo il fallimento di una rivolta ionica, la dominazione persiana divenne rigida, e sotto l'oppressione le tradizioni scientifiche si estinsero, non prima, tuttavia, che l'emigrazione ionica avesse trapiantato in occidente queste tradizioni. Pitagora di Samo (ca. 582‑ca. 497 a.C.), nato su un'isola al largo della Ionia, lasciò Samo nel 529 a.C. e si trasferì nell'Italia meridionale, dove il suo insegnamento diede vita a una importante scuola di pensiero.

Il più importante tra i seguaci dell'insegnamento di Pitagora fu il filosofo greco Empedocle (ca. 490‑ca. 430 a.C.), nato in Sicilia. Anch'egli affrontò il problema dell'elemento che doveva essere alla base della costituzione dell'universo. Di fronte all'impossibilità di scegliere tra le alternative proposto dai filosofi ionici, Empedocle trovò una soluzione di compromesso.

* E' facile sorridere di questi concetti primitivi, ma In realtà le intuizioni dei Greci erano molto profonde. Immaginiamo di sostituire ad « aria », « acqua », « terra » e « fuoco » le espressioni molto simili « gas », « liquido », « solido » ed « energia ». P, vero che, se raffreddati, i gas si condensano, trasformandosi in liquidi, e in solidi, se raffreddati ulteriormente. La situazione assomiglia molto a quella descritta da Anassimene. E le opinioni di Eraclito sul fuoco sono molto simili alle teorie moderne sull'energia, concepita, nello stesso tempo, come causa e come effetto delle trasformazioni chimiche.

Perché doveva esistere un solo elemento? Perché non ‑quattro? Poteva esserci il fuoco di Eraclito, l'aria di Anassimene, l'acqua di Talete e la terra, aggiunta dallo stesso Empedocle.

La dottrina dei quattro elementi fu accettata dal più grande dei filosofi greci, Aristotele (384‑322 a.C.). Aristotele non credeva che gli elementi fossero letteralmente le quattro sostanze citate. Egli non pensava, cioè che l'acqua che possiamo toccare e sentire fosse effettivamente l'elemento « acqua »: era semplicemente la sostanza reale più somigliante ad esso. Aristotele considerava gli elementi come combinazioni di due coppie di caratteri opposti: caldo e freddo, asciutto e bagnato. Non riteneva che un carattere potesse, combinarsi con il proprio opposto, cosicché nel suo schema erano possibili quattro combinazioni, ciascuna delle quali rappresentava un diverso elemento. Caldo‑e‑asciutto era il fuoco, caldo‑e‑bagnato l'aria, freddo‑e‑asciutto la terra, e freddo‑e‑bagnato l'acqua.

Aristotele fece ancora un passo avanti. Ciascun elemento possedeva una serie di proprietà congenite. Così, ad esempio, era naturale che la terra cadesse e che il fuoco salisse. I corpi celesti, tuttavia, possedevano proprietà che sembravano differire da quelle di qualsiasi sostanza terrestre. Invece di cadere o di salire, i corpi celesti sembravano descrivere attorno alla Terra orbite circolari costanti.

Pertanto Aristotele argomentò che il firmamento doveva essere composto di un quinto elemento, che chiamò « etere » (da una parola che significa "brillare", dato che la proprietà più caratteristica dei corpi celesti era di essere luminosi). Poiché il firmamento sembrava immutabile, Aristotele giudicò l'etere perfetto, eterno e incorruttibile, a differenza dei quattro elementi imperfetti della Terra stessa.

Il concetto dei quattro elementi dominò le menti dell'umanità per duemila anni. Anche se ora è morto, per quanto riguarda la scienza, il concetto vive ancora nelle nostre espressioni comuni. Parliamo, ad esempio, dello « scatenarsi degli elementi », quando vogliamo dire che il vento (aria) e le onde (acqua) infuriano sul mare in burrasca. Per quanto riguarda il « quinto elemento » (l'etere), questa espressione diventa quinta essentiain latino, e noi ne riconosciamo ancora la perfezione aristotelica quando parliamo della «quintessenza» di qualsiasi cosa, per indicare che si tratta della forma più pura e concentrata della sostanza in questione.

Fig. 2. La cosmologia degli alchimisti comprendeva i « quattro elementi »'
di, Aristotele e presentava un parallelo tra regno celeste e regno terrestre:
gli stessi simboli rappresentano sia i metalli che i pianeti. Questa mappa
è tratta da Robert Fludd (1574‑1637), il quale volse le spalle allo spirito
scientifico dei suoi tempi e si dedicò alle scienze occulte.

 

Gli « atomi » dei Greci

Tra i filosofi greci sorse un'altra questione importante, quella relativa alla divisibilità della materia. I frammenti di una pietra spaccata in due, o anche ridotta in polvere, erano sempre pietra, e ciascun frammento poteva venire ulteriormente suddiviso. Era possibile prolungare all'infinito questa divisione e suddivisione della materia?

Sembra che il filosofo ionico Leucippo (ca. 450 a.C.) sia stato il primo e mettere in dubbio la convinzione, a prima vista naturale, che qualsiasi pezzo di materia, per quanto piccolo, potesse venire diviso in parti ancora più piccole. Leucippo affermò che si sarebbe ottenuto, a lungo andare, un frammento di dimensioni minime, non suscettibile di ulteriori divisioni.

H suo discepolo Democrito (ca. 470‑ca. 380 a.C.) di Abdera, città dell'Egeo settentrionale, continuò il ragionamento nella medesima direzione, e chiamò atomos (cioè « indivisibili ») le particelle minime della materia; noi abbiamo ereditato questa parola sotto forma di atomo. La dottrina secondo la quale la materia è costituita, in ultima analisi, da particelle piccolissime indivisibili, prende il nome di atomismo.

Democrito riteneva che gli atomi di ciascun elemento fossero diversi per forma e dimensione, e che proprio questa diversità spiegasse le differenti proprietà dei vari elementi. Le sostanze reali che siamo in grado di vedere e di toccare erano composte, secondo Democrito, di miscugli di atomi dei vari elementi, e si poteva trasformare una sostanza in un'altra modificando la natura del miscuglio.

Tutto questo ci sembra straordinariamente moderno, ma Democrito non aveva la possibilità di ricorrere agli esperimenti per dimostrare la validità delle sue teorie. (I filosofi greci non effettuavano esperimenti, ma giungevano alle loro conclusioni con il ragionamento, partendo da premesso fondamentali.)

Per la maggior parte dei filosofi, e specialmente per Aristotele, il concetto che un pezzetto di materia non si potesse dividere in frammenti ancora più piccoli era talmente paradossale che essi si rifiutarono di accettarlo. Quindi la teoria atomistica rimase impopolare e, per i duemila anni successivi al periodo di Democrito, ben pochi ne sentirono parlare.

L'atomismo non morì completamente, tuttavia. Il filosofo greco Epicuro (ca. 342‑270 a.C.) accolse l'atomismo nel suo modo di pensare, e nei secoli successivi l'epicureismo ebbe molti seguaci. Uno di essi fu Il poeta romano Tito Lucrezio Caro (ca. 95‑ca. 55 a.C.), noto, di solito, semplicemente come Lucrezio. Egli espose la dottrina atomistica di Democrito e di Epicuro in una lunga composizione poetica intitolata D# Rerum Natura (« Sulla natura delle cose »), che molti considerano il più bel poema didascalico che sia mai stato scritto.

In ogni caso, mentre le opere di Democrito e di Epicuro sono andate perdute, e di esse rimangono soltanto frammenti e citazioni, il poema di Lucrezio è arrivato intero fino a noi, conservando la teoria atomistica fino all'epoca moderna, la quale ha visto entrare in lizza nuovi metodi scientifici che hanno permesso il definitivo trionfo dell'atomismo.

 

Cap II - L'alchimia

Alessandria

Ai tempi di Aristotele, Alessandro il Grande di Macedonia (regno a nord della Grecia) conquistò il vasto impero persiano. L'impero di Alessandro si sgretolò dopo la sua morte, avvenuta nel 323 a.C., ma i Greci e i Macedoni conservarono il dominio su ampie zone del Medio Oriente nelle quali, nei secoli successivi (che prendono il nome di periodo ellenistico), ebbe luogo un fecondo mescolarsi di culture.

Uno dei generali di Alessandro, Tolomeo, fondò in Egitto un regno, la cui capitale era Alessandria (fondata da Alessandro). Ad Alessandria Tolomeo e suo figlio Tolomeo II edificarono un tempio dedicato alle Muse (il « Museo »), che serviva da istituto di ricerche e da università, come diremmo al giorno d'oggi. Annessa al Museo, fu costituita la più grande biblioteca dei tempi antichi.

L'abilità egiziana nel campo della chimica applicata e la conoscenza greca della teoria si incontrarono e si fusero, ma l'unione non fu completamente vantaggiosa. In Egitto la conoscenza della chimica era strettamente connessa con l'imbalsamazione dei morti e i riti religiosi. Per gli Egiziani, il dío della saggezza, dalla testa di ibis, Thoth, era la fonte di ogni conoscenza chimica. I Greci, colpiti in generale dalla superiore scienza degli Egiziani, identificarono Thoth con il loro Ermete, o Ermes, e accettarono buona parte dei misticismo egiziano.

Gli antichi filosofi ionici avevano separato la religione dalla scienza; il nuovo matrimonio celebrato in Egitto ostacolava seriamente ogni ulteriore progresso scientifico.

Poiché l'arte della kbemeia appariva così intimamente legata alla religione, la gente comune aveva una certa paura delle persone che la praticavano, considerandole seguaci di arti segrete e depositarie di conoscenze pericolose. (L'astrologo con la sua temuta conoscenza del futuro, il chimico con la sua terribile capacità di trasformare una sostanza in un'altra, perfino il sacerdote con i suoi segreti misteriosi per propiziare gli dei e per invocare maledizioni, sono serviti da modelli per le favole popolari a base di maghi, stregoni e incantatori) .

Le persone che erano oggetto di questi timori non sempre se ne risentivano, ma anzi talvolta li incoraggiavano, in quanto accrescevano il loro potere, e forse anche la loro sicurezza. Chi se la sentirebbe, tutto sommato, di offendere un mago?

Il pubblico rispetto, o timore, incoraggiò i seguaci della khemeiaa riempire i loro scritti di simboli misteriosi e oscuri. Fu proprio questo alone di mistero ad accrescere la sensazione che si trattasse di una scienza segreta e potente.

Per esempio, esistevano sette corpi celesti considerati « pianeti » (« vagabondi »), perché la loro posizione, rispetto alle stelle del firmamento, cambiava in continuazione. Sette erano anche i metalli conosciuti: oro, argento, rame, ferro, stagno, piombo e mercurio (figura 2). Era una tentazione irresistibile quella di accoppiarli. Venne il momento in cui l'oro era regolarmente definito « il Sole», l'argento « la Luna », il rame « Venere », e così via. Diventava quindi possibile descrivere le trasformazioni chimiche con una terminologia mitologica.

Ci sono ancora ricordi di questi tempi lontani. Un nome piuttosto antiquato del composto chimico detto attualmente nitrato d'argento è « caustico lunare », evidente indicazione dell'antico legame tra l'argento e la luna. Il mercurio deriva il proprio nome moderno dal pianeta Mercurio. In realtà, il suo nome era, anticamente, hydrargyrumargento liquido »), espressione pressoché identica all'antico inglese « quicksilver » (« argento vivo »).

Questo alone di mistero più o meno liberamente voluto ebbe due effetti spiacevoli. In primo luogo ritardò il progresso, in quanto ciascun ricercatore nel campo della chimica viveva nell'ignoranza, o per lo meno nell'incertezza, in merito a ciò che facevano gli altri, cosicché nessuno poteva trarre utili insegnamenti dagli errori altrui o approfittare delle conquiste realizzate dai colleghi. In secondo luogo, dava a tutti i ciarlatani e imbroglioni la possibilità di spacciarsi per studiosi seri, purché parlassero in maniera abbastanza incomprensibile. Non era possibile distinguere i furfanti dagli uomini di scienza.

Il primo seguace importante della khemeia greco‑egiziana di cui ci sia pervenuto il nome è Bolos di Mendes, città del delta del Nilo, vissuto verso il 200 a.C. Usò nei suoi scritti il nome di Democrito, cosicché viene ricordato come « Bolos‑Democrito », o talvolta come lo «pseudoDemocrito ».

Bolos si dedicò allo studio di quello che doveva diventare uno dei maggiori. problemi della khemeia, la trasformazione di, un metallo in un altro e, in particolare, la trasformazione del piombo o del ferro in oro (trasmutazione).

La teoria dei quattro elementi permetteva di pensare che le varie sostanze dell'universo differissero tra loro esclusivamente nella natura del miscuglio degli elementi. Che si accettasse o meno la teoria atomistica, questa ipotesi sarebbe apparsa valida comunque, dato che gli elementi si sarebbero potuti mescolare sia allo stato di atomi, sia allo stato di materia continua. In effetti, sembravano esistere validi motivi per ritenere che gli elementi stessi fossero intercambiabili. Secondo le apparenze, l'acqua si trasformava in aria mediante l'evaporazione, e l'aria si trasformava di
nuovo in acqua sotto forma di pioggia. Riscaldando il legno, questo si trasformava in fuoco e vapori (una forma di aria) e così via.

Perché, dunque, considerare impossibile una trasformazione qualsiasi? Evidentemente, si trattava soltanto di trovare la tecnica adatta. Era possibile trasformare una pietra rossiccia in ferro grigio per mezzo di una tecnica che non era stata ancora scoperta ai tempi di Achille, il quale era stato costretto a servirsi di un'armatura di bronzo. Perché, allora, il ferro grigio non si sarebbe dovuto convertire ulteriormente in oro giallo, grazie a una qualche tecnica non ancora scoperta ai tempi di Alessandro il Grande?

Per secoli e secoli molti chimici si sono sforzati onestamente di scoprire la tecnica per produrre l'oro. E` indubbio, tuttavia, che alcuni di essi trovassero molto più facile e di gran lunga più vantaggioso limitarsi a fingere di aver scoperto la tecnica, per poi sfruttare il prestigio e l'influenza così ottenuti. Esempi di truffe di questo genere sono sopravvissuti fino ai tempi moderni, ma in questo libro non ci occuperemo di questo aspetto della khemeia.

Nei suoi scritti Bolos forniva, a quanto pare, i particolari di metodi per la produzione dell'oro, ma può anche darsi che non si trattasse di una truffa vera e propria. P, possibile, ad esempio, costituire una lega di rame e zinco che dà luogo all'ottone, il quale possiede il colore giallo dell'oro. A molto probabile che, per molti antichi studiosi, la preparazione di un metallo dal colore dell'oro equivalesse alla produzione di oro vero e proprio.

Ad ogni modo, nell'epoca romana, l'arte della khemeia subì un notevole regresso, insieme alla decadenza generale della scienza greca. Dopo il 100 d.C. non fu scoperto praticamente nulla di nuovo, e si manifestò una tendenza crescente all'interpretazione sempre più mistica degli scrittori più antichi.

Verso il 300 d.C., per esempio, uno scrittore di origine egiziana dal nome di Zosimo scrisse un'enciclopedia in ventotto volumi dedicata a tutte le conoscenze nel campo della khemeia accumulatesi nel cinque o sei secoli antecedenti, il cui contenuto valeva ben poco. E` vero che si trova, di tanto in tanto, un brano contenente qualche cosa di nuovo, come quello che si riferisce, a quanto pare, all'arsenico; sembra inoltre che Zosimo abbia descritto dei metodi per la preparazione dell'acetato di piombo, e che sia stato al corrente del sapore dolce di questo composto velenoso. (È detto « zucchero di piombo » anche al giorno d'oggi.)

Il colpo di grazia lo diede la paura. L'imperatore romano Diocleziano temeva veramente che la khemeia potesse riuscire a produrre oro a buon mercato rovinando così la scricchiolante economia dell'impero, già avviato alla decadenza. Ai tempi di Zosimo, Diocleziano ordinò la distruzione di tutti gli scritti dedicati alla khemeia, il che contribuisce a spiegare perché così pochi testi siano arrivati fino a noi.

Un'altra ragione è che, con il consolidarsi dei cristianesimo, la « scienza pagana » cominciò a esser considerata con sospetto. Il Museo e la biblioteca di Alessandria subirono gravi danni in seguito a tumulti cristiani che ebbero luogo dopo il 400 d.C. L'arte della khemeia, dati i suoi stretti legami con l'antica religione egiziana, era particolarmente sospetta. e si rifugiò praticamente nella clandestinità.

Da un certo punto di vista, la scienza greca abbandonò completamente A mondo romano. Il cristianesimo si era diviso in varie sette, una delle quali era detta dei Nestoriani, poiché i suoi aderenti seguivano gli insegnamenti di un monaco siriano di nome Nestorio, vissuto nel quinto secolo. I Nestoriani erano perseguitati dai Cristiani ortodossi di Costantinopoli, e un certo numero di essi fuggì in Oriente, rifugiandosi in Persia. I monarchi persiani li accolsero molto favorevolmente (forse con la speranza di utilizzarli contro Roma).

I Nestoriani portarono con sé in Persia la scienza greca, sotto forma, tra l'altro, di molti libri di alchimia. Il culmine del loro potere e della loro influenza fu raggiunto verso il 550 d.C.

 

Gli Arabi

Nel settimo secolo tuttavia, comparvero sulla scena gli Arabi, i quali erano rimasti, fino a questo momento, isolati nella loro penisola desertica.

Ora però, sospinti dalla nuova religione dell'Islam, fondata da Maometto, cominciarono a diffondersi in tutte le direzioni. I loro eserciti conquistatori si impossessarono di estesi territori dell'Asia occidentale e dell'Africa settentrionale. Nel 641 d.C. invasero l'Egitto, occupandone il territorio con una serie di fulminee vittorie e, negli anni successivi, la Persia subì la stessa sorte.

In Persia. in particolare, gli Arabi incontrarono ciò che rimaneva della tradizione della scienza greca, e ne furono affascinati. Può anche darsi che il loro interessamento sia stato incoraggiato da una considerazione estremamente pratica. Nel 670 d.C., durante l'assedio di Costantinopoli (la città più grande e meglio fortificata della cristianità), gli Arabi erano stati respinti dal « fuoco greco », una miscela chimica che bruciava emettendo forte calore, con una fiamma che l'acqua non riusciva a spegnere, e che aveva distrutto le navi di legno della flotta araba. Secondo la tradizione, il fuoco greco era stato preparato da Callinico,  un esperto di khemeiafuggito dal nativo Egitto (o forse dalla Siria) davanti alle armate degli Arabi invasori.

In arabo khemeiadiventò al‑kimiya (il prefisso al corrisponde all'articolo determinativo), parola che fu in seguito adottata dai popoli europei (in italiano, alchimia); chi si dedicava al suo studio fu chiamato alchimista. Col termine di alchimia si indica attualmente l'intera evoluzione della storia della chimica, a partire dal 300 circa a.C. fino al 1600 d.C., per un periodo di quasi duemila anni.

Dal 300 d.C. al 1100 d.C. la storia della chimica, per quanto riguarda l'Europa, è praticamente inesistente. Dopo il 650 d.C. la conservazione e il progresso dell'alchimia greco‑egiziana passarono completamente in mano agli Arabi, dove restarono per cinque secoli. Sono rimaste tracce di questo periodo nel buon numero di termini chimici che derivano dall'arabo, come alambicco, alcalino, alcool, nafta, zirconio e così via.

L'alchimia araba diede il meglio di sé all'inizio del periodo della dominazione musulmana. Infatti, il più capace e rinomato degli alchimisti arabi fu Giabir ibn‑Hayyan (ca. 760‑ca. 815), noto agli Europei, vari secoli più tardi, come « Geber ». Visse mentre l'impero arabo (sotto il famoso Harun ar‑Rashíd delle « Mille e una notte ») era al massimo del suo splendore.

I suoi scritti sono numerosi, e il suo stile relativamente chiaro. (E` possibile che molti dei libri che portano il suo nome siano stati scritti più tardi da altri alchimisti, e da questi attribuiti a lui) Descrisse il cloruro di ammonio e la preparazione del piombo bianco. Distillò l'aceto per ottenere l'acido acetico, concentrato, che era l'acido più forte noto agli antichi. Riuscì perfino a preparare l'acido nitrico diluito che, almeno in potenza, era molto più forte.

La massima influenza di Giabir, tuttavia, si esercitò attraverso i suoi. studi sulla trasmutazione dei metalli. Egli riteneva che il mercurio fosse il metallo per eccellenza, dato che la sua natura liquida lasciava supporre che, nella sua composizione, entrasse una quantità minima di terra. Lo zolfo, poi, sembrava possedere il dono straordinario della combustibilità (e inoltre aveva il colore giallo dell'oro). Giabir pensava che i vari metalli fossero composti di differenti miscugli di mercurio e di zolfo., cosicché non restava che scoprire una qualche sostanza in grado di agevolare la mescolanza del mercurio e dello zolfo nelle proporzioni adatte, per produrre l'oro.

Secondo un'antica tradizione, questa sostanza capace di favorire la trasmutazione era una polvere secca. I Greci la chiamavano xeríon, dalla parola greca che significa « asciutto ». Gli Arabi trasformarono questa parola in al‑iksir, termine che passò agli Europei nella forma di elíxir.

A ulteriore testimonianza della sua ipotetica natura asciutta e terrosa, era nota comunemente in Europa come pietra filosofale. (E`da ricordare che, fino al 1800, i « filosofi » erano quelli che al giorno d'oggi chiamiamo « scienziati ».)

Era inevitabile che lo straordinario elisir godesse anche di altre meravigliose proprietà, e si diffuse la convinzione che esso servisse come cura per tutte le malattie, e non era affatto escluso che potesse conferire l'immortalità. Si parlava quindi di elisir di lunga vita, e i chimici che si erano stancati di inseguire il miraggio dell'oro potevano dedicarsi F ricercare l'immortalità, con le stesse prospettive di successo.

In effetti, nei secoli che seguirono, l'alchimia si sviluppò in due filoni, sostanzialmente paralleli: uno mineralogico, il cui obiettivo fondamentale era l'oro, e uno medico, mirante alla scoperta di una panacea.

A Giabir, con abilità e, più tardi, reputazione quasi uguale alla sua,. fece seguito l'alchimista persiano Al‑Razi (ca. 850‑ca. 925), noto successiva mente in Europa come « Rhazes ». Anch'egli ‑ci ha lasciato accurate descrizioni del proprio lavoro, quali ad esempio la preparazione del gesso da presa e l'indicazione del suo possibile impiego nella costruzione di forme per l'immobilizzazione delle ossa fratturate. Studiò e descrisse anche l'antimonio metallico. Al mercurio (che era volatile, cioè in grado di formare vapore se riscaldato) e allo zolfo (che era infiammabile) egli aggiunse, come terzo principio della composizione dei solidi in generale, il sale che non era né volatile, né infiammabile.

Al‑Razi si interessava alla medicina più di Giabir, e questa spinta verso gli aspetti medici dell'alchimia proseguì con, il persiano Ibn Sina (979* 1037), assai più noto come Avicenna, 1 corruzione latinizzata del suo nome. Avicenna fu, in realtà, il medico più importante che sia vissuto nel periodo compreso tra l'impero romano e la nascita della scienza moderna. Dai fallimenti susseguitisi per secoli e secoli  aveva imparato abbastanza per dubitare della possibilità di arrivare all'oro partendo da altri metalli. In questo, tuttavia, era e rimase un'eccezione tra gli alchimisti.

 

Il risveglio dell'Europa

Dopo Avicenna la scienza araba declinò rapidamente. Era un'epoca di incertezza per il mondo islamico, e il disordine andò aumentando con le invasioni e le vittorie militari dei Turchi e dei Mongoli, popolazioni relativamente barbariche. La palma della supremazia scientifica abbandonò definitivamente, dopo tre secoli, gli Arabi e passò all'Europa occidentale.

1 primi contatti relativamente pacifici e stretti dei popoli dell'Europa occidentale con il mondo islamico furono conseguenza delle Crociate. La prima Crociata fu bandita nel 1096, e i Cristiani occidentali conquistarono Gerusalemme nel 1099. Successivamente, un regno cristiano ebbe vita per quasi due secoli sulla costa siriana, come un'isola circondata dal mare musulmano. Ci fu una certa fusione di culture, e il flusso sottile, ma continuo, dei Cristiani che ritornavano in Europa occidentale portava con sé una certa ammirazione per la scienza araba. Nello stesso periodo i Cristiani di Spagna andavano ricuperando gradualmente il territorio conquistato dall'Islani al principio dell'ottavo secolo, e così facendo acquistavano, insieme all'Europa cristiana in genere, una maggior consapevolezza della brillante civiltà moresca che si era sviluppata in Spagna.

Gli Europei appresero che gli Arabi possedevano libri di grande valore, che erano stati tradotti dai testi originali greci, come ad esempio le opere di Aristotele, oltre a scritti di loro propria produzione, come le opere di Avicenna.

Nonostante una certa riluttanza a prendere in considerazione le opere di quello che veniva giudicato nemico mortale e irriducibile, acquistò vigore il movimento per la traduzione in latino delle opere del mondo arabo, allo scopo di renderle accessibili agli studiosi europei. Uno dei primi fautori di questo movimento fu il dotto francese Gerberto (ca. 9401003), che sarebbe diventato Papa Silvestro II nel 999.

Lo studioso inglese Roberto di Chester, la cui attività fiorì tra il 1140 e il 1150, fu uno dei primi a tradurre in latino un testo arabo di alchimia. Portò a termine l'opera nel 1144, e venne imitato da altri; il più grande dei traduttori fu il dotto italiano Gerardo da Cremona (ca. 1114‑87), il quale trascorse buona parte della propria esistenza in Spagna, a Toledo, che era stata presa dalle forze cristiane nel 1085. Tradusse novantadue testi arabi, alcuni dei quali erano estremamente. lunghi.

A partire dal 1200 circa, dunque, gli studiosi europei ebbero la possibilità di assorbire le conoscenze alchimistiche dei passato e di cercare di farle progredire, incontrando naturalmente almeno altrettanti vicoli ciechi che vie maestre del progresso.

Il primo alchimista europeo importante fu Alberto di Bollstadt (ca. 120080), meglio conosciuto sotto il nome di Alberto Magno (« Alberto il Grande »). Studiò profondamente le opere di Aristotele e fu merito suo se la filosofia aristotelica acquistò tanta importanza nella dottrina del tardo Medioevo e degli albori dell'età moderna.

Nel descrivere i suoi esperimenti di alchimia, Alberto Magno trattò dell'arsenico con tanta chiarezza che, a volte, gli viene attribuita la scoperta di questa sostanza, anche se, almeno in forma impura, essa era nota probabilmente anche ad alchimisti più antichi.

Contemporaneo di Alberto Magno fu il monaco e studioso inglese Rug­gero Bacone (1214‑92), famoso al giorno d'oggi. soprattutto per aver chiaramente espresso la convinzione che. per aspirare al progresso, era necessario fondarsi sull'esperienza e applicare alla scienza metodi matematici. Aveva ragione, ma i tempi non erano ancora completamente maturi.

Bacone cercò di scrivere un'enciclopedia universale dei sapere, e riportò nei suoi scritti la più antica descrizione della polvere da sparo che si conosca. P, talvolta considerato, a torto, lo scopritore della polvere da sparo: il vero scopritore è invece sconosciuto.

Col tempo, la polvere da sparo contribuì a distruggere l'ordine della società medioevale, fornendo agli eserdti un mezzo per radere al suolo le mura dei castelli, e ai fanti la possibilità di abbattere i cavalieri muniti di armatura. Fu il primo simbolo di quel progresso tecnologico che avrebbe condotto gli eserciti europei, nei cinque secoli dal 1400 al 1900, alla conquista degli altri continenti; conquista che soltanto le attuali generazioni hanno visto rovesciare.

Una vena maggiormente mistica compare nelle opere di alchimia attribuite agli studiosi spagnoli Arnoldo da Villanova (ca. 1235‑ca. 1311) e Raimondo Lully (1235‑1315), quantunque sia dubbio che essi ne siano gli autori. In questi scritti aveva importanza preponderante la trasmutazione, e si affermava perfino, secondo la tradizione, che Lully avesse prodotto oro per il prodigo Edoardo Il d'Inghilterra.

Il nome del più importante degli alchimisti medioevali, tuttavia, non ci è noto: i suoi scritti portano infatti il nome di Geber, l'alchimista arabo vissuto sei secoli prima. Di questo « falso Geber » non si sa niente, tranne che era, probabilmente, spagnolo e che scrisse verso il 1300. Fu il primo a descrivere l'acido solforico, la sostanza più importante impiegata dalle industrie moderne (dopo l'acqua, l'aria, il carbone e il petrolio). Descrisse anche la. preparazione dell'acido nitrico concentrato. Questi acidi si ottenevano dai minerali, mentre gli acidi già noti precedentemente, come l'acido acetico dell'aceto, derivavano dal mondo vegetale.

Questa scoperta degli acidi minerali forti costituì il più importante progresso compiuto dalla chimica dopo la scoperta della tecnica dell'estrazione del ferro dal minerale, avvenuta circa tremila anni prima. Grazie ai forti acidi minerali, si apriva agli Europei la possibilità di effettuare molte reazioni chimiche e di dissolvere molte sostanze, operazioni che gli antichi Greci e gli Arabi non avrebbero potuto mai compiere con l'aceto, che era l'acido più forte di cui potessero disporre.

Per il benessere dell'umanità, l'importanza degli acidi minerali era in realtà molto maggiore di quella dell'oro, anche ammettendo che si fosse potuto ottenere il prezioso metallo per trasmutazione. Il valore dell'oro sarebbe diminuito non appena il metallo fosse diventato abbondante, mentre il valore degli acidi minerali aumenta di pari passo con l'accrescersi delle disponibilità e con la riduzione del loro costo. Tuttavia, la natura umana è tale che gli acidi minerali non fecero molta impressione, mentre si continuava a cercare l'oro con avidità.

A questo punto però, dopo un inizio promettente, l'alchimia cominciò a degenerare per la terza volta, come era già successo prima tra i Greci e poi presso gli Arabi. La ricerca dell'oro divenne appannaggio quasi esclusivo degli imbroglioni, anche se, fino al diciassettesimo secolo, alcuni grandi scienziati (quali, ad esempio, Boyle e Newton) non seppero resistere alla tentazione di raggiungere il successo per questa via.

Ancora una volta, come mille anni prima ai tempi di Diocleziano, fu proibito lo studio dell'alchimia, un po' per paura che qualcuno riuscisse davvero a produrre l'oro, e un po' per indignazione nei confronti dei truffatori. Papa Giovanni XXII proclamò un divieto del genere nel 1317, e gli alchimisti onesti, costretti a lavorare nella clandestinità, divennero più misteriosi che mai, mentre gli imbrogli basati sulla chimica continuavano ad avere il massimo successo.

Ma il vento dell'evoluzione spirava sempre più forte sull'Europa. 1 resti dell'impero romano d'oriente (o « impero bizantino »), con capitale a Costantinopoli, erano chiaramente entrati in agonia. Nel 1204 la città aveva subìto un brutale saccheggio ad opera dei Crociati dell'Europa occidentale, e buona parte della documentazione sulla dottrina greca, che, almeno in quella città, era rimasta intatta fino a quel momento, andò perduta per sempre.

La città fu riconquistata dai Greci nel 1261, ma ormai non era più che l'ombra di se stessa. Nei due secoli successivi, gli eserciti dei conquistatori turchi si avvicinarono inesorabilmente alla città, finché nel 1453 Costantinopoli cadde definitivamente in mano ai Turchi, ai quali appartiene ancora. Sia prima che dopo la conquista, molti scienziati greci fuggirono in Europa occidentale, portando con sé quello che erano riusciti a salvare nelle rispettive biblioteche. L'Occidente entrò in possesso soltanto di alcuni miseri resti della scienza greca, ma anche quel poco che si poté recuperare ebbe un immenso effetto di stimolo alle ricerche.

Questo periodo fu anche quello delle grandi esplorazioni geografiche, agevolate dalla scoperta della bussola, che risale al tredicesimo secolo. Fu esplorata la costa africana, e l'intero continente venne circumnavigato nel 1497. Una volta aperta la rotta dell'India, l'Europa era in grado di commerciare direttamente con l'Estremo Oriente, aggirando il mondo dell'Islam. Ancora più sensazionali furono i viaggi di Cristoforo Colombo, grazie ai quali, dal 1492 al 1504, ci si rese conto ben presto (anche se lo stesso Colombo non lo riconobbe mai) che era stata scoperta una nuova metà del mondo.

Gli Europei stavano scoprendo tante cose ignorate dai grandi filosofi greci che si fece strada, inevitabilmente, la convinzione che, dopo tutto, i Greci non fossero stati dei superuomini onniscienti. Gli Europei, già dimostratisi superiori nella navigazione, avrebbero potuto benissimo rivelarsi superiori anche in altri campi. Veniva così rimosso un certo blocco psicologico, e divenne più facile mettere in dubbio le conclusioni raggiunte dagli antichi.

In questa stessa « età delle esplorazioni » un inventore tedesco, Johann Gutenberg (ca. 1397‑ca. 1468) aveva realizzato la prima macchina per la stampa veramente efficiente, servendosi di caratteri mobili che potevano essere combinati insieme e riutilizzati per stampare qualsiasi libro. Per la prima volta nella storia si ebbe la possibilità di produrre libri a buon mercato e in gran quantità, senza dover temere errori di copiatura (quantunque fossero possibili, naturalmente, gli errori di composizione). Grazie alla stampa, le teorie impopolari non sono necessariamente destinate all'estinzione per mancanza di volonterosi disposti ad affrontare la laboriosa fatica di ricopiarne i testi. Uno dei primi libri pubblicati a stampa fu infatti il poema di Lucrezio (cfr. p. 11), che diffuse in tutta l'Europa la dottrina atomistica.

L'anno 1543 vide la pubblicazione di due libri rivoluzionari che, prima dell'invenzione della stampa, sarebbero stati ignorati, probabilmente, dai pensatori ortodossi. Ora però si diffusero ovunque, e non potevano essere trascurati. Uno di essi era il libro dell'astronomo polacco Niccolò Copernico (1473‑1543), il quale sosteneva che il centro dell'universo era il Sole, e non la Terra, come insegnavano i grandi astronomi greci. L'altro libro, scritto dall'anatomista fiammingo Andrea Vesalio (1514‑64), descriveva l'anatomia umana con precisione senza precedenti. Si basava sulle osservazioni dello stesso Vesalio, e respingeva molte delle convinzioni che risalivano ad antiche fonti greche.

Questo simultaneo rovesciamento dell'astronomia e della biologia greca segnò l'inizio della «rivoluzione scientifica », anche se le teorie greche resistettero ancora, in alcuni ambienti, per un secolo e più. Questa rivoluzione penetrò solo lentamente nel mondo dell'alchimia, ma si fece sentire abbastanza tanto nell'aspetto mineralogico della scienza, quanto in quello medico.

 

La fine del1'alchimia

Lo spirito nuovo compare nelle opere di due autori contemporanei, medici entrambi , uno tedesco ‑ Georg Bauer (1494‑1555), e l'altro svizzero ‑Theophrastus Bombastus von Hohenheim (1493‑1541).

Bauer è più conosciuto come Agricola che, in latino (come Bauer in tedesco), significa « contadino ». Cominciò a interessarsi alla mineralogia studiando i possibili rapporti tra questa scienza e le medicine. In realtà, il rapporto tra la medicina e i minerali e la combinazione tra medico e mineralogo si sarebbero rivelate caratteristiche salienti dell'evoluzione della chimica nei due secoli e mezzo successivi. Il libro di Agricola De Re Metallica (« Sulla metallurgia »)pubblicato nel 1556, contiene un sommario di tutte le informazioni pratiche ottenibili dai minatori di quell'epoca.

Il libro, scritto con chiarezza e dotato di magnifiche illustrazioni di attrezzature minerarie, ebbe subito grande popolarità e, a dire il vero, ancora oggi non sfigura tra i classici della scienza *. Con De Re Metallica, che rimane fino al 1700 il testo più importante di tecnologia chimica, nasce la scienza della mineralogia. (Prima di Agricola, il miglior libro di metallurgia e di chimica applicata In generale era stato scritto dal monaco (probabilmente greco) Teofilo, vissuto verso il 1000 d.C.)

* E` degno di nota il fatto che l'unica traduzione in lingua inglese dell'opera di Agricola, pubblicata nel 1912, fu eseguita dall'ex‑presidente degli Stati Uniti Herbert Hoover (ingegnere minerario di professione) e da sua moglie. Ne esiste una bella edizione (Dover), con illustrazioni tratte dall'originale.

Von Hohenheim, da parte sua, è più conosciuto come Paracelso, soprannome che si era scelto personalmente, e che significa « migliore di Celso ». Celso era stato uno scrittore romano di testi di medicina, le cui opere, pubblicate da poco in un'edizione a stampa, erano oggetto di una diffusa idolatria che Paracelso riteneva ingiustificata.

Come l'Avicenna di cinque secoli prima (cfr. p. 17), Paracelso venne a simboleggiare il trasferimento dall'oro alla medicina degli obiettivi fondamentali dell'alchimia. La ragion d'essere dell'alchimia, secondo Paracelso, non consisteva nella scoperta di tecniche per la trasmutazione, ma nella preparazione di medicine con le quali curare le malattie. Per questo scopo nei tempi andati si usavano prevalentemente prodotti del mondo vegetale, ma Paracelso era fermamente convinto dell'efficacia dei minerali come medicinali.

Nonostante la scarsa importanza da lui attribuita alla trasmutazione, Paracelso era un alchimista della vecchia scuola. Accettava infatti i quattro elementi dei Greci e i tre princìpi (mercurio, zolfo e sale) degli Arabi.

Cercò insistentemente la pietra filosofale, in quanto elisir di lunga vita, e sostenne perfino di averla trovata. Scoprì inoltre, con maggior verosimiglianza, lo zinco metallico, del quale viene talvolta considerato le scopritore, quantunque sotto forma di minerale e di lega con il rame (ottone) lo zinco fosse conosciuto anche nei tempi antichi.

Per mezzo secolo dopo la sua morte, Paracelso rimase un personaggio molto discusso. I suoi seguaci aumentarono il contenuto mistico delle sue teorie, riducendole, sotto certi punti di vista, a una specie di magia nera. Questa corruzione fu aspramente criticata dai fautori di un'alchimia fondata su basi sempre più solide di chiarezza e di razionalità.

Nel 1597, ad esempio, l'alchimista tedesco Andreas Libau (ca. 1540‑1616), il cui nome è più conosciuto nella forma latinizzata di Libavio, pubblicò la sua Alchemia. L'opera era un sommario delle realizzazioni medioevali nel campo dell'alchimia, e può essere considerata il primo testo di chimica degno del nome, poiché l'autore scriveva con chiarezza e senza misticismo. In sostanza, egli attaccava aspramente le oscure teorie di coloro che definiva « paracelsiani », per quanto fosse d'accordo cm Paracelso nel ritenere che scopo principale dell'alchimia fosse quello di servire da ancella della medicina.

Libavio fu il primo a descrivere la preparazione dell'acido cloridrico, del tetracloruro di stagno e del solfato di ammonio. Illustrò anche la preparazione dell'acqua regia (« acqua reale »), miscela di acido nitrico e di acido cloridrico, il cui nome deriva dalla proprietà di essere in grado di intaccare l'oro. Propose perfino l'ipotesi per cui si sarebbero potute identificare le sostanze minerali dalla forma dei cristalli ottenuti facendo evaporare le rispettive soluzioni.

Ciò nonostante Libavio era convinto che la trasmutazione fosse possibile e che la scoperta di metodi per la produzione dell'oro fosse un obiettivo importante dello studio della chimica.

Un testo più specializzato fu pubblicato nel 1604 da un editore tedesco di nome Jobann Thoelde (sul conto del quale non si hanno altre notizie), che lo attribuiva a un monaco medioevale chiamato Basilio Valentino. P, quasi certo però che questo fosse uno pseudonimo dello stesso Thoelde. Il libro, intitolato Il carro trionfale dell'antimonio, trattava dell'utilizzazione, nel campo della medicina, di questo metallo e dei composti da esso derivati.

In epoca ancora successiva, il chimico tedesco Johann Rudolf Glauber (1604‑68) scoprì un metodo per la produzione dell'acido cloridrico per effetto dell'azione dell'acido solforico sul sale comune. Dalla reazione ottenne un residuo, il solfato di sodio, che ancor oggi si chiama « sale di Glauber ».

Glauber concentrò l'attenzione su questa sostanza, studiandola a fondo e osservandone le proprietà lassative. la chiamò sai mirabile (« sale

meraviglioso »), e cominciò a smerciarla come cura universale, quasi un elisir di lunga vita. Glauber si dedicò alla produzione e alla vendita di questo composto, come pure di altre sostanze che riteneva dotate di virtù medicinali, e questa attività gli procurò l'agiatezza. Come genere di vita era meno teatrale della ricerca dell'oro, ma era più utile e più redditizio. La realtà della vita economica si fece sentire anche da chi era sordo alle argomentazioni scientifiche. Lo studio dei minerali e della medicina era troppo utile e vantaggioso perché si potesse continuare a perder tempo nella sciocca e interminabile danza dell'oro.

In effetti, durante il diciassettesimo secolo, l'alchimia andò perdendo gradualmente la propria importanza, finché nel diciottesimo secolo si trasformò in quella che oggi chiameremmo chimica.

 

Fonte: http://hist.science.free.fr/science/docs_ital/StoriaChimica.rtf
sito web: http://hist.science.free.fr/

Autore del testo: F.Soso

 

 

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