Atlantide

 

 

 

Atlantide

 

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I Miti di celluloide


ATLANTIDE


Atlantide ha suscitato l’interesse della cinematografia fin dalle sue origini.
Con il suo millenario mistero ha contribuito a sviluppare la fantasia per la realizzazione d’opere sia nei generi romantico-avventurieri che in quelli definiti «peplum» (da peplo, tunica femminile usata in antichità), ovvero che s’ispiravano ai personaggi e luoghi dei miti greco-romano o biblico, incentranti per esempio sulle imprese di Maciste od Ercole, fino ai kolossal hollywoodiani come I dieci comandamenti (1923 e 1956), Sansone e Dalila (1956), Quo Vadis (1951), Ben Hur (1959), Cleopatra (1963), Spartacus (1960).

Tuttavia l’ispirazione per le sceneggiature della maggior parte dei film con soggetto Atlantide non è derivante, come si potrebbe immaginare, dalla cultura tradizionale o dalla letteratura classica.
Il mito d’Atlantide prenderà una piega a cui Platone non avrebbe mai pensato.

Nel febbraio del 1919 fu pubblicato in Francia L’Atlantide, il secondo romanzo di Pierre Benoit. Autore di romanzi d’avventura dai mille enigmi, scrittore fecondo riuscì a mantenere la media di un libro l’anno dato alle stampe.
Citiamo tra altri Il Lago salato (Le Lac Salé, 1921), Il Pozzo di Giacobbe (Le puits de Jacob, 1925), Il Sole di mezzanotte (Le Soleil de Minuti, 1930), La signora del West (La dame de l’Ouest, 1936), I Dintorni di Aden (Les Environs d’Aden, 1940), Il Commendatore (Le Commandeur, 1960).
Le storie di Benoit hanno celebrato spesso la donna con una piccola civetteria: nei suoi oltre quaranta racconti tutte le protagoniste femminili hanno avuto il nome con l’iniziale la lettera A (Aurore, Antinéa, Ariane, Agate, Adèle, Aréthuse, ecc.).
Il suo primo romanzo, Koenigsmark (1918), avrà il privilegio di inaugurare la collezione dei Libri Tascabili della casa editrice Hachette da cui porta ancora oggi il numero 1.

Nato ad Albi nel 1886 e morto a Saint Jean-de-Luz nel 1962, visse nel nord Africa francese dal 1892 al 1907, dove suo padre fu intendente militare, prima a Tunisi e poi ad Algeri.
E proprio in quelle colonie francesi che Pierre Benoit visse parte della sua infanzia.
In quegli anni conobbe le teorie del geografo francese E. F. Berlioux pubblicate nel 1874 ed approfondita in «L’Atlas primitif et l’Atlantis», dove ipotizzava l’esistenza nel Sahara occidentale, in tempi preistorici, di un mare denominato Sahariano e localizzava Atlantide nell’area della catena montuosa del Hahggar, nel sud dell’Algeria in pieno deserto, zona tra l’altro allora ancora inesplorata e protetta dai Tuareg.

Benoit ebbe occasione di ascoltare alcune leggende popolari Tuareg, come quella della maga che vive in un lussureggiante giardino nella montagna Garet-el-Djenoun (la montagna degli Spiriti della Solitudine): nessun uomo che si era inoltrato alla ricerca della maga, era tornato indietro. Alcune sue ricerche storiche riportarono dell’esistenza di una mitica regina tuareg Tin Himan, vissuta nel quarto secolo d.C. identificata da taluni con Cleopatra Selene, figlia di Cleopatra e Marco Antonio.
In quest’ambiente crebbe l’ispirazione del romanzo L’Atlantide: associata fino allora all’acqua l’Atlantide diventa sinonimo dei fuochi del deserto.
Non più un’isola localizzata nel mezzo dell’oceano: é un’isola persa nel mezzo di un mare di sabbia. Il fruscio delle dune sostituisce la schiuma delle onde.
L’ultima discendente di Poseidone, la Regina Antinea è come l’Atlantide di Platone: un’isola paradisiaca che custodisce i suoi segreti. Il mito che si concreta in un corpo femminile, ed è lei che diventa terra misteriosa da conquistare, luogo di simboli più sconcertanti e dei sogni più pazzi. Ricco di delizie ma anche di tormenti, quelli che se ne avvicinano rischiano il maleficio.

Nell’ottobre dello stesso anno un articolo di Henry Magden su un periodico letterario accusò Benoit di aver plagiato il romanzo She (1887) dello scrittore inglese Henry Rider Haggard, autore del più famoso Le miniere di Re Salomone.
Il fortunato romanzo di Haggard narra la storia di She (Lei), o Ayesha, ”colei cui si deve obbedienza”, la bellissima sacerdotessa-regina di un misterioso regno africano, resa immortale dalla fiamma eterna che brucia nelle misteriose caverne del suo regno sotterraneo. Perdutamente innamorata di un uomo, il greco Callicrate, del quale, per strapparlo ad una rivale, ha provocato involontariamente la morte, da duemila anni vive di quel disperato ricordo, del rimorso, e nell’attesa del ritorno dell’amato.

I recensori anglofoni lo accusarono di aver anche plagiato un racconto minore di Haggard, The Yellow God: An Idol of Africa (Il Dio Giallo) del 1908, un’altra avventura di fantasia dove si racconta, tra l’altro, della storia di una donna immortale e vampira, la quale conserva i molti amanti come delle mummie. 
Benoit sporse querela per diffamazione. Trascorsero mesi di controversie letterarie su ambi i lati della Manica, nutrite dal classico sano sciovinismo.
Benché le somiglianze fossero anche solo superficiali (lo stesso Haggard non si pronunciò mai sulla questione), Benoit perse la causa.
Questo non gli proibì di vincere con questa sua opera, il Grand Prix dell’Accademia francese; anche se da certa critica fu ritenuto un mediocre romanzo, diventò subito un bestseller tradotto in quindici lingue.

 

 

L’Atlantide di Pierre Benoit

Lo sfondo del racconto è il dominio coloniale francese nell’Africa settentrionale alla fine del diciannovesimo secolo. In un fortino dell’esercito nel sud Algeria, Hassi-Inifel ai limiti di quello che era allora il Sahara conosciuto, il capitano André de Saint-Avit, racconta al tenente Ferrières la storia della sua ultima missione.

Sei anni addietro compiendo un’esplorazione all’interno del deserto algerino, l’allora tenente Saint-Avit assieme al suo superiore, il capitano Francois Morhange, furono colti da uno di quegli improvvisi e pericolosi temporali del Sahara.
Trovato riparo in una grotta su una sporgenza rocciosa, scoprono al suo interno una strana iscrizione. Il capitano Morhange, grazie ai suoi studi di linguistica ed a quelli da novizio, compiuto durante la sua permanenza in uno dei più importanti conventi francesi, riuscì a decifrarlo. L’iscrizione scolpita nella roccia citava il nome greco di Antinea.
Mentre erano alle prese con quella strana iscrizione, trassero in salvo un touareg travolto dalle impetuose acque temporalesche assieme al suo cammello.
Questi disse di essere Eg-Anteouen e di far parte di una tribù touareg dell’Hahggar; inoltre, visto l’interessamento del capitano all’iscrizione, disse di conoscere altri posti con iscrizioni del genere, e si rese disponibile ad accompagnarlo.

Abbandonate le piste programmate, i due ufficiali si inoltrarono in luoghi definiti dalle popolazioni arabe del Nord come Blad-el-Khouf, Il paese della paura, in percorsi tenebrosi fra le spaccature delle montagne fino allora non battute da europei, o più opportunamente nessuno è tornato indietro a raccontarlo, come la disgraziata missione Flatters.
Arrivati nel primo luogo in cui vi si potevano trovare altre iscrizioni, con uno stratagemma furono drogati dal touareg; così il misterioso personaggio poté rilevare la sua vera identità. Era Cegheir-ben-Cheikh, famoso e temutissimo brigante, ma in quella occasione nella sua principale occupazione, quella di procacciatore di uomini.   

Al loro risveglio si trovarono all’interno di un palazzo sconosciuto scavato nella roccia circondata da alte vette innevate, e da una paradisiaca visione di ruscelli, vegetazione lussureggiante e fauna inimmaginabili da trovare in pieno Sahara.  
La loro meraviglia continuò quando cominciarono ad esaminare il locale in cui si trovarono: a parte l’arredamento misto europeo ed orientale vi si trovava una biblioteca colma di libri e una scrivania che spariva sotto un inverosimile ammasso di carte, di fascicoli e volumi.
Lo studioso Morhange rimase estasiato dalla presenza di pubblicazioni antiche, e di alcune di queste ritenute ormai smarrite nel tempo.
Ma in quale posto strano e assieme meraviglioso erano finiti?

A questa domanda rispose Étienne Le Mesge, “un uomo piccolo calvo, dal viso giallo e appuntito, mezzo nascosto da un enorme paio di occhiali verdi, con una barbetta sale e pepe.” Ex professore di liceo in Francia, entrò casualmente in possesso di un’opera ritenuta perduta scritta da Dionigi di Mileto, dove si descriveva l’esistenza della mitica Atlantide nelle montagne dell’Hahggar. Folgorato da questa scoperta mollò tutto e andò alla ricerca di questa mitica città, fino a diventarne l’ossessionato bibliotecario.

Tutti hanno creduto ad una sommersione; in effetti non c’è stata sommersione, ma emersione. Nuove terre sono emerse dall’oceano, e il deserto ha sostituito il mare. [ … ]
Oggi, di quella bella isola che il mare e i venti rendevano superba e verdeggiante, non resta che questo massiccio calcinato. Sola è sopravvissuta, in questa conchetta rocciosa isolata per sempre dal mondo dei vivi, l’oasi meravigliosa che avete ai vostri piedi, quei frutti rossi, quelle cascate, quel lago azzurro, testimoni sacri della scomparsa età dell’oro. [ … ]
In quell’immensa catastrofe, essa si è mantenuta simile a quella che fu un tempo, nel suo antico splendore, quella montagna là di fronte, la montagna in cui Nettuno rinchiuse la sua diletta Clito, figlia di Evenor e Leucippe, madre di Atlante, avola millenaria di Antinea, la sovrana sotto le cui dipendenze voi siete passati per sempre.”

Aprì l’uno dopo altro gli armadi di quella prodigiosa biblioteca per la quale lui oramai viveva.
Tutto, tutto c’è qui...” mormorò Morhange, con un’immensa espressione di terrore e ammirazione insieme.

Voi dimenticate dunque il passo in cui Plinio il Vecchio parla della biblioteca di Cartagine e dei tesori che vi erano ammucchiati? ” - Continuò Le Mesge. – “Nel 146, quando questa città cadde sotto i colpi di quel gaglioffo di Scipione, l’inverosimile ammasso d’illetterati che si chiamava il Senato romano ebbe per quei tesori il più profondo dispregio, e non trovò di meglio che farne dono ai re indigeni. Fu così che Mastanabal raccolse la meravigliosa eredità, trasmessa poi ai suoi figli e nipoti, Hiempsal, Giuba I e Giuba II, il marito dell’ammirabile Cleopatra Selene, figlia della grande Cleopatra e di Marco Antonio. Cleopatra Selene ebbe una figlia che sposò un re atlante.
In tal modo Antinea, discendente di Nettuno, conta nel numero dei suoi antenati l’immortale regina d’Egitto; e in tal modo, per diritto d’eredità le vestigia della biblioteca di Cartagine, arricchite di quelle della biblioteca d’Alessandria, si trovano in questo momento sotto i vostri occhi.
La scienza fugge l’uomo. Mentre egli formava le sue mostruose Babeli pseudo-scientifiche, Berlino, Londra, Parigi, la scienza si relegava in quest’angolo del deserto dell’Hahggar. Possono foggiare fin che vogliono, laggiù, le loro ipotesi, fondate sulla perdita delle opere misteriose dell’antichità: queste opere non sono perdute. Sono qui.
Qui i libri ebraici, caldei, assiri; qui, le grandi tradizioni egiziane, che ispirarono Solone, Erodoto, Platone; qui i mitografi greci, i maghi dell’Africa romana, i sognatori indiani, tutti i tesori, in una parola, la cui assenza fa delle dissertazioni contemporanee altrettante povere e ridicole cose.”

L’intellettuale Morhange era quasi intontito dalla visione di cotanta cultura presente in quegli armadi. Ma in più pragmatico Saint-Avit era molto più interessato a capire che cosa voleva da loro la misteriosa padrona di quel luogo.
Le Mesge soddisfece con un riso stridente a questa richiesta e li accompagnò, attraverso un seguito interminabile di scale e corridoi, alla Sala di Marmo Rosso.
Da principio l’oscurità quasi non permise di vederne la sua l’ampiezza. L’immensa stanza era illuminata con larghe fiamme rosse da dodici enormi lampade di rame posate sul pavimento e disposte in circolo, attorno un masso centrale scavato anch’esso nella roccia, da cui sgorgava una zampillante fontana.
Appena gli occhi si abituarono, l’attenzione dei due ufficiali fu attratta dalle numerose nicchie scavate nelle pareti. Saint-Avit ne contò centoventi e notò che in una trentina di loro vi si trovava una forma umana come una statua.

La risposta a tutto questo arrivò subito. Tre touareg entrarono trasportando un lungo involto che disfecero dopo aver ritirato da una nicchia una cassa simile ad un sarcofago.
Questa, fece notare il professore, era una prova delle influenze egiziane su quel paese.
Poi prese un cartello che fissò sulla parte anteriore della cassa.
Appena lo lessero trasalirono sconcertati.

Numero 53. Maggiore Sir Archibald Russell.
Nato a Richmond il 5 Luglio 1860.
Morto all’Hahggar, il 3 dicembre 1896.

Che cosa voleva dire quel cartello? E cosa era quella forma umana uscita dal pacco?

Era il maggiore Russell.
Quella che sembrava una statua era un uomo non mummificato come facevano gli antichi egizi, ma ricoperto d’oricalco, con un sistema originale di galvanoplastica di quel metallo speciale ottenuto solamente ad Atlantide, come ricordava Platone.
Inebetiti dall’orrore Morhange e Saint-Avit cominciarono a leggere gli altri cartelli.

Numero 52. Capitano Laurent Deligne …   Numero 51. Colonnello von Withmann …
Numero 48. Sottotenente Louis de Maillefeu … un amico d’infanzia di Saint-Avit …

Ma perché tanto odio da parte della regina Antinea?
Fu di nuovo Le Mesge a dare la spiegazione.
Avete veramente dimenticato fino a che punto le belle regine barbare dell’antichità hanno avuto a lagnarsi degli stranieri che la ventura spinse alle loro rive? [ … ] Quei signori usavano largamente della bellezza della regina e delle ricchezze. Poi, una bella mattina sparivano. E la delusa poteva dirsi ben fortunata se l’amico, avendo ben segnato il posto, non ritornava con navi e truppe di occupazione.”

Ulisse con Calipso, Diomede con Calliroe, Teseo con Arianna, Giasone con Medea, Enea con Didone, Cesare con Cleopatra, Tito con Berenice, …

Era tempo che i figli di Iafet saldassero alle figlie di Sem quei formidabili conti di offese.
Ed ecco che è sorta una donna … [ … ] ella chiama a sé gli uomini più giovani e più valenti.
[ … ] Di quei giovani audaci, ella prende quello che possono dare. Presta il suo corpo, ma con l’anima li domina.“

Attira gli uomini nel suo regno come un ragno nel mezzo della sua tela, e dopo aver trascorso con loro delle splendide notti d’amore, Antinea uccide questi suoi amanti e ne espone i corpi mummificati in quella che è la sua sinistra sala dei trofei.
Ma non è una morte violenta.
Muoiono tutti d’amore quando vedono che il loro tempo è finito e che Cegheir-ben-Cheikh parte alla ricerca di altri. Parecchi sono morti dolcemente, con grosse lacrime negli occhi. Non dormivano e non mangiavano più.”

Fu Saint-Avit il primo ad essere portato al cospetto della regina.

Il klaft egiziano scendeva sui suoi folti riccioli, azzurri a forza d’essere neri, e le due punte della pesante stoffa dorata giungevano alle anche sottili. Intorno alla piccola fronte arcuata e ostinata, si avvolgeva l’aæus d’oro dagli occhi di smeraldo, dardeggiando di sopra alla testa di lei la sua duplice lingua di rubino. [ … ] Nonostante la sua tunica audacemente aperta di lato, il suo fine seno scoperto, le braccia nude, le ombre misteriose indovinate sotto i veli, trovava il mezzo di restare qualche cosa di molto puro, più ancora, di verginale.“

Fu un incontro breve, ma sufficiente ad innescare l’inizio della passione e della tragedia.

Anche Morhange ebbe modo di conoscere Antinea, ma questi dimostrò di non essere poi molto sconvolto dalla regina. La sua missione scientifica era molto più importante, e considerate le proprie tendenze religiose si impose di non farsi coinvolgere “dai capricci più assurdi di questa signora…”, confidando nella sua superiorità intellettuale come uomo, rispetto alla donna.
Pochi giorni dopo durante un pranzo Morhange fu prelevato dalle guardie della Regina e il suo compagno, per giorni, non lo vide più.
Da quel momento scoppiò inesorabile la “febbre” di Saint-Avit. Pur conoscendo il proprio destino, cioè diventare l’ospite 54 o 55 della Sala di Marmo Rosso, ma non poteva trattenere il desiderio della chiamata di Antinea.
Un condannato a morte che bramava la sua ora.

Prigioniero di una situazione inaudita, non solo tu non fai nulla per liberarti, ma benedici finanche la tua schiavitù e aspiri alla tua rovina. [ … ] Lo so, Morhange in questo minuto è accanto ad Antinea, … [ … ] Ma una sera, fra tre mesi, quattro forse, gli imbalsamatori verranno qui. La nicchia 54 riceverà la sua preda. Allora, un Touareg bianco si avanzerà verso di me; ed io fremerò di un’estasi magnifica. Mi toccherà il braccio. E sarà la mia volta di penetrare nell’eternità per la porta sanguinante dell’amore.”

Una notte al culmine del tormento, di nascosto riuscì ad introdursi negli appartamenti della Regina, eludendo la vigilanza delle guardie touareg, proprio mentre Antinea aveva fatto portare al suo cospetto l’inamovibile Morhange.
Il capitano si ostinava a non cedere alle lusinghe sessuali dell’avvenente donna, anche con le promesse di una probabile liberazione. Saint-Avit assistette, nascosto, all’ennesimo scontro fra i due.
Ci fu come un buco temporale, e fu come uno stato di allucinazione che gli parve di pronunciare: “Quel che vorrai, quello che mi chiederai, lo farò, lo farò.”

Risvegliatosi nella sua camera, cercò di ricordarsi quello che era accaduto.
Era stato nella camera di Antinea. Ma cosa era successo dopo?
Poi piano piano, come al diradarsi della nebbia, i tremendi ricordi presero forma: aveva ucciso il suo compagno.
Era impazzito, nell’ardore di lei, al punto di farsi istigare ad uccidere Morhange.

Riuscì a fuggire da Atlantide e da Antinea e fu trovato miracolosamente da una squadra di esploratori dell’esercito francese, morente di fame e di sete nel deserto in direzione sud.
Dopo un mese di cure e di deliri, fu acquisita la versione ufficiale che il Capitano Morhange, morto per un’insolazione, era stato sotterrato da Saint-Avit nella zona di Tarhit.
Tutti capirono le falle di questa versione, indovinando il dramma misterioso che si celava dietro le frasi sconnesse che vennero pronunciate durante i febbricitanti deliri.
Ma a quanto avere le prove, era ben altro.

Saint-Avit tornò dalla Francia dopo un periodo di riposo, e Cegheir-ben-Cheikh era pronto ad accompagnarlo per l’ultimo viaggio verso Hahggar. Non andrà, dopo morto ad “imputridire, sotto un numero di registro mortuario, nelle immondizie di un cimitero suburbano”. I suoi fratelli d’amore, i cinquanta cavalieri d’oricalco lo stanno aspettando, muti e gravi, nella Sala di Marmo Rosso. E nel giorno in cui le centoventi nicchie scavate in circolo al suo trono, avranno ricevuto ciascuna la sua preda consenziente e accontentata, là si ergerà Antinea, per l’eternità, nella sua poltrona di oricalco, con lo pschent e l’uræus d’oro in testa, e in mano il tridente di Nettuno.

Da sei anni, non so più niente di lei. Ma la vedo, le parlo. Penso al momento che mi troverò di nuovo dinanzi a lei… Mi getterò ai suoi piedi e le dirò soltanto: Perdona! Ho potuto ribellarmi alla tua legge solo perché non avevo capito.”
Come disse il vecchio Le Mesge: “Famiglia, onore, patria, dimenticherebbe tutto per lei.”

Ora Saint-Avit era pronto a dirigersi verso il proprio destino.

 

I Miti di celluloide
ATLANTIS,
THE LOST CONTINENT

Titolo italiano: ATLANTIDE, IL CONTINENTE PERDUTO

Produzione: 1961 - USA, M.G.M., colore, 90 min.
Regia: George Pal.
Sceneggiatura: Daniel Mainwaring. Adattamento dal copione di Gerald Hargreaves.

Interpreti:

  • Joyce Taylor (principessa Antillia);
  • Anthony Hall [Sal Ponti]  (Demetrios);
  • John Dall (Zaren);
  • Edgar Stehli (re Kronas);
  • Edward Platt (Azor);
  • Frank De Kova (Sonoy);
  • Wolfe Barzell (Petros);
  • Jay Novello (Xandros);
  • William Smith (capitano delle guardie).

Fotografia: Harold E. Wellman.
Montaggio: Ben Lewis.
Effetti speciali: Jim Danforth, A. Arnold Gillespie, Robert R. Hoag, Lee LeBlanc.
Colonna sonora: Russell Garcia.
Scenografia: Henry W. Grace.

George Pal riprende con questo suo film la teoria dell’Atlantide atlantica, presentandola fin dal suo prologo, con cartina e disegno animato, come spiegazione del perché dei punti comuni delle antiche civiltà. Seguendo la teoria che ipotizza l’emigrazione dei suoi superstiti nelle varie parti del pianeta, esportando la loro cultura, il film racconta a modo suo gli ultimi giorni di Atlantide.

Al periodo dell’antica Grecia, due pescatori, Demetrios e suo padre Petros, ritrovano su una zattera alla deriva, una ragazza svenuta. Portata a terra, al suo risveglio, afferma di essere Antillia, la figlia di Kronas, sovrano di Atlantide, regno che si trova di là dalle Colonne d’Ercole.
Né Demetrios né suo padre le credono perché sanno bene che oltre c’è il Nulla, e chi si è avventurato nel Grande Mare non ha fatto più ritorno.
Benché suo padre sia infastidito dall’atteggiamento un po’ spocchioso da principessa della ragazza, Demetrios rimane molto attratto da lei. Da prima rifiuta, ma poi si fa convincere a riaccompagnarla da suo padre, con la promessa che se non riusciranno entro un mese, a ritrovare Atlantide, ritorneranno in Grecia e lei diventerà sua moglie.
Nonostante violenti temporali, riescono a superare le Colonne d’Ercole. Immersi in una fitta nebbia, a quasi un mese dalla partenza, le ricorda la promessa, ma la ragazza riesce a convincerlo ad aspettare ancora. Con l’aiuto di uno strano oggetto avente una punta che, sostiene lei, indica sempre il Nord, continuano il loro periglioso viaggio fino a quando un enorme mostro marino emerge dai flutti, pronto ad inghiottirli.
Demetrios si lancia con l’arpione all’attacco della creatura, ma Antillia lo tranquillizza divertita, e rimane stupito dal vedere da quello che si rivela, non un mostro ma un sottomarino, aprirsi una porta da cui spuntano degli uomini guidati dal generale Zaren.
Saliti a bordo il viaggio riprenderà verso Atlantide, durante il cui Zaren comincia ad ingelosirsi quando comprende innamoramento di Antillia verso Demetrios.
Arrivati ad Atlantide mentre la principessa salutata dalla folla festante è ricevuta da suo padre Re Kronas, Demetrios viene arrestato e imprigionato.
Antillia rivela l’intenzione di sposare il pescatore greco, anche se il padre non sembra molto favorevole a ciò, adducendo anche alle leggi di Atlantide.
Nello stesso tempo Demetrios, fatto schiavo salva la vita ad un altro prigioniero Xandros, un vecchio marinaio anch’esso greco, e scopre che tutti gli schiavi sono stranieri, caduti nelle grinfie del regime atlantideo. La maggior parte ha seguito d’impressionanti esperimenti di uno scienziato nella Casa della Paura, sono diventati metà uomini e metà bestie, obbligati a lavorare come animali da soma nelle miniere della montagna per estrarre la Pietra Verde. Questi cristalli, fonte del potere di Atlantide servono a catturare l’energia del sole, tanto potenti che anche una loro piccola quantità è capace di distruggere una città.

Durante una passeggiata a cavallo Antillia rimane sconvolta dallo scorgere Demetrios in una fila di schiavi, avendolo creduto di ritorno in Grecia. Credendola responsabile per la sua condizione, Demetrios le getta fango ed è colpito selvaggiamente dalle guardie.
Lei corre a supplicare il padre per la sua liberazione ma si deve accorgere che ormai Kronas è un burattino nelle mani di Zaren ed è quest’ultimo che governa veramente il regno assistito dal perfido Sonoy, l’Astrologo di Corte. L’unico conforto le viene dato dal Gran Sacerdote Azor, il quale le esprime le sue inquietudini sul modo con cui è governato il paese. Riesce anche a far rincontrare i due giovani nel Tempio in un inutile scambio d’insulti: da “Lei non pensa altro che ai suoi egoisti desideri” al “Anche le sue parole odorano di pesce”.

Poco dopo, Demetrios viene tradotto alla Casa della Paura dove scopre che il suo amico greco è stato trasformato in un uomo-maiale. Mentre stava per subire la stessa fine due guardie intervengono su ordine di Zaren: se vuole riconquistare la sua libertà, Demetrios dovrà subire la Prova del Fuoco e dell’Acqua nell’Arena della città.
Arriva il momento del combattimento, con Azor che osserva preoccupato le colombe lasciate libere per l’apertura dello spettacolo, le quali invece di tornare indietro si dirigono verso il mare aperto. Un brutto presagio.
In una feroce lotta a corpo a corpo, prima con il fuoco per finire nell’Arena allagata, Demetrois riesce a sopravvivere e a vincere l’incontro, per la gioia di Antillia e di suo padre, un po’ meno per Zaren e Sonoy, ed ottiene la libertà.

Alcuni giorni dopo, in un Gran Consiglio, Zaren propone l’inizio della conquista del mondo da parte di Atlantide, grazie alla nuova mortale arma basata su un cristallo gigante di Pietra Verde. Il solo Azor si oppone, ma inutilmente; tutta l’assemblea così come il re, votano per la guerra.
Ma le nubi del disastro cominciano a addensarsi sopra Atlantide: come Azor fa notare a Demetrios gli insetti, come le sue api, e gli uccelli hanno abbandonato l’isola. Presto le furie del vulcano la distruggeranno. Questo fa accelerare i piani di fuga d’Antillia e Demetrios, i quali cercano inutilmente di convincere Azor a fuggire assieme.
Il giorno della luna piena arriva e il cristallo gigante montato su una macchina è collocato nella piazza del Palazzo Reale.
Durante il discorso ufficiale, con un’enorme folla acclamante, Demetrios riesce ad introdursi nelle prigioni e a liberare gli schiavi detenuti.
Improvvisamente il cielo si riempie di nuvole nere e il vulcano comincia a scuotere la terra e spessi fumi escono dal suo cratere; le case cominciano a crollare e la gente impaurita tenta di fuggire verso il mare. Anche dalle prigioni fuggono gli schiavi verso le barche, mentre i poveri disgraziati che hanno subito le mutazioni genetiche si avventano sui loro aguzzini.

Dall’alto della città Zaren vede sgretolarsi tutto il suo mondo e la prospettiva di dominio. Furibondo comincia ad usare l’arma dal raggio mortale per incenerire la popolazione che cerca di mettersi in salvo raggiungendo le imbarcazioni. Azor per impedire a Zaren di continuare la sua opera di distruzione, lo raggiunge e lo pugnala proprio mentre sta puntando l’arma verso Demetrios ed Antillia, visti allontanarsi con il suo cannocchiale; ma questi nonostante la ferita ingaggia una disperata lotta, e rotolando giù dalle scalinate, riuscirà ad uccidere il sacerdote. Durante la lotta, l’arma, senza più controllo comincerà a ruotare emettendo i suoi terrificanti raggi, fino ad uccidere lo stesso Zaren.
L’isola affonda poco alla volta fino all’esplosione finale del vulcano, al crollo totale della città e dell’invasione finale delle onde del mare, mentre i superstiti con le loro imbarcazioni si allontanano.

Epilogo: sulla carta dell’inizio, dove prima c’era un continente, quattro piccole barche si allontanano in direzione opposta l’una dall’altra.

Appendice

Ignorando il romanzo di Pierre Benoit, il regista George Pal attinge direttamente al mito di Platone per materializzare l’angoscia americana, dalla paura dell’invasione marziana ispirata dalla trasmissione radiofonica di Orson Welles del 1938, fino alla paranoia della Guerra Fredda. Paura del minaccioso comunismo, ma visto alla luce della nostra epoca e della situazione mondiale del Terzo Millennio, si può anche intravedere un parallelo tra l’Atlantide pronta all’invasione del mondo e agli odierni Stati Uniti di Bush. Pal è forse il primo a mettere in immagini il rapporto diretto tra i miti di Platone e la follia dominatrice di certi governi e, visto anche l’anno di produzione, anche la paura della scienza, che da un lato permette all’essere umano un avvenire di progresso, dall’altro può trasformarsi in fattore di potere e di distruzione.

Sul piano puramente tecnico il film si presenta un po’ deludente. Dal protagonista, il pescatore greco dal fisico da cantante alla Dean Martin e dalla scarna recitazione, all’Antillia personaggio-sopramobile, riflesso della donna americana degli anni ‘60, quando va bene sorride, e quando va tutto male, aggrotta le sopraciglia.
Anche la sceneggiatura lascia a desiderare in alcuni, troppi, passaggi.
Qualche esempio di bloopers:

  • al suo ritorno Antillia è acclamata dalla popolazione della città e suo padre l’aspetta al Palazzo (com’è piccolo questo mondo antico e come viaggiano veloci le notizie);
  • i sottomarini hanno dei motori, e la principessa è condotta da suo padre dopo lo sbarco, su un carro trainato da buoi;
  • gli atlantidei non conoscono il Vecchio Mondo e sul modellino di Zaren, il Mediterraneo non compare, eppure Antillia conosce il nome delle Colonne d’Ercole;
  • la micidiale arma incenerisce tutti, ma Zaren quando colpito è ridotto ad uno scheletro;
  • se il re di Atlantide è pronto per la conquista del mondo, perché non si è preoccupato di ricercare la scomparsa principessa;

Ma soprattutto l’angosciosa domanda che è rimasta inascoltata per tutto il film: che cavolo ci faceva Antillia, sola e alla deriva su una zattera, nei pressi delle coste greche, a migliaia di chilometri da Atlantide?
Nelle ultime scene la voce narrante spiega che i superstiti, allontanandosi dall’isola ormai devastata dalle esplosioni del vulcano e quasi coperta dalle acque dell’oceano, porteranno le conoscenze atlantidee a tutti gli angoli del pianeta, sennonché quasi la totalità di loro sarebbero gli schiavi e non gli abitanti di Atlantide.
Il film finisce con Demetrios ed Antillia, che si avviano verso la Grecia, senza spiegare come una raffinata principessa di Atlantide possa accontentarsi di essere moglie di un pescatore, ed avere come suocero uno come Petros, e lui una nuora come quella.

 

I Miti di celluloide
L’ATLANTIDE

Titolo italiano: L’ATLANTIDE

Produzione: 1921 - Francia, Thalman & Cie, b/n, 196 min.
Regia: Jacques Feyder.
Sceneggiatura: Jacques Feyder dall’omonimo romanzo di Pierre Benoit.

Interpreti:

  • Stacia Napierkowska (Regina Antinea);
  • Jean Angelo (Capitano Morhange);
  • Georges Melchior (Luogotenente Saint-Avit);
  • Marie-Louise Iribe (Tanit-Zerga);
  • Paul Francescki; (Étienne Le Mesge);
  • Add-el-Kadr Ben Alì (Cegheir-ben-Cheikh).

Fotografia: Amebee Morin e Georges Specht.

Nel 1919 esce il mediocre ma avvincente romanzo di Pierre Benoit, che diventa subito un bestseller. Jacques Feyder (un ex-attore ed assistente belga, nato nel 1888 e morto nel 1948) ne resta affascinato.
È stato da poco allontanato dalla Gaumont ed è alla ricerca di un grandioso riscatto. Atlantide si presenta come un soggetto ideale: una congerie di miti romantici e decadenti che ancora sopravvivono in un’isola incantata ai confini del mondo colonizzato, nella regione desertica dell’Hahggar.

Il capitano Morhange e il suo luogotenente Sain-Avit sono due soldati della Legione Straniera che si sono perduti in seguito a una missione in una zona sconosciuta del deserto.
Giungono, senza un’esatta cognizione dell’itinerario percorso, in vista d’una terra prospera e civile. Catturati scoprono di aver raggiunti l’ultimo mito del mondo moderno: la favolosa Atlantide.
Vengono condotti, fra tempi sontuosi e costruzioni che riecheggiano le tradizioni architettoniche di tutte le civiltà mediterranee, alla presenza della regina Antinea che prima li minaccia, poi li accoglie calorosamente e, facendo uso delle sue arti femminili, finisce per stregarli togliendo loro ogni velleità di tornare nel mondo civile.
Questa donna, eternamente giovane e bella, fa sorgere dei dissapori fra i due compagni d’arme che non riescono a resistere al suo fascino. Ma proprio quando la vita di Atlantide, con le sue mille lusinghe, sembra essere riuscita a offuscare il ricordo della patria lontana, un terribile cataclisma costringe Morhange e Saint-Avit a fuggire mentre la più antica civiltà del mondo sprofonda uccidendo tutti gli abitanti e cancellando ogni traccia del maestoso passato.”
[ Fernando D. Giammatteo, Dizionario universale del cinema, Editori Riuniti. ]

Nelle intenzioni di Louis Aubert, che finanziò la pellicola, il film doveva emulare il successo dei kolossal prodotti in quegli anni in Italia (Cabiria, Quo vadis?), ma i risultati, superata una fase di iniziale entusiasmo, furono inferiori alle aspettative.

Acquisiti i diritti d’autore, Feyder parte alla ricerca di capitali: non è ancora un regista molto conosciuto, ma osa proporre cifre milionarie, impensabili per il cinema francese di quegli anni.
Un prestito della banca Thalman e l’intervento risolutivo di Louis Aubert,  convinto della risonanza mondiale del romanzo di Benoit, rendono possibile la realizzazione di questa impresa colossale che trova forse solo in Cabiria di Pastrone un suo analogo: l’investimento ottenuto da Feyder fu infatti di 2 milioni di franchi.
Una cifra quasi inconcepibile per il cinema di quei anni.  Aubert garantisce un lancio pubblicitario in grande stile, ma esige la presenza di una star nel cast: per vestire i panni della misteriosa Antinea viene scelta la prosperosa Stacia de Napierowsca, la cui interpretazione verrà duramente criticata.

Feyder parte dunque alla volta dell’Algeria con l’intenzione di andare a girare a Toggurt, a 800 km da Algeri. Ci riuscirà nonostante l’opinione sfavorevole dello stesso Benoit che gli aveva suggerito di girare nella più domestica Fontainbleau.
La scelta di allestire il set sui luoghi del romanzo si rivela vincente: “la grande vedette di questo film è il deserto” dirà poi Delluc. Lo scenografo Manuel Orazi dà il meglio di sé nella realizzazione delle scenografie del palazzo di Antinea, allestite in un teatro di posa nei pressi di Algeri.

La lavorazione fu particolarmente sofferta: la scelta di girare gli esterni nel Sahara algerino per dare un impianto realistico alle riprese, comportò una serie di pericoli (compreso un assalto di indigeni) tali da richiedere per la troupe una scorta armata.
Feyder puntò tanto sul mistero quanto sulla psicologia, e sulla figura di Antinea (femme fatale per antonomasia) e sui paesaggi del deserto.
Al caldo proibitivo e alle malattie (una delle quali fu poi fatale per l’attrice Marie-Louise Iribe) si aggiunsero crescenti spese di produzione e i capricci della diva Stacia Napierkowska, ballerina famosa e già interprete di famosi film dell’epoca del muto, come Cléopatre (Cleopatra, 1910), Notre Dame de Paris (1911) dove interpretava Esmeralda, Les Vampires (Vampiri, 1915), ma attrice, a detta dei commentatori del tempo, priva di fascino e di talento.
La Napierkowska (Parigi, 1886-1945) fu la protagonista tra l’altro di uno dei primi casi di censura cinematografica con il film di Ugo Falena, uno dei grandi del cinema muto italiano, Modella (1916) anche conosciuto con i titoli Flora la modella o Effetti di luce, in cui alcune scene ed alcune didascalie furono modificate. Anche il titolo originale Nudo, come dal soggetto dell’autore Washington Borg, dovette essere modificato.

Il film uscirà a Parigi nel giugno del 1921 riscuotendo grande successo (resterà in cartellone per più di un anno): Feyder “è un uomo che ha osato”, come si legge in una pubblicità Aubert dell’epoca. Anche se per la critica di allora, fu considerato lungo e ripetitivo, difetto che offuscava i pregi della fotografia e la cura della ricostruzione storica, e partiva già smorzato nella tensione a causa della scelta di far raccontare al protagonista la misteriosa avventura da lui vissuta.
Il primo adattamento cinematografico del romanzo di Benoit, in America circolò inizialmente con lo strano titolo Missing Husbands, in Germania come Die Loreley der Sahara.
Da questa pellicola in poi la carriera di Feyder divenne estremamente prestigiosa e l’artista si segnalò per una serie di regie davvero apprezzabili. Venne anche invitato a lavorare a Hollywood, ma dopo cinque anni di permanenza nella Mecca del cinema preferì rientrare in Francia, dove riprese la sua attività con esito più felice. Celebre è la frase di Feyder che disse: “Tutto può essere portato sullo schermo, tradotto in immagini. Ma per farlo è necessario avere il senso del cinema.”

 

 

Nel 1992 la XXI Mostra Internazionale del Cinema Libero di Bologna ha presentato una rara copia a colori del film di Feyder ritrovata dal Nederlands Filmmuseum.

Copia conservata presso gli Archives du Film del Centre National de la Cinématographie.
Atlantide è stato restaurato dal Nederlands Filmmuseum in collaborazione con gli Archives du Film del Centre National de la Cinématographie.

Per il lavoro di restauro sono state utilizzate due copie, entrambe colorate.
La prima copia, proveniente dal NFM, con didascalie in olandese; la seconda con didascalie in francese. La copia olandese, ricavata a partire da un positivo nitrato originale, è stata utilizzata per la buona qualità delle immagini e delle colorazioni.
La copia francese, invece, è stata utilizzata esclusivamente per le didascalie, con l’obiettivo di salvaguardare i caratteri grafici e le decorazioni originali.”
[ da www.torinofilmfest.org ]

 

E’ indiscutibile che questo lavoro appartenga ai buoni davvero, però appunto per questo noi vi troviamo dei difetti che forse in altri potrebbero passare inosservati.

La riduzione del romanzo di Pierre Benoit ha avuto sullo schermo una seconda consacrazione, ma ci si consenta di dire che il rendere protagonista il tenente di Saint-Avit, che ne racconta l’avventura, è grossa davvero, poiché viene a mancare quell’interesse che, diversamente, avrebbe destato: se invece di un racconto vi fosse la sola avventura.
Poi poteva benissimo farsi in 4 parti invece di 8, condensando le scene principali ed evitando le ripetizioni inutili a cui è andato incontro.
La prima parte di Atlantide è ottima, direi quasi insuperabile; mentre lo spettatore viene disilluso dalla seconda parte. Bene interpretati i personaggi di Saint-Avit, Morhange, Massard, Ferrières, Cegheir-ben-Cheikh e Zanit Zerga.
Insignificante la protagonista. Allorquando lo spettatore, dopo aver sentito da Saint-Avit che tutti coloro che avvicinavano Antinea dimenticavano Patria, Onore e Famiglia, si prevedeva che la bellezza di questa donna fosse oltremodo affascinante; mentre nel veder calare il velo che copre il volto della Napierkowska un’amara delusione prese tutti, e tutti commentarono sarcasticamente l’episodio. La Napierkowska non ha nulla di speciale; la sua è una bellezza molto comune, manca di fascino e di emotività.

Ciò nonostante il lavoro è piaciuto.”
[ Corriere Milanese, 15 marzo 1923 ]

 

I Miti di celluloide
ERCOLE ALLA CONQUISTA DI ATLANTIDE

Titolo italiano: Ercole alla conquista di Atlantide
Altri titoli:

  • Hercules and the conquest of Atlantis;
  • Hercule a la conquete de l’Atlantide;
  • Hercules conquers Atlantis (UK);
  • Hercules and the captive women (1963 - USA).

Produzione: 1961 - ITALIA/FRANCIA, S.P.A. Cinematografica/ SPA Comptoir Francais du Film Production, colore, 101 min (Italia)/ 93 min (USA).
Regia: Vittorio Cottafavi.
Sceneggiatura: Vittorio Cottafavi, Sandro Continenza, Duccio Tessari, da un idea di Archibald Zounds Jr.

Interpreti:

  • Fay Spain  (Antinea);
  • Reg Park (Ercole);
  • Ettore Manni (Androclo, re di Tebe);
  • Laura Altan [Laura Efrikian] (Ismene);
  • Luciano Marin (Hyllos);
  • Salvatore Furnari (Timoteo);
  • Enrico Maria Salerno (re di Megara);
  • Gian Maria Volontè (re di Sparta);
  • Ivo Garrani (re di Megalia);
  • Mimmo Palmara (Astor, Gran Vizir di Antinea);
  • Mario Petri (Zantas, sacerdote di Urano);
  • Luciana Angiolillo (Dejanira).

Fotografia: Carlo Carlini.
Montaggio: Maurizio Lucidi.
Colonna sonora: Gino Marinuzzi Jr., Armando Trovajoli.
Scenografia: Franco Lolli.
Costumi: Vittorio Rossi.

Ai tempi della mitologica Grecia classica Androclo, il re di Tebe, riceve dall’indovino Tiresia una infausta predizione. I cattivi auspici per l’Hellade predicono che una grave minaccia si sta rivelando “da quelle forze terribili proveniente dall’occidente, al di là dei mari, di al di là dello Stretto da dove mai nessuna imbarcazione è mai tornata.”

Androclo tenta di convincere il Consiglio dei Re della necessità di unirsi per contrastare l’imminente minaccia, ma tutti riescono, con vari argomenti, a sottrarsi da dargli l’aiuto sperato. Perfino il «mitico» Ercole, reduce dalle «mitiche» e stancanti dodici fatiche si defila con la scusa della promessa fatta alla moglie Dejanira di rimanere, dopo tanto tempo, vicino alla famiglia.

Comunque non demorde e con l’aiuto del figlio di Ercole, Hyllos, e del nano Timoteo riesce a drogare l’Eroe ed a trasportarlo su un’imbarcazione diretta ad Ovest. Quest’ultima costituita da  pochi e malfamati marinai, i pochi che Androclo è riuscito ad ingaggiare per la disperata impresa. Quando Ercole si risveglia oramai ha lasciato da tempo la Grecia, non si adira più di tanto ma continua a non collaborare.

Dopo l’attraversamento del grande Stretto una terribile tempesta si abbatte sulla spedizione. Androclo è sbalzato fuori dalla barca, la quale viene brevemente distrutta dai flutti.
Ercole con il figlio e Timoteo riesce a salvarsi aggrappato ai relitti della barca; mentre prega il padre Zeus per la salvezza ha la visione di Androclo prigioniero che chiede aiuto.
L’aiuto divino per i naufraghi arriva sotto forma di un’isola, dove trovano una ragazza rinchiusa in una prigione immateriale che non è altro che il dio multiforma Proteo. Sconfittolo in una lotta mortale, Ercole viene a conoscenza che la ragazza è Ismene, figlia di Antinea, regina di Atlantide, mandata proprio da lei in sacrificio al dio Urano, e la sua liberazione produrrà l’annientamento della propria gente. Giovani ragazzi sono sacrificati al Dio per mantenere le nebbie che avvolgono Atlantide e che la proteggono l’isola dalle minacce esterne.

La ragazza viene riportata dalla madre, ma questa è visivamente contrariata da questo imprevisto. Quando saranno sole comunicherà alla figlia che il suo destino è comunque segnato: se non verrà sacrificata al dio Atlantide verrà distrutta.

La regina Antinea trae un malefico potere da una Pietra Vivente con cui può trasformare gli esseri umani in individui inebetiti, come dei robot, prostrati alla sua devozione.
Quelli si oppongono, sono condannati come prigionieri nella «Valle dei Deboli» ad una lenta morte. Anche Androclo, salvato dal naufragio dagli atlantidei, viene ritrovato da Ercole sotto i malefici influssi della Regina.

Ercole non può di certo accettare questa società opprimente dedita a sacrifici umani e concepita volutamente dai sceneggiatori con le classiche caratteristiche nazi-fasciste, con i soldati clonati neri vestiti e campi di concentramento per gli «esseri deboli». Così riesce a scoprire che la fonte energetica del potere divino della Regina, la Pietra Vivente, proviene da alcune gocce del sangue di Urano derivante dalla castrazione subita dal figlio Crono.
Questo malefico potere, però, ha il punto debole: può essere neutralizzato dalla luce del sole; per questo viene conservato in una antro all’interno della montagna, dove vengono portati i bambini di Atlantide per essere trasformati negli invincibili soldati.

Costretto a raggiungere ed a liberare Hyllos, rinchiuso nelle carceri sotterranee, Ercole riesce dopo furiose lotte, a sfondare le pareti della grotta dove è custodita Pietra Vivente e a permettere alla luce del sole di raggiungerla. Questo ha come conseguenza l’inizio della distruzione dell’isola, la fine di Atlantide e dei malefici poteri della sua regina.
Recuperato Androclo, liberatosi dai malefici, Ercole e i suoi compagni riescono a fuggire, portandosi anche Ismene, innamoratasi di Hyllos. Mentre si allontanano vedono la montagna esplodere coprendo con lava e zampilli l’isola, ormai destinata ad essere sommersa dai flutti del mare. Finché il sole tramontando non mette la parola fine a tutto.

Come finale si sente la voce di Ercole «fuoricampo»: “Nello Stretto erigerò due colonne. Saranno di monito ai navigatori che si azzarderanno nell’immensità del mare sconosciuto”.

 

Chi ha amato il peplum potrà ricordare con piacere questo imperturbabile e pigro Ercole, che passa all’azione soltanto quando gli eventi ve lo costringono (esemplare, in questo senso, la scena iniziale della rissa nella taverna). Ma a prescindere dai gusti cinematografici, non si può negare l’originalità del tentativo di Vittorio Cottafavi (30 gennaio 1914 - 14 dicembre 1998) di inserire nel fantasy mitologico tipologie e situazioni del western, dell’horror e della fantapolitica. Il film è ricco di fantasia e di risvolti ironici, e talora satirici. Inoltre si serve del consueto repertorio di mostri di cartapesta e cataclismi ottici per leggere nel mito di Atlantide un Terzo Reich ante-litteram.
Buono il cast, in cui grandi attori di teatro come Garrani, Volontè e Salerno, gli indecisi sovrani del concilio greco, si divertono a parodiare una delle innumerevoli inconcludenti sedute parlamentari.

Cottafavi non ha ignorato né Platone né Benoit; si è servito solamente del primo per trasmettere il suo messaggio. Contrariamente ad Ulmer, la cui versione dell’Atlantide era uscita alcuni mesi prima, il regista italiano è contrario al nucleare: per il primo, la bomba è purificatrice ed è il Modernismo che supera la Tradizione; per il secondo, il Modernismo e la sua conseguenza, la robotizzazione può condurre solamente al totalitarismo.
Solo degli esseri saggi, fiduciosi nelle forze della natura possono contrastare la mancanza di umanità.

 

 

I Miti di celluloide
SIREN OF ATLANTIS

Titolo italiano: L’ATLANTIDE
Altri titoli:

  • Die herrin of Atlantis;
  • Queen of Atlantis;
  • Atlantis;
  • La Atlantida.

Produzione: 1948 - USA, United Artists, b/n, 75 min.
Regia: Arthur Ripley & Gregg C. Tallas.
Sceneggiatura:
Rowland Leigh, Thomas Job, Robert Lax dall’omonimo romanzo di Pierre Benoit.
Interpreti:

  • Maria Montez (Regina Antinea);
  • Dennis O’Keefe (Capitano Morhange);
  • Jean-Pierre Aumont (Luogotenente Saint-Avit);
  • Morris Carnovsky (Le Mesge);
  • Henry Daniell (Blades);
  • Milada Mladova (Tanit-Zerga);
  • Herman Boden (Cegheir-ben-Cheikh);
  • Alexis Minotis (Cortot);
  • Russ Conklin (Eggali);
  • Allan Nixon (Lindstrom);
  • Margaret Martin (ancella);
  • Charles Wagenheim (dottore).

Fotografia: Karl Struss.
Montaggio: Gregg C. Tallas.
Effetti speciali: Rocky Cline.
Colonna sonora: Michel Michelet.
Scenografia: Lionel Banks.

Secondo remake ispirato al romanzo di Pierre Benoit, fu iniziato alla regia da Arthur Ripley sostituito da John Brahm, per poi finalmente portato alla conclusione dal montatore Gregg Tallas (vero nome Grigoris Thalassinos, 25 gennaio 1915) aggregando scene di archivio dal film originale di G.W Pabst del 1932.
In maggio di 1947, Maria Montez e suo marito Jean-Pierre Aumont, vero nome Jean-Pierre Salomons (5 gennaio 1911 - 30 gennaio 2001) firmarono il suo primo contratto come attori indipendenti col produttore tedesco Seymour Nebenzahl (lo stesso di quello del 1932) per interpretare una nuova versione dall’epico film europeo.
La Montez fu ingaggiata per la fantastica somma per l’epoca, di 100.000 dollari, per dieci settimane di lavoro.

Fantastiche e piene di glamour furono le scene di questo film, che si segnala, soprattutto, per la fotografia di Karl Struss, e per la grande presenza scenica di Maria Montez come quella che la mostra reclinata su un letto a forma di lumaca, di tre metri di lunghezza e più di due metri di altezza, in sensuali vestiti da sirena.
I fans di Maria Montez furono compiaciuti oltremodo dalle scene in cui appare in compagnia di una pantera, una delle belve preferite dalla regina Antinea, nel romanzo di Benoit.

I palazzi faraonici, le vesti riccamente disegnate, la cripta ricolma di mummie e la sinuosa pantera addomesticata che accompagna la protagonista sulla scena esercitarono un indubbio fascino sul pubblico ma lasciarono perplessa la critica che giudicò l’opera fredda, artificiosa e, comunque, inferiore all’originale.
I critici dell’epoca considerarono che a parte una mirabile Montez, il film aveva poco da offrire, valutando il più vistoso difetto del film nell’impersonalità della regia, conseguenza ascrivibile alle indecisioni del produttore Seymour Nebenzal che avvicendò tre registi diversi dietro la macchina da ripresa. Nonostante, il tempo è stato un buon alleato per questo film che oggigiorno è catalogato come un classico, pur limitando le sue presentazioni alle università ed agli appassionati che si dedicano allo studio del cinema.

 

 

MARIA MONTEZ (1912 - 1951)
The Queen of Technicolor

Maria Antonia Africa Gracia Vidal di Sacro Silas nacque a Barahona nello stato caraibico della Repubblica Dominicana il 6 giugno del 1912 (o secondo altre biografie, nel ‘15 o ‘17).
Seconda genita di dieci figli, di Regla Teresa Maria Vidal, dominicana e d’Isidoro Gracia Garcia, Viceconsole Onorario della Spagna (era oriundo delle isole spagnole delle Canarie) ed esportatore di legno e tessuti.
Fin da bambina fu grande l’attrazione per lo spettacolo e in particolare per il mondo del cinema. Il sogno di diventare anche lei un’attrice di Hollywood passò dalle imitazioni alle recite scolastiche alla realtà.
Sposata nel ‘32 (e divorziata nel ‘39) con William McFeeters, banchiere delegato nella Repubblica Dominicana della First National City Bank, si trasferì a ventisette anni a New York, per tentare la fortuna nel mondo della moda. Il suo primo lavoro fu la foto per una copertina di un periodico per una somma di 50 dollari.

In quel periodo si costruisce l’immagine che la rese famosa negli anni quaranta: recuperando l’accento dominicano perso dopo il trasferimento negli Stati Uniti, unì look esotico e sensualità.
Scelse anche un nome d’arte, Maria Montez, in onore di Lola Montez, la ballerina preferita dal padre.
Mentre cresceva la sua fama come modella, iniziarono i primi contatti con i rappresentanti delle case di produzioni hollywoodiane, prima con la RKO e poi, per stipulare il primo contratto, con l’Universal Pictures.
Nel 1941 ebbe alcune brevi apparizioni in Lucky Devils di Lew Landers, dove comparve in costume da bagno in un concorso di bellezza, e nel fantascientifico The Invisibile Woman diretto da Edward Sutherland dove disse una sola frase. Ebbe finalmente nello stesso anno la parte da protagonista nel western Boss of Bullion City di Ray Taylor.
Per compensare le difficoltà iniziali, ebbe l’insolita idea di fondare un proprio fans-club, il Montez For Startom Club, composto in gran parte di collezionisti di fotografie di artisti in pose sensuali ed osé, ovviamente per l’epoca.
Una delle poche stelle latine che riuscirono a sfondare a Hollywood, assieme a Lupe Velez, Carmen Miranda e Dolores Del Rio, la Montez, anche per propria ammissione, riuscì a superare i limiti recitativi, con la forte determinazione, la sua bellezza e una carica di sensualità.
Nel suo primo film a colori per la 20th Century Fox, That Night in Rio (1941) di Irving Cummings, apparve assieme a Carmen Miranda, Alice Faye e Don Ameche: ballò una contagiosa rumba, facendo risaltare i riflessi rossi dei suoi capelli ammirabili per la prima volta in tutta la loro bellezza.  
Da quel momento nell’immaginario collettivo fu conosciuta come la Regina del Technicolor.

Nonostante la poca considerazione da parte dell’Universal, il pubblico, in particolare quello maschile, comincia ad includerla nelle pin-up girls, termine usato per designare le artiste la cui foto in costume da bagno, era oggetto di collezione.
Le sue foto adornarono l’interno degli armadietti dei soldati alleati durante la seconda guerra mondiale.

In una situazione mondiale post-depressione e con la guerra che si stava spargendo in Europa ed in Asia, Hollywood si rivolse al genere definito escapista: ambientazioni esotiche ed orientali, alle volte con trame e sceneggiature dal poco spessore, ma che cercarono in senso psicologico di tradurre l’angoscia del momento in fuga dai problemi della realtà.
Così nacquero opere con sceneggiature tropicali come South of Tahiti (1941) di Georges Waggner, dove la Montez è una ragazza bianca che vive in una trasognata isola del Pacifico, White Savane (1943) di Arthur Lubin e Sudan (1945) di John Rawlins.
Il fantastico mondo dell’Arabia fu rappresentato in Arabian Night (1942) di John Rawlins, dove interpretò una magistrale Scheherezade, e Ali Baba and the Forty Thieves (1944) di Arthur Lubin. In questi ultimi fu l’occasione per mostrare l’attrice in tutta la sua prestanza erotica nei conturbanti vestiti orientali velati ed attillati.
Nel 1944 fu protagonista di Woman Cobra, di Robert Siodmak, dove ebbe il ruolo di due gemelle: la crudele sacerdotessa Nadja, tirannica sovrana di una tribù di adoratori di serpenti, e Tollea, la nobile e semplice ragazza.

Maria Montez era una diva 24 ore al giorno, i suoi scatti d’ira erano famosi negli Studios.
Era anche famosa per le sue entrate in scena nei locali pubblici e nelle cerimonie. Una volta che uno dei suoi ingressi all’Universal non ebbe l’effetto desiderato, la Montez girò i tacchi e ritornò poco dopo con un nutrito e rumoroso entourage.
La Tempestosa Montez aveva un gran seguito di reporter, dato che poteva offrire materiale per intere pagine.
Quando le notizie scarseggiavano si diceva che i redattori li inviarono al grido: “Andate a Beverly Hills, e vedete cosa sta facendo la Montez!”

I rapporti con l’Universal cominciarono a deteriorarsi, ed a seguito di contratti non rispettati, Maria Montez decise di lasciarla e si trasferì in Europa con il secondo marito, l’attore francese Jean-Pierre Aumont sposato nel 1942 e da cui ebbe una figlia Maria Christina, anche lei attrice, conosciuta con il nome d’arte di Tina Aumont (14 febbraio 1946 - 28 ottobre 2006).
Ormai finita la guerra i gusti del pubblico cominciavano a modificarsi e la sua stella cominciava ad affievolirsi.
Iniziò una nuova fase di fama tutta europea; fu una delle prime star hollywoodiane a sbarcare nel vecchio continente dopo la guerra. Con il marito furono invitati nel 1946 al primo Festival di Cannes.
La sua carriera di attrice di cinema continuò in Francia e in Italia con opere drammatiche come Portrait d’un assassin (1949) di Bernard Roland o in costume come Il ladro di Venezia (1950) di John Brahm, quest’ultimo abbastanza gradito alla critica. Da dimenticare il ridicolo Amore e Sangue (anche conosciuto come Camorra, 1951) di Marino Girolami, dove interpretava un’improbabile cantante di una taverna napoletana.
Al principio del 1951 ci fu il debutto in teatro con il dramma L’Ile Hereuse, scritto per lei dal marito.

Pochi mesi dopo la ripresa dei contatti con Hollywood per un suo ritorno, il 7 settembre 1951 a soli 39 anni, le sue sorelle Ada e Teresita la trovarono affogata nella vasca da bagno; molto presumibilmente, colpita da un attacco cardiaco.
Nella Repubblica Dominicana fu indetto lutto nazionale; fu cambiato il nome del Corso Prolongacion de l’Uruguay in quello di Maria Montez.
Nel 1996 il nuovo aeroporto internazionale di Barahona, la sua città natale, fu intitolato alla propria Stella più famosa, la Straniera che riuscì per un decennio a rivaleggiare con le grandi attrici a stelle e striscie.

 

 

La filmografia:

  • Lucky Devils (1941)
  • The Invisible Woman (1941)
  • Boss of Bullion City (1941)
  • That Night in Rio (1941)
  • Raiders of the Desert (1941)
  • Moonlight in Hawaii (1941)
  • South of Tahiti (1941)
  • Bombay Clipper (1942)
  • The Mystery of Marie Roget (1942)
  • Arabian Nights (1942)
  • White Savage (1943)
  • Ali Baba and the Forty Thieves (1944)
  • Follow the Boys (1944)
  • Cobra Woman (1944)
  • Gypsy Wildcat (1944)
  • Bowery to Broadway (1944)
  • Sudan (1945)
  • Tangier (1946)
  • The Exile (1947)
  • Pirates of Monterey (1947)
  • Siren of Atlantis (1948)
  • Hans le marin (1948)
  • Portrait d’un assassin (1949)
  • Il Ladro di Venezia (1950)
  • Amore e sangue (1951)
  • La Vendetta del corsaro (1951)

 

Fonte: http://digilander.libero.it/abydosgate/testi/sf/Atlantide.doc

Fonte: http://digilander.libero.it/abydosgate/testi/sf/Atlantis,%20the%20lost%20continent.doc

Fonte: http://digilander.libero.it/abydosgate/testi/sf/L%27Atlantide_21.doc

Fonte: http://digilander.libero.it/abydosgate/testi/sf/Ercole%20alla%20conquista%20di%20Atlantide.doc

Fonte: http://digilander.libero.it/abydosgate/testi/sf/Sirens%20of%20Atlantis.doc

sito web: http://digilander.libero.it/abydosgate/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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