Concorrenza

 

 

 

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Concorrenza

LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA

LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA

1. CONCORRENZA PERFETTA E MONOPOLIO

Il modello ideale di funzionamento del mercato teorizzato dagli economisti è la cosiddetta concorrenza perfetta. Essa presenta le seguenti caratteristiche:

  • contemporanea presenza sul mercato di una pluralità di operatori economici in competizione fra loro, ma in modo che nessuna di loro sia in grado di condizionare il prezzo delle merci;
  • piena mobilità dei fattori produttivi che assicuri il pronto adeguamento della produzione alle richieste del mercato;
  • piena mobilità della domanda da parte dei consumatori, liberi di orientare le proprie scelte verso i prodotti più convenienti per qualità e prezzo;
  • assenza di ostacoli all’ingresso di nuovi operatori in ogni settore della produzione e della distribuzione, nonché di accordi fra le imprese che falsino la libertà di competizione economica.

Questo modello di mercato è ideale e perfetto in quanto la concorrenza:

  • spinge verso una riduzione sia dei costi di produzione sia dei prezzi di vendita;
  • assicura la naturale eliminazione dal mercato delle imprese meno competitive;
  • stimola il progresso tecnologico e l’accrescimento dell’efficacia produttiva delle imprese;
  • determina la più razionale utilizzazione delle risorse limitate e il raggiungimento del grado più elevato possibile di benessere economico e sociale.

Ma la concorrenza perfetta è solo un modello ideale e teorico, mentre in realtà vari fattori portano il mercato verso una situazione di oligopolio, cioè ad un mercato caratterizzato dal controllo dell’offerta da parte di poche grandi imprese.
Molto spesso gli imprenditori stipulano fra loro dei patti, dette intese, volti a limitare la reciproca concorrenza.
Vi sono delle volte in cui tutta l’offerta di un dato prodotto è controllata da una sola impresa o da poche imprese coalizzate, detto monopolio di fatto.
Il riconoscimento legislativo della libertà di iniziativa economica privata e della conseguente libertà di concorrenza, art. 41 Cost., è presupposto necessario ma non sufficiente perché si instauri un regime oggettivo di mercato caratterizzato da un sufficiente grado di concorrenza effettiva.
Necessaria è anche una regolamentazione giuridica della concorrenza che impedisca situazioni di monopolio o quasi - monopolio.

L’art. 2595 dispone che la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell'economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge (e dalle norme corporative), e l’art. 41 Cost. al 2° comma ribadisce che l’iniziativa economica privata è si libera , ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.
Perciò, se il funzionamento concorrenziale del mercato tendenzialmente coincide con l’interesse collettivo, situazioni oggettive e/o obiettivi di politica economica e sociale dei pubblici poteri possono in concreto imporre limitazioni legislative vistose ed anche radicali della libertà di concorrenza.

La ricerca di un punto di equilibrio fra modello teorico ed utopico della piena e perfetta concorrenza  e la realtà operativa, costituisce la linea direttiva che ispira la disciplina della concorrenza nei sistemi giuridici ad economia libera, detta concorrenza sostenibile.
Su questo principio guida della libertà di concorrenza, il legislatore italiano:

  • consente limitazioni legali della stessa per fini di utilità sociale e la creazione di monopoli legali in specifici settori di interesse generale;
  • ricollega alla stipulazione di determinati contratti divieti di concorrenza fra le parti, finalizzati al corretto svolgimento del rapporto cui accedono ed alla tutela degli interessi patrimoniali del beneficiario del divieto stesso;
  • consente limitazioni negoziali della concorrenza, ma ne subordina nel contempo la validità al rispetto di condizioni che non comportino un radicale sacrificio della libertà di iniziativa economica attuale e futura, art.  2596 ;
  • assicura l’ordinato e corretto svolgimento della concorrenza attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale, artt. 2598-2601.

Per lungo tempo il sistema italiano della concorrenza si era contraddistinto per una vistosa lacuna: la mancanza di una normativa antimonopolistica, finalizzata al controllo dei fenomeni che possono determinare posizioni di prepotere economico sul mercato ed alla repressione degli abusi che esse posso generare.
A partire dagli anni cinquanta la lacuna fu parzialmente colmata dalla diretta applicabilità nel nostro ordinamento della disciplina antitrust, dettata dai Trattati della CEE. Tale normativa però consentiva di colpire solo le pratiche che possono pregiudicare il regime concorrenziale del mercato comune europeo, non quelle che incidono esclusivamente sul mercato italiano.
L’esigenza di colmare tale lacuna è stato colmato dalla legge n. 287 del 10-10-1990, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato.
Tale legge ha infatti introdotto una disciplina antimonopolistica  nazionale a carattere generale, che si affianca a quella comunitaria ed integra la normativa specifica emanata precedentemente  per i settori dell’editoria (legge n. 416/1981) e quello radiotelevisivo (legge n. 223/1990, oggi sostituito dal Testo Unico della radiotelevisione).

2. LA DISCIPLINA ITALIANA E COMUNITARIA

La libertà di iniziativa economica e la competizione fra imprese non possono tradursi in atti e comportamenti che pregiudicano in modo rilevante e durevole la struttura concorrenziale del mercato.

Questo principio è il cardine della legislazione antimonopolistica dell’UE, dettata dal Trattato Ce artt. 81-82 e dai Regolamenti Ce n. 1 del 16-12-1993 e n. 139 del 20-01-2004. Questa disciplina, applicabile direttamente alle imprese italiane, è volta a preservare il regime concorrenziale del mercato comunitario e a reprimere le pratiche anticoncorrenziali che pregiudicano il commercio fra stati membri. 
La Commissione della CE:

  • vigila sul rispetto di tali normative,
  • adotta i provvedimenti necessari per reprimere i comportamenti anticoncorrenziali vietati
  • irroga le sanzioni pecuniarie previste dalla legislazione comunitaria.

Questo principio è stato recepito anche dalla legislazione antimonopolistica italiana, legge n. 287 del 10-10-1990, volta a preservare il regime concorrenziale del mercato nazionale e a reprimere i comportamenti anticoncorrenziali che incidono solo sul mercato nazionale.
Per le imprese che opera nel campo dell’editoria e radiotelevisivo, trova applicazione la specifica disciplina volta a garantire il pluralismo dell’informazione di massa impedendo posizioni monopolistiche.

Da qui l’esigenza di coordinare le due normative, visto che il legislatore italiano ha riconosciuto posizione preminente e sovraordinata  alla disciplina comunitaria.
Infatti, la normativa nazionale ha carattere residuale, cioè è applicabile solo se la fattispecie non è prevista dalla normativa comunitaria, art. 1 legge 287/1993 e si applica alle pratiche anticoncorrenziali che hanno rilievo esclusivamente locale e che non incidono sulla concorrenza nel mercato comunitario.
Mentre, per le fattispecie che incidono sul mercato comunitario  è applicabile solo il diritto comunitario della concorrenza, c.d. principio della barriera unica, anche se la Commissione Ce sta decentrando l’applicazione della disciplina comunitaria  da parte dell’Autorità nazionale, art. 54 legge 52/1996.
I principi del diritto comunitario prevalgono anche sull’interpretazione dell’art. 8 della legge 287/1990 che definisce l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina antimonopolistica italiana:  imprese private, imprese pubbliche e a partecipazione statale, escluse le imprese in monopolio legale e quelle che gestiscono servizi di interesse economico generale.
Nella nozione comunitaria di impresa sono ricomprese anche gli esercenti professioni intellettuali, che per il nostro ordinamento non sono imprenditori.
Quindi, anche ad essi si applica la disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria.

La legge n. 287/1990 ha istituito un apposito organo pubblico indipendente, Autorità garante della concorrenza e del mercato, che vigila sul rispetto della normativa antimonopolistica in tutti i settori economici, tranne qualche eccezione:

  • per il settore assicurativo, l’Autorità deve sentire l’Isvap;
  • per il settore dell’editoria e radiotelevisivo vi è l’apposita Autorità.

L’Autorità garante:

  • ha ampi poteri di indagine ed ispettivi,
  • adotta i provvedimenti antimonopolistici necessari
  • irroga le sanzioni amministrative pecuniarie previste dalla legge.

Contro i provvedimenti amministrativi dell’Autorità può essere proposto ricorso giudiziario, per il quale è competente il Tar del Lazio, art. 33.
Le azioni di nullità e di risarcimento dei danni, nonché i ricorsi diretti ad ottenere provvedimenti di urgenza, vanno promossi alla Corte dei appello competente per territorio. Si omette, perciò, il primo grado di giudizio davanti al Tribunale.
Identici sono i fenomeni pericolosi per la struttura concorrenziale del mercato posti sotto controllo sia dalla disciplina comunitaria sia da quella nazionale: le intese; gli abusi di posizione dominante; gli abusi di posizione dominante; le concentrazioni. Da qui l’esigenza di un coordinamento fra le due normative, che il legislatore italiano ha realizzato riconoscendo posizione preminente e sovraordinata alla disciplina comunitaria. E ciò sotto un duplice profilo. La normativa interna è infatti applicazione della normativa comunitaria ( art.1 legge 287/1993).  La disciplina italiana ha perciò carattere residuale : è circoscritta alle pratiche anticoncorrenziali che hanno rilievo esclusivamente locale e che non incidono sulla concorrenza nel mercato comunitario. Per queste ultime è invece applicabile solo il diritto comunitario della concorrenza (c.d. principio della barriera unica), anche se l’originaria competenza esclusiva in materia della Commissione Ce sta progressivamente cedendo il passo all’applicazione decentrata della normativa comunitaria da parte delle autorità nazionali (dunque, in Italia l’Autorità garante della concorrenza e del mercato) ad applicare la disciplina comunitaria sulle intese e sugli abusi di posizione dominante, salvo che la Commissione non ritenga opportuno occuparsi personalmente del caso (art. 11, 6° comma, reg. Ce 1/2003). Inoltre, non solo le situazioni vietate dalla legge italiana sono individuate assumendo come modello le corrispondenti disposizioni dell’ordinamento comunitario, ma è espressamente stabilito che esse vanno interpretate (anche) in base ai principi dell’ordinamento comunitario (art. 1, 4 ° comma, legge 287/1990).

3.1 LE SINGOLE FATTISPECIE
I fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria sono:

  • le intese restrittive della concorrenza;
  • gli abusi di posizione dominante;
  • le concentrazioni.

3. 2LE INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA.

Le intese sono comportamenti concordati fra imprese volti a limitare la propria libertà di azione sul mercato, art. 2 legge 287/1990 e art. 81 Trattato Ce (es: accordi con cui si fissano prezzi uniformi).
In particolare, sono considerate intese:

  • gli accordi fra imprese, anche se non vincolanti;
  • le deliberazioni di consorzi, di associazioni di imprese o altri organismi similari;
  • le pratiche concordate fra imprese, volte ad evitare che sfuggano al divieto di intese restrittive della concorrenza i comportamenti concertati che non derivano da accordi espressi. Vi rientra ogni forma di coordinamento dell’attività delle imprese che si traduce in comportamenti paralleli (es: aumento simultaneo dei prezzi), consapevolmente adottati mediante contatti diretti o indiretti (es: scambio di informazioni riservate).

Non tutte le intese anticoncorrenziali sono però vietate. Sono vietate solo le intese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o comunitario, o in una sua parte rilevante. Sono quindi lecite le intese minori cioè quelle che per la struttura del mercato interessato e le caratteristiche delle imprese operanti non incidono sull’assetto concorrenziale del mercato. Rientrano tra le intese vietate non solo quelle tra produttori (intese orizzontali) ma anche gli accordi commerciali tra produttori e distributori che prevedono clausole di esclusiva idonee a produrre un effetto di chiusura del mercato (intese verticali).
Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto. Chiunque, indipendentemente dall’iniziativa dell’Autorità, può agire in giudizio per farne accertare la nullità, anche prima che gli effetti si realizzino. L’Autorità, dopo aver accertato le infrazioni commesse, con apposita istruttoria, art. 14, adotta (anche in via cautelare) i provvedimenti per la rimozione degli effetti anticoncorrenziali ed irroga le sanzioni pecuniarie previste dall’art. 15. Essa può però chiudere l’istruttoria senza accertare l’infrazione, quando l’impresa assuma impegni tali da far cessare profili anticoncorrenziali contestati.
L’Autorità può concedere anche delle esenzioni temporanee, individuali o per categoria di accordi, purché ricorrano le condizioni specificate dalla legge. Cioè, si deve trattare di intese che migliorino le condizioni di offerta sul mercato e producono un sostanziale beneficio per i consumatori in termini di aumento della produzione, di miglioramento qualitativo della stessa o della distribuzione, di progresso tecnico. È comunque necessario che non sia eliminata la concorrenza da una parte sostanziale del mercato, art. 4.

 

4. ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE E ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA .

L’art. 3 della legge 287/1990 vieta l’abuso di posizione dominante da parte di una o più imprese, con comportamenti lesivi dei concorrenti e dei consumatori derivanti dallo sfruttamento abusivo di tale posizione dominante, capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva (ad eccezione del settore dei mezzi di comunicazione di massa).
Nella valutazione della posizione dominante un ruolo decisivo gioca l’individuazione del mercato rilevante.
Questo comprende tutti i prodotti e/o servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell’uso al quale sono destinati e, abbraccia quella zona in cui le imprese fornitrici si pongono fra loro in rapporto di concorrenza. L’individuazione del mercato rilevante non è agevole anche per la tendenza dell’Autorità a frammentare lo stesso.
I comportamenti tipici che possono dar luogo ad abuso di posizione dominante sono identificati negli stessi comportamenti che possono formare oggetto di intese vietate. Perciò, ad un’impresa in posizione dominante è vietato di:

  • fissare i prezzi di acquisto o di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose;
  • impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico a danno dei consumatori;
  • ripartire i mercati e le fonti di approvvigionamento;
  • applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare ingiustificati svantaggi nella concorrenza;
  • subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi.

Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni. Accertata l’infrazione l’Autorità competente:

  • ne ordina la cessazione prendendo le misure necessarie;
  • infligge sanzione pecuniarie identiche a quelle stabilite per le intese;
  • in caso di reiterata inottemperanza, l’Autorità italiana può disporre la sospensione dell’attività dell’impresa fino a trenta giorni, art. 15.

 
Nell’ordinamento nazionale è vietato anche l’abuso di dipendenza economica, cioè di quella situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi.
Il patto attraverso cui si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo ed espone al risarcimento dei danni nei confronti dell’impresa che ha subito l’abuso. Inoltre, l’Autorità garante applica le sanzioni previste per l’abuso di posizione dominante qualora ravvisi che l’abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato.

5. LE CONCENTRAZIONI

Gli artt. 5-7 legge 287/1990 e il regolamento Ce n. 139 del 20-01-2004 prevedono le operazioni di concentrazione fra imprese. Si ha concentrazione quando:

  • due o più imprese si fondano dando così luogo ad un’impresa unica, concentrazione giuridica;
  • due o più imprese, pur restando giuridicamente distinte, diventano un’unica entità economica, concentrazione economica, cioè sono sottoposte ad un controllo unitario che consente di esercitare un’influenza determinante sull’attività produttiva delle imprese controllate;
  • due o più imprese indipendenti costituiscono un’impresa societaria comune.

Le imprese comuni sono però sottratte alla disciplina delle concentrazioni quando abbiano come scopo principale il coordinamento dei comportamenti concorrenziali delle imprese partecipanti, art. 5 legge 287/1990.
Quindi, gli strumenti giuridici che possono dar luogo ad un’operazione di concentrazione (es: fusione, scissione, acquisto di un’azienda) sono diversi ma hanno tutti lo scopo di ampliare la quota di mercato detenuta da un’impresa, realizzato attraverso operazioni che comportano la stabile riduzione del numero di imprese indipendenti operanti nel settore. Perciò, la disciplina delle concentrazioni  è da escludersi quando le imprese partecipanti fanno parte di uno stesso gruppo.
Le concentrazioni sono un utile strumento di ristrutturazione e rispondono all’ esigenza di accrescere la competitività delle imprese. Sono illecite e vietate quando diano luogo a gravi alterazioni del mercato, cioè quando superino determinati dimensioni.
È previsto che le operazioni che superino determinate soglie di fatturato, a livello nazionale o comunitario, devono essere preventivamente comunicate all’Autorità italiana o alla Commissione Ce, al fine di valutare se esse comportano la costruzione o il rafforzamento di una posizione dominante che elimina o riduce in modo sostanziale e durevole la concorrenza sul mercato nazionale o comunitario o in una parte rilevante di essi.
Se l’Autorità ritiene di dover indagare sulla liceità della concentrazione, apre un’apposita istruttoria che deve essere conclusa entro 45 giorni, art. 16.
Nel frattempo può ordinare alle imprese interessate di sospendere la realizzazione della concentrazione, art. 17.
Terminata l’istruttoria, l’Autorità può vietare la concentrazione se ritiene che la stessa comporta la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante con effetti distorsivi per la concorrenza stabili e durevoli
In alternativa può autorizzarla prescrivendo le misure necessarie per impedire tali conseguenze, art. 6.
Qualora la concentrazione sia già stata realizzata prescrive le misure necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva e ad eliminare gli effetti distorsivi, art. 18.
In presenza di rilevanti interessi generali dell’economia nazionale, l’Autorità può tuttavia eccezionalmente autorizzare anche concentrazioni altrimenti vietate, in conformità dei criteri generali preventivamente fissati dal Governo, art. 25.
Se la concentrazione vietata viene ugualmente esercitata o se le imprese non si adeguano a quanto prescritto, l’Autorità può infliggere pesanti sanzioni pecuniarie.
Diversamente dalle intese però, non è sancita la nullità delle operazioni che hanno dato luogo ad una concentrazione vietata.
Perciò, ai terzi resta solo la possibilità di richiedere il risarcimento dei danni in via giudiziaria, art. 33.

LE LIMITAZIONI DELLA CONCORRENZA

6. LIMITAZIONI PUBBLICISTICHE E MONOPOLI LEGALI

La Costituzione e il codice civile prevedono che la libertà di iniziativa economica e la libertà di concorrenza possono essere limitate dal legislatore ordinario per fini di utilità sociale.
Molte sono le forme di regolamentazione pubblicistica dell’iniziativa economica privata che si risolvono in limitazioni della libertà di concorrenza. Alcune sono:

  • i controlli sull’accesso al mercato di nuovi imprenditori, con concessioni o autorizzazioni amministrative;
  • gli ampi poteri di indirizzo e di controllo dell’attività riconosciuti alla pubblica amministrazione nei confronti delle imprese che operano in alcuni settori;
  • l’articolato sistema di controllo pubblico dei prezzi di vendita, che per alcuni beni può giungere fino alla fissazione del prezzo di imperio da parte del CIP, comitato interministeriale prezzi (es: farmaci, giornali).

L’interesse generale può legittimare anche la radicale soppressione della libertà di iniziativa economica privata e di concorrenza. L’art. 43 Cost. pone dei limiti al potere statale di creare monopoli pubblici.
È necessario che la riserva di attività sia disposta con legge ordinaria e che abbia un fine di utilità generale. Inoltre, sono prefissati i settori in cui può essere legittimato un monopolio pubblico.

7. OBBLIGO DI CONTRARRE DEL MONOPOLISTA

Quando la produzione di determinati beni o servizi è attuata in regime di monopolio legale non trova applicazione nei confronti dell’impresa monopolistica la normativa antitrust, art. 2 legge 287/1990, ma il legislatore tutela gli utenti contro possibili comportamenti arbitrari del monopolista.

L’art. 2597 pone un duplice obbligo a carico di chi opera in regime di monopolio:

  • l’obbligo di contrattare con chiunque richiede le prestazioni che formano oggetto dell’impresa;
  • l’obbligo di rispettare la parità di trattamento fra i diversi richiedenti; quindi, il monopolista dovrà rendere note le proprie condizioni contrattuali, che saranno poi applicate a tutti coloro che faranno richiesta  della prestazione. Potranno essere previste varie tariffe differenziate, purché siano predeterminati i relativi presupposti di applicazione e ne faccia godere chiunque si trovi nelle condizioni richieste.  Ogni altra deroga è nulla.

Gli stessi obblighi sono previsti dall’art. 1679 a carico di chi eserciti in regime di concessione amministrativa pubblici servizi di linea per il trasporto di cose o persone.

La disciplina del monopolista legale non si applica al monopolista di fatto, cioè all’imprenditore che, pur non godendo di un regime di esclusiva, abbia una posizione dominante sul mercato ed in fatto controlli la produzione ed il commercio di un bene o di un servizio non facilmente sostituibili dai consumatori.
Al monopolista di fatto è applicabile la normativa a tutela della concorrenza introdotta dalla legge 287/1990 e ciò consente di reprimere per altra via le pratiche discriminatorie e vessatorie poste in essere dallo stesso nei confronti di altri imprenditori, ma non dei consumatori.

 

8. I DIVIETI LEGALI DI CONCORRENZA

Oltre le limitazioni di natura pubblicistica, la libertà di concorrenza subisce un’ulteriore limitazione, disposta dal legislatore a tutela di interessi patrimoniali e privati.
Nel codice civile ci sono delle norme che pongono a carico di soggetti legati  da particolari rapporti contrattuali l’obbligo di astenersi dal far concorrenza alla controparte, al fine di assicurare il corretto svolgimento o la corretta esecuzione di un contratto. Tali divieti sono detti divieti legali di concorrenza.
Questi sono divieti durano per tutto il tempo della collaborazione economica e la portata del divieto si modella in funzione dell’attività imprenditoriale effettivamente esercitata dall’avente diritto.
Essendo previsti nell’interesse della controparte, tali divieti hanno carattere dispositivo, cioè operano senza una necessaria pattuizione, ma sono convenzionalmente derogabili.
Sono divieti legali di concorrenza:

  • l’obbligo di fedeltà a carico dei prestatori di lavoro previsto dall’art. 2105, che gli vieta di trattare affari in concorrenza con l’imprenditore fin quando dura il rapporto di lavoro;
  • il divieto di esercitare attività concorrente con quello della società, posto a carico degli amministratori di società di capitali e dei soci illimitatamente responsabili di società di persone;
  • il diritto di esclusiva reciproca nel contratto di agenzia, art. 1743, in base al quale né il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l'agente può assumere l'incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro.

Tra i divieti rientra anche quello posto a carico di chi aliena un’azienda commerciale ed ha durata massima di 5 anni.

 

9. LIMITAZIONI CONVENZIONALI DELLA CONCORRENZA

Dall’art. 2596 desumiamo che la libertà individuale di iniziativa economica di concorrenza è libertà parzialmente disponibile. Infatti, questo articolo permette la stipulazione di accordi restrittivi della concorrenza e detta una disciplina di carattere generale degli stessi fondata su tre regole:

  • il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto;
  • il patto non può precludere al soggetto che si vincola lo svolgimento di ogni attività professionale in quanto è previsto che il patto stesso è valido solo se circoscritto ad un determinato ambito territoriale o ad un determinato tipo di attività;
  • il patto può durare massimo 5 anni.

Rispettate le condizioni fissate dall’art. de quo, ogni accordo limitativo della concorrenza fra imprese italiane deve ritenersi valido quando non ricorrono i presupposti per l’applicazione delle norme antimonopolistiche comunitarie e purché non ricadono nel divieto di intese anticoncorrenziali o di abuso di posizione dominante introdotto dalla legge 287/1990.

Oltre alla disciplina generale fissata dall’art. 2596 vi sono anche altre disposizioni che dettano una regolamentazione specifica per alcuni patti anticoncorrenziali innominati: i patti autonomi e i patti accessori.
I patti autonomi sono gli accordi limitativi della concorrenza che si presentano sotto forma di autonomo contratto che ha come oggetto e funzione esclusivi la restrizione della libertà di concorrenza.
Un tale contratto può prevedere obblighi nei confronti di una sola delle parti, restrizioni unilaterali, o nei confronti di entrambe le parti, restrizioni reciproche. Quest’ultime si chiamano cartelli o intese e possono prevedere impegni reciproci di vario tipo:

  • la quantità totale di produzione e la quota spettante ad ogni impresa, cartelli di contingentamento;
  • si ripartiscono le zone di distribuzione, cartelli di zona;
  • predeterminare i prezzi di vendita da praticare, cartelli di prezzo.

I contratti che prevedono obblighi unilaterali di non concorrenza ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 2596 e la loro durata non potrà superare i 5 anni.
La soluzione non è altrettanto pacifica per tutti i contratti che prevedono restrizioni reciproche della concorrenza. Il problema nasce dal fatto che le finalità di un cartello (contratto innominato) possono essere realizzate anche attraverso la stipulazione di un contratto di consorzio (contratto tipico). Il consorzio si caratterizza per la creazione di una organizzazione comune tra gli imprenditori partecipanti – elemento strutturale che manca nei cartelli – e per esso non è previsto alcun limite di durata; è anzi disposto che, se le parti nulla prevedono, il contratto è valido per dieci anni. Ne consegue che il limite di durata quinquennale, previsto ex art. 2596, è applicabile solo alle restrizioni reciproche della concorrenza che non prevedono la costituzione di un consorzio. Dunque, se si accetta tale impostazione, basterà stipulare un contratto di consorzio e così la durata del patto anticoncorrenziale potrà essere liberamente convenuta.
I patti accessori sono gli accordi restrittivi della concorrenza che si presentano come clausola accessoria di un altro contratto con diverso oggetto. Anch’essi possono essere a carico di una sola delle parti o di entrambe. Inoltre, essi possono intercorrere sia fra imprenditori in diretta concorrenza, in quanto operano nello stesso livello del processo produttivo o commerciale, restrizioni orizzontali, oppure tra imprenditori che operano a livelli diversi fra i quali manca una concorrenza diretta, restrizioni verticali (es: concessione di vendita in esclusiva, somministrazione di merci con prezzo imposto).
Il codice disciplina esplicitamente dei patti nominati:

  • la clausola di esclusiva, che può essere inserita in un contratto di somministrazione;
  • il patto di preferenza a favore del somministrante inserito nel contratto di somministrazione; non può superare i 5 anni; il somministrato si obbliga a preferire lo stesso somministrante qualora intenda stipulare un successivo contratto di somministrazione per lo stesso oggetto;
  • il patto di non concorrenza con il quale si limita l’attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto. Tale patto è nullo se non risulta da atto scritto o se non è previsto un compenso per il lavoratore; salvo che per i dirigenti (5 anni) il vincolo non può eccedere i 3 anni dalla fine del rapporto di lavoro;
  • il patto di concorrenza dell’agente dopo lo scioglimento del contratto di agenzia; tale patto deve farsi per iscritto, non può durare più di 2 anni e deve riguardare la stessa zona, clientela e genere di servizi o beni oggetto del contratto di agenzia; all’agente è riconosciuta un’indennità determinata d’accordo tra le parti o, in mancanza, dal giudice.

Quindi, l’art. 2596 si applica solo ai patti accessori innominati.
Il limite dei 5 anni si applica ai patti innominati solo se comportano limitazioni della concorrenza non funzionali al tipo di contratto cui accedono, e non quando il patto e il contratto abbiano la stessa funzione economica.
Secondo l’opinione più diffusa, le limitazioni dell’art. 2596 si applicherebbero solo alle restrizioni orizzontali della concorrenza. Mentre le restrizioni verticali sarebbero regolate dall’art. 1379 che prevede che il divieto di alienare stabilito per contratto ha effetto solo tra le parti, e non è valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo e se non risponde a un apprezzabile interesse di una delle parti. Ma tale tesi non è condivisibile.

LA CONCORRENZA SLEALE

10. LIBERTA’ DI CONCORRENZA E DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE

La libertà di iniziativa economica implica la normale presenza sul mercato di più imprenditori che offrono beni, servizi identici o similari e che sono in concorrenza fra loro per conquistare i consumatori e il successo economico.
Il danno che un imprenditore subisce a causa della sottrazione della clientela da parte dei concorrenti non è danno ingiusto e risarcibile.
Tuttavia, è interesse generale che la competizione fra imprenditori si svolga in modo corretto e leale.
Il codice di commercio del 1882 non conteneva specifiche disposizioni al riguardo ed il vuoto normativo fu originariamente colmato dalla giurisprudenza applicando la disciplina dell’illecito civile.
Nell’ordinamento vigente questa esigenza è soddisfatta dalla disciplina della concorrenza sleale (artt. 2598-2601) che recepisce la normativa della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 1883.
Nello svolgimento della competizione fra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di mezzi e tecniche non conformi ai principi della correttezza professionale, art. 2598. I fatti, gli atti e i comportamenti che violino tale regola sono atti di concorrenza sleale, c.d. illecito concorrenziale ( atti di confusione, atti di denigrazione, atti di vanteria).
Tali atti sono sanzionati anche se – e qui si rinviene una prima differenza con l’illecito civile - compiuti senza dolo o colpa, art. 2600,1 ed anche se non hanno arrecato danno ai concorrenti. Infatti basta il  danno potenziale, cioè basta che l’atto sia idoneo a danneggiare l’altrui azienda.
Le sanzioni tipiche di questi atti sono l’inibitoria alla continuazione degli atti di concorrenza sleale e la rimozione degli effetti prodotti, art. 2599 salvo il diritto al risarcimento dei danni in presenza di dolo o colpa e di un danno patrimoniale attuale.
La disciplina della concorrenza sleale deriva dalla disciplina generale dell’illecito civile (art. 2043) ed assolve la funzione di prevenire e reprimere atti suscettibili di arrecare un danno ingiusto. Funzione sostanzialmente identica a quella che l’ordinamento assegna alla disciplina dell’illecito civile ma perseguita con gli adattamenti imposti dalla specificità del tipo di illecito che si vuol reprimere, ossia quello concorrenziale. Si possono delineare a questo punto delle differenze rilevanti in quanto la repressione degli atti di concorrenza sleale:

  • non ricorre all’elemento soggettivo del dolo o della colpa;
  • è svincolata dalla presenza di un danno patrimoniale attuale come inteso dall’art. 2043;
  • è attuata attraverso sanzioni tipiche (inibitoria e rimozione) che non si esauriscono nel mero risarcimento dei danni.

Quindi, la disciplina della concorrenza sleale non tutela solo l’interesse dell’imprenditore a non veder alterato il proprio guadagno, ma ad essere tutelato è il più generale interesse  a che non vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del pubblico e non siano tratti in inganno i consumatori. Gli interessi diffusi dei consumatori di certo non possono considerarsi estranei al sistema della concorrenza sleale e devono perciò essere tenuti presenti nel valutare la lealtà delle pratiche concorrenziali ma non possono essere elevati ad interessi direttamente tutelati da tale disciplina. Perché un atto configuri concorrenza sleale è necessario che sia idoneo a danneggiare i concorrenti e tale atto resta anche se non arreca alcun pregiudizio ai consumatori, anche se ne traessero vantaggio (es: fenomeno del dumping, vendite sottocosto finalizzate all’annientamento dei concorrenti).
Infatti, contro gli atti di concorrenza sleale sono legittimati a reagire solo gli imprenditori concorrenti  o loro associazioni di categoria (art. 2601) e non i consumatori.
Pertanto il sistema della concorrenza sleale non può essere deputato ad assolvere una diretta funzione protettiva dei consumatori in quanto applica una tutela solo in modo mediato e riflesso. All’originaria mancanza di norme sulla protezione dei consumatori contro gli inganni pubblicitari ha in un primo tempo supplito l’autonomia privata con la volontaria adozione da parte delle imprese di settore di un Codice di autodisciplina pubblicitaria, sul cui rispetto vigila un apposito organismo di giustizia privata (Giurì di autodisciplina). Si è dopo affiancata una disciplina statale della pubblicità ingannevole ex D.lgs. n. 74/1992 che ha introdotto nel codice di consumo norme di tutela dei consumatori contro tutte le pratiche commerciali scorrette.

11. AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE

L’applicazione della disciplina della concorrenza sleale postula due presupposti:

  • la qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere l’atto di concorrenza vietato, sia del soggetto che ne subisce le conseguenze;
  • l’esigenza di un rapporto di concorrenza economica fra i due.

Chi è leso nella propria attività di impresa da un soggetto che non è imprenditore o non è suo concorrente potrà reagire avvalendosi della disciplina dell’illecito civile se vi sono i presupposti (colpa o dolo del soggetto attivo e danno attuale).

i soggetti
Soggetto passivo dell’atto di concorrenza sleale può essere solo un imprenditore in quanto solo nei confronti di un imprenditore si verifica la condizione dell’idoneità dell’atto a danneggiare l’altrui azienda.
C’è qualche incertezza sulla necessità che la qualità di imprenditore debba essere rivestita anche dall’autore del comportamento sleale, affermandosi testualmente all’art. 2598 che “compie atti di concorrenza sleale chiunque…” Dottrina e giurisprudenza propendono per una interpretazione restrittiva di tale formula dato che concorrente di un imprenditore non può che essere un altro imprenditore. Soprattutto tale soluzione contiene una fondamentale esigenza di parità di trattamento dato che “non si saprebbe davvero ravvisare la giustificazione di una tutela privilegiata dell’imprenditore nei confronti di tutti i consociati mentre una tutela speciale dell’imprenditore nei confronti degli altri imprenditori perde il carattere di privilegio data la stessa reciprocità della tutela”. Si deduce che la disciplina della concorrenza sleale non è applicabile quando il soggetto attivo non è imprenditore.
Egli risponde a titolo di concorrenza sleale non solo per gli atti da lui direttamente compiuti ma anche per quelli posti in essere da altri (ausiliari autonomi o subordinati) nel suo interesse e su sua istigazione o incarico. Infatti, l’art. 2598,3 prevede espressamente che l’atto di concorrenza sleale può essere compiuto anche indirettamente.

Rapporto concorrenziale.
Fra soggetto passivo e soggetto attivo deve esistere un rapporto di concorrenza prossima o effettiva, cioè entrambi devono offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare lo stesso bisogno dei consumatori o bisogni similari o complementari.
Nel valutare l’esistenza del rapporto di concorrenza bisogna tener conto della prevedibile espansione territoriale e merceologica dell’attività dell’imprenditore che subisce l’atto di concorrenza sleale, detta concorrenza potenziale (es: dovranno considerarsi in rapporto di concorrenza un produttore di acque minerali ed un produttore di bibite).

La disciplina della concorrenza sleale è stata estesa dalla giurisprudenza anche a imprenditori che agiscono a livelli economici diversi, purché il risultato ultimo di entrambe le attività incida sulla stessa categoria di consumatori, detta concorrenza verticale (es: compie atto di concorrenza sleale verso un produttore di aperitivi l’esercente di un bar che serva un aperitivo diverso da quello specificamente richiesto dalla clientela).

12. GLI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE. LE FATTISPECIE TIPICHE

I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall’art. 2598 che individua, per cominciare, due ampie categorie tipiche:

  • atti di confusione à ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente (art. 2598 n. 1); è lecito attirare a sé l’altrui clientela ma non è lecito farlo avvalendosi di mezzi che traggono in inganno i consumatori sulla provenienza dei prodotti o sull’identità dell’imprenditore.

Questi mezzi sfruttano il successo sul mercato dei concorrenti, generando equivoci e possibile sviamento della clientela. I mezzi per far ciò possono essere tanti, ma il legislatore ne individua due:
-    l’uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o segni distintivi legittimamente usati da altri imprenditori concorrenti (es: chi adotta un marchio privo di capacità distintiva o di novità e quindi non tutelato dalla disciplina dei marchi, non potrà poi pretendere che un concorrente si astenga dall’utilizzare lo stesso segno in base alla disciplina della concorrenza sleale); la confondibilità può riguardare segni distintivi tipici (ditta, insegna e marchio) ed in tal caso la tutela della disciplina della concorrenza sleale integrerà quella offerta dalla disciplina dei segni distintivi. Si può altresì trattare di segni non protetti da altre disposizioni (es: slogan pubblicitario) ed in tal caso potrà applicarsi solo la disciplina della concorrenza sleale. 
-    l’imitazione servile dei prodotti di un concorrente, cioè l’imitazione della forma esteriore dei prodotti altrui (es: involucro o confezione), attuata in modo da indurre il pubblico a supporre che i due prodotti provengano dalla stessa impresa. L’imitazione deve riguardare elementi formali non necessari ma al tempo stesso caratterizzanti, cioè idonei a differenziare esteriormente quel dato prodotto dagli altri dello stesso genere (es: particolare forma o colore). Non si ricade in questa ipotesi quando vengono imitate forme comuni ormai standardizzate rinvenibili in ogni prodotto (es: forma di una bombola a gas per cucina).
-    ogni altro mezzo idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente (es: imitazione dei mezzi pubblicitari, listini o cataloghi).

  • atti di denigrazione à a) consistono nel diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito; b) oppure l’appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa del concorrente (art. 2598 n. 2).

Si tratta di due fattispecie la cui finalità comune è di falsare gli elementi di valutazione comparativa del pubblico (consumatori ed altri imprenditori), attraverso comunicazioni indirizzate a terzi e in primo luogo avvalendosi dell’arma della pubblicità. Diverse sono le modalità con cui tale finalità è perseguita. Con la denigrazione si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la loro reputazione commerciale. Con la vanteria si tende invece ad incrementare artificiosamente il proprio prestigio attribuendo ai propri prodotti o alla propria attività pregi che in realtà appartengono ad uno o più concorrenti.
I mezzi denigratori sono diversi, come:

  • le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte di concorrenti specifici (es: violazione di un proprio brevetto industriale), quando la diffida sia priva di fondamento o il suo contenuto oltrepassi i limiti della necessaria tutela del proprio diritto; più in generale la divulgazione di notizie che possono screditare la reputazione commerciale del concorrente;
  • la pubblicità iperbolica o superlativa, con cui si tende ad accreditare l’idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità o determinati pregi, che invece vengono implicitamente negati ai prodotti dei concorrenti (es: il caff X è il solo che non fa mai male al cuore). Lecito è invece il puffing, consistente nella generica ed innocua affermazione di superiorità dei propri prodotti (es: il panettone M non è un panettone ma il panettone); anche se non è sempre agevole marcare il confine con la pubblicità ingannevole;
  • la pubblicità parassitaria o per sottrazione, consistente nella mendace attribuzione a se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti che in realtà appartengono al concorrente;
  • la pubblicità per riferimento o per agganciamento, consiste nel far credere che i propri prodotti siano simili a quelli del concorrente, attraverso l’uso di espressioni come tipo, modello, sistema (es: pezzo di ricambio tipo Fiat), al fine di avvantaggiarsi indebitamente dell’altrui rinomanza commerciale;
  • la pubblicità comparativa, confronta la propria attività e i propri prodotti con quelli di uno o più concorrenti, in modo da esprimere un giudizio negativo sui concorrenti. Oggi è consentita a determinate condizioni, ossia quando non sia ingannevole e non ingenera confusione sul mercato e non causa discredito o denigrazione del concorrente.

13. GLI ALTRI MEZZI DI CONCORRENZA SLEALE

L’art. 2598 n. 3 chiude l’elenco degli atti di concorrenza sleale con “ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
È indubbio che in questa formula siano racchiusi gli elementi che qualificano in generale l’atto di concorrenza sleale, perciò chi reagisce contro gli stessi non sarà tenuto a provare che il comportamento del concorrente è idoneo a danneggiare la propria azienda. Inoltre il giudice non dovrà valutare se l’atto in questione contrasta con il parametro della correttezza professionale perché tale valutazione è stata già compiuta dal legislatore in via preventiva e non può essere disattesa nel caso concreto.
Fra gli atti contrari alla correttezza professionale vi è la pubblicità menzognera, cioè la falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad alcun concorrente, diretta a screditare i prodotti di altro imprenditore. Si considera illecita anche quella non lesiva di un determinato concorrente, quando il messaggio pubblicitario sia tale da trarre in inganno il pubblico falsandone gli elementi di giudizio, con danno potenziale per tutti i concorrenti del settore.
Poi la giurisprudenza ha individuato altre forme di concorrenza sleale:

  • la concorrenza parassitaria, che consiste nella sistematica imitazione delle altrui iniziative imprenditoriali (prodotti, marchi, campagne pubblicitarie); imitazione attuata con accorgimenti tali da evitare la piena confondibilità delle attività e quindi non reprimibile in base alla fattispecie tipica degli atti di confusione e con un disegno che denota il pedissequo sfruttamento dell’altrui creatività; celebre il caso Motta-Alemagna;
  • il boicottaggio economico, cioè il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un’impresa in posizione dominante sul mercato (boicottaggio individuale) o di un gruppo di imprese associate (boicottaggio collettivo) di fornire prodotti a determinati rivenditori, in modo da escluderli dal mercato;
  • il dumping, cioè la sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti;
  • la sottrazione ad un concorrente di dipendenti o collaboratori particolarmente qualificati, quando venga attuata con mezzi scorretti (false notizie sulla situazione economica dell’imprenditore concorrente) e col deliberato proposito di trarne vantaggio con danno all’altrui azienda; non è sufficiente il mero allettamento basato sull’offerta di condizioni economiche migliori;
  • la violazione di segreti aziendali, cioè la rilevazione a terzi e l’acquisizione o l’utilizzazione da parte di terzi, in modo contrario alla correttezza professionale, delle informazioni aziendali segrete; illeciti che espongono anche a sanzioni penali.

14. LE SANZIONI

La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni:

  • inibitoria (art. 2599) à interesse primario dell’imprenditore che subisce un atto di concorrenza sleale è quello di ottenere la cessazione delle turbative alla propria attività e di ottenerla, se possibile, prima che l’atto gli abbia causato un danno patrimoniale. A tale finalità risponde l’azione inibitoria. Essa è diretta ad ottenere una sentenza che accerti l’illecito concorrenziale, ne inibisca la continuazione per il futuro e disponga a carico della controparte i provvedimenti reintegrativi necessari per far cessare gli effetti della concorrenza sleale (es: rimozione o distruzione delle cose che sono servite per attuare l’illecito concorrenziale; imposizioni di varianti ai prodotti del concorrente). Questo tipo di azione e le relative sanzioni prescindono dal dolo o dalla colpa del soggetto attivo dell’atto di concorrenza sleale e dall’esistenza di un danno patrimoniale attuale per la controparte.
  • risarcimento dei danni (art. 2600) à ricorrendo questi ultimi presupposti, il concorrente leso potrà richiedere il risarcimento dei danni, la cui disciplina in deroga a quella generale dell’illecito civile presume la colpa del danneggiante una volta accertato l’atto di concorrenza sleale (comma 3). Fra le misure risarcitorie, il giudice può disporre anche la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali a spese del soccombente.

I soggetti legittimati sono gli imprenditori lesi. Possono promuovere tale azione anche le associazioni professionali degli imprenditori e gli enti rappresentativi di categoria quando gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale (art. 2601) nonché di recente anche alle Camere di commercio. Il che induce a ritenere che le associazioni professionali possano agire in giudizio anche se l’atto non danneggi specificamente alcun associato.
Fra i soggetti legittimati non sono menzionati né i singoli consumatori né le associazioni rappresentative dei loro interessi. I primi, se direttamente danneggiati, potevano in passato chiedere solo il risarcimento dei danni sulla base della meno favorevole disciplina generale dell’illecito civile. La situazione è oggi parzialmente cambiata quando ricorrono i presupposti per l’applicazione della disciplina per la regressione delle pratiche commerciali scorrette e della pubblicità ingannevole.

15. LE PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE FRA IMPRESE E CONSUMATORI

La disciplina della concorrenza sleale, di per sé inidonea a tutelare adeguatamente i consumatori, è stata dapprima affiancata da una specifica disciplina contro la pubblicità ingannevole  e la pubblicità comparativa illecita (attualmente dettata dal D.lgs. 2-8-2007, n.145, ed in origine dal D.lgs. 25-1-1992, n. 74 emanato in attuazione della Direttiva Cee 84/450) ed ora da una più generale normativa per la repressione di  tutte le  pratiche commerciali scorrette fra imprese e consumatori. Con tali interventi normativi l’interesse dei consumatori ad essere tutelato contro gli effetti distorsivi di pratiche commerciali illecite assurge ad interesse ad interesse direttamente e specificamente tutelato dall’ordinamento statale. A tal fine è stato introdotto un controllo amministrativo affidato all’Autorità garante della concorrenza e del mercato istituita dalla legge antitrust.
“Pratica commerciale” è in senso lato qualsiasi condotta posta in essere da un professionista (o per suo conto) in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori. Rientrano perciò in questa definizione tutte le attività realizzate dall’imprenditore dell’operazione commerciale, come la promozione del  prodotto ma anche durante o dopo, come le modalità di informazione del consumatore o la fornitura di assistenza post-vendita. Ed anche le omissioni, quando sono idonee a trarre in inganno il consumatore o possono essere considerate altrimenti scorrette. Ne sono invece escluse le pratiche commerciali realizzate nei confronti  di altri professionisti.
Una pratica commerciale è scorretta quando, cumulativamente:
a) non è conforme al gradi di diligenza che il consumatore può ragionevolmente attendersi dal professionista in base ai principi generali di correttezza e buona fede nel settore di attività del professionista stesso;
b) ed è idonea a falsare il comportamento medio, inducendolo ad assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
Sono valutate con maggior rigore le pratiche commerciali che, per le loro caratteristiche o per il prodotto, possono prevedibilmente influenzare uno specifico gruppo di consumatori particolarmente vulnerabile (minori, anziani, infermi di mente): ad esempio, una pubblicità trasmessa durante un programma per bambini. La correttezza della condotta del professionista dovrà in tal caso essere accertata in relazione alla normale capacità  di discernimento di un individuo appartenente a quella categoria debole, anche se la pratica raggiunge un gruppo più ampio di consumatori. La legge delinea inoltre due categorie di pratiche commerciali scorrette: le pratiche ingannevoli e quelle aggressive.
Sono ingannevoli le pratiche che, in quanto contengono informazioni false oppure per la presentazione o in qualsiasi altro modo, sono idonee a trarre in errore il consumatore medio su elementi essenziali dell’operazione commerciale e possono indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso. La legge specifica dettagliatamente su quali elementi l’errore è essenziale: caratteri del prodotto, prezzo, qualifiche del professionista, diritti del consumatore.
Sono altresì ingannevoli le pratiche commerciali che in concreto comportano confusione con i prodotti o i segni distintivi di un concorrente, ovvero siano realizzate in violazione dei codici di comportamento che il professionista ha dichiarato di rispettare; così pure le pratiche che possono minacciare la sicurezza dei minori o inducono i consumatori a condotte imprudenti. Lo stesso vale inoltre quando il professionista tace o presenta in modo oscuro informazioni determinanti affinché  il consumatore medio possa assumere consapevolmente le proprie scelte d’acquisto.
Sono aggressive le pratiche che, mediante molestie oppure coercizione fisica o morale, siano idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio e possono indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso. La legge indica alcuni elementi da prendere in considerazione nel determinare l’esistenza si una molestia o di una coercizione (tempi, luogo, persistenza, minacce, ecc.), fermo restando che l’aggressività della pratica va stabilita tenuto conto di tutte le caratteristiche del caso concreto. Per semplificare l’accertamento degli illeciti, sono inoltre elencate una serie di pratiche che devono in ogni caso essere considerate ingannevoli o aggressive: veri e propri “cataloghi degli orrori” delle pratiche commerciali scorrette, che non hanno tuttavia carattere tassativo e non impediscono dunque la repressione di condotte non contemplate.
Tutela amministrativa à l’Autorità garante, d’ufficio o su istanza di qualsiasi interessato, inibisce le pratiche commerciali illecite, ne elimina gli effetti e commina sanzioni pecuniarie a carico del professionista. Se giudica la pratica commerciale scorretta, l’Autorità può anche disporre la pubblicazione della pronuncia, nonché di un’apposita dichiarazione rettificativa in modo da impedire che la condotta illecita continui a produrre effetti. Nei casi meno gravi può chiudere il procedimento mediante un accordo con cui il professionista si impegna a porre fine all’infrazione, senza ulteriori sanzioni. In caso di urgenza l’Autorità può disporre anche la sospensione provvisoria della pratica commerciale. L’intervenuta regolamentazione pubblicistica non preclude la possibilità di azionare preventivamente eventuali sistemi di autodisciplina, eventualmente organizzati da associazioni imprenditoriali e professionali, come il Giurì di autodisciplina pubblicitaria (prox paragrafo). È infatti previsto che le parti interessate possono rivolgersi ad organismi volontari ed autonomi di autodisciplina per ottenere l’inibitoria degli atti di pubblicità ingannevole o comparativa, convenendo nel contempo di astenersi dall’adire l’Autorità garante fino alla pronuncia definitiva del Giurì. Inoltre, ogni interessato può richiedere all’Autorità la sospensione del procedimento iniziato dinanzi alla stessa da altri soggetti legittimati, in attesa della pronuncia dell’organo di autodisciplina. La sospensione può essere disposta per un periodo non superiore a trenta giorni. In ogni caso la decisione dell’organo di autodisciplina non pregiudica il diritto del consumatore di adire l’Autorità garante o di promuovere un’azione giudiziaria.

16. LA PUBBLICITA’ INGANNEVOLE E COMPARATIVA

La disciplina della concorrenza sleale è oggi affiancata, al fine di tutelare anche i consumatori, da una specifica disciplina contro la pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa illecita, prevista dal Codice del consumo.
A partire dagli anni sessanta i più importanti mezzi di pubblicità hanno dato vita ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che li impegna a non diffondere messaggi pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un apposito codice privato, il Codice di autodisciplina pubblicitaria.
Sul rispetto di tale codice vigila un organismo di giustizia privato, il Giurì di autodisciplina, con sede a Milano, al quale può rivolgersi chiunque si ritenga pregiudicato da attività pubblicitarie contrarie al codice. Le decisioni del Giurì sono insindacabili ma sono vincolanti solo per coloro che aderiscono all’autodisciplina.
Con il D.lgs. 74/1992, all’autodisciplina si affianca la disciplina legislativa; al controllo privato del Giurì il controllo pubblico dell’Autorità garante. Ed identici principi operano per la pubblicità comparativa illecita in seguito alla disciplina della stessa introdotta dal D.lgs. 67/2000. La normativa della materia è dettata attualmente dal D.lgs. 2/8/2007, n. 145.
Ciò fissato, vediamo in sintesi i punti salienti della disciplina legislativa in tema di pubblicità ingannevole. Enunciato il principio che la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta  (art. 1,2° comma, D.lgs. 145/2007), nonché chiaramente riconoscibile come tale (art. 5), la legge vieta qualsiasi forma di pubblicità ingannevole dandone una nozione particolarmente ampia. È infatti ingannevole “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induce in errore o può indurre in errore” le persone alle quali è rivolta e che “possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero… ledere un concorrente” (art. 2 lett. b). Sono inoltre dettagliatamente specificati i criteri in base ai quali deve essere valutato se una determinata forma di pubblicità  è ingannevole: caratteri dei beni, prezzo, ecc. (art. 3).
Norme specifiche sono poi dettate per la pubblicità dei prodotti pericolosi (art. 6) e per quella suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti (art. 7). È infine vietata ogni forma di pubblicità subliminale (art. 5,3° comma), cioè che stimoli l’inconscio. Ogni interessato (concorrenti, consumatori, loro associazioni ed organizzazioni) può denunciare l’uso di pubblicità ingannevole o comparativa illecita all’Autorità garante; quest’ultima può procedere anche d’ufficio, esercitando i poteri repressivi e sanzionatori già esaminati per le pratiche commerciali scorrette (art. 8). Come visto, resta ferma inoltre la possibilità di ricorrere preventivamente al Giurì di autodisciplina (art. 9 D.lgs. 145/2007 e 27 -ter cod. cons.).

 

Fonte:

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