Lezioni di giustizia amministrativa Travi riassunti
Lezioni di giustizia amministrativa Travi riassunti
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Lezioni di giustizia amministrativa Travi riassunti
Cap I: “Lezioni introduttive”
Premessa
Nel diritto amministrativo è essenziale bilanciare due interessi fondamentali: da un lato il potere dell’amministrazione che deve avere a disposizione tutti gli strumenti, anche autoritativi, per perseguire le sue finalità e, dall’altro, il fatto che il cittadino debba essere garantito contro un uso arbitrario di questo potere da parte della P.A. Nello “stato di diritto” l’equilibrio tra questi due interessi, è ricercato nel principio di legalità, che subordina a regole predeterminate il potere della PA e che comporta un’ampia riserva al legislatore per la disciplina dell’azione amministrativa. La PA, in quanto soggetto pubblico, deve operare per assicurare le finalità dell’ordinamento, per cui deve agire nel rispetto del diritto e senza ledere interessi giuridicamente riconosciuti ai cittadini. Questi ultimi sono tutelati sia dal diritto sostanziale che dagli istituti di giustizia amministrativa, che svolgono un ruolo suppletivo e successivo, nel senso che la loro utilità consiste nell’assicurare un rimedio, quando il diritto sostanziale non venga osservato.
Gli istituti della giustizia amministrativa
Con l’espressione “giustizia amministrativa”, sono designati alcuni istituti, non tutti di carattere giurisdizionale, diretti specificamente ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti della PA. Questi istituti sono stati elaborati, nel nostro ordinamento, per la tutela del cittadino, che abbia subito una lesione da un’attività amministrativa: essi disciplinano, quindi, la reazione del cittadino nei confronti di un’azione già svolta dalla P.A. Proprio per questo motivo si configurano come strumenti di tutela “successiva”.
Diversa logica ha invece la partecipazione del privato al procedimento amministrativo, che ha invece la funzione preventiva di assicurare uno svolgimento corretto dell’azione amministrativa (si pensi alle memorie presentate nel corso di un procedimento amministrativo o nel corso di un procedimento sanzionatorio).
Una parte della dottrina, nel cercare gli elementi caratteristici degli istituti di giustizia amministrativa, ha preso in esame il rapporto fra istituti di giustizia amministrativa e controlli sull’attività amministrativa.
Caratteristiche dei controlli:
• assicurano la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa;
• riguardano un’azione amministrativa già conclusa;
• s’incentrano sulla verifica della legittimità dell’atto amministrativo, più raramente sulla verifica della sua opportunità (cd controlli di merito).
La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 ha soppresso il controllo regionale sugli atti degli enti territoriali e il controllo statale sugli atti delle Regioni. In altri ambiti invece i controlli sono rimasti controllo della Corte dei Conti su alcuni atti dell’amministrazione statale. Anche i controlli possono portare all’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo, proprio come si può verificare in seguito a un ricorso amministrativo o a un giudizio amministrativo.
Tenendo conto di queste affinità, un criterio distintivo fra controlli e istituti di giustizia amministrativa sarebbe identificabile nel fatto che i controlli attuerebbero un interesse oggettivo ( (ossia l’interesse alla conformità dell’operato della PA al diritto o a regole tecniche o a criteri di efficienza), mentre gli istituti di giustizia amministrativa assicurerebbero in modo specifico l’interesse del cittadino, che non solo determina l’avvio del procedimento, ma ne condiziona anche lo svolgimento e il risultato. Ad ogni modo, gli istituti di giustizia amministrativa non si esauriscono negli strumenti per la tutela giurisdizionale dei cittadini nei confronti dell’amministrazione: di conseguenza la distinzione fra controlli e istituti di giustizia amministrativa non può essere ricercata nei caratteri specifici della funzione giurisdizionale. Fra gli istituti di giustizia amministrativa sono compresi anche i ricorsi amministrativi: con essi la contestazione del cittadino è proposta a un organo amministrativo (e non al giudice) e la decisione è assunta con un atto amministrativo, senza alcun esercizio di funzione giurisdizionale. La controversia in questo caso, si svolge ed è risolta nell’ambito dell’attività amministrativa. I ricorsi amministrativi, tuttavia, non sono assimilabili ai controlli, perché il potere di annullamento, nel caso dei ricorsi, è esercitato dalla P.A. in seguito all’iniziativa di un cittadino che fa valere un suo proprio interesse e quest’ultimo rappresenta la ragione e identifica il limite dei poteri conferiti all’autorità che decide.
Le ragioni di un sistema di giustizia amministrativa
Il nostro ordinamento, come in genere quelli dell’Europa Continentale, è caratterizzato dalla separazione tra la giustizia amministrativa (per i rapporti tra cittadino e P.A.) e la giustizia ordinaria (per i rapporti tra i cittadini e i soggetti equiordinati). In Francia è radicato un sistema di contenzioso amministrativo nel quale le controversie tra cittadino e P.A. sono devolute ad un giudice speciale (Consiglio di Stato, Tribunali amministrativi e Corti amministrative d’Appello) che è inquadrato nel potere esecutivo e non gode delle garanzie e dell’autonomia del giudice ordinario. In Italia si è passati da un sistema di contenzioso amministrativo sul tipo di quello francese, ad un sistema di giurisdizione unica (1865), e poi ad un sistema articolato sulla doppia giurisdizione amministrativa e ordinaria (1889). Ciascun sistema di giustizia amministrativa si caratterizza per la diversa rilevanza data a due aspetti fondamentali:
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Le ragioni di specificità dell’amministrazione nell’ordinamento giuridico (che possono essere desunte da vari elementi, come l’assoggettamento dell’attività amministrativa ad una disciplina speciale o la presenza di norme che, in riferimento ad istituti di diritto privato conclusi con la P.A., derogano alle comuni regole del diritto civile)
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L’esigenza di una tutela effettiva del cittadino.
Dove prevale il primo si tende a forme di tutela affidate a giurisdizioni diverse da quella ordinaria, mentre dove prevale il secondo si tende a privilegiare il sistema della giustizia ordinaria, che presuppone la parità delle parti, cui dovrebbe essere sottoposta anche la P.A.
In ogni caso, la tutela del cittadino nei confronti della P.A. è veramente efficace solo nei sistemi in cui sia garantita l’autonomia e l’indipendenza (come accade per il giudice ordinario) del giudice amministrativo dal potere esecutivo.
Le origini della giustizia amministrativa: cenni al sistema francese
La concezione dell'amministrazione come soggetto diverso dagli altri, si affermò in un contesto ispirato al principio della separazione dei poteri. Nella Francia degli anni della Rivoluzione si era affermata l'esigenza che il potere esecutivo, nel quale era inserita l'amministrazione, dovesse essere un potere distinto dagli altri, benchè non superiore: l'esecutivo non poteva arrogarsi poteri del giudice ordinario ma i suoi atti non dovevano essere soggetti neppure al sindacato dei giudici.
Questa situazione rifletteva il contrasto secolare tra il Governo e i Parlamenti. Già a partire dal XVII sec. era stato frequentemente sancito in decreti del Re che i Parlamenti non dovevano interferire sull'attività dell'amministrazione. La fine dell'Ancien régime travolse anche i Parlamenti, ma le forze rivoluzionarie dimostrarono una certa diffidenza verso la magistratura, tradizionalmente formata da elementi vicini alle classi aristocratiche e nel 1789-90 prima l'Assemblea nazionale e poi l'Assemblea costituente sancirono in forma solenne che gli organi giurisdizionali non avrebbero potuto intervenire sull'amministrazione.
In questo senso risultano significativi due decreti del primo periodo rivoluzionario:
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decreto 22/12/1789 sull'organizzazione delle assemblee amministrative secondo cui le amministrazioni di dipartimento e di distretto non potranno subire le interferenze nell'esercizio delle loro funzioni amministrative da alcun atto del potere giudiziario;
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decreto 16/08/1790 sull'ordinamento giudiziario secondo cui le funzioni giurisdizionali sono distinte e rimangono sempre separate dalle funzioni amministrative. I giudici non potranno, sotto pena di esorbitanza dal loro potere, interferire sulle operazioni dei corpi amministrativi, né citare avanti a sé gli amministratori a motivo dell'esercizio delle loro funzioni.
Nella Rivoluzione francese si affermò il principio della responsabilità dell'amministrazione nei confronti dell'assemblea legislativa: il Ministro, che si collocava al vertice dell'apparato amministrativo, poteva essere chiamato a rendere conto dell'operato dell'amministrazione e, in particolare, delle illegalità da essa commesse e ne rispondeva politicamente di fronte ai cittadini.
A favore del cittadino era conservato un rimedio specifico, costituito dal ricorso gerarchico. Attraverso questo strumento il cittadino si rivolgeva all'organo gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello che aveva emanato l'atto lesivo e richiedeva la verifica della legalità dell'atto. L'ordinamento francese prevedeva che i ricorsi venissero decisi dalle autorità competenti dopo aver acquisito il parere di alcuni organi consultivi. Fra essi il più importante fu senz'altro il Consiglio di Stato (Conseil d'Etat). Fu istituito dalla Costituzione del 1789, operava come organo consultivo del Governo e, nell'epoca napoleonica anche come organo preposto all'intero apparato amministrativo e dotato di competenze proprie. Riguardo ai ricorsi, il Consiglio di Stato esprimeva un parere al Capo dello Stato, al quale solo spettava di emanare la decisione; in pratica però la decisione si uniformava sempre al parere del Consiglio di Stato.
Un decreto di Napoleone del 1806 istituì un'apposita Commissione del contenzioso, con il compito di istruire i ricorsi proposti contro gli atti delle amministrazioni centrali e locali. Per rafforzarne l'imparzialità, la Commissione fu costituita da consiglieri cui non potevano essere affidati compiti di amministrazione attiva.
Il Consiglio di Stato fu mantenuto, con le sue competenze sui ricorsi, anche con la Restaurazione; nel frattempo si accentuò nell'opinione comune il rilievo del suo parere sui ricorsi, tanto che l'intervento del Capo dello Stato fu percepito, più che come decisione del ricorso, come sanzione che rendeva esecutiva la pronuncia del Consiglio di Stato stesso.
Prima transitoriamente con la Costituzione del 1848 e poi definitivamente con una legge del 1872, al Consiglio di Stato fu riconosciuta anche la competenza a decidere il ricorso (justice déléguée), senza più la necessità di una sanzione da parte del Capo dello Stato.
A conclusione di questa evoluzione risultava istituito un giudice capace di sindacare la legittimità degli atti dell'amministrazione. Ciò non implicava necessariamente una deroga al principio della separazione dei poteri perchè competente a sindacare gli atti dell'amministrazione era il Consiglio di Stato, autorità ben distinta dai giudici ordinari e soprattutto non inserita nell'ordine giudiziario. Tant'è vero che ai consiglieri di Stato non fu riconosciuta la garanzia dell'inamovibilità che invece era ritenuta essenziale per i magistrati ordinari.
La giustizia amministrativa in Italia: caratteri generali
L’assetto della giustizia amministrativa in Italia è stato influenzato, alle origini, dal modello francese; nella seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, si sono affermate tendenze originali. Ad esempio, la ripartizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario cominciò ad orientarsi sulla base delle diverse posizioni del cittadino nei confronti della PA, ossia la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi: al giudice amministrativo spettano le controversie in tema di interessi legittimi, al giudice ordinario quelle in tema di diritti soggettivi (anche se intercorrono con la PA). Tuttavia, la ripartizione non è tassativa, poiché in alcune materie la competenza è attribuita al giudice amministrativo (è la cd. giurisdizione esclusiva), anche se non si verte in tema di interesse legittimo. In Italia, infine, l’eventuale conflitto di giurisdizione tra il giudice amministrativo e quello ordinario è risolto dalla Corte di Cassazione, che è giudice ordinario; non sussiste, dunque, un equilibrio perfetto tra i due ordini di giudici, poiché il supremo giudice ordinario ha il potere di interpretare i limiti della giurisdizione amministrativa. Il sistema è, quindi, sbilanciato a favore della giurisdizione ordinaria.
LEZIONE 1 27/02/2013 leggi
Il termine giustizia amministrativa, ad oggi, si compone di istituti giurisdizionali e istituti amministrativi. La giustizia amministrativa è un termine onnicomprensivo che sta ad indicare di quali strumenti disponga il cittadino a fronte di una attività amministrativa non conforme a quanto previsto dall’ordinamento giuridico. Ciò sia nel caso in cui la P.A. agisca con i propri poteri d’impero sia che agisca con gli strumenti del diritto privato ovvero semplicemente tenga un comportamento contra legem. Quindi a prescindere dall’esistenza di un atto giuridico (provvedimento amministrativo, contratto, comportamento). Se ciò è in difformità di quanto previsto dall’ordinamento giuridico allora sono dati, dall’ordimento stesso, degli strumenti per reagire. In primis questi strumenti sono assegnati al cittadino anche se non si esclude la possibilità di controversie tra P.A.
Quindi la giustizia amministrativa mira a fornire alcuni strumenti al cittadino in primo luogo e ad altri soggetti dell’ordinamento in secondo luogo. Per soggetti dell’ordinamento si intende ovviamente persone giuridiche private o pubbliche. Questi strumenti possono avere natura giurisdizionale (cioè appartenenti al potere giurisdizionale in buona sostanza, quindi giudici) o natura amministrativa(appartenenti al potere esecutivo, amministrativo quindi autorità amministrative). Si distinguono quindi apparati giurisdizionali (giudici ordinari, amministrativi, speciali, in altri termini la controversia viene portata innanzi ad un tribunale genericamente inteso) e istituti amministrativi ( ossia ricorsi in via amministrativa ricorsi presentati innanzi ad una P.A. questi sono i ricorsi in opposizione [ ricorso presentato innanzi alla stessa autorità amministrativa che ha adottato il provvedimento], ricorsi gerarchici [presentati innanzi all’autorità gerarchicamente sovraordinata rispetto a quella che ha adottato l’atto; si dividono in ricorsi gerarchici propri e impropri] e ricorsi straordinari al PdR.
Costruendo un sistema giustizia amministrativa si riconosce quindi che la P.A. può comportarsi in modo difforme da quanto previsto dall’ordinamento. Per far fronte a questa eventualità l’ordinamento giuridico di per sé aveva già individuato uno strumento a monte rispetto a questo sistema di giustizia amministrativa; aveva cioè approntato il sistema dei controlli. Nel nostro ordinamento vi sono ancora, seppur in misura ridotta rispetto al passato, degli apparati che debbono controllare la legittimità e più raramente il merito dei provvedimenti amministrativi. Se questi provvedimenti non sono conformi alla legge vengono annullati dall’autorità di controllo, si pensi tipicamente ai poteri che ha la Corte dei Conti nei confronti del governo. L’aspetto di equivalenza tra poteri degli organi di controllo e poteri della giustizia amministrativa consiste nella possibilità che hanno sia il TAR sia in qualche caso il giudice ordinario o speciale, sia l’autorità amministrativa in sede di ricorso in via amministrativa, di annullare il provvedimento amministrativo se illegittimo. Possibilità quindi di togliere efficacia giuridica all’atto ex tunc. Anche con l’attività di controllo se l’esito è negativo, l’organo di controllo annulla l’atto con efficacia ex tunc. La differenza fondamentale consiste nel fatto che gli istituti di giustizia amministrativa vengono attivati su sollecitazione dei terzi o meglio di soggetti direttamente interessati (es. presento ricorso straordinario al PdR perché mi hanno escluso dalle prove orali di un concorso in quanto hanno valutato la mia prova scritta come inadeguata) invece nel caso del controllo non si necessita dell’ attivazione da parte di un soggetto direttamente interessato, semplicemente l’ordinamento prevede che a fronte di determinati provvedimenti amministrativi si eserciti un controllo. Questa è la nozione di autotutela che può essere contenziosa o da ricorso ovvero un autotutela spontanea quando la P.A. rivela i suoi atti ovvero un autotutela necessaria nel caso dei controlli.
Cenni storici
Legge 2248 del 1865 a tutt’oggi vigente.
1859 Regno di Sardegna, legge Rattazzi che istituisce le province. In particolare viene adottato nel nostro ordinamento un sistema cd di contenzioso amministrativo. Quando c’è di mezzo la P.A. si pongono due principali alternative circa la scelta degli strumenti per sindacare gli atti e anche i comportamenti da essa prodotti/tenuti. Si può in linea di massima stabilire che sia lo stesso giudice a decidere delle controversie tra i privati a decidere altresi sulle controversie tra P.A. e privati; oppure il legislatore può decidere che vi siano degli apparati ad hoc, dei giudici ad hoc per risolvere le controversie tra privati e P.A.
In quest’ultima ipotesi si parla di sistema di contenzioso amministrativo. Questo termine significa in sostanza che vi è un giudice speciale per decidere le controversie con l’amministrazione. Queste due grandi alternative corrispondono grosso modo alle scelte:
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Dei sistemi anglosassoni in Inghilterra e USA vi è il giudice ordinario che decide tutte le controversie
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Ai paesi dell’ Europa continentale in questi paesi ( Francia, Italia, Germania…) vi è un giudice speciale
Ciò non va inteso rigorosamente, perché non è del tutto vero che nei sistemi anglosassoni non vi sono giudici speciali, stesso discorso vale per i paesi dell’ Europa continentale.
Tradizionalmente c’è stata una grande tensione per due fondamentali aspetti sostanzialmente chi opta per il giudice ordinario vuole evitare privilegi per le P.A., ossia in uno stato di diritto, basato sul principio che tutti i cittadini sono governati da regole e non da uomini, anche se è coinvolta una P.A. non vi è motivo di riservare alla stessa un trattamento speciale che spesso si traduce in un privilegio. Le obiezioni fanno leva sul fatto che la P.A. ha delle proprie regole e il suo interesse pubblico non può effettivamente essere trattato come un interesse egoistico del privato, con tutte queste norme speciali per il giudice ordinario è difficoltoso uniformarsi; inoltre il giudice speciale non ha tutte le garanzie di inamovibilità del giudice ordinario sicchè se svolge il suo operato in modo non conforme può essere sostituito. I giudici speciali sono appunto specialisti conoscono bene il diritto amministrativo.
Nel 1859 il dibattito si svolgeva nei termini fin qui esposti (sistemi anglosassoni che avevano operato una scelta in favore del giudice comune per le controversie in cui fosse parte una P.A. e sistemi come in Francia dove si affermava un sistema a contenzioso amministrativo cioè con la presenza di un giudice speciale). Il modello francese è seguito anche dagli stati preunitari; in particolare il Regno di Sardegna dove nel 1859 vi erano le leggi di Rattazzi che delineano un sistema di contenzioso amministrativo (ci sono dei giudici ad hoc per le controversie con la P.A.). Questo sistema è composto nel seguente modo:
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I cd consigli di governo per le controversie in primo grado
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Il consiglio di stato in secondo grado per alcune materie
In materie di pensioni e di contabilità pubblica vi sono dei giudici speciali, quindi il consiglio di stato è un po un giudice d’appello e un po un giudice speciale.
Consiglio di governo e consiglio di stato in appello in alcune materie vengono definiti come giudici ordinari del contenzioso amministrativo. In altre materie il consiglio di stato più la corte dei conti venivano definiti come giudici speciali del contenzioso amministrativo. Per alcune materie era competente il giudice ordinario (es. in materia di proprietà), inoltre alcune materie erano completamente sottratte alla possibilità di un controllo giurisdizionale.
Nel 1861 ci fu la nascita del Regno d’Italia, rapporto di stretta continuità con il Regno di Sardegna, ciò vuol dire che si estende a tutto il paese il modello del regno di Sardegna. Era già previsto il ricorso gerarchico. Questo modello di contenzioso amministrativo non durò a lungo sicchè nel 1865 fu emanata la legge 2248 allegato b – e la quale ribalta l’intero sistema; si passa a un sistema in cui è il giudice ordinario a fare da padrone (modello anglosassone). L’allegato b si occupa soprattutto del consiglio di stato al quale viene attribuito un ruolo di rilievo; è l’organo al quale spetta il compito di esprimere pareri sui ricorsi al Re, ha inoltre il compito di decidere in caso di conflitto tra P.A. e giudice. Fino al 1877 il ruolo del consiglio di stato è quello che oggi viene svolto dalla Cassazione a sezioni unite. L’allegato e travolge il precedente sistema di contenzioso amministrativo.
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Art 1 all. e afferma che sono soppressi i giudici del contenzioso amministrativo e le controversie sono devolute al giudice ordinario (vengono soppressi consiglio di stato e consiglio di governo in appello).
I Tribunali speciali attualmente investiti della giurisdizione del contenzioso amministrativo, tanto in materia civile quanto in materia penale, sono aboliti, e le controversie ad essi attribuite dalle diverse leggi in vigore saranno d’ora in poi devolute alla giurisdizione ordinaria, od all’Autorità amministrativa, secondo le norme dichiarate dalla presente legge.
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Art 2 all. e afferma che tutte le cause per contravvenzione (ossia ad oggi tutte le questioni di diritto penale) e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico, (ossia ad oggi tutte le materie in cui a venire in rilievo sia un diritto privato o un diritto pubblico[diritto privato: es diritto di proprietà, diritto alla salute, all’assistenza - diritto politico/pubblico: es diritto al voto]) comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’Autorità amministrativa, sono devolute alla giurisdizione ordinaria. Ciò vuol dire che ci si riferisce non solo ai casi di lesione di un diritto da parte di un comportamento della P.A. o di un contratto della stessa ma anche ai casi in cui l’amministrazione ha agito utilizzando un potere di impero quindi i casi in cui la stessa ha adottato un provvedimento. Tutte queste controversie sono devolute al giudice ordinario.
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Art 3 all. e gli affari non compresi nell’ambito dei diritti (penale, civile, pubblico) sono devoluti alla P.A. quindi ad occuparsene non sarà ne un giudice del contenzioso amministrativo ne il giudice ordinario. Queste autorità amministrative in ordine a questi affari che non vanno ad incidere sui diritti, provvedono con provvedimenti motivati previo contraddittorio.
Gli affari non compresi nell’articolo precedente saranno attribuiti alle Autorità amministrative, le
quali, ammesse le deduzioni e le osservazioni in iscritto delle parti interessate, provvederanno con decreti motivati, previo parere dei Consigli amministrativi che pei diversi casi siano dalla legge stabiliti.
Contro tali decreti che saranno scritti in calce del parere egualmente motivato, è ammesso il ricorso
in via gerarchica in conformità delle leggi amministrative
Secondo una prima interpretazione il significato di questa disposizione consiste nell’imporre alla P.A. un obbligo di motivazione degli atti e anche un obbligo di consentire il contraddittorio tra le parti. Secondo un'altra interpretazione il significato dell’art 3 dovrebbe essere quello di garantire il ricorso in via amministrativa, in particolare viene rinvenuto il fondamento per un ricorso in opposizione generalizzato. In realtà fino al 1990 l’art 3 è rimasto lettera morta nel senso che l’obbligo di motivazione è stato l’eccezione non la regola. Stesso discorso per quel che concerne l’affermazione del contraddittorio. Rimane salvo il ricorso gerarchico che viene mantenuto ed in alcune particolare materie i giudici speciali. Nel 1859 tutte le controversie in materie fiscale seguono un percorso loro proprio, vengono totalmente separate dalla giustizia amministrativa e saranno alla base della separazione dal diritto amministrativo del diritto tributario. Tutto questo discorso attiene ai cd limiti esterni del giudice ordinario. Si suole effettuare una distinzione tra limiti interni e limiti esterni del giudice ordinario. Limite esterno sta ad indicare l’area entro cui il giudice può esercitare la propria giurisdizione; quindi i limiti esterni del giudice ordinario corrispondono alle controversie in materia di diritti soggettivi. I limiti esterni vengono individuati dall’art 2. I limiti interni vengono individuati agli art 4 e 5. Limiti interni: poteri del giudice ordinario, quali sono i poteri che questi può esercitare in una controversia in cui sia parte una P.A.
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Art 4 all. e il giudice ordinario può applicare i regolamenti e i provvedimenti in quanto conformi alla legge. Qui a venire in rilievo è l’istituto della disapplicazione. Tale articolo vieta al giudice ordinario di modificare o revocare il provvedimento amministrativo ancorchè legittimo. Quindi il giudice ordinario non può annullare, modificare, revocare il provvedimento perché altrimenti avremo un ingerenza del potere giudiziario nel potere esecutivo e quindi violazione del principio di separazione dei poteri che viene avvertito in questa fare in termini molto forti. Se il giudice ordinario si rende conto di trovarsi di fronte ad un provvedimento amministrativo illegittimo può disapplicarlo. Il legislatore stabilisce che il giudice ordinario applicherà l’atto ammnistrativo in quanto conforme alla legge. Il giudice decide la controversia come se quell’atto amministrativo non fosse mai venuto in essere anche se lo stesso continuerà a vivere. Il giudice si limita quindi a non applicare il provvedimento illegittimo. Non è sempre vero che nelle controversie in cui sia parte una P.A. ci sia un provvedimento amministrativo e neanche che quest’ultimo sia quello che ha leso il diritto; infatti vi potrà essere un mero comportamento posto in essere dalla P.A.
Si viene ad affermare un teoria che opera una distinzione tra atti d’imperio e atti di gestione ossia atti di diritto privato; il giudice ordinario in tt i casi in cui a venire in rilievo sia un atto d’imperio non si muove e quindi non c’è più diritto, viene negata la tutela giurisdizionale.
Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’Autorità amministrativa, i Tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio.
L’atto amministrativo non potrà essere rivocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti Autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso.
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Art 5 all. e In questo come in ogni altro caso, le Autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi.
Cap II: “Le origini del nostro sistema di giustizia amministrativa”.
La giustizia amministrativa nel Regno di Sardegna
L’ordinamento unitario si sviluppò dall’ordinamento del Regno di Sardegna, da cui ereditò, però, anche le problematiche; In epoca napoleonica, il modello francese del contenzioso amministrativo fu accolto anche in Italia. Nel Regno di Sardegna, con l’editto 18/08/1831, Carlo Alberto costituì un Consiglio di Stato, con funzioni prevalentemente consultive, articolato in 3 sezioni:
• sezione dell’interno;
• sezione di giustizia, grazia ed affari ecclesiastici;
• sezione di finanza.
Lo stesso editto stabiliva che il parere del Cds dovesse essere acquisito obbligatoriamente prima dell’adozione di certi atti, fra cui gli atti con forza di legge, i regolamenti, i conflitti fra giurisdizione ordinaria e PA, bilancio dello Stato.
Il regio editto del 29/10/1847, che modificava le regie patenti del 25 agosto e del 31 dicembre 1842, istituì un vero e proprio sistema di contenzioso amministrativo, che si fondava sulla distinzione fra controversie riservate alla PA, per cui era ammesso solo un ricorso ad un’autorità amministrativa, detta Intendente, e controversie di amministrazione contenziosa, per cui era previsto un ricorso in primo grado al Consiglio d’Intendenza e in secondo grado alla Camera dei Conti. Alcune controversie erano comunque riservate alla giurisdizione del giudice ordinario (giurisdizione giudiziaria), fra queste in particolare le questioni relative al diritto di proprietà. La giurisprudenza civile riconobbe al Consiglio d’Intendenza e alla Camera dei Conti carattere di organi giurisdizionali.
Il ruolo di questi giudici speciali fu però oggetto di accese polemiche, soprattutto dopo che lo Statuto Albertino enunciò come regola la riserva della funzione giurisdizionale al giudice ordinario. Una serie di decreti del 30/10/1859, ispirati da Rattazzi, confermarono il sistema del contenzioso amministrativo, articolato in organi di primo grado, detti Consigli di Governo, designati come giudici ordinari del contenzioso amministrativo, e Consiglio di Stato, organo di II grado. A seguito di questi decreti, il quadro era il seguente:
• non ogni attività amministrativa era soggetta ad un sindacato giurisdizionale. In particolare era esclusa l’amministrazione economica, ossia l’attività amministrativa non disciplinata da norme di legge o regolamentari ovvero quella rimessa a valutazioni discrezionali o tecniche della PA. In questi casi, visto che il cittadino non poteva invocare norme a sua tutela, non vi era neppure spazio per una tutela giurisdizionale, che veniva lasciata ai ricorsi gerarchici;
• in alcune materie previste dalla legge, la tutela dei cittadini nei confronti della PA era demandata ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo (ossia il sistema articolato nei Consigli di Governo e nel Consiglio di Stato), cui spettavano fra le altre le controversie sui contratti d’appalto, sulle imposte e sulle tasse;
• in altre materie individuate da leggi speciali, la tutela dei cittadini era demandata a giudici speciali del contenzioso amministrativo, come la Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica, e il Cds in materia di pensioni; quindi il CdS era giudice speciale del contenzioso amministrativo, in unico grado, in materia di pensioni, e giudice ordinario del contenzioso amministrativo, in grado d’appello per le controversie sui contratti d’appalto, sulle imposte, sulle tasse, quelle sul trattamento economico del personale dipendente, quelle concernenti i confini fra Comuni, il demanio stradale…
• in tutti gli altri casi, la competenza era del giudice ordinario civile.
Tale sistema, però, lasciava ampio spazio alla possibilità di conflitti, che si presentavano quando due autorità di ordini diversi rivendicavano la medesima competenza (cd conflitti positivi), oppure, quando escludevano entrambe la propria competenza, in materie che dovevano spettare all’una o all’altra (cd conflitti negativi).
La disciplina di soluzione di questi conflitti fu introdotta dalla legge 20/11/1859, secondo cui tale conflitto poteva essere sollevato anche dal rappresentante locale del potere esecutivo (Governatore, poi Prefetto), che poteva anche imporre la sospensione del giudizio. La decisione dei conflitti era assunta con decreto reale (tale forma si spiegava col fatto che lo Statuto Albertino riconducesse al re sia la funzione giudiziaria che quella amministrativa), previo parere del Cds, su proposta del Ministro dell’interno, sentito il Consiglio dei Ministri. Ai “giudici ordinari del contenzioso amministrativo” (da non confondere con il giudice ordinario, ossia il giudice civile e penale) non era consentito l’annullamento dell’atto (detto potere era riservato all’amministrazione); potevano, tuttavia, interpretare l’atto impugnato, rilevare la nullità dello stesso (ove fossero state riscontrate difformità rispetto alla legge) ovvero la sua “inefficacia” rispetto al rapporto cittadino/amministrazione dedotto in giudizio e, nel caso ravvisassero un contrasto (dell’atto) con la legge, potevano prescindere dall’atto stesso ai fini della decisione.
Il declino dei tribunali del contenzioso amministrativo
Il sistema di contenzioso creato nel 1859 fu oggetto di modifiche (ad es. fu sottratta ai “giudici ordinari del contenzioso amministrativo” la competenza a giudicare le liti tributarie), nonché di profonde discussioni. I sostenitori del sistema del contenzioso amministrativo sostenevano che esso fosse maggiormente in grado di tutelare l’interesse pubblico, in quanto i giudici speciali (provenienti per lo più dai ranghi dell’amministrazione) avevano una esperienza più approfondita e una conoscenza maggiore della materia, rispetto a quelli civili. Inoltre, l’esclusione delle garanzie di inamovibilità e di imparzialità per i giudici speciali consentiva di far valere in modo efficace la responsabilità dei detti giudici del contenzioso amministrativo e, infine, la specialità stessa del diritto amministrativo (dotato di istituti diversi rispetto al diritto comune), richiedeva l’esame da parte di giudici specializzati nella materia. Dal canto loro, gli oppositori sostenevano l’esigenza che le controversie tra PA e cittadino fossero affidate al giudice ordinario, unico dotato dell’imparzialità necessaria, a garanzia del cittadino, visto che l’amministrazione era parte in causa.
La legge 2248 del 20 marzo 1865
Le discussioni sul sistema del contenzioso amministrativo condussero, dopo l’unità, all’approvazione della legge 20 Marzo 2248/1865, il cui allegato E aboliva i giudici ordinari del contenzioso amministrativo.
La legge 2248/1865 attuò l’unificazione dell’ordinamento amministrativo italiano, abrogando le discipline degli Stati preunitari. Essa era composta da 6 testi normativi, che furono designati come allegati alla legge stessa; di questi 6, 2 riguardano la giustizia amministrativa:
• allegato D “Legge sul Cds”;
• allegato E “Legge sul contenzioso amministrativo”.
L’allegato D disciplinava l’assetto del Cds → (è l’organo al quale spetta il compito di esprimere pareri sui ricorsi al re; ha inoltre il compito di decidere in caso di conflitto fra P.A. e giudice. Fino al 1877 il ruolo del Cds è quello che oggi viene svolto dalla cassazione a sezioni unite).
Nella riforma del Consiglio di Stato non erano previste garanzie d’indipendenza né per la nomina dei componenti, che era disposta con decreto reale su proposta del Ministro dell’interno, né per quanto riguardava la loro inamovibilità. I Ministri potevano intervenire alle sedute sia direttamente che tramite delegati.
Rimase la divisione in 3 sezioni, che potevano anche operare collegialmente, ad esempio ciò era obbligatorio per i pareri sulle proposte di legge e sui regolamenti. Il Presidente del Cds poteva, comunque, formare, per l’esame di questioni particolari, Commissioni speciali, designando i consiglieri che ne avrebbero fatto parte.
Al Cds erano assegnate competenze consultive, che, in alcuni casi, erano obbligatorie:
• quando vi erano le proposte di regolamenti generali della PA;
• per i ricorsi al Re contro la legittimità di provvedimenti amministrativi, sui quali siano esaurite e non possano proporsi domande di riparazione in via gerarchica.
Nella normativa sul Cds, quindi, si faceva riferimento al ricorso al Re, designato come ricorso straordinario, poiché poteva essere proposto solo dopo l’esaurimento dei rimedi ordinari, ossia dei ricorsi gerarchici.
Inoltre, il Cds esercitava funzioni giurisdizionali, come giudice speciale (pensioni, debito pubblico, sequestri di beni ecclesiastici). In questi casi, il procedimento aveva carattere tipicamente contenzioso e la decisione poteva comportare l’annullamento dell’atto amministrativo.
Inoltre, al Cds fu affidata la risoluzione dei conflitti fra PA e autorità giurisdizionale, svolti precedentemente dal Ministro dell’interno, che però implicava la mancanza di qualsiasi garanzia giurisdizionale.
L’allegato E (designata spesso come legge di abolizione del contenzioso amministrativo), all’art 1, disponeva la soppressione dei giudici ordinari del contenzioso amministrativo.
Dall’allegato E emergeva il seguente assetto:
• Tutte le cause per contravvenzioni e in materia di diritti civili e politici erano di competenza del giudice ordinario (la legge non ammetteva eccezioni e non consentiva ai giudici ordinari, come avveniva in passato, di declinare la competenza nelle controversie in cui fosse parte in causa l’amministrazione).
• “gli affari non compresi” nell’ipotesi precedente furono riservati alle autorità amministrative, che avrebbero provveduto con decreti motivati, con l’osservanza del contraddittorio con le parti interessate e previa acquisizione del parere di organi consultivi. Nei confronti di questi decreti, fu consentito il ricorso in via gerarchica.
Ciò costituiva i cd limiti esterni della giurisdizione civile nei confronti della PA, ossia l’ambito delle controversie demandate al giudice ordinario (i limiti interni sono invece quelli che identificano i poteri che il giudice può esercitare verso la PA nella decisione delle controversie di propria competenza).
Nella tradizione giuridica dell’epoca i diritti civili erano quelli relativi alle persone (libertà e diritti personalissimi), alla proprietà e ai contratti e la nozione “diritti civili e politici” fu, in seguito, equiparata a quella di diritti soggettivi, ma fu, da subito, non ritenuta onnicomprensiva, poiché si era percepito che vi erano posizioni soggettive di altro genere, dette interessi, che risultavano non protette dalla giurisdizione ordinaria.
Alla luce di ciò, la tutela del cittadino era così articolata: nelle materie con questioni di diritti civili e politici, era ammessa tutela giurisdizionale davanti al giudice ordinario; nelle altre materie, la tutela del cittadino si risolveva nell’ambito della PA tramite ricorso gerarchico. Il quadro era chiuso dal fatto che la legittimità dei provvedimenti amministrativi, in base all’allegato D, poteva essere contestata col ricorso al Re;
• Nonostante la maggior parte delle controversie fosse stata attribuita alla competenza del giudice ordinario, il carattere di specialità della PA era comunque salvaguardato dall’esistenza di “limiti interni” della giurisdizione civile, ossia dei poteri esercitabili dal giudice nei confronti della PA. Al giudice ordinario, infatti, era concesso solo di valutare la legittimità dell’atto (corrispondenza alla legge) e non la sua opportunità (che spettava solo all’amministrazione e poteva essere contestata dal cittadino solo con il ricorso gerarchico rivolto alla PA). In secondo luogo il giudice ordinario non aveva il potere di annullare, modificare o revocare l’atto ritenuto illegittimo (potere riservato alla PA), potendo solo disapplicarlo. L’ultimo limite interno consisteva nel fatto che il riconoscimento dell’illegittimità dell’atto aveva effetto solo tra le parti ed ai fini del giudizio in corso; anche qualora l’atto avesse avuto portata generale la pronuncia non avrebbe potuto avere effetti per altri soggetti.
• la PA non era sottratta agli effetti della sentenza, ma era tenuta a conformarsi al giudicato, ovviamente nei limiti del caso deciso. Tuttavia il legislatore non introdusse alcuno strumento per rendere effettivo e coercibile l’obbligo della PA di conformarsi al giudicato.
Il bilancio dell’allegato E nei primi anni successivi al 1865
La riforma del 1865 avrebbe potuto, in teoria, assicurare una efficace tutela del cittadino, ma ciò non si verificò. In primo luogo, la norma sulla partecipazione del cittadino al procedimento (mediante il contraddittorio) non venne mai attuata; in secondo luogo, le decisioni dell’amministrazione sui ricorsi gerarchici non erano mai imparziali e comunque riflettevano gli interessi della stessa PA. Tutto ciò provocò molte critiche da parte dei giuristi liberali che attribuirono l’insuccesso in modo particolare al Consiglio di Stato il quale, quando era chiamato a decidere sui conflitti di attribuzione tra amministrazione e giurisdizione ordinaria, tendeva sempre ad escludere la competenza del giudice ordinario qualora la vertenza riguardasse provvedimenti dell’autorità amministrativa, anche se non discrezionali, emanati a tutela di un interesse pubblico generale. Ciò portò ad un restringimento dei già ristretti “limiti esterni” della giurisdizione del giudice ordinario, poiché consentiva alla giurisdizione ordinaria di conoscere solo le controversie su atti emanati (non a tutela di un interesse pubblico) a tutela di un interesse “personale” o patrimoniale della PA. Secondo i giuristi, tale orientamento del Consiglio di Stato si poneva in contrasto con le previsioni della legge del 1865 (secondo cui la competenza del giudice ordinario non potesse essere limitata solo perché parte in causa era l’amministrazione); l’insuccesso della riforma si dovette, dunque, alla scelta di affidare la risoluzione dei conflitti di attribuzione proprio al Consiglio di Stato, organo molto vicino al Governo e alla PA.
La legge sui conflitti del 1877
Fu così emanata la “legge sui conflitti” del 1877 che attribuì alla Corte di Cassazione di Roma la decisione sui conflitti, insorti fra PA e autorità giudiziaria (cd conflitti di attribuzione) o fra giudici ordinari e giudici speciali (cd conflitti di giurisdizione). Alla Cassazione fu attribuito, inoltre, il potere di decidere i ricorsi proposti contro le sentenze dei giudici speciali, impugnate per incompetenza (difetto di giurisdizione) ed eccesso di potere (assunzione di una decisione esorbitante dall’ambito di attribuzioni del giudice).
In tutti questi casi, la Cassazione decideva a sezioni unite.
Fu sancito che, se la PA fosse stata parte in causa, avrebbe potuto proporre tale ricorso solo in I grado; se non fosse stata parte in causa, avrebbe potuto proporlo non oltre la formazione del giudicato.
Tuttavia questa nuova disciplina non risolse i problemi precedenti, poiché la Cassazione proseguì nell’indirizzo già prospettato dal Consiglio di Stato.
Cap III: “L’affermazione di una giurisdizione amministrativa”
L’istituzione della IV Sezione
I risultati della riforma del 1865 risultarono presto insoddisfacenti, visto che portarono ad un indebolimento delle garanzie offerte al cittadino. L’argomento presentava due profili fondamentali, fra loro connessi:
• attuazione di una tutela più ampia e incisiva del cittadino nei confronti della PA;
• individuazione dell’organo cui affidare questa tutela.
Dopo la riforma del 1865, infatti, il diritto soggettivo del cittadino era riconosciuto solo quando la PA agiva jure privatorum; ove interveniva un provvedimento amministrativo, invece, si parlava solo di interessi. In tale sistema i diritti soggettivi avevano tutela giurisdizionale, mentre gli interessi ne erano privi; sorgeva, quindi l’esigenza che, a fronte di atti di esercizio del potere della PA, potessero trovare tutela non solo i diritti soggettivi ma anche gli interessi legittimi. A tale scopo fu emanata dal governo Crispi la legge n. 5992 del 1889 che, al fine di tutelare gli interessi legittimi dei cittadini lesi da atti della PA, demandò queste controversie ad una specifica autorità, prestigiosa come il giudice civile ma dotata del potere di annullamento; fu, così, istituita la Quarta Sezione del Consiglio di Stato (le altre sezioni continuavano a svolgere la funzione consultiva del governo) con il compito di decidere sui ricorsi presentati dai cittadini nei confronti degli atti della PA lesivi di interessi, venendosi così a creare una vera e propria “tutela contro il provvedimento amministrativo”. Alla quarta sezione era quindi affidata la tutela degli interessi lesi dall’atto amministrativo, quando il ricorso non fosse di competenza del giudice ordinario, dell’autorità amministrativa o dei giudici speciali. Il ricorso alla IV sezione era ammesso solo nei confronti degli atti produttivi di effetti (tutela successiva), definitivi (e quindi doveva essere esaurita la possibilità di ricorso gerarchico), non produceva d’ufficio la sospensione dell’atto (che poteva essere disposta per gravi motivi su istanza del ricorrente) e poteva condurre all’annullamento dell’atto impugnato. Il ricorso poteva essere presentato solo per i vizi indicati dalla legge: incompetenza (intesa come carenza di potere dell’organo emanante), eccesso di potere (uso gravemente scorretto del potere discrezionale da parte della PA, per contrasto con alcuni principi generali) e violazione di legge (contrasto tra un elemento del provvedimento o del procedimento e una disposizione di legge). Dopo la riforma del 1889, quindi, la tutela del cittadino nei confronti della PA si basò sulla distinzione tra figure soggettive: i diritti soggettivi erano tutelati dal giudice ordinario, gli interessi legittimi dalla IV sezione. Era necessario, però, capire quale ruolo continuassero ad avere sia il ricorso gerarchico che il ricorso straordinario al Re. Si può affermare che il ricorso gerarchico manteneva la sua operatività, poiché il ricorso alla IV sezione era ammesso solo contro un provvedimento definitivo (che era tale solo dopo l’esaurimento di tutti i gradi della tutela gerarchica); il ricorso straordinario, invece, era alternativo al ricorso alla Quarta sezione. Rimanevano, tuttavia, esclusi dalla tutela della IV sezione gli atti politici, emanati dal governo nell’esercizio del potere politico e quindi espressione di potere sovrano e non assoggettabile ad alcun sindacato. La competenza della IV sezione si incentrava sulla legittimità dell’atto ma in alcuni casi poteva riguardare anche il merito; in tali casi la IV sezione se accoglieva il ricorso oltre ad annullare l’atto poteva decidere sulla pratica in sostituzione dell’atto annullato. Tra le ipotesi di sindacato di merito ricordiamo i ricorsi volti ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’amministrazione a conformarsi al giudicato del tribunale (giudizio di ottemperanza). Una successiva legge (n. 6837 del 1890) attribuì alla Giunta Provinciale Amministrativa una competenza simile a quella della IV sezione, ma limitata alla tutela dei cittadini contro gli atti delle amministrazioni locali; avverso le pronunce di tale organo era ammesso ricorso alla IV sezione.
La riforma del 1907
La legge del 1889 non chiariva se la IV sezione avesse natura amministrativa o giurisdizionale (le sue pronunce erano definite “decisioni” e non “sentenze”). Anche in dottrina si discuteva della questione con la contrapposizione di due tesi: la prima che sosteneva il carattere amministrativo della IV sezione e la seconda (tesi prevalente) che ne propugnava la natura giurisdizionale. Anche la Corte di Cassazione, nel decidere i conflitti di giurisdizione, riconobbe alla IV sezione natura giurisdizionale, considerando le sue pronunce come “sentenze”. Ogni dubbio fu eliminato con l’emanazione della legge n. 62 del 1907 che riconobbe espressamente la natura giurisdizionale della IV sezione e introdusse la distinzione tra sezioni consultive del consiglio di stato (le prime tre) e sezioni giurisdizionali (la Quarta, cui fu attribuito il solo sindacato di legittimità sugli atti e la Quinta, introdotta dalla stessa legge, cui fu attribuita la competenza ad esaminare i ricorsi con sindacato esteso al merito). Il coordinamento tra le due sezioni fu affidato alle “sezioni riunite” (ora, invece, all’adunanza plenaria). La legge del 1907, inoltre, disciplinò l’istruttoria del processo (differente tra i giudizi di sola legittimità e quelli estesi anche al merito), disciplinò il procedimento innanzi alle Giunte Provinciali (cui fu riconosciuta natura giurisdizionale), fissò un termine perentorio per proporre ricorso straordinario al Re. In attuazione della legge del 1907 fu emanato il Regio Decreto n. 652/1907, contenente in “regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato”, rimasto in vigore fino all’emanazione del codice del 2010.
La riforma del 1923 e l’istituzione della giurisdizione esclusiva
La legge del 1907 aveva orientato la distinzione tra giurisdizione amministrativa e ordinaria sulla base della situazione soggettiva tutelata, spettando alla IV sezione del consiglio di stato la tutela di situazioni soggettive diverse dai diritti soggettivi, qualificabili come interessi legittimi. Ciò però creava la necessità di poter distinguere tra diritti soggettivi e interessi legittimi, operazione non sempre agevole e che aveva l’inconveniente, qualora le due posizioni fossero correlate, di richiedere due diversi giudizi, uno davanti al giudice ordinario (a tutela dei diritti soggettivi) e l’altro davanti al giudice amministrativo (a tutela degli interessi legittimi). Per ovviare a ciò fu introdotta la legge n. 2840 del 1923 (cui fece seguito il T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con R.D. n. 1054/1924) che portò le seguenti innovazioni:
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al giudice amministrativo, nei giudizi di sua competenza, fu data la capacità di conoscere in via incidentale delle questioni riguardanti i diritti soggettivi, purché non riguardassero lo stato o le capacità delle persone e la querela di falso (che restavano di competenza del giudice ordinario). Ciò evitava la necessità di dover sospendere il giudizio amministrativo qualora ci fosse la necessità di esaminare una questione inerente un diritto soggettivo.
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in alcune materie particolari indicate dalla legge (tra cui il pubblico impiego) era data la possibilità al giudice amministrativo di giudicare in via principale anche sui diritti soggettivi ( cd giurisdizione esclusiva).
Dalla riforma del 1923, quindi, emergeva che:
1) nei casi di giurisdizione esclusiva il riparto tra giudice ordinario e amministrativo avveniva secondo il criterio di distinzione per materia. Le materie di giurisdizione esclusiva erano tassativamente indicate e quindi essa aveva carattere di specialità. La materia di giurisdizione esclusiva più importante era il pubblico impiego.
2) Nelle materie di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo disponeva, anche nelle controversie sui diritti soggettivi, dei medesimi poteri di cognizione e decisione che utilizzava per quelle sugli interessi legittimi e, quindi, si seguivano le regole del processo amministrativo (per i diritti, quindi, non si applicava il codice di procedura civile).
3) Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, la tutela dei diritti era “aggiuntiva” rispetto a quella degli interessi. Si potevano, quindi, avere casi eccezionali in cui il giudice amministrativo esercitava anche una giurisdizione di merito oltre che di legittimità.
4) Anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo poteva risolvere, in via incidentale, questioni su diritti soggettivi diversi da quelli dedotti in giudizio ma comunque rilevanti per la decisione (salve le ipotesi di stato o capacità delle persone e la querela di falso).
5) Al giudice ordinario, anche nelle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, erano riservate le questioni inerenti ai diritti patrimoniali consequenziali all’annullamento degli atti e quindi il diritto al risarcimento del danno a seguito dell’annullamento di un atto amministrativo che avesse inciso su un diritto soggettivo (si pensi ai casi di esproprio). Le azioni per il risarcimento del danno dovevano quindi essere promosse sempre davanti al giudice ordinario anche se era stato arrecato un danno ad un diritto rientrante nella giurisdizione esclusiva (sistema rimasto invariato fino al 2000).
La riforma del 1923-24, infine, eliminò anche la distinzione tra le competenze della IV e V sezione del Consiglio di stato; così, le sezioni riunite non ebbero più lo scopo di risolvere i conflitti di competenza tra le due sezioni ma solo quello di risolvere gli eventuali contrasti di giurisprudenza tra le stesse.
L’entrata in vigore della Costituzione e l’istituzione dei TAR (tribunali amministrativi regionali)
Dopo il testo unico 1054/1924, la disciplina della giurisdizione amministrativa e del processo amministrativo rimase sostanzialmente immutata per oltre 70 anni.
L’entrata in vigore della Costituzione comportò mutamenti limitati, i principi della stessa non furono recepiti immediatamente ma con grande lentezza.
Nei primi anni dell’ordinamento repubblicano, le innovazioni più evidenti riguardarono l’assetto organizzativo della giurisdizione amministrativa, ma non furono condizionate dalla Costituzione.
Il D.L. 642/48 istituì la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, sempre con funzioni giurisdizionali, nonché il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, organo equiordinato al Cds, con funzioni consultive e giurisdizionali.
Nella II metà degli anni 60 del 900, l’incidenza dei principi costituzionali fu più evidente, con riferimento alle norme sull’indipendenza del giudice. La Corte costituzionale dichiarò, quindi, illegittima la composizione della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale (sent 30/67), per cui le vertenze di quest’organo passarono alla competenza del Cds, come giudice in unico grado.
Questi interventi della Corte costituzionale e l’avvio delle Regioni a statuto ordinario resero urgente l’attuazione dell’art 125 Cost, il quale prevedeva l’istituzione di un giudice amministrativo di I grado, in ogni Regione. Nel 1971, con la legge n. 1034 (cd. Legge TAR) furono istituiti, nei capoluoghi di ciascuna Regione, i TAR; successivamente, in 8 Regioni, furono istituite anche sezioni staccate presso altrettanti capoluoghi di provincia.
I TAR sono giudici amministrativi di I grado, dotati di competenza generale per le controversie per gli interessi legittimi e per quelle sui diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva, nonché per le controversie sulle operazioni elettorali per le elezioni amministrative.
L’appello contro le sentenze del TAR va proposto al Consiglio di Stato, il quale diveniva, in questo modo, giudice amministrativo di II grado.
La Legge del 1971 introdusse alcune norme di procedura, in modo non organico, ed estese la giurisdizione esclusiva alle vertenze in materia di concessioni di beni o di servizi pubblici.
Infine, l’assetto generale della giustizia amministrativa fu completato dal D. lgs 1199/71, che dettò, per la prima volta, una disciplina organica dei ricorsi amministrativi: ricorso gerarchico, altri ricorsi ad esso assimilabili (ricorso gerarchico improprio e ricorso in opposizione) e il ricorso straordinario al PdR.
Le innovazioni recenti e il “codice del processo amministrativo”
Successivamente alla legge Tar del 1971 e per circa un ventennio le innovazioni furono piuttosto limitate. Gli interventi legislativi cominciarono a farsi frequenti a partire dagli anni ’90. In questi anni furono varate riforme per assicurare uno svolgimento più veloce del processo amministrativo (fu introdotto un rito speciale per le controversie sugli appalti pubblici, furono previste procedure accelerate per garantire il diritto di accesso dei cittadini ai documenti amministrativi)e fu esteso l’ambito della giurisdizione esclusiva (controversie sugli atti delle Autorità Indipendenti) allo scopo di privilegiare il ruolo del giudice amministrativo nelle controversie con l’amministrazione che incidevano su interessi generali della comunità. Inoltre, con la riforma del pubblico impiego del 1993 (che contrattualizzava e, quindi, privatizzava quasi tutte le categorie di dipendenti pubblici) fu data delega al governo per attribuire al giudice ordinario la giurisdizione esclusiva sul pubblico impiego per le categorie contrattualizzate e per aumentare, di contro, le materie riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Così, con decreto legislativo n. 80/1998 il governo assegnava alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le materie dei pubblici servizi, edilizia e urbanistica e affermava la competenza del giudice amministrativo a pronunciarsi sul risarcimento del danno ingiustamente provocato dall’amministrazione nelle materie di giurisdizione esclusiva. Si cominciava, in questo modo, ad eliminare la precedente riserva al giudice ordinario delle vertenze sui diritti patrimoniali consequenziali. La Corte Costituzionale, tuttavia, ritenne il decreto legislativo n. 80/98 illegittimo in più parti, per aver ecceduto i limiti della legge di delega. Il legislatore, però, con la legge n. 205/2000, riprodusse il testo del predetto decreto legislativo con poche modifiche; anche alcune disposizioni della stessa legge furono dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale (secondo la quale alcune attribuzioni di competenze esclusive, come quella in tema di pubblici servizi, edilizia e urbanistica, eccedevano i limiti alla giurisdizione amministrativa posti dall’art. 103 Cost.). La Corte Costituzionale, però, ritenne legittima l’estensione alla giurisdizione amministrativa delle vertenze risarcitorie derivanti dalla lesione di interessi legittimi. La legge n. 205/2000 arricchì i poteri del giudice amministrativo introducendo la possibilità di disporre consulenza tecnica, perfezionò la fase cautelare, introdusse un rito speciale per il giudizio sul silenzio dell’amministrazione, introdusse riti accelerati per le vertenze di maggior rilievo e tentò di risolvere il problema del carico arretrato (disponendo l’estinzione per perenzione dei giudizi inerti da molto tempo). Conseguentemente la giurisdizione amministrativa si configurò definitivamente come giurisdizione piena perché accanto all’azione di impugnazione viene a collocarsi anche una azione risarcitoria (anche per i danni derivanti da lesioni di interessi legittimi). In seguito a tutti gli interventi degli anni ’90, sicuramente troppo settoriali e confusi, fu avvertita l’esigenza di una armonizzazione delle disposizioni sul processo amministrativo. Il legislatore ha, quindi, conferito delega al Governo (legge n. 69/2009) per l’emanazione di detta disciplina organica; il Governo, dunque, ha emanato il D. Lgs. n. 104/2010 (nel testo originario redatto dal Consiglio di Stato e parzialmente modificato in sede di approvazione) contenente quattro allegati: il primo è il “Codice del processo amministrativo”, il secondo contiene le norme di attuazione, il terzo le norme transitorie e il quarto le norme di coordinamento e le abrogazioni. In questo modo è stato introdotto per la prima volta in Italia un vero e proprio codice del rito amministrativo; la nuova disciplina, sebbene in continuità con le disposizioni e con gli orientamenti giurisprudenziali precedenti, introduce elementi di novità per rendere più razionale la procedura (semplificando i riti speciali) e per garantire il contraddittorio. Con l’entrata in vigore del codice (16.09.2010) sono stati abrogati quasi tutti i precedenti testi sul processo amministrativo e, con il D. Lgs. n. 195/2011 e poi con il D.Lgs 160/2012 sono state introdotte alcune disposizioni correttive ed integrative del codice del processo amministrativo.
Alcuni problemi aperti
La formazione del Codice del processo amministrativo fu accompagnata da un dibattito sulla “funzionalità” del processo amministrativo, ossia sulla sua capacità di rendere giustizia al cittadino in tempi ragionevoli. L’eccessiva durata del processo amministrativo (in contrasto col principio della “ragionevole durata” espresso dall’art. 111 Cost.) è uno dei problemi fondamentali del sistema di giustizia amministrativa. Il Codice del processo amministrativo ha tentato di risolvere il problema mediante l’introduzione di alcuni strumenti deflativi: la possibilità di anticipare alla fase cautelare anche la decisione sul merito, la possibilità di redigere sentenze in forma semplificata, la perenzione straordinaria dei ricorsi pendenti da più di cinque anni. Nel tentativo di alleggerire i TAR dal carico di lavoro sono stati anche elevati gli importi del Contributo Unificato (tributo da versare per intraprendere un giudizio) il che, purtroppo, ha solo l’effetto di rendere più difficile l’accesso del cittadino alla giustizia. In altri paesi, per risolvere il medesimo problema, sono stati introdotti gli ADR (mezzi alternativi di risoluzione delle controversie), che sono strumenti non giurisdizionali, affidati alla cognizione di un soggetto terzo con funzioni decisorie ma, soprattutto, di mediazione e di conciliazione (similmente alla media-conciliazione prevista in Italia per il processo civile). Alcune funzioni di conciliazione e di arbitrato furono attribuite, prima del codice, da varie leggi anche alle Autorità Amministrative, come ad esempio quella per la regolazione dei servizi di pubblica utilità, quella per le telecomunicazioni(per dirimere controversie tra utenti e operatori delle comunicazioni), quella per vigilanza sui contratti pubblici (che però esprime solo pareri non vincolanti per “ipotesi” di soluzione). Tuttavia, il termine per proporre il ricorso giurisdizionale non è sospeso da queste procedure e al cittadino conviene procedere in entrambi i sensi. Un ultimo esempio di mezzo alternativo di soluzione alle controversie è la disposizione che prevede, in caso di silenzio o diniego alle istanze di accesso agli atti, la possibilità di richiedere al Difensore Civico o alla Commissione per l’accesso il riesame dell’istanza.
Cap. IV “L’interesse legittimo”
Considerazioni introduttive
Le posizioni giuridicamente rilevanti del cittadino nei confronti della p.a. vengono distinte in interessi legittimi e diritti soggettivi. L’interesse legittimo è inteso come una posizione diversa e alternativa rispetto al diritto soggettivo. Esso è una figura centrale nei rapporti fra cittadino e amministrazione e rappresenta l’elemento fondamentale per la giurisdizione amministrativa. In alcuni casi è facile distinguere tra interesse legittimo e diritto soggettivo: il cittadino interessato ad un esercizio di potere discrezionale è titolare di un interesse legittimo, in quanto l’ordinamento non garantisce la sua pretesa ad un risultato utile ma solo ad un corretto uso del potere da parte dell’amministrazione; il cittadino creditore di una obbligazione pecuniaria nei confronti della PA, invece, è titolare di un diritto soggettivo in quanto l’ordinamento riconosce e garantisce la sua pretesa. La distinzione, però, appare più problematica in altri casi: si pensi al caso di una attività vincolata da parte dell’amministrazione. La giurisprudenza prevalente ammette la configurabilità di un interesse legittimo; vero è, tuttavia, che se l’attività è vincolata ciò vuol dire che l’ordinamento garantisce direttamente al cittadino un certo risultato e quindi sarebbe ipotizzabile la sussistenza di un diritto soggettivo del cittadino. Veramente irrinunciabili in uno Stato democratico sono la garanzia e l’ampiezza della tutela nei confronti dell’amministrazione, e non le nozioni e le forme attraverso le quali tale tutela è stata interpretata. Solo nel 1999, la Cassazione con la sentenza n. 500 ha ammesso anche per la lesione di interessi legittimi il risarcimento dei danni.
L’interesse legittimo e il “potere” dell’amministrazione
Un elemento proprio dell’interesse legittimo è il suo carattere relativo (e non assoluto, come è per il diritto reale, il cui esercizio non richiede il concorso di altri soggetti); l’interesse legittimo può sussistere solo quando la PA esercita un proprio potere (distribuisce risorse, nega benefici…) e incide sulle posizioni giuridiche dei cittadini. Ciò impone di spostare l’attenzione sul concetto di “potere amministrativo”, che è considerato una situazione esclusiva del diritto pubblico; di conseguenza, quando l’amministrazione opera nell’ambito del diritto privato (anche se si tratti di atti unilaterali, come la risoluzione unilaterale di un contratto di appalto) non esercita il proprio “potere” e le posizioni soggettive corrispondenti non possono che essere diritti soggettivi. Ma non vale nemmeno l’opposto: quando la PA pone in essere un’attività unilaterale nel campo del diritto pubblico (e non del diritto privato) non sempre esercita un proprio “potere” e anche in questi casi sarà configurabile un diritto soggettivo (e non un interesse legittimo del cittadino), tutelabile davanti al giudice ordinario: si pensi all’ipotesi dei determinazione dell’indennità di esproprio dove il cittadino ha “diritto” all’indennità. Quindi, anche nell’attività della PA disciplinata dal diritto pubblico sono configurabili diritti soggettivi: da ciò discende che non si può affermare, in termini assoluti, che l’interesse legittimo consegua sempre all’attività di diritto pubblico posta in essere dalla PA. Posto che, comunque, la nozione di interesse legittimo si riconnette a quella di potere, appare utile esaminare alcuni profili fondamentali del “potere”.
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Alcune interpretazioni considerano profilo fondamentale del potere l’autoritarietà. Quando l’amministrazione, attraverso l’esercizio del proprio potere autoritativo, estingue legittimamente i diritti dei terzi non potrebbe configurarsi un diritto soggettivo. Tuttavia, vi sono casi in cui è difficile ravvisare una autoritarietà del potere della PA, anche se sia stato esercitato unilateralmente: si pensi ai provvedimenti che non sottraggono utilità al cittadino o a quelli di rilascio di una autorizzazione richiesta dal medesimo cittadino ma, anche in questi casi, la posizione del cittadino viene qualificata come interesse legittimo.
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Altre interpretazioni considerano carattere specifico del potere la funzionalità ad un interesse pubblico (la capacità di realizzare l’interesse pubblico). Pertanto, quando l’attività amministrativa sia diretta a soddisfare un interesse privato (es. determinazione dell’indennità di esproprio) non si avrebbe esercizio di potere. Tale ipotesi non potrebbe verificarsi nell’attività discrezionale della PA, tesa per definizione ad una scelta in vista della realizzazione dell’interesse pubblico; può, però, verificarsi in alcune ipotesi di attività vincolata. Questa impostazione non è condivisibile in quanto non è chiaro in base a quali criteri si possa stabilire che una attività vincolata sia diretta ad un fine pubblico o privato; infatti, se l’attività è vincolata, l’amministrazione non può procedere alla valutazione degli interessi e quindi la funzionalità rispetto ad interessi, pubblici o privati che fossero, diverrebbe giuridicamente irrilevante.
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Altre interpretazioni considerano caratteristica del potere la sua infungibilità, consistente nella riserva esclusiva dell’esercizio del potere in favore di uno specifico apparato. Il cittadino, titolare di un interesse legittimo, si troverebbe in una situazione di dipendenza dalla PA, in quanto solo essa, e non un altro soggetto, può adottare l’atto. A tale tesi si può replicare che l’infungibilità non è esclusiva del potere amministrativo ma può, ad esempio, sussistere anche in alcune obbligazioni private (di facere infungibile, come una prestazione artistica).
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Altre interpretazioni vedono come caratteristica del potere quella di produrre effetti giuridici costitutivi (ossia la capacità di assumere atti produttivi di effetti giuridici propri). Viene in risalto, pertanto, la differenza tra provvedimenti dichiarativi che accertano situazioni già definite dalla legge (e nei cui confronti si configurano diritti soggettivi) e provvedimenti costitutivi, idonei a produrre effetti giuridici specifici (e nei cui confronti si configurano interessi legittimi). Anche tale tesi non è del tutto accettabile in quanto, da un lato, in alcuni casi non è agevole l’identificazione del carattere costitutivo del provvedimento e, dall’altro, ad alcuni provvedimenti, che sembrano produttivi di effetti costitutivi (come l’iscrizione ad albi professionali), viene fatto corrispondere un diritto soggettivo.
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Un ultimo orientamento considera elemento del potere il fatto che la legge affidi all’amministrazione una competenza esclusiva, intesa come capacità di operare effettuando valutazioni ad essa esclusivamente riservate e escluse per altri soggetti (discrezionalità tecnica, discrezionalità amministrativa).
Quando la legge riserva alla PA la possibilità di compiere valutazioni, per giungere all’adozione di un provvedimento, l’attività amministrativa non deve limitarsi ad applicare ciò che prevede una norma già presente nell’ordinamento, ma può introdurre una regola nuova stabilendo, in base alla propria scelta, un nuovo assetto degli interessi in gioco. Solo in questo caso, secondo tale orientamento, sarebbe configurabile un potere in senso proprio, poiché dotato della capacità di “innovazione” dell’ordinamento. Quando l’attività della PA, invece, è vincolata allora non si può che adottare nei confronti del cittadino l’atto previsto dalla legge (non c’è innovazione, quindi), con la conseguenza che il cittadino è titolare di un diritto soggettivo, in quanto la legge stabilisce, già prima dell’attività dell’amministrazione, cosa gli spetti. In caso di attività discrezionale, invece, il cittadino non può vantare la pretesa ad un preciso risultato, poiché ciò che gli spetta non è definito a priori dalla legge, ma dipende da una scelta dell’amministrazione; il cittadino sarà, così, titolare di un interesse legittimo. In definitiva, secondo questa tesi, l’interesse legittimo è sempre correlato al potere, solo di tipo discrezionale, dell’amministrazione. La giurisprudenza prevalente non sposa pienamente tale tesi: infatti, riconosce che in caso di attività discrezionale sussista un interesse legittimo, ma esclude che in caso di attività vincolata siano configurabili esclusivamente diritti soggettivi; ad esempio, ammette, anche in caso di attività vincolata, gli interessi legittimi qualora l’attività sia indirizzata verso un interesse pubblico (nei restanti casi configura un diritto soggettivo). In questo quadro già complicato ha influito anche il diritto comunitario, che ha imposto una tutela efficace del cittadino nei confronti della PA e, nello stesso tempo, non contempla la figura dell’interesse legittimo. Il legislatore italiano quindi, per adeguarsi a tali impostazioni, aveva introdotto per alcuni tipi di interessi legittimi (riconducibili alla normativa comunitaria) la tutela risarcitoria, non ammessa invece per gli interessi legittimi riconducibili alla normativa nazionale (con evidente disparità). Questo contrasto è ormai superato, anche per merito della Corte di Cassazione che riconobbe, nel 1999, la risarcibilità, in via generale, di tutte le lesioni agli interessi legittimi.
(segue): il contributo della giurisprudenza; la questione dei diritti “costituzionalmente tutelati”
La Corte di Cassazione, nel tempo, ha individuato un nucleo di situazioni, pacificamente accettato, tutte classificate come interessi legittimi. Accanto a questi casi pacifici, se ne pongono alcuni in cui la collocazione nel campo dell’interesse legittimo, ovvero del diritto soggettivo, è ancora dibattuta; in questi casi, per stabilire se si tratti dell’una o dell’altra situazione soggettiva, si fa riferimento a diversi criteri elaborati dalla giurisprudenza.
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Tesi della distinzione tra norme di azione e norme di relazione Secondo tale tesi vi sono norme di azione (che disciplinano l’esercizio del potere) che, in caso di violazione, danno luogo ad illegittimità dell’atto (a fronte delle quali si configura un interesse legittimo) e norme di relazione (che disciplinano i rapporti intersoggettivi tra PA e cittadino) che, in caso di violazione, danno luogo ad illiceità (a fronte delle quali si configurano diritti soggettivi). L’interesse legittimo deriverebbe, quindi, dalla norma che regola il potere dell’amministrazione. A tale tesi è stato replicato che anche le norme che disciplinano il potere (n. di azione), per il fatto che esso sarà esercitato nei confronti di altri soggetti, coinvolgono rapporti intersoggettivi (divengono norme di relazione); allo stesso modo, anche le norme che disciplinano rapporti intersoggettivi (n. di relazione) finiscono con l’individuare quali poteri sono attribuiti alle parti e come vanno esercitati (divengono norme di azione).
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Tesi della distinzione tra attività vincolata nell’interesse pubblico e attività vincolata nell’interesse privato Secondo la giurisprudenza, come già chiarito, l’interesse legittimo si configura in rapporto con l’interesse pubblico. Quindi, se l’attività della PA è discrezionale, si hanno sempre interessi legittimi (in questo tipo di attività è sempre presente il confronto con l’interesse pubblico). Nel caso di attività vincolata, invece, qualora il potere sia attribuito dalla norma nell’interesse del cittadino, si avrà un corrispondente diritto soggettivo mentre, in caso di potere attribuito nell’interesse pubblico, si avrà un corrispondente interesse legittimo (esempi: ■ rilascio di carta di circolazione di un autoveicolo → diritto soggettivo; ■ interventi repressivi di attività abusive → interesse legittimo). A tale tesi è stato opposto che in genere è impossibile capire quando l’attribuzione di un potere vincolato sia funzionale ad un interesse pubblico e quando ad un interesse privato.
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Tesi della distinzione tra cattivo esercizio del potere e carenza di potere Secondo questa tesi (accolta dalla Cassazione fin dal 1949) per identificare la situazione del cittadino come interesse legittimo non occorre tener conto della titolarità del potere in capo alla PA; la valutazione, piuttosto, deve riguardare il vizio dell’atto ritenuto lesivo. Ed allora, in caso di cattivo esercizio del potere (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) l’atto è illegittimo ma non inefficace (fino all’annullamento) e quindi è configurabile un interesse legittimo (si è pur sempre di fronte ad un esercizio del potere da parte della PA). Nel caso di carenza di potere (straripamento di potere o incompetenza assoluta, carenza dei presupposti necessari) è come se la PA non esercitasse alcun potere e l’atto non sarà efficace; la situazione giuridica del cittadino, quindi, rimane invariata (ossia quella precedente all’adozione dell’atto). In tal caso, non essendoci esercizio di potere, non si configura nemmeno l’interesse legittimo. La Cassazione ha cercato di elaborare una casistica della carenza di potere: ● straripamento di potere → adozione da parte della PA di un atto di competenza di un organo non amministrativo, definito anche carenza di potere “in astratto” (ad es. adozione da parte della PA di un provvedimento giurisdizionale); ● carenza di potere → adozione da parte di una amministrazione di un atto di competenza di un’altra amministrazione; ● carenza dei presupposti necessari o “in concreto” → l’amministrazione ha il potere di adottare l’atto ma lo fa in mancanza di uno o più presupposti concreti richiesti dalla legge (ad es. decreto di esproprio in carenza di dichiarazione di pubblica utilità). La legge n. 15/2005 ha delineato le cause di annullabilità di un atto amministrativo (art. 21-octies, legge n. 241/90) e le cause di nullità (art. 21-septies, legge n. 241/90). L’atto amministrativo nullo (per mancanza di elementi essenziali e per difetto assoluto di attribuzione, mentre la carenza in concreto dei presupposti necessari darebbe solo luogo all’annullabilità) dovrebbe essere inefficace; di conseguenza, anche l’atto amministrativo nullo non potrebbe essere considerato “esercizio di un potere” e non sarebbe capace di modificare la situazione soggettiva del cittadino. Ciò potrebbe condurre la Cassazione a superare la distinzione tra cattivo esercizio del potere e carenza di potere in favore della distinzione tra annullabilità e nullità dell’atto; tuttavia, la giurisprudenza recente della Cassazione sembra ancora preferire la sistematica tradizionale.
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Teoria dei diritti “costituzionalmente tutelati” Il cittadino, nei rapporti di diritto pubblico con la PA, non è sempre titolare di un interesse legittimo; in alcuni casi è titolare di un diritto soggettivo. Ciò avviene nelle ipotesi dei cosiddetti diritti personalissimi sui quali la PA non può mai incidere perché è priva di qualsiasi potere (diritto all’integrità personale, diritto al nome…) e dei diritti che il legislatore tutela espressamente anche in rapporti di diritto pubblico e per i quali impone sempre alla PA un’attività vincolata (diritto all’indennità di esproprio…). In questi casi si parla anche di diritti “perfetti” e, sebbene in presenza di atti della PA che li coinvolgano, si configurano sempre diritti soggettivi e non interessi legittimi. A queste situazioni la Cassazione ne ha aggiunte, in via di interpretazione estensiva, delle altre: si tratta di diritti particolarmente rilevanti sul piano costituzionale (ad es. il diritto alla salubrità dell’ambiente), definiti “diritti costituzionalmente tutelati”. Secondo tale ultima impostazione, alcune posizioni soggettive godono di una protezione giuridica maggiore e non possono essere modificate dall’esercizio di un potere amministrativo (quindi si configurerebbero sempre come diritti soggettivi e non come interessi legittimi). Sul piano pratico, con tale tesi la Cassazione aveva lo scopo di offrire anche a queste posizioni gli strumenti di tutela del processo civile (trattandosi di diritti soggettivi); l’obiettivo fu, però, compromesso quando alcune materie rientranti nell’ambito dei diritti costituzionalmente tutelati furono attribuite alla competenza esclusiva del giudice amministrativo.
L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e qualificata
Perché si configuri l’interesse legittimo non basta l’esistenza di un potere da parte della PA. L’interesse legittimo è comunque una posizione che identifica un interesse proprio del cittadino e non può essere come una mera posizione riflessa rispetto al potere della PA. L’interesse legittimo non può essere neppure una posizione “diffusa” (di cui sono titolari i cittadini in quanto tali) ma è una posizione “soggettiva” di cui sono titolari alcuni soggetti determinati. Vero è che l’esercizio di un potere della PA può coinvolgere, comunque, tutti: tutti i cittadini, ad esempio, hanno interesse ad un regolare andamento dell’attività amministrativa, ma non tutti, a fronte dell’esercizio di un potere sono titolari di un interesse legittimo (ad es. nel caso di esproprio è titolare di interesse legittimo solo il proprietario del bene espropriato). Per individuare le situazioni in cui è configurabile un interesse legittimo la giurisprudenza ha creato due criteri (sebbene sia stato affermato che la titolarità di una posizione soggettiva debba essere attribuita dalla legge e non dall’intervento creativo del potere giurisdizionale). Il primo criterio è quello della differenziazione, per cui l’interesse legittimo (proprio perché è una posizione soggettiva) presuppone in capo al titolare un interesse più intenso (e quindi differenziato) rispetto a quello della generalità degli altri cittadini (il provvedimento che autorizza l’apertura di un esercizio commerciale in una certa zona, ad esempio, coinvolge tutti i residenti della zona ma anche, ed in modo specifico, il commerciante che già esercita in quella zona; solo il commerciante è titolare di un interesse legittimo). Proprio il carattere della differenziazione dell’interesse legittimo ha impedito che la giurisprudenza considerasse tali i cd. “interessi diffusi” (ad es. l’interesse dei cittadini di una certa zona alla salvaguardia dei valori ambientali); problema poi risolto da una legge apposita. Il criterio della differenziazione però non è ritenuto sufficiente dalla dottrina e deve essere integrato dal criterio della qualificazione; perché si abbia un interesse legittimo occorre che il potere della PA coinvolga un interesse del soggetto che sia, non solo differenziato (rispetto a quello degli altri soggetti), ma anche riconosciuto dall’ordinamento (deve, quindi, essere qualificato). Solo in alcuni casi è agevole identificare i soggetti titolari di un interesse qualificato, poiché individuati direttamente dalle norme (ad es. nell’esproprio è qualificato l’interesse dell’espropriato, ovvero quello del concorrente in un concorso pubblico); in molti altri casi, invece, la norma che disciplina il potere non identifica i soggetti direttamente interessati. In questi casi è la giurisprudenza a stabilire quali interessi siano qualificati e lo fa ritenendo tali quegli interessi a cui l’ordinamento giuridico complessivo attribuisce una particolare rilevanza (anche se è un criterio che genera, ovviamente, incertezze).
L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale
In passato l’attenzione sulla figura dell’interesse legittimo si è concentrata particolarmente sull’aspetto delle modalità della tutela nel caso di lesione di un interesse legittimo. Si rilevava innanzitutto come la tutela offerta all’interesse legittimo fosse tipicamente impugnatoria. Così come il provvedimento amministrativo aveva carattere costitutivo (faceva sorgere o venir meno un diritto), anche la tutela impugnatoria aveva carattere costitutivo, poiché doveva eliminare l’effetto giuridico sfavorevole prodotto dall’esercizio del potere della P.A. Mentre la tutela del diritto soggettivo soddisfa direttamente la pretesa al bene della vita in cui si sostanzia il diritto, la tutela dell’interesse legittimo attua solo un soddisfacimento indiretto, che si realizza attraverso l’eliminazione degli atti amministrativi lesivi. In questa prospettiva, l’interesse legittimo sembrava emergere solo in seguito ad una sua lesione e, in questo modo, si configurava come figura meramente processuale che assumeva rilevanza (cioè veniva considerato dall’ordinamento) solo sul piano della tutela impugnatoria (gerarchica o giudiziale) in caso di lesione, al contrario del diritto soggettivo che è invece figura di diritto sostanziale (cioè prevista dall’ordinamento al di là del suo rilievo processuale). Tale concezione appare oggi superata, ma ha influenzato profondamente la giurisprudenza passata, basti pensare alla rigidità con cui in passato veniva negato il risarcimento dei danni in caso di lesione di interessi legittimi, poiché gli stessi non veniva considerati come posizione di diritto sostanziale (se lo fossero stati, invece, non sarebbe stato ragionevole il diniego di tutela risarcitoria). Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo si configura come tutela successiva: presuppone che sia già intervenuta una lesione dell’interesse protetto. La lesione dell’interesse legittimo può però essere determinata anche da altri fattori connessi al potere amministrativo: si pensi al caso del silenzio-rifiuto. Quanto alla questione della natura solo processuale od anche sostanziale dell’interesse legittimo, bisogna capire se nel nostro ordinamento all’interesse legittimo siano assegnate utilità ulteriori rispetto a quella, rilevante sul piano processuale, della pretesa all’annullamento dell’atto lesivo. A questo scopo è decisivo stabilire se l’interesse legittimo rilevi autonomamente, indipendentemente da una sua lesione. Un argomento importante a favore della soluzione affermativa viene tratto dalla L. 241/90: essa introduce una serie di strumenti di garanzia per gli interessi legittimi a partire dall’inizio del procedimento amministrativo. Nella L. 241/90 la partecipazione dell’interessato al procedimento amministrativo non è una forma di tutela “”anticipata” dell’interesse legittimo, ma lo colloca sul piano del diritto sostanziale, consentendo di ritenere l’interesse legittimo una posizione soggettiva sostanziale “attiva”. Infatti il privato, partecipando al procedimento, può presentare osservazioni che consentono alla P.A. una migliore valutazione dei fatti, ai fini dell’adozione del provvedimento. L’interesse legittimo si presenta così come figura attiva, dotata della possibilità di influire sull’azione amministrativa.
Quale “interesse” nell’interesse legittimo? L’identificazione del “bene della vita”
Riconoscere l’interesse legittimo come figura di diritto sostanziale significa riconoscere che esso non sorge più per effetto della lesione provocata dall’atto amministrativo (quindi di riflesso) ma si configura già al momento in cui inizia il procedimento amministrativo e, anzi, al momento in cui si realizzano i presupposti per l’avvio del procedimento. Stabilito che l’interesse legittimo è figura di diritto sostanziale, occorre chiarire in che cosa consista rispetto ad esso il “bene della vita” che costituisce componente essenziale di ogni posizione soggettiva di diritto sostanziale. A tale proposito occorre osservare quanto segue.
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Il bene della vita non può configurarsi come interesse alla legittimità dell’azione amministrativa in quanto, se è vero che la lesione dell’interesse legittimo si configura ogni volta che l’azione amministrativa non è esercitata in modo legittimo, è anche vero che la legittimità dell’azione amministrativa non può essere considerata come il bene della vita per un singolo e determinato soggetto. Essa può essere tutt’al più oggetto di un interesse generico, comune a tutti i cittadini, ma non l’oggetto di una posizione soggettiva qualificata.
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Per risolvere il problema si usa distinguere nell’interesse legittimo due diversi interessi: un interesse materiale, che è proprio del titolare dell’interesse legittimo (a cui l’ordinamento giuridico non attribuisce particolare rilevanza) e l’interesse legittimo vero e proprio (rilevante per l’ordinamento) di cui il primo costituisce il presupposto di fatto, (ad. es., il partecipante ad un concorso pubblico è senz’altro titolare di un interesse legittimo ad un regolare svolgimento della prova. Tale interesse però non coincide con l’interesse materiale del concorrente, che è l’esito positivo del concorso, poiché l’ordinamento non tutela il soddisfacimento dell’interesse materiale. Se il ricorso è accolto, infatti, il giudice annulla gli atti illegittimi, ma non dispone l’assunzione del concorrente; così come, se il concorrente non vince il concorso ma l’amministrazione ha agito in modo regolare, il suo interesse legittimo è comunque soddisfatto, anche se non lo è quello materiale). Il difetto di questa teoria è che il bene della vita tende a rimanere comunque in ombra o tutt’al più si traduce solo in una serie di utilità secondarie e puramente strumentali (in quanto rimane distinto dalla situazione giuridica protetta dall’ordinamento, che è l’interesse legittimo).
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E’ stata avanzata anche una concezione diversa, respinta spesso dalla giurisprudenza e dalla dottrina, secondo la quale l’interesse materiale non va considerato come un elemento estraneo all’interesse legittimo, ma costituisce la componente essenziale di quest’ultimo, perché identifica il bene della vita cui l’interesse legittimo è funzionale. Secondo questa teoria, tornando all’esempio precedente, il concorrente che impugnasse il concorso lo farebbe per far valere il suo interesse materiale all’esito positivo di esso e non per far valere l’interesse generale alla legittimità dell’azione amministrativa (nello svolgimento del concorso). E’ evidente, tuttavia, che la legge nel caso dell’interesse legittimo non assicura la tutela tipica accordata al diritto soggettivo (l’ottenimento del bene della vita), ma solo una tutela modellata sul potere dell’amministrazione: ciò, però, non significa che manchi un bene della vita, ma solo che esso riceve, nel caso dell’interesse legittimo, una tutela diversa rispetto a quella che riceve nell’ipotesi di diritto soggettivo. Se mancasse il bene della vita, infatti, l’interesse legittimo non potrebbe configurarsi come situazione di diritto sostanziale, ma solo come posizione processuale.
Interessi legittimi e diritti soggettivi
Per quanto riguarda i rapporti tra diritto soggettivo e interesse legittimo, già poco dopo la legge istitutiva della Quarta sezione, si osservò che per effetto del decreto di esproprio il diritto soggettivo si estingueva, lasciando posto ad un interesse legittimo: il provvedimento amministrativo sembrava comportare, in questi casi, una degradazione del diritto soggettivo ad interesse legittimo.
Lo stesso modello fu poi prospettato per i diritti in attesa di espansione, consistenti nella trasformazione di un interesse legittimo in diritto soggettivo, per effetto di un determinato provvedimento amministrativo con effetti costitutivi (come si verificherebbe nel caso dell’iscrizione ad albi o registri).
La degradazione veniva ricondotta ad un carattere del provvedimento amministrativo, l’autoritatività.
La teoria della degradazione veniva proposta anche per spiegare come l’annullamento del provvedimento comportasse il ripristino del diritto soggettivo.
Ma la teoria della degradazione non è accettabile: indubbiamente il decreto di esproprio determina l’acquisto del bene in capo al soggetto espropriante e perciò l’estinzione del diritto di proprietà del cittadino, ma nei confronti del potere espropriativo il proprietario è titolare di un interesse legittimo, conformemente ai principi generali, e senza necessità di immaginare alcuna degradazione.
L’interesse legittimo inoltre sorge con l’esercizio del potere, e quindi già prima del decreto di esproprio.
Nell’esempio proposto, diritto soggettivo ed interesse legittimo coesistono insieme: l’interesse legittimo rispetto al potere espropriativo, il diritto soggettivo ad ogni altro effetto.
Interessi legittimi e risarcimento del danno
La questione del risarcimento dei danni cagionati ad interessi legittimi riguarda i danni provocati da provvedimenti amministrativi o dal silenzio dell’amministrazione. Secondo le vecchie concezioni, che affermavano il carattere tipicamente processuale (e non sostanziale) dell’interesse legittimo, la tutela del cittadino si attuava nel solo annullamento del provvedimento impugnato; non vi era la possibilità di risarcimento, in quanto lo stesso presuppone la lesione di una posizione soggettiva sostanziale. Fino alla fine degli anni 90 la giurisprudenza ammetteva una responsabilità civile dell’amministrazione solo nel caso di lesione di un diritto soggettivo, sulla base di una lettura dell’art 2043 cc che identificava il danno ingiusto passibile di risarcimento col danno arrecato a diritti soggettivi. Applicando questo schema, il risarcimento del danno causato da provvedimenti amministrativi sarebbe stato possibile solo se il cittadino fosse stato titolare di un diritto soggettivo qualificabile come tale prima dell’esercizio di quel potere da parte dell’amministrazione. Tutti gli interessi legittimi che non erano riconducibili a vicende di estinzione o di degradazione di diritti non potevano fruire di una tutela risarcitoria. Inoltre, per il risarcimento sarebbe sempre stato necessario l’annullamento del provvedimento lesivo: solo l’annullamento infatti poteva ripristinare il diritto soggettivo su cui aveva precedentemente inciso il provvedimento. Una volta verificatesi l’annullamento del provvedimento lesivo e la configurabilità di un pregiudizio ad un diritto soggettivo, il risarcimento sarebbe spettato senza la necessità di verifiche concernenti l’elemento soggettivo (la colpa o il dolo): la Cassazione disse che, data l’illegittimità del provvedimento, la colpa dell’amministrazione era in re ipsa, e quindi non avrebbe richiesto ulteriori accertamenti. La posizione della giurisprudenza, ampiamente negativa, in ordine alla risarcibilità degli interessi legittimi fu abbandonata dalla Cassazione con la sentenza delle Sezioni Unite 22 Luglio 1999 n.500. La Cassazione, nel superare l’identificazione tradizionale del danno ingiusto col danno a diritti soggettivi, affermò che l’art. 2043 cc non integrava le disposizioni sulla tutela dei diritti soggettivi, ma aveva una propria autonomia, perché assicurava la riparazione del danno ingiustamente subito da un soggetto a causa del comportamento di un altro soggetto. La riparazione pertanto non riguardava solo i diritti soggettivi. Nel suo intervento la Cassazione riconosceva espressamente la natura sostanziale dell’interesse legittimo.
Nello stesso tempo sottolineava la specificità dell’interesse legittimo rispetto al diritto soggettivo, rilevando che per il risarcimento non era sufficiente la lesione dell’interesse legittimo in quanto tale, ma era necessaria anche una lesione al bene della vita correlato all’interesse.
Nel caso del diritto, la lesione al bene della vita è la lesione del bene che si identifica col diritto soggettivo.
Invece tale identificazione non si verifica necessariamente nel caso dell’interesse legittimo.
Quando l’interesse legittimo riguarda una posizione di vantaggio che il cittadino intende conservare nei confronti dell’Amministrazione che esercita il suo potere, il danno risarcibile si identifica col sacrificio della posizione di vantaggio ad opera del provvedimento illegittimo.
Questo è il caso degli interessi oppositivi, ossia degli interessi legittimi che ineriscono alla conservazione di un bene o di altra posizione di vantaggio attuale.
Invece se l’interesse legittimo inerisce alla pretesa del cittadino di ottenere un provvedimento favorevole che gli attribuisca un bene od una posizione di vantaggio (interesse pretensivo), un danno risarcibile si configura concretamente solo se la pretesa del cittadino, sulla base di un giudizio prognostico, sarebbe stata destinata ad ottenere un esito positivo.
In questo quadro, viene meno la necessità di subordinare l’azione per danni al previo annullamento del provvedimento amministrativo: era richiesto l’accertamento dell’illegittimità, non più l’annullamento.
La Cassazione precisò che nel caso di lesione di interessi legittimi si doveva applicare pienamente il modello del 2043: pertanto per il risarcimento degli interessi legittimi era essenziale la dimostrazione dell’imputabilità dell’illecito all’Amministrazione, a titolo di colpa o di dolo.
La tesi che risolveva la colpa nell’illegittimità dell’atto amministrativo si riferiva ai diritti soggettivi.
La colpa deve identificarsi nel fatto che l’Amministrazione abbia agito violando regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione.
Alla pronuncia della Cassazione del 1999 fecero seguito, l’anno successivo, le disposizioni che estesero la giurisdizione amministrativa alle vertenze risarcitorie (art 7 L. 205/2000).
I giudici amministrativi hanno confermato il principio della risarcibilità per lesioni ad interessi legittimi, ma hanno espresso indirizzi diversi sul modello di responsabilità da applicare.
Hanno sostenuto anche che il risarcimento presuppone l’annullamento dell’atto lesivo.
Anche sulla necessità di identificare una lesione al bene della vita sono emerse posizioni nuove: alcuni giudici amministrativi hanno ammesso il risarcimento anche nel caso di ritardo nell’emanazione del provvedimento favorevole spettante al cittadino.
Alcuni giudici hanno anzi ritenuto che anche solo il ritardo nell’adozione di un provvedimento, se comporti pregiudizio, possa giustificare una pretesa risarcitoria, indipendentemente dal fatto che il cittadino avesse titolo ad ottenere un provvedimento favorevole.
Questa conclusione è stata criticata dal Consiglio di Stato, il quale ha sostenuto che quando non spetta un provvedimento favorevole, non è nemmeno configurabile una lesione ad un bene della vita.
In realtà però il cittadino è titolare di un interesse legittimo per il fatto che entra in relazione con un potere dell’Amministrazione. Il principio della risarcibilità del danno arrecato ad interessi legittimi, ovviamente, rafforza il convincimento che l’interesse legittimo sia una posizione di diritto sostanziale (come il diritto soggettivo).
Interessi legittimi e interessi semplici
Dal novero delle posizioni soggettive istituzionalmente garantite rimangono estranei gli interessi semplici: essi vengono individuati in via negativa e corrispondono agli interessi che non assurgono né al livello dei diritti soggettivi, né al livello degli interessi legittimi.
La tutela di questi interessi è prevista solo in casi eccezionali (ad es., le azioni popolari).
Si è discusso riguardo agli interessi collettivi, o di categoria, se essi possano configurarsi come interessi legittimi delle associazioni o degli altri enti che rappresentano la collettività o la categoria.
La giurisprudenza ha cercato di valorizzare il rilievo del momento associativo ed ha riconosciuto in capo a queste associazioni la titolarità dell’interesse di categoria, consentendo ad esse di farlo valere come un proprio interesse legittimo.
La discussione più accesa ha riguardato gli interessi diffusi, che corrispondono all’interesse generale dei cittadini a certi beni comuni (ad es., l’ambiente), e per i quali in passato si era esclusa ogni tutela.
Oggi alcune disposizioni speciali ammettono la tutela di determinati interessi diffusi, demandandola non al singolo cittadino interessato, ma a particolari associazioni (ad es., 18 l. 349/1986).
Secondo alcuni una soluzione analoga dovrebbe essere estesa ad ogni ordine di associazione costituita a tutela di un interesse diffuso, alla luce dell’art 9 L. 241/1990 (Intervento nel procedimento).
Nel caso dell’interesse collettivo la legittimazione è riconosciuta all’associazione che rappresenta la collettività o la categoria dei cittadini interessati e si cumula con quella del singolo cittadino interessato: è una legittimazione aggiuntiva; invece, nel caso dell’interesse diffuso, esso non può esser fatto valere in quanto tale in sede giurisdizionale dal singolo.
In molti casi la platea dei cittadini materialmente interessati dall’attività amministrativa è di tale estensione che, pur essendo riconducibile in astratto ad una collettività o ad una categoria precisa, essa finisce in pratica con l’identificarsi con la generalità di tutti i cittadini: emblematica, da questo punto di vista, è la disciplina della tutela dei consumatori e degli utenti nella l. 281/1998.
Nel nostro ordinamento la tutela degli interessi legittimi è assicurata con riferimento ai vizi di legittimità, e solo raramente è ammessa con riferimento ai vizi di merito.
Nelle ipotesi in cui non sia prevista una tutela in sede giurisdizionale od in via amministrativa per i vizi di merito, il cittadino è titolare di un interesse legittimo che però è privo di tutela rispetto a quei vizi.
Cap V “I principi costituzionali sulla tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della P.A.”
I principi dei Trattati UE e della CEDU
L’art. 1 del cod. proc. amm. Afferma che la giurisdizione amministrativa deve assicurare “una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione”; lo stesso articolo richiama, inoltre, i principi del “diritto europeo” (intendendo sia il diritto comunitario, sia il sistema fondato sulla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). Il riferimento al diritto comunitario va riferito ai Trattati comunitari (Trattato sull’Unione Europea, Trattato di Lisbona, Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE) che esprimo dei principi sia per quel che riguarda il rapporto tra cittadino e amministrazione comunitaria, sia sulla tutela giurisdizionale dei diritti del cittadino. Anche l’assetto della nostra giustizia amministrativa è stato influenzato dagli interventi comunitari; alcune direttive comunitarie, ad esempio, hanno riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in materia di appalti pubblici (l’indirizzo tradizionale interno escludeva, fino ad allora, la risarcibilità delle lesioni di interessi legittimi). Da un punto di vista processuale, inoltre, il diritto comunitario (anche sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia) ha innovato molto in tema di misure cautelari, ampliando la tutela cautelare fino al punto di ammettere, in tema di appalti pubblici, anche le misure cautelari ante causam. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU-Roma, 1950), che negli ultimi anni ha assunto particolare rilevanza poiché, secondo la Corte Costituzionale, la sua inosservanza comporterebbe illegittimità costituzionale (intesa come violazione dell’art. 117 Cost., che impone al legislatore di rispettare gli obblighi internazionali), all’art. 6 riconosce il diritto di ogni persona ad un processo equo (imparzialità, pubblicità, ragionevole durata, giudice indipendente e precostituito per legge…), principi poi recepiti anche dall’art. 111 Cost. (giusto processo). La giurisprudenza elaborata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo ha elaborato ,a volte, soluzioni innovative: ha chiarito, ad esempio, che la tutela dei “diritti” prevista dall’art. 6 si estende anche agli “interessi legittimi”.
I principi costituzionali in generale
I caratteri fondamentali del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale nei confronti della P.A. sono ricavabili dalla Costituzione; anche i primi articolo del codice del processo amministrativo, enunciando i “principi generali” della giurisdizione amministrativa richiamano i principi costituzionali l’art 1 cpa richiama i principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale ex art 24 Cost; l’art 2 cpa richiama i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo, nonché il principio della ragionevole durata dello stesso ex art 111 Cost; l’art 3 statuisce la motivazione di ogni provvedimento decisorio ex art 111 Cost. Questi principi assumono rilevanza anche ai fini dell’interpretazione e applicazione delle disposizioni del codice stesso. La nostra costituzione indirizza l’amministrazione verso principi democratici, sottoponendone l’attività alla legge e garantendone la tutela del cittadino in caso di azione amministrativa non legittima. Le principali disposizioni costituzionali a tutela dei cittadini possono essere distinte in disposizioni sul giudice, disposizioni sull’azione e disposizioni sull’assetto della giustizia amministrativa. Alcuni principi sanciti nelle predette disposizioni confluiscono anche nel principio del “giusto processo” sancito all’art 111 Cost ed oggi espressamente richiamato dall’art 2 cpa. L’art 111 Cost, nei primi 5 commi, sintetizza alcune condizioni essenziali per l’esercizio della funzione giurisdizionale. Tra queste va ricordata la necessità che la disciplina di ciascun processo sia stabilita dalla legge.
I principi sul giudice
La Costituzione considera come principi essenziali, l’indipendenza, l’imparzialità e la terzietà del giudice. Imparzialità e terzietà sono considerati dal 2° comma dell’art 111 Cost e si riferiscono all’esercizio della giurisdizione stabilendo che il giudice deve decidere senza essere condizionato dalle parti (imparzialità) e deve essere in una situazione di indifferenza rispetto agli interessi di cui sono portatori le parti (terzietà). Entrambi questi principi costituiscono il nucleo del giusto processo (art. 111 cost) e tendono ad essere salvaguardati dalle disposizioni sulle incompatibilità, astensione e ricusazione dei giudici (artt. 17 e 18 c.p.a.). L’imparzialità e la terzietà vanno assicurate sia rispetto all’organo giurisdizionale nella sua interessa, sia rispetto ad ogni singolo componente dell’organo giurisdizionale. L’indipendenza invece è relativa al rapporto tra l’organo giurisdizionale e gli organi del governo e del potere politico (è una condizione preliminare che precede per importanza tutte le altre condizioni, essendo essenziale per il corretto esercizio della giurisdizione). Nella Costituzione è ampiamente considerata l’indipendenza del giudice ordinario ex art 104 Cost (la magistratura ordinaria viene definita ordine autonomo, autogovernata dal Consiglio Superiore della Magistratura, viene sancita l’inamovibilità del giudice e la sua assunzione per pubblico concorso), ma ciò non significa che solo giudice ordinario goda di indipendenza; l’art. 101 Cost., anzi, la impone per l’esercizio di qualunque funzione giurisdizionale. Ciò nonostante, ancora oggi, infatti, una parte dei componenti del Consiglio di Stato è nominata dal Governo ex art 1 DPR 579/73 (il che potrebbe non garantire la loro indipendenza); tuttavia, la Corte Costituzionale ha ritenuto legittima la nomina governativa poiché la stessa, presupponendo serie valutazioni sul soggetto da nominare (che deve possedere precisi requisiti), non violerebbe il principio dell’indipendenza. Nel rispetto del principio dell’indipendenza del giudice, sono state soppresse molte giurisdizioni amministrative speciali diverse dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei Conti (Consigli di Prefettura, Giunta Provinciale Amministrativa, Sezioni per il contenzioso elettorale), che non assicuravano l’indipendenza essendo composte da funzionari statali o magistrati designati dal governo con possibilità di riconferma (ed il giudice, pertanto, per favorire la propria riconferma avrebbe potuto adottare soluzioni di favore). Presso il Consiglio di Stato, inoltre, è stato costituito il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa con competenze simili a quelle del Consiglio Superiore della Magistratura, del quale fanno parte il Presidente del Consiglio di Stato, i componenti designati dal Consiglio di Stato e dai TAR tra i magistrati ad essi appartenenti, nonché alcuni cittadini (dotati di peculiari requisiti) designati dalle camere.
I principi sull’azione: l’art 24, 1° e 2° comma, l’art 111, 2° comma, Cost.
L’art 24 garantisce il diritto d’azione.
Art. 24, 1° comma: “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti soggettivi e interessi legittimi”; 2° comma: “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” – Dal simultaneo riferimento da parte di una norma costituzionale ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi, discende il riconoscimento, in maniera esplicita, della rilevanza costituzionale della tutela degli interessi legittimi, che non va considerata come “accessoria” (rispetto a quella accordata ai diritti soggettivi), ma è dotata di piena dignità. Allo stesso tempo, però, la predetta norma costituzionale ha creato un problema: alcuni hanno creduto di poter affermare che la Costituzione, assimilando il diritto soggettivo e l’interesse legittimo dal punto di vista della tutela, intendesse accogliere l’interpretazione secondo cui all’interesse legittimo andasse riconosciuta la natura di posizione qualificata di carattere sostanziale (così come, indiscutibilmente, è posizione di carattere sostanziale il diritto soggettivo). In realtà, la Costituzione ha solo voluto affermare il principio della completezza/pienezza della tutela (che deve comprendere sia i diritti che gli interessi) e non la natura (sostanziale o processuale) dell’interesse legittimo. L’interpretazione dell’interesse legittimo come posizione di carattere sostanziale va condivisa, ma non va fatta risalire alla Costituzione. L’art. 24 Cost., commi 1 e 2, ha determinato diversi interventi della Corte Costituzionale su alcuni istituti della giustizia amministrativa.
a) rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale rispetto alla tutela cautelare – È noto che il ricorso al giudice amministrativo non sospende d’ufficio l’esecuzione del provvedimento impugnato; tuttavia, su istanza di parte e sussistendo gravi motivi (il pericolo di “un pregiudizio grave e irreparabile”, art. 55 c.p.a.) il giudice può sospendere l’esecutività del provvedimento. La Corte Costituzionale ha sempre giudicato con rigore gli interventi del legislatore che tendevano a limitare la possibilità di accedere alla tutela cautelare; ha dichiarato, infatti, che la tutela cautelare fa parte integrante della tutela giurisdizionale e può essere compressa dal legislatore solo nei casi in cui sussista una ragionevole giustificazione. Nemmeno l’introduzione di riti amministrativi accelerati può, ad avviso della Corte Costituzionale, portare all’esclusione della tutela cautelare. Principi analoghi sono stati affermati dalla corte anche per il giudizio civile in cui si impugni un atto amministrativo (come nel caso di opposizione al decreto di espulsione di cittadini extracomunitari, ove è concesso al giudice di sospendere l’espulsione sebbene la legge non lo preveda); tuttavia, recentemente, in caso di opposizione al provvedimento di espulsione per ragioni di terrorismo il legislatore ha escluso la possibilità di adottare misure cautelari (e la Corte Costituzionale, però, pur chiamata a pronunciarsi, ha ritenuto la questione non rilevante).
b) rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale nel giudizio in materia di pubblico impiego – In questo campo la Corte Costituzionale ha considerato l’esigenza di assicurare per i pubblici dipendenti una tutela equipollente (stesso valore/stessa efficacia) a quella dei dipendenti nel rapporto di lavoro privato. La Corte, così, dapprima ritenne illegittimo l’art. 21, ultimo comma, della legge Tar che non contemplava per le controversie patrimoniali in tema di pubblico impiego la possibilità per il giudice amministrativo di adottare in sede cautelare le stesse misure previste dall’art. 700 c.p.c. (provvedimenti di urgenza) e, poco dopo, ritenne illegittimo l’art. 44 del TU Consiglio di Stato che non consentiva al giudice amministrativo, nei giudizi sul pubblico impiego, di disporre degli stessi mezzi istruttori previsti per il processo del lavoro. Oggi, in base all’art. 55, comma 1, c.p.a. la tutela cautelare è pacificamente ammessa, con i limiti contemplati dallo stesso articolo; il quadro sui mezzi istruttori è invece più complesso (nonostante l’avvento del codice, infatti, nelle vertenze sul pubblico impiego non appaiono ancora pienamente attuati i principi espressi dai giudici costituzionali).
c) rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale e limiti alla c.d. giurisdizione condizionata – Per giurisdizione condizionata si intende l’accesso alla tutela giurisdizionale che risulti subordinata al previo esperimento di un ricorso in via amministrativa (interno all’amministrazione). La questione presenta due risvolti problematici: il primo è che l’azione giurisdizionale viene subordinata ad un adempimento estraneo al processo; il secondo è che, in tal modo, viene esclusa l’immediatezza dell’azione giurisdizionale. La Corte Costituzionale sostenne, in un primo tempo, che l’art. 24 Cost. non avesse lo scopo di garantire il diritto 15
all’immediatezza ma solo quello di garantire l’indefettibilità dell’azione giurisdizionale. L’illegittimità quindi poteva configurarsi solo quando il ricorso amministrativo venisse assoggettato a brevi termini di decadenza, così da rendersi incompatibile con il diritto vantato dal cittadino. Si deve considerare che fino al 1971 valeva in genere la regola per cui la possibilità di ricorrere al giudice amministrativo era garantita solo nei confronti di provvedimenti amministrativi definitivi, e cioè solo quei provvedimenti per i quali quindi fossero già stati esperiti tutti i ricorsi amministrativi ordinari previsti dalla legge. A partire dagli anni ’80 la Corte Costituzionale ha invece manifestato la tendenza a considerare la giurisdizione condizionata incompatibile con l’art. 24 e quindi a ritenerla legittima solo in casi dove siano coinvolti interessi particolari (es. nell’ordinamento militare). Quando, invece, le forme di tutela non giurisdizionale (ricorsi amministrativi, tentativo di conciliazione…) sono state introdotte dal legislatore a pena di improcedibilità (e non di inammissibilità) dell’azione giurisdizionale, la Consulta non le ha ritenute illegittime. Di conseguenza, oggi si ritiene che la previsione, da parte del legislatore, di forme di tutela preliminari all’azione giurisdizionale vada intesa sempre nel senso di una condizione di procedibilità, di modo che il giudice che riscontri che l’azione preliminare non sia stata esperita, deve sospendere il giudizio e assegnare un termine per la proposizione del mezzo di tutela alternativo.
d) Rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale e subordinazione della tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi al previo espletamento di un procedimento amministrativo – Dopo il D. Lgs. n. 150/2011 in materia di indennità di esproprio sono configurabili posizioni di diritto soggettivo e la tutela è affidata al giudice civile. In passato, la legislazione sulle espropriazioni per pubblica utilità prevedeva che il proprietario potesse far valere in giudizio la sua pretesa all’indennità di esproprio solo dopo che l’amministrazione avesse in via amministrativa determinato l’indennità (in altri termini, fino a che la PA non avesse determinato l’indennità, il soggetto già espropriato non avrebbe potuto far valere il suo diritto soggettivo all’indennità). La Corte Costituzionale ha ritenuto tale disposizione incompatibile con l’art. 24 Cost., poiché così si sarebbe rimessa esclusivamente all’arbitrio della PA (che avrebbe potuto dilungarsi senza motivo nel determinare l’indennità) la possibilità di attivare la tutela giurisdizionale.
e) Illegittimità dell’arbitrato obbligatorio – Il codice di procedura civile ammette che le parti possano convenire che una lite inerente diritti soggettivi (disponibili) sia decisa da un arbitro invece che da un giudice e non pone limitazioni particolari nel caso in cui una delle parti sia la PA. Dopo la legge 205/2000 anche le controversie in tema di diritti soggettivi devolute al giudice amministrativo (ipotesi di giurisdizione esclusiva) possono essere definite con arbitrato (solo quello rituale di diritto – art. 12 c.p.a.). Il codice di procedura civile, tuttavia, prevede che la devoluzione della controversia ad un arbitro richieda un accordo contrattuale tra le parti (compromesso o clausola compromissoria). Alcune leggi speciali hanno però previsto in certi casi l’arbitrato obbligatorio, per cui il privato non può rivolgersi al giudice e viene ammessa solo la tutela davanti ad un collegio arbitrale, pure in assenza di un accordo in tal senso tra le parti. La Corte Costituzionale ha ritenuto illegittime tali disposizioni per contrasto con l’art. 24 Cost. (che garantisce l’accesso alla tutela giurisdizionale); successivamente, però, ha chiarito che non è illegittima la legge che devolva ad arbitri le vertenze in una certa materia, purché essa ammetta che ognuna delle parti possa rifiutare la competenza arbitrale a favore del giudice civile. In passato l’arbitrato obbligatorio era stato introdotto in tema di contratti pubblici; oggi, invece, la devoluzione di tali controversie agli arbitri non è imposta dalla legge ma è rimessa alla scelta dell’amministrazione che deve essere dichiarata all’inizio della procedura per l’aggiudicazione dell’appalto (all’aggiudicatario, peraltro, è concesso un termine per rifiutare l’arbitrato).
L’art. 111, comma 2, della Costituzione stabilisce che il processo deve svolgersi nel contraddittorio, così garantendo il giusto processo. Il principio del contraddittorio comporta che il giudice non può statuire sulla domanda se la parte nei cui confronti la domanda è stata presentata non sia stata chiamata in giudizio; questa regola è oggi ripresa dagli articoli 2 e 27 c.p.a.. Il principio della parità tra le parti richiede, inoltre, che ogni parte debba poter disporre degli stessi strumenti di tutela. Il principio del contraddittorio, quindi, integra il diritto alla difesa e va applicato ad ogni ordine del processo amministrativo; la Corte Costituzionale, ad es., ha esteso tale principio anche al giudizio di ottemperanza (assimilabile all’esecuzione civile), sebbene la disciplina non prevedesse la necessità della notifica del ricorso alla amministrazione resistente (ritenendo che il principio del contraddittorio fosse stato già rispettato nel giudizio di merito). La conclusione della Corte è oggi sancita nell’art. 114, comma 1, c.p.a... Inoltre è stato chiarito che il principio del contraddittorio ha carattere generale e quindi non è solo una prerogativa della parte resistente e pertanto può essere invocato anche a favore del ricorrente (es. il cittadino deve essere posto nella condizione di conoscere l’attività amministrativa che intende impugnare e quindi vengono garantiti istituti precedenti al giudizio, come l’accesso a documenti amministrativi). Infine, l’art. 73, comma 3, del c.p.a. vieta che la decisione possa basarsi su questioni rilevate d’ufficio che non siano state sottoposte alle parti (e su cui, quindi, non si è sviluppato il contraddittorio). Nel processo amministrativo, inoltre, il diritto al contraddittorio potrebbe essere limitato dal fatto che per alcune liti sono previsti riti speciali “accelerati”, o in altri casi è consentita la decisione ancora prima che siano scaduti i termini per lo svolgimento dell’attività difensiva delle parti. La Corte Costituzionale ha ritenuto che tali riti e facoltà speciali non pregiudichino il contraddittorio, ma ha precisato che il giudice non può adottare la decisione se le parti hanno richiesto lo svolgimento di ulteriori attività (presentazione di ricorso incidentale, o di motivi aggiunti). La Corte ha, così, riconosciuto l’importanza della celerità del giudizio, ma ha chiarito che essa non può sacrificare i contenuti fondamentali della tutela giurisdizionale. Coerentemente a tale impostazione l’art. 60 c.p.a. stabilisce che il collegio, può anche pronunciarsi sul merito del ricorso già nella fase cautelare, ma deve “sentire sul punto le parti costituite” per rispettare il contraddittorio (peraltro, se una delle parti comunica di voler presentare ricorso incidentale, motivi aggiunti o regolamento di competenza o giurisdizione, il collegio deve rinviare la decisione e concedere termine).
I principi sull’azione: l’art 113 Cost
L’art 113 Cost detta alcune regole che attengono alla tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione. Principio generale è la circostanza che l’amministrazione sia parte in causa o che il giudizio verta su di un atto amministrativo, non può giustificare limitazioni alle possibilità di tutela giurisdizionale del cittadino. (si esclude qualsiasi privilegio processuale per la P.A.).
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Art 113 comma 1: “contro gli atti dell’amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi…”; il termine “sempre” sottolinea che il principio ha carattere assoluto. La Corte costituzionale con sentenza n.26/1999 ha così affermato che lo stato di detenzione non può giustificare la limitazione della tutela giurisdizionale e ha dichiarato illegittime le disposizioni di legge che non consentivano ai detenuti di agire in via giurisdizionale contro gli atti dell'amministrazione penitenziaria.
La garanzia della tutela giurisdizionale vale sia per i diritti che per gli interessi legittimi ed è quindi necessario che la distribuzione delle competenze tra giudice ordinario e giudice amministrativo sia tale da assicurare la pienezza di tale tutela. Per questi profili tale primo comma si collega all'art. 24 Cost nel senso che la pluralità delle giurisdizioni non può comportare un indebolimento della tutela complessiva nei confronti dell'amministrazione.
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Art 113 comma 2: “la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi d’impugnazione o per determinate categorie di atti”. La garanzia si estende tuttavia solo ai vizi di legittimità degli atti; a livello costituzionale, quindi, rimane esclusa da specifica protezione la possibilità di sindacato per vizi di merito. La medesima norma, peraltro, è stata invocata per giustificare l’esclusione della tutela giurisdizionale avverso i cd. Atti politici (non impugnabili, ex art 7 comma 1 cpa); dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto compatibile con l’art. 113 Cost l’esclusione di sindacato sugli atti politici, restringendo però la definizione di “atto politico” e ritenendo tale non l’atto che sia stato emanato sulla base di “valutazioni” politiche, ma solo quello che sia espressione di un “potere” politico.
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Art. 113, comma 3: “La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”. È la legge, quindi, ad avere il compito di individuare i giudici competenti ad annullare un atto amministrativo; ciò esclude che il potere di annullamento degli atti amministrativi sia riservato costituzionalmente al giudice amministrativo, con la conseguenza che non possono essere ritenute illegittime le leggi che conferiscono al giudice ordinario il potere di annullare gli atti amministrativi. Alcune discussioni si sono poste sull’art. 21-octies della legge 241/90 che stabilisce che la violazione di norme sul procedimento e sulla forma degli atti non comporta l’annullabilità dell’atto se per la natura vincolata degli atti sia chiaro che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso, nonché che la violazione delle norme sulla comunicazione dell’avvio del procedimento non rendono annullabile l’atto qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso. Tali disposizioni, apparentemente limitatrici della tutela giurisdizionale, sembrerebbero in contrasto con l’art. 113 Cost.; tuttavia, sono state proposte diverse interpretazioni. Secondo alcuni, escluderebbero solo la tutela impugnatoria ma non quella risarcitoria, in presenza di un danno patrimoniale. Secondo altri invece questa legge ha voluto distinguere tra semplice irregolarità dell’atto (in cui rientrerebbero i vizi formali citati dalla legge) dalla illegittimità, che si avrebbe solo laddove il provvedimento avesse un effetto lesivo (cioè produca nei confronti del cittadino un effetto diverso da quello prescritto dalla legge).
I principi sull’assetto della giurisdizione amministrativa
La costituzione, all’art. 103, stabilisce la regola del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo affermando che il consiglio di stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno la giurisdizione per la tutela nei confronti della PA degli interessi legittimi e in alcune particolari materie indicate dalla legge anche dei diritti soggettivi (giurisdizione esclusiva). L’art. 103 Cost., pertanto, assegna rilievo alla distinzione tra giurisdizione civile e amministrativa e individua come criterio principale di riparto la distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi e riconosce che in alcune materie indicate dalla legge la giurisdizione amministrativa possa essere estesa anche ai diritti soggettivi (carattere speciale e tassativo della giurisdizione esclusiva). La Corte Costituzionale ha ribadito che la tutela dei diritti soggettivi, anche nelle liti che coinvolgano la PA, spetta al giudice ordinario e quindi l’attribuzione per legge di una materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo deve trovare fondamento nel collegamento tra la materia e la posizione di potere dell’amministrazione (e quindi non nella semplice partecipazione al giudizio della PA). Pertanto la Consulta ha ritenuto illegittime le disposizioni che attribuivano alla giurisdizione esclusiva interi “blocchi di materie” (assegnazioni indiscriminate) e ha dichiarato l’illegittimità parziale di alcune leggi che delineavano in modo molto ampio la giurisdizione esclusiva in tema di pubblici servizi, edilizia ed urbanistica, non dando il giusto rilievo al collegamento tra la materia della controversia e il potere amministrativo. La complessità del riparto di giurisdizione (tra giudice ordinario e amministrativo) rende concreto il rischio che il cittadino si rivolga, per errore, ad un giudice privo di giurisdizione nella specifica materia. In passato detto errore comportava conseguenze irreparabili (era consentita la riproposizione della domanda al giudice dotato di giurisdizione, ma l’eventuale decorso del termine per impugnare avveratosi nel frattempo, rendeva la domanda tardiva e inammissibile); oggi invece, dopo l’intervento della Corte Costituzionale è ammessa la cd. translatio iudicii e gli effetti sostanziali e processuali della prima domanda si conservano intatti se la stessa viene riproposta nel termine assegnato innanzi al giudice dotato di giurisdizione. L’art. 103 Cost., inoltre, richiama, oltre al Consiglio di Stato, gli altri organi della giustizia amministrativa e l’art. 125 Cost., facendo riferimento ai TAR, li definisce organi di giustizia amministrativa di primo grado; ciò lascia intendere che ci sia anche un secondo grado di giudizio e cioè, in altri termini, che il principio del doppio grado di giurisdizione, anche nel caso del giudice amministrativo, avrebbe rilievo costituzionale. Tale interpretazione sembrò in un primo tempo condivisa anche dalla Corte Costituzionale (che dichiarò l’illegittimità costituzionale della norma che escludeva l’appello avverso le ordinanze cautelari pronunciate dal TAR) la quale, però, in un secondo momento, ha adottato una interpretazione più restrittiva della norma, escludendo che l’art. 125 introduca il principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione amministrativa; secondo la nuova interpretazione, infatti, esso impone solo l’appellabilità delle pronunce del Tar. La conseguenza è che la Consulta ha ritenuto legittima l’assegnazione al Consiglio di Stato, in unico grado, della competenza in alcune specifiche materie. Va da ultimo ricordato che l’art. 111, comma 8, prevede che contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti è ammesso il ricorso in cassazione solo per motivi di giurisdizione. Ciò mette in evidenza la peculiarità della giustizia amministrativa (oltre che di quella contabile), in quanto per le sentenze degli altri giudici speciali, il ricorso in cassazione è ammesso non solo per motivi di giurisdizione ma anche per violazione di legge.
CAP VI “La giurisdizione ordinaria nei confronti della Pubblica Amministrazione”
I criteri accolti per il riparto fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa
Dopo la legge del 1889, la previsione di due ordini di giurisdizioni per la tutela del cittadino nei confronti della PA, ha fatto si che la giurisprudenza (principalmente della Cassazione, in virtù del suo ruolo di giudice dei conflitti di giurisdizione) ricercasse regole certe per il riparto delle competenze tra giudice ordinario e IV Sezione.
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Inizialmente la giurisprudenza prospettò il criterio del petitum. Secondo tale elaborazione, il dato caratterizzante della giurisdizione amministrativa era il potere di annullamento dell’atto impugnato; pertanto nel caso di atto lesivo di un diritto soggettivo la Cassazione riteneva di poter ammettere la possibilità per il cittadino (che normalmente, per tutelare il diritto soggettivo, si doveva rivolgere al giudice ordinario) di ricorrere al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto (così, peraltro, si rimediava al divieto imposto al giudice ordinario di annullare gli atti amministrativi). Si permetteva, dunque, la possibilità di trattare i diritti soggettivi come interessi legittimi: del resto, i diritti soggettivi sono posizioni più garantite degli interessi legittimi e, quindi, possono essere fatti valere anche come interessi legittimi al fine di usufruire della relativa tutela. Questa teoria perse presto importanza: da un lato si rilevò che interessi legittimi e diritti soggettivi siano posizioni distinte “qualitativamente” (e non in termini di maggiore o minore tutela); dall’altro fu osservato che la teoria apriva la strada ad una doppia tutela, nel senso che la stessa posizione soggettiva del cittadino poteva essere fatta valere, sia alternativamente sia cumulativamente, davanti ai due giudici (ordinario e/o amministrativo), situazione incompatibile con l’esigenza di una oggettiva distinzione tra le giurisdizioni [tuttavia, nel caso delle vertenze edilizie il proprietario pregiudicato dalla costruzione del vicino può agire innanzi al giudice amministrativo impugnando il permesso di costruire e innanzi al giudice civile ai sensi dell’art. 872 del cod. civ.; non è un caso di doppia tutela, poiché qui il vicino è titolare di due posizioni soggettive (l’interesse legittimo alla regolarità del permesso di costruire e il diritto soggettivo della tutela della sua proprietà limitrofa) e può agire per tutelarle entrambe, secondo le regole proprie di ciascuna].
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Si è fatta strada, allora, la tesi della causa petendi, secondo la quale la controversia spetta al giudice amministrativo se è fatto valere un interesse legittimo e al giudice ordinario se è fatto valere un diritto soggettivo. Il problema era, però, quello di capire, in ciascun caso concreto, se il cittadino intendesse far valer in interesse legittimo o un diritto soggettivo. A questo proposito, fu proposta la “teoria della prospettazione”, secondo la quale si dà rilievo a ciò che il ricorrente afferma di voler far valere negli atti introduttivi del giudizio. Tale teoria è stata però criticata in quanto finirebbe con il rimettere la scelta del giudice al ricorrente.
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La tesi accolta dalla Cassazione è stata quella del cd. petitum sostanziale, per cui, ai fini del riparto di giurisdizione non rileva la prospettazione della situazione giuridica operata dalla parte, ma l’effettiva natura di tale posizione, valutata da parte del giudice. Anche questa conclusione ha posto alcuni problemi. In primo luogo, la valutazione della situazione giuridica è preliminare rispetto al giudizio di merito e, quindi, il giudizio sulla stessa sarebbe caratterizzato da una certa astrattezza; in secondo luogo, l’insussistenza del diritto soggettivo, ove sia stato adito il giudice ordinario, comporta una pronuncia di rigetto della domanda per infondatezza della stessa, mentre il giudice amministrativo, che rilevi la carenza di interesse legittimo, è solito dichiarare l’inammissibilità del ricorso (per difetto di giurisdizione), invece di respingerlo perché infondato. Evidentemente, nonostante tale ultima tesi del petitum sostanziale, non si è formato un criterio unitario per il riparto.
I limiti interni della giurisdizione ordinaria nel processo di cognizione
I limiti interni all’attività del giudice ordinario (nei confronti della PA) sono espressi dall’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, che vieta al giudice ordinario di revocare o modificare l’atto amministrativo. Tale limite è stato inteso nel passato in modo estensivo, per cui si riteneva che il giudice ordinario non potesse modificare o revocare qualunque atto dell’amministrazione che non fosse riconducibile al diritto privato; in altre occasioni si ritenne che il predetto divieto significasse impossibilità per il giudice ordinario di assumere qualsiasi decisione che potesse avere incidenza effettiva sull’attività amministrativa.
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Una prima riflessione sull’argomento, riguarda la nozione di atto amministrativo: in un primo tempo si ritenne che si dovesse intendere qualsiasi atto della PA posto in essere nell’interesse pubblico; per cui, per atto dell’amministrazione (salvaguardato dalla possibilità di annullamento del giudice ordinario) andavano intesi sia i provvedimenti amministrativi, sia i comportamenti materiali posti in essere dalla PA per interesse pubblico (anche quelli taciti, come il non fare qualcosa nell’interesse pubblico). Questa interpretazione fu inizialmente accolta dalla Cassazione ma, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, non fu più ritenuta accettabile. Si ritenne, infatti, che il divieto di annullamento per il giudice ordinario potesse riguardare solo gli atti amministrativi espressione del “potere” dell’amministrazione conferito dalla legge e non, invece, la PA in quanto tale; laddove, pertanto, l’amministrazione non eserciti un potere conferitole dalla legge, ma eserciti altre facoltà, nessun limite è posto al giudice ordinario, perché altrimenti si configurerebbe per l’amministrazione una situazione di privilegio processuale in contrasto con i principi costituzionali. L’ambito della garanzia dell’atto amministrativo, rispetto al potere del giudice ordinario, è individuato dal principio di legalità. Nello stesso modo qualora per un grave vizio (mancanza di elementi essenziali, o difetto assoluto di attribuzione) l’atto sia nullo, esso non potrà essere considerato espressione di un potere della PA e, quindi, nessun limite sarà imposto al giudice ordinario. In conclusione i limiti interni non riguardano tutto ciò che non sia diritto privato ma vanno circoscritti a tutto ciò che, in base alla legge, sia espressione di un potere pubblico.
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La questione dei limiti interni della giurisdizione civile è stata affrontata anche con riferimento alle tipologie di sentenze che il giudice ordinario può emettere contro la PA. Anche in questo caso i limiti posti dall’art. 4 (legge di abolizione del contenzioso amministrativo) sono stati interpretati estensivamente: si riteneva che il giudice ordinario non potesse emettere sentenze per la cui esecuzione l’amministrazione fosse tenuta a svolgere una attività amministrativa. In questa logica il giudice ordinario poteva emettere solo sentenze di mero accertamento (che si limitano ad accertare una situazione giuridica e quindi non implicano da parte del giudice una attività che possa incidere sugli atti dell’amministrazione) e di condanna al pagamento di somme di denaro (che riguardano un dare fungibile e che comunque non possono essere escluse, altrimenti il cittadino non avrebbe garanzia nei confronti dell’amministrazione). Le altre sentenze di condanna (a un “dare”, a un “facere”, a un “pati”) sarebbero, invece, precluse al giudice ordinario perché la loro esecuzione richiederebbe da parte della PA l’esercizio di una attività amministrativa qualificata. Per il fatto che potessero comportare una sostituzione del giudice ordinario alla PA nel compimento di attività proprie, furono escluse anche le sentenze di tipo costitutivo. Tale interpretazione però contrastava con i principi costituzionali che sanciscono la pienezza della tutela dei diritti dei cittadini nei confronti della PA. Avanzò, pertanto, la convinzione della Cassazione secondo cui, laddove l’amministrazione non avesse esercitato un potere in senso stretto (es. quando opera nel campo di diritto privato o nelle attività senza titolo come le occupazioni di fatto), il giudice potesse quel tipo di sentenza (di condanna o costitutiva) più idonea per la tutela del diritto fatto valere in giudizio. Questo orientamento è stato accolto dal legislatore, ad esempio, per i giudizi di lavoro alle dipendenze dalla PA, nei rapporti privatizzati, per i quali l’art. 63, D. Lgs. n. 165/01 consente al giudice di adottare, nei confronti delle PA, “tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati”. In conclusione, l’attività amministrativa non soggetta al principio di legalità non può avvalersi del privilegio desunto dall’art. 4. Esclusa, quindi, la possibilità che la sentenza possa avere come contenuto l’intervento su un provvedimento amministrativo, per il resto il giudice ordinario può pronunciare qualunque tipo di sentenza ed assumere anche gli altri provvedimenti previsti dalla legge (ad es. provvedimenti di urgenza o misure possessorie); non importa nemmeno che la sentenza possa comportare per la PA esercizio di una propria attività (si pensi al caso in cui la PA sia stata condannata a demolire una costruzione realizzata senza titolo su suolo altrui), poiché l’esercizio di detta attività amministrativa si configura come attività interna e meramente strumentale per l’adempimento della prestazione. [Alcuni casi concreti. ■ Sentenze costitutive ai sensi dell’art. 2932 c.c.: è stato a lungo escluso che il giudice ordinario potesse emettere queste sentenze nei confronti della PA che non avesse dato esecuzione ad un contratto preliminare, sulla base della convinzione che la stipulazione del contratto definitivo avrebbe comportato la necessità di svolgere un procedimento amministrativo e che il giudice non si sarebbe potuto sostituire alla PA. La Cassazione, tuttavia, mutò indirizzo, affermando che la discrezionalità amministrativa si era esaurita nel contratto preliminare e che la successiva attività della PA fosse di solo carattere esecutivo, realizzabile anche attraverso una condanna costitutiva del giudice ordinario (la Cassazione continua ad escludere, però, che questo criterio si applichi agli obblighi di contrarre derivanti dalla legge e non da un contratto preliminare: in questi casi è ammessa la sola tutela risarcitoria o, al massimo, l’imposizione di un termine alla PA per contrarre, scaduto infruttuosamente il quale il cittadino può accedere solo al risarcimento del danno, salvo il giudizio di ottemperanza). ■ Azioni cautelari o possessorie nei confronti della PA. Anche queste azioni, per le stesse ragioni, tendevano ad essere escluse; oggi invece l’intervento del giudice ordinario è precluso solo quando il provvedimento d’urgenza incida direttamente su un provvedimento amministrativo (ordine alla PA di emettere un provvedimento), o sulla sua esecuzione (ordine alla PA di astenersi dall’occupare un terreno, pur essendo efficace il decreto di occupazione). In ogni caso, il giudice ordinario può emettere i provvedimenti di urgenza solo entro i limiti della giurisdizione civile (sono esclusi, quindi, nelle fattispecie devolute al giudice amministrativo).
Fonte: http://download1213.mediafire.com/fosf5h7c2hlg/rs3bi8h9s9s9c6u/Riassunti+del+Travi+2013.odt
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