Diritto del lavoro appunti

 

 

 

Diritto del lavoro appunti

 

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Diritto del Lavoro

a cura di Progetto Bailys One
di Daniele Vecchi e Paola Zotti

 

Questo riassunto vuole innanzitutto rappresentare la condivisione di un lavoro di conoscenza acquisito durante la frequenza del corso di Diritto del Lavoro durante l’a.a. 2004/2005 e vuole essere un significativo supporto didattico per gli studenti che vogliono scambiare i propri documenti tramite msn secondo il criterio della gratuità sul sito: http://xoomer.virgilio.it/bailys_one.  Il testo allegato può essere collegato in vari formati (solo testo, word, HTML e altri).
 
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Bailys One

 

Autore: Bailys_one
Genere di appunti: Registrazioni audio delle lezioni
Materia: Diritto del Lavoro
Corso di Laurea: Scienze Giuridiche
Anno Accademico: 2004/2005

 

Il concetto e le classificazioni del diritto del lavoro

Il diritto del lavoro, inteso in senso lato, può essere definito come l'insieme delle norme che disciplinano il rapporto di lavoro, ossia la relazione giuridica intercorrente tra il prestatore ed il datore di lavoro. Tale relazione rappresenta un rapporto giuridico complesso, avente ad oggetto tanto l'obbligo del lavoratore di prestare la propria attività e l'obbligo del datore di corrispondere la retribuzione, quanto una molteplicità di situazioni giuridiche soggettive attive e passive, facenti capo alle due parti del rapporto. Il diritto del lavoro è una disciplina giuridica relativamente nuova, sviluppatasi essenzialmente a partire dai primi anni dell'Ottocento, quando emerse con tutta evidenza la necessità di mediare le esigenze della tutela dei lavoratori con quelle della produzione. Disciplina che ha subito un'evoluzione fortemente condizionata dalle varie fasi attraversate nella storia sociale, economica e politica del nostro Paese. Il diritto del lavoro presenta connotazioni peculiari rispetto alle altre branche del diritto, in quanto si sottrae alla partizione tradizionale - ma sempre più, oggi, contestata - del diritto nei due rami del diritto pubblico e del diritto privato. In esso, infatti, confluiscono:

  • norme di diritto privato, poste a tutela immediata di interessi privati ed individuali;
  • norme di diritto pubblico, impositive di obblighi legali a carico delle parti del rapporto;
  • norme di diritto sindacale, relative all'attività ed all'organizzazione delle associazioni sindacali.

La dottrina tradizionale distingue nell'ambito del diritto del lavoro inteso in senso ampio:

  • il diritto del lavoro in senso stretto, attinente alla regolamentazione dei rapporti individuali di lavoro subordinato, nonché di altri rapporti di lavoro, diversi dal lavoro subordinato, ma ritenuti parimenti meritevoli di tutela giuridica;
  • il diritto della previdenza sociale, che tutela il lavoratore in presenza di specifiche situazioni di bisogno, riconoscendogli un reddito sostitutivo od integrativo di quello di lavoro. Per ciò che concerne tale ultimo complesso di norme, va segnalata, tuttavia, la sua tendenza ad inserirsi nel più ampio sistema della sicurezza sociale, volto alla liberazione di tutti i cittadini (e, dunque, non solo dei lavoratori) dai bisogni materiali e morali (MAZZIOTTI).

 

Le fonti del diritto del lavoro

Il sistema delle fonti di produzione del diritto del lavoro in senso stretto presenta aspetti di particolare complessità e problematicità, in ragione del concorso di una molteplicità di atti che, se pur dotati di un diverso grado di efficacia, hanno tutti la forza giuridica di incidere sulla regolamentazione concreta del rapporto di lavoro e di determinarla.
In via di prima approssimazione, le fonti che concorrono alla produzione del diritto del lavoro possono essere suddivise nel modo che segue:

  • fonti sovranazionali;
  • fonti legislative;
  • fonti contrattuali;
  • usi.

 

Ricordato che a termini dell'art. 35, co. III, Cost., la Repubblica "promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro", occorre precisare che nel novero delle fonti sovranazionali od internazionali si distinguono due livelli di produzione normativa:

  • il primo, relativo alla partecipazione dello Stato italiano alla Comunità internazionale degli Stati;
  • il secondo, afferente invece alla partecipazione dello Stato italiano alle Comunità economiche europee.

 

il lavoro subordinato

La dottrina tradizionale considerava il rapporto di lavoro subordinato nel settore privato l'oggetto esclusivo del diritto del lavoro in senso stretto. Di tale branca del diritto si registra, invece, oggi una tendenza espansiva; la tendenza cioè a regolamentare anche altri rapporti di lavoro, diversi da quello dipendente, ma ritenuti parimenti meritevoli di tutela giuridica.

L'art. 2094, c.c., riferendosi al rapporto di lavoro alle dipendenze di un'impresa, definisce il prestatore di lavoro subordinato come colui che "si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore". Per i rapporti di lavoro con datori non imprenditori provvede l'art. 2239, c.c., che dispone l'applicabilità anche a questi ultimi della normativa del lavoro nell'impresa, in quanto compatibile con la specialità del rapporto.
Sulla base del dettato dell'art. 2094, c.c., gli elementi di qualificazione del lavoro subordinato vengono individuati nella subordinazione e nella collaborazione del prestatore.

La subordinazione rappresenta l'elemento qualificante del rapporto di lavoro in oggetto, indipendentemente dal luogo in cui questo si svolge, e ciò in quanto esso implica per definizione una prestazione non autonoma, ma svolta alle dipendenze e sotto la direzione del datore o di chi per lui.
Il grado di subordinazione effettiva varia, riducendosi via via che si passa dal lavoro meno qualificato alle prestazioni di alta specializzazione: questa, però, è solo un'implicazione di fatto, non conferente sul piano giuridico-formale.
La subordinazione del lavoratore presenta i seguenti caratteri:

  • è tecnica e funzionale, cioè determinata dalla prestazione ed a questa collegata;
  • è personale, in quanto investe la personalità stessa del prestatore, assoggettato perciò al potere direttivo e disciplinare del datore e dei collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende;
  • è patrimoniale, avendo origine contrattuale e ricollegandosi alla retribuzione;
  • è costante, poiché variano solo, in relazione alle mansioni a ciascuno attribuite, i limiti della subordinazione.

Come osserva la dottrina prevalente (SANTORO, PASSARELLI, PERA), la subordinazione è una notazione non meramente economica - da intendere cioè in termini di inferiorità socio-economica e, dunque, di condizione sociale - ma propriamente giuridica - imposta cioè dalla normativa del codice. Essa comporta, infatti, che l'osservanza delle disposizioni a cui è tenuto il prestatore sia garantita dalle sanzioni che colpiscono le infrazioni del lavoratore, così come anche gli abusi del datore.
Proprio perché nel rapporto di lavoro di cui trattasi il prestatore si mette a disposizione del datore per svolgere l'attività dedotta nel contratto, i rischi connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa gravano sul datore. Più precisamente, su quest'ultimo gravano il rischio economico e la responsabilità verso i terzi per i danni causati dai dipendenti, mentre è coperto per legge da assicurazioni sociali obbligatorie il rischio dell'inabilità al lavoro e ricadono sugli istituti di assistenza e previdenza obbligatori - e solo indirettamente sul datore - i rischi per gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali.

 

il contratto collettivo di lavoro

Il contratto collettivo di lavoro è l’accordo tra un datore di lavoro (o un gruppo di datori di lavoro) ed un’organizzazione o più di lavoratori, allo scopo di stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro alle quali dovranno conformarsi i singoli contratti individuali stipulati sul territorio nazionale.
Fra le prerogative più evidenti occorre notare:

  • il contratto collettivo di lavoro viene sempre stipulato da soggetti diversi da quelli nei cui confronti il contratto deve sortire effetti (sindacati>lavoratori);
  • il suo contenuto è determinante solo nel minimo, in quanto il contratto collettivo è inderogabile in peius;
  • i suoi effetti non si ripercuotono direttamente ed immediatamente sulle parti stipulanti.

Quanto alla natura giuridica del contratto collettivo, la dottrina è pressoché unanime a inserirlo nelle categoria dei contratti normativi, di quei contratti cioè che invece di regolare immediatamente gli interessi delle parti, determinano i contenuti di una futura produzione contrattuale.

Tipologie, scopo e fondamento dei contratti collettivi

Nella dinamica della contrattazione collettiva possiamo individuare due tipi di contratti collettivi:

  • contratti collettivi unilateralmente sindacali: quelli stipulati da un singolo datore di lavoro con un’organizzazione collettiva dei lavoratori;
  • contratti collettivi bilateralmente sindacali: quelli stipulati da contrapposte associazioni sindacali di datori di lavoro da un lato e di prestatori di lavoro dall’altro.

Scopo dei contratti collettivi è quello di stabilire le condizioni uniformi e obbligatorie valide per tutti i prestatori di una determinata categoria onde evitare una possibile e dannosa concorrenza sia fra i prestatori che fra i datori di lavoro.
Il fondamento giuridico del contratto collettivo sta da un lato nell’autonomia che l’ordinamento giuridico concede alle organizzazioni sindacali e, dall’altro, nel rapporto interno che unisce il sindacato ai suoi membri, per cui il primo rappresenta giuridicamente i secondi.

Soggetti e livelli della contrattazione collettiva

Soggetti del contratto collettivo possono definirsi quelle entità collettive che risultano portatrici, per investitura dei singoli, del relativo potere negoziale di autonomia. Benché dette entità possano essere talvolta il risultato di una rappresentanza occasionale e limitata, solitamente si tratta invece di soggetti investiti della negoziazione collettiva in via permanente e cioè i sindacati.
Nel nostro paese si è instaurata una prassi di contratto a tre (CGIL, CISL, UIL) dalla parte dei lavoratori con la Confindustria dalla parte dei datori di lavoro. I livelli principali della contrattazione sono:

  • il livello interconfederale, in cui contrattano le Confederazioni Cgil, Cisl, Uil e le associazioni negoziali delle imprese, come la Confindustria, la Confapi, le organizzazioni rappresentative dell’artigianato e della cooperazione. A questo livello si producono i protocolli d’intesa sulle relazioni industriali;
  • il livello nazionale di categoria, in cui contrattano sindacati nazionali rappresentanti le varie categorie (es. metalmeccanici, chimici ecc.) e le relative associazioni imprenditoriali. Questo livello produce i contratti collettivi nazionali di lavoro;
  • il livello aziendale, che produce un accordo valido per i lavoratori di una determinata impresa, solitamente migliorativo rispetto ai CCNL.

Oggetto della contrattazione collettiva

L’oggetto della contrattazione collettiva è individuabile essenzialmente in due diversi contenuti:

  • il contenuto normativo, che attiene al complesso di clausole che sono destinate ad avere efficacia nei singoli rapporti di lavoro: in altre parole, la disciplina dei rapporti individuali di lavoro subordinato;
  • il contenuto obbligatorio, che vincola a determinati comportamenti le associazioni (dei lavoratori e datori) tra loro.

Nella realtà aziendale, le clausole obbligatorie – cioè tutte quelle clausole che istituiscono direttamente fra le associazioni stipulanti rapporti di obbligazione, il cui eventuale inadempimento determina la insorgenza di una responsabilità delle stesse associazioni – possono essere molteplici. Fra le più importanti:

  • le clausole istituzionali, sono quelle che pongono in essere organi o istituti particolari con il fine di assolvere a specifici compiti;
  • le clausole di amministrazione, sono quelle che istituiscono collegi di conciliazione o di arbitrato o particolari organi paritetici con il compito di accettare reclami e controversie, sia individuali che collettivi, insorgenti su determinate materie;
  • le clausole di tregua sindacale, consistono in un impegno da parte degli agenti contrattuali dei lavoratori di non far ricorso all’azione diretta e a non organizzare agitazioni per conseguire la modifica del contratto prima della sua scadenza naturale e senza che si presenti un valido motivo di revisione dello stesso.

La procedura di stipula del contratto collettivo

Ogni contratto collettivo ha generalmente durata biennale o triennale. Alla scadenza si procede alla rinnovazione del contratto stesso mediante un procedimento che si articola nelle seguenti tre fasi:

  • preparazione ed elaborazione della proposta contrattuale;
  • negoziazione ed eventuale mediazione dei pubblici poteri;
  • accordo finale.

Già prima della scadenza (ed entro comunque tre mesi), le organizzazioni sindacali solitamente presentano delle piattaforme rivendicative (c.d. “pacchetti”). Queste contengono specifiche richieste che rappresentano la base minima della futura contrattazione.

I rapporti tra le diverse fonti di disciplina del contratto di lavoro

Per il rapporto di lavoro la gerarchia delle fonti è la seguente:

  1. principi generali del diritto;
  2. Costituzione e norme di diritto internazionale generalmente riconosciute;
  3. regolamenti e direttive comunitarie immediatamente dispositive;
  4. leggi nazionali ed atti aventi forza di legge;
  5. contratti collettivi e contratti individuali di lavoro;
  6. usi e consuetudine;
  7. principi interpretativi.

L’applicazione rigida di tale schema presupporrebbe che nel contratto collettivo contenente deroghe rispetto alle disposizioni di legge, queste ultime prevarrebbero comunque rispetto ai contratti collettivi stessi. Sennonché, il principio del favore verso il lavoratore fa prevalere, fra più fonti regolatrici del rapporto di lavoro, quella più favorevole verso il lavoratore (derogabilità in melius).
Quanto ai rapporti fra contratto collettivo e contratto individuale, il secondo può derogare al primo solo in melius. Le eventuali clausole del contratto individuale difformi da quelle del contratto collettivo sono nulle.

Il contratto collettivo di diritto comune e la sua efficacia

L’unico tipo di contratto collettivo che possa realizzarsi nel nostro ordinamento è il contratto collettivo di diritto comune (così chiamato perché regolato da norme di diritto comune). Tale tipo di contratto – proprio per un principio di diritto comune –vincola esclusivamente gli associati alle organizzazioni sindacali che lo hanno stipulato. Nei fatti, tuttavia, la giurisprudenza ha esteso in taluni casi l’efficacia di tali contratti anche nei confronti di lavoratori non appartenenti alle associazioni stipulanti, in particolare:

  • in applicazione dell’art. 36 Cost. si è operata l’estensione del contratto collettivo di diritto comune per garantire ai lavoratori la sufficienza della retribuzione;
  • il contratto collettivo può trovare una applicazione in via di fatto quando vi sia stata, da parte dei soggetti del rapporto individuale, una adesione ai contratti collettivi, ovvero una ricezione di essi nei contratti individuali, desumibili da una pratica costante, consolidatesi attraverso l’uniforme e prolungata applicazione dei contratti stessi.

il contratto individuale di lavoro

Il contratto individuale di lavoro è il contratto mediante il quale il prestatore si obbliga a mettere a disposizione del datore di lavoro la sua attività di lavoro e questi si obbliga a corrispondere al prestatore una retribuzione. Trattasi di un contratto:

  • oneroso, essendo necessaria l’esistenza di una retribuzione che è la naturale controprestazione dell’attività lavorativa;
  • sinallagmatico, trattandosi di un contratto a prestazioni corrispettive;
  • cumulativo, nel senso che la legge e i contratti collettivi stabiliscono esattamente l’entità delle prestazioni e controprestazioni;
  • eterodeterminato, in quanto il contenuto del contratto di lavoro viene predeterminato nei tempi e nei modi dal datore di lavoro in vista dei fini che l’organizzazione aziendale si pone.

Al datore si applicano le norme dettate per la generalità dei soggetti in tema di capacità giuridica e di agire. Una disciplina sotto alcuni aspetti particolare vige, però, se il datore è un imprenditore, posto che in tal caso incombono su di lui alcuni obblighi e limiti, determinati dall'esigenza di tutela del lavoratore subordinato alle dipendenze dell'impresa, soprattutto media o grande. La qualità di imprenditore del datore assume rilevanza anche sotto il profilo della c.d. spersonalizzazione dell'imprenditore agli effetti della formazione e conclusione del contratto nonché della successione nello stesso. Sotto il primo aspetto, in omaggio al principio della continuità dell'impresa, si applica al lavoro subordinato l'art. 1330, c.c., ai sensi del quale la proposta o l'accettazione provenienti da un imprenditore restano ferme anche in caso di morte o di sopravvenuta incapacità prima della conclusione del contratto. Sotto il secondo aspetto, l'art. 2112, c.c., dispone che "in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con l'acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano": da tale norma si desume agevolmente il principio della normale irrilevanza della persona dell'imprenditore ai fini della successione anche mortis causa nel contratto di lavoro.

Al lavoratore si applicano tutte le regole generalmente dettate per la capacità giuridica e di agire delle persone fisiche, in quanto, in ragione dell'implicazione delle energie del lavoratore nella prestazione, solo le persone fisiche sono capaci di prestare il proprio lavoro e di agire al riguardo ponendo in essere i relativi negozi. Una parte della dottrina afferma l'esistenza, in materia di lavoro, di una capacità giuridica speciale, stante la vigenza di una disciplina particolare che - salve le disposizioni di legge che stabiliscono età minime inferiori o superiori - fissa l'età minima di ammissione al lavoro a quindici anni. Il che, come si vede, costituisce una deroga al principio di cui all'art. 1, c.c., che sancisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita. Con riguardo alla capacità di agire, va detto che l'art. 2, c.c., dopo aver ribadito, al co. I, che con il compimento della maggiore età (18 anni) si acquista la capacità di porre in essere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un'età diversa, fa salve, con il co. II, le leggi speciali che stabiliscono un'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro, statuendo che "in tal caso il minore è abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro". Dunque, vi è coincidenza tra la capacità giuridica, i.e. l'idoneità ad essere parte di un rapporto di lavoro, e la capacità al lavoro, ossia l'attitudine a prestare il proprio lavoro. In virtù di tale coincidenza tra capacità giuridica e capacità di agire in anticipazione rispetto alla regola generale, non vi è più spazio - secondo la dottrina maggioritaria - per l'intervento del genitore ovvero di qualunque altro rappresentante legale (nemmeno a titolo di semplice assistenza) nella stipulazione del contratto. Restano salvi, comunque, i casi in cui questo intervento sia espressamente previsto da norme speciali. A parte l'illiceità e, dunque, la nullità dei negozi contrari alle norme imperative di cui si è fin qui discorso, è prevista l'irrogazione di sanzioni penali per i datori che vi contravvengono e per i soggetti rivestiti di autorità o incaricati della vigilanza sui minori cui le violazioni si riferiscono.

Le documentazioni relative al lavoratore: il libretto di lavoro

Sotto l'aspetto della capacità giuridica del lavoratore possono essere considerate anche alcune documentazioni relative alla sua persona, poiché esse condizionano la validità o quantomeno la regolarità della conclusione del contratto. Rientrano nella categoria di cui trattasi le iscrizioni dei prestatori in albi, registri, liste, ecc., richieste ai fini del collocamento e dell'assunzione. In tale contesto, qualche cenno va riservato alla disciplina generale del libretto personale di lavoro, contenuta nella L. 112/1935. Il libretto è obbligatorio per quasi tutti i prestatori di lavoro. Esso contiene una serie di indicazioni relative al prestatore, alcune delle quali provenienti dal sindaco (contro le quali è sempre ammessa la prova contraria); altre provenienti da ogni singolo datore di lavoro (contro le quali è ammesso anche il ricorso del lavoratore all'Ispettorato del lavoro per la rettifica). Il libretto rimane, per tutto il periodo di occupazione, presso il datore di lavoro, che, ove commetta abusi, è passibile di sanzioni penali. Nei casi in cui è esclusa l'obbligatorietà del libretto, è previsto il rilascio, da parte del datore, all'atto della cessazione del rapporto di lavoro o del tirocinio, di un attestato del lavoro o del tirocinio compiuto e della sua durata.

 

Gli elementi essenziali del contratto di lavoro

Il contratto di lavoro è un contratto consensuale, che si perfeziona con l'incontro delle volontà espresse dalle parti. Come è stato osservato (GHERA), nella formazione del contratto di lavoro, la disciplina generale del contratto dettata dal Codice Civile si applica con alcuni rilevanti caratteri di specialità, a causa dei numerosi limiti imposti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, che restringono in misura notevole il margine dell'autonomia privata. L'efficacia di tali limiti è particolarmente penetrante e si attua per mezzo del meccanismo dell'inserzione automatica di clausole (art. 1339, c.c.), e della sostituzione di diritto delle clausole difformi del contratto individuale (art. 1419, c.c.). Tuttavia, essa, incidendo solo sul piano della libera determinazione del contenuto del contratto, non esclude l'origine contrattuale del rapporto di lavoro e, in secondo luogo, non inficia la natura del contratto di lavoro che è e resta, come si è detto, un contratto consensuale.

Secondo la dottrina dominante, l'oggetto del contratto di lavoro è rappresentato sia dalla prestazione lavorativa sia dalla retribuzione. I requisiti che esso deve possedere sono quelli richiesti dall'art. 1346, c.c., per il contratto in generale, ossia:

  • la liceità: l'oggetto non deve essere contrario a norme imperative, all'ordine pubblico ed al buon costume;
  • la possibilità: al riguardo si distingue tra impossibilità di fatto ed impossibilità giuridica (numerose norme mitigano, comunque, mediante la previsione della sospensione del rapporto, gli effetti di una sopravvenuta impossibilità temporanea del datore di lavoro a ricevere la prestazione o del lavoratore ad eseguirla);
  • la determinatezza o la determinabilità, alla quale concorrono i contratti collettivi e gli usi (si ricorda che questi ultimi hanno natura negoziale e prevalgono sulle norme dispositive di legge solo quando dettano regole in senso più favorevole al lavoratore).

Il contratto di lavoro è un contratto a forma libera. Al principio della libertà della forma, tuttavia, si deroga in tutte le ipotesi in cui particolari patti, ovvero gli elementi accidentali del contratto, costituiscano clausole negoziali sfavorevoli al prestatore. Così devono risultare a pena di nullità da atto scritto:

  • il patto di non concorrenza, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto, con il quale il lavoratore si obbliga a non svolgere attività professionali in concorrenza con il precedente datore;
  • l'apposizione del termine, che deve essere altresì giustificata dalla specialità del rapporto;
  • la determinazione del periodo di prova.

Al principio della libertà della forma si deroga anche per determinati tipi di contratti di lavoro, tra cui si ricordano:

  • il contratto di arruolamento marittimo, (richiede l'atto pubblico);
  • il contratto di formazione e lavoro;
  • il contratto a tempo parziale.

Ipotesi a sé stante è, poi, quella rappresentata dal contratto di lavoro a tempo determinato del personale di volo, per il quale è richiesta, sì, la forma scritta, ma non ad substantiam, bensì ad probationem, cioè ai soli fini probatori.

La condizione - che è un avvenimento futuro ed incerto dal quale le parti fanno dipendere la produzione degli effetti del contratto, cui la condizione è opposta, ovvero l'eliminazione degli effetti già prodotti dal contratto - può inerire in maniera esplicita od implicita al contratto di lavoro, e può essere:

  • sospensiva, se da essa dipende la produzione degli effetti del contratto di lavoro;
  • risolutiva, se da essa dipende l'eliminazione degli effetti già prodotti; qualora essa tenda, però, all'elusione delle norme limitative del licenziamento, è da ritenersi illecita.

Si osservano i principi civilistici con una particolarità: la retroattività della condizione sospensiva non può risalire oltre l'effettivo inizio della prestazione di lavoro; la retroattività della condizione risolutiva è sicuramente esclusa per l'impossibilità di restituzione delle prestazioni di lavoro già eseguite.
Una parte della dottrina (GHERA, MAZZIOTTI) configura, quale particolare forma di condizione, il patto di prova, cioè la clausola scritta inserita nel contratto di lavoro, con la quale le parti subordinano la definitiva assunzione all'esperimento positivo di un periodo di prova (art. 2096, c.c.). Si è detto che il patto di prova è una clausola scritta: esso, infatti, deve risultare da atto scritto contenente l'indicazione della durata della prova: in mancanza, l'assunzione del lavoratore si considera definitiva.
Poiché la prova è evidentemente uno strumento predisposto più nell'interesse del datore che del prestatore, la legge fissa il limite massimo di sei mesi per la sua durata. L'art. 2096, co. III, c.c., regola il recesso dal periodo di prova, stabilendo che "ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine". Con riguardo al recesso, la Corte costituzionale, con la sent. 16/12/1980, n. 189, ha chiarito che esso non può essere immotivato, ma deve trovare la sua ragione nell'esito negativo della prova: è, dunque, illegittimo il licenziamento in periodo di prova se non è stato concretamente consentito al lavoratore di dimostrare le sue qualità professionali.
Se poi l'esperimento dà esito positivo, il periodo di prova si trasforma nel rapporto di lavoro subordinato vero e proprio. Se, invece, l'esperimento dà esito negativo, il datore è obbligato a corrispondere al prestatore il trattamento di fine rapporto e le ferie retribuite o la relativa indennità sostitutiva, nonché ogni altro emolumento previsto per il lavoratore che non sia incompatibile con la particolare natura del periodo di prova.

Il termine ed il contratto a tempo determinato

Si è detto che il contratto di lavoro è un contratto di durata. Ad esso, tuttavia, può anche essere apposto un termine finale. Lo sfavore del nostro ordinamento per il contratto di lavoro a tempo determinato risultava, in passato, chiaramente dal dettato dell'art. 2097, c.c., che consentiva l'apposizione del termine - richiedendo per essa la forma scritta - soltanto in presenza di un rapporto di lavoro che presentasse il carattere della specialità.
L'art. 2097, c.c., è stato abrogato dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, intitolata "Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato", che è ancora più drastica, in quanto non si limita a richiedere la specialità del rapporto e la forma scritta per l'apposizione del termine, ma elenca in maniera tassativa le ipotesi nelle quali tale apposizione può aversi. Si tratta dei seguenti casi:

  • quando l'apposizione del termine sia richiesta dalla speciale natura dell'attività lavorativa, derivante dal carattere stagionale della medesima;
  • quando l'assunzione abbia luogo per la sostituzione di lavoratori assenti che abbiano diritto alla conservazione del posto, il cui nominativo e la causa della sostituzione siano specificati nel contratto a termine;
  • quando l'assunzione avvenga per l'esecuzione di un'opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo, aventi carattere straordinario od occasionale;
  • per le lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse, per specializzazione, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative per le quali non vi sia continuità di impiego nell'ambito dell'azienda;
  • nelle assunzioni di personale riferite a specifici spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi.

A queste ipotesi, la L. 84/1986 ne ha aggiunto un'altra, che si verifica quando l'assunzione viene effettuata da aziende di trasporto aereo e da aziende esercitanti i servizi aeroportuali ed abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci. Ancora possono essere stipulati contratti di lavoro a termine:

  • con i dirigenti amministrativi e tecnici, purché di durata non superiore a 5 anni;
  • nei casi previsti dai contratti collettivi stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale;
  • per i lavoratori in mobilità, che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine di durata non superiore a dodici mesi (art. 8, co. II, L. 223/1991).

L'art. 2, L. 230/1962, stabilisce che "il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, eccezionalmente prorogato, non più di una volta e per un tempo non superiore alla durata del contratto iniziale, quando la proroga sia richiesta da esigenze contingibili ed imprevedibili e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato". Il contratto si considera a tempo indeterminato fin dalla data della prima assunzione del lavoratore qualora:

  • il rapporto di lavoro continui dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato;
  • il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di quindici ovvero trenta giorni dalla scadenza di un contratto di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi;
  • si tratti di assunzioni successive a termine intese ad eludere le disposizioni della L. 230/1962.

 

Per quanto riguarda l’interpretazione del contratto di lavoro, non vi sono particolari differenze rispetto alla normativa civilistica generale. Assumono rilievo gli usi quando i datori di lavoro sono commercianti, artigiani, agricoltori.
L’integrazione del contratto trova vasta applicazione: il contratto di lavoro si limita in generale alle indicazioni essenziali, rinviando poi alla contrattazione collettiva e alle leggi.

La patologia negoziale: cause di nullità e di annullabilità del contratto di lavoro

Le vicende patologiche del contratto di lavoro sono regolate dai principi comuni di diritto privato. Perciò, tale contratto può essere:

  • nullo, per contrarietà a norme imperative, per la mancanza di un requisito essenziale, per illiceità della causa o del motivo, per impossibilità, illiceità o indeterminabilità dell'oggetto;
annullabile, per incapacità legale o naturale di agire, per i vizi del consenso (errore, violenza e dolo) di una delle parti e per stipulazione del contratto in violazione delle norme sul collocamento.

Restano comunque escluse le norme assolutamente inderogabili.

Trattasi di nullità parziale in quanto la clausola viziata è sostituita di diritto con le norme imperative violate.

 

Ciò detto in generale, occorre segnalare due fattispecie proprie del diritto del lavoro in cui il legislatore fa scaturire effetti giuridici da contratti di lavoro radicalmente nulli, e cioè:

  • l'ipotesi della prestazione di fatto, contemplata dall'art. 2126, co. 1, c.c., a termini del quale "La nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa". L'art. 2126, co. 1, c.c., non equipara il rapporto di lavoro invalido a quello valido e non disciplina lo svolgimento di un rapporto di fatto: esso regola unicamente gli effetti giuridici di un rapporto di lavoro in concreto svoltosi fra le parti, a cui riconosce efficacia per il tempo in cui ha avuto attuazione, al fine di evitare che la portata retroattiva della pronuncia di nullità del contratto incida sulla prestazione lavorativa già resa e, dunque, sul diritto del prestatore alla retribuzione ed al versamento dei contributi assicurativi;

l'ipotesi del subappalto di mano d'opera: stante il divieto di intermediazione di cui alla L. 1369/60, i prestatori sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che abbia effettivamente utilizzato le loro prestazioni.

 

costituzione del rapporto di lavoro: il collocamento della manodopera

 

Sistemi di collocamento ordinario

Limiti all’autonomia negoziale nella formazione del contratto di lavoro

Il contratto di lavoro, considerata la sua rilevanza sociale, è sottoposto a numerosi limiti. Questi, per quanto attiene alla fase iniziale del procedimento formativo, possono essere ricondotti a tre categorie:

  • divieti di assunzione, destinati ad operare in alcuni casi in cui sia necessario tutelare i minori e le donne, la cui inosservanza comporta la nullità dei relativi contratti per contrarietà a norme imperative e la comminatoria di sanzioni penali nei confronti dei datori;
  • assunzioni obbligatorie, a favore di alcune categorie di lavoratori (le c.d. categorie protette: invalidi e soggetti che versano in particolari situazioni sociali, come orfani, vedove dei caduti in guerra, per servizio e sul lavoro, ecc.), individuate dalla L. 2 aprile 1968, n. 482, e da altre disposizioni complementari. In base a tale normativa, tutti i datori di lavoro, privati e pubblici (compreso lo Stato), che abbiano un numero di dipendenti che superi le 35 unità, sono obbligati ad assumere, per un'aliquota pari al 15% del personale in servizio, lavoratori appartenenti alle categorie protette. Tali soggetti vantano un diritto soggettivo perfetto all'assunzione e, quindi, il diritto al risarcimento dei danni commisurati alle retribuzioni perdute, in caso di inadempimento del datore;
  • modalità obbligatorie di assunzione, essendo imposto al datore che intende assumere il rispetto delle disposizioni dettate in tema di collocamento obbligatorio della manodopera, contenute nella L. 29 aprile 1949, n. 264, negli artt. 33 e 34 dello Statuto dei lavoratori, nelle leggi 25 marzo 1983, n. 79, 28 febbraio 1987, n. 56 e 23 luglio 1991, n. 223.

Delle tre categorie di limiti di cui si è appena discorso l'ultima è sicuramente la più importante. Pertanto, di essa si tratterà più diffusamente nei paragrafi che seguono.

Il collocamento, inteso come sistema normativo predisposto per lo svolgimento della mediazione fra domanda ed offerta di lavoro, in vista dell’assunzione di manodopera, costituisce una funzione pubblica. Tale funzione, esercitata dallo Stato in via esclusiva prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 469/97, è ora esercitata dalle Regioni e da alcune agenzie private dotate di particolari requisiti di professionalità e patrimonialità. A partire dalla L. 608/96 fino al D.Lgs. 469/97, si è avviata una progressiva deregolamentazione del sistema delle assunzioni, accompagnata dal passaggio del ruolo svolto dallo Stato da una funzione preventiva obbligatoria ad una funzione prevalentemente di controllo a posteriori e di indirizzo, promozione e coordinamento.

La funzione del collocamento è svolta quasi esclusivamente dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, per mezzo di un apparato che, secondo una concezione piramidale, si articola in:

  • direzione generale per l'impiego, i cui compiti sono connessi alla disciplina nazionale del collocamento dei lavoratori dei settori dell'agricoltura, dell'industria e del terziario;
  • uffici regionali e provinciali del lavoro e della massima occupazione, organi periferici del Ministero del lavoro;
  • sezioni circoscrizionali per l'impiego, che, istituite dalla L. 56/1987, hanno sostituito i preesistenti uffici di collocamento, nella funzione di effettiva intermediazione tra le offerte e le domande di lavoro;
  • agenzie per l'impiego, istituite in ogni regione, con funzioni di tipo esclusivamente programmatorio.

Alla concreta gestione del collocamento contribuiscono anche le organizzazioni sindacali, attraverso la presenza dei rappresentanti delle parti sociali nelle diverse commissioni a composizione mista, istituite nell'ambito della struttura burocratica facente capo al Ministero del lavoro, e cioè:

  • la commissione centrale per l'impiego, con rilevanti funzioni di programmazione;
  • le commissioni regionali per l'impiego, cui sono attribuiti più concreti compiti gestionali;
  • le commissioni provinciali per l'impiego, con funzioni decisorie dei ricorsi presentati contro provvedimenti delle sezioni o commissioni circoscrizionali;
  • le commissioni circoscrizionali, operanti nell'ambito delle sezioni circoscrizionali, anche con compiti di direzione politica delle sezioni stesse.

 

Le fasi: l'iscrizione e l'avviamento

Il collocamento si esercita attraverso due fasi fondamentali, a ciascuna delle quali corrisponde un procedimento amministrativo:

  • il primo si conclude con l'iscrizione del lavoratore nelle liste di collocamento;
  • il secondo è volto all'avviamento al lavoro, su richiesta del datore.

Il primo procedimento ha inizio con la domanda di iscrizione presentata dal lavoratore; domanda che l'ufficio di collocamento è obbligato ad accettare essendo l'iscrizione un atto dovuto (GHERA la classifica tra le ammissioni).
I requisiti per la domanda sono:

  • la residenza nel comune dove ha sede l'ufficio presso il quale si chiede l'iscrizione;
  • l'età lavorativa;
  • il libretto di lavoro.

I lavoratori vengono iscritti nelle liste secondo i seguenti criteri:

  • la prima classe comprende i lavoratori disoccupati o inoccupati, nonché quelli occupati a tempo parziale con orario non superiore a 20 ore settimanali che aspirino ad un diverso impiego; restano iscritti in questa classe anche i lavoratori avviati con contratto a termine, la cui durata complessiva non sia superiore a 4 mesi nell'anno solare;
  • nella seconda classe sono iscritti i lavoratori occupati in cerca di diversa occupazione;
  • infine, la terza classe comprende i lavoratori titolari di trattamenti pensionistici di anzianità o vecchiaia.

Esiste anche una lista speciale nella quale vengono iscritti i lavoratori che si dichiarino disponibili a svolgere attività part-time. La L. 407/90 e la L. 223/91 hanno previsto inoltre particolari liste di mobilità ove debbono essere iscritti i lavoratori da lungo tempo in cassa integrazione straordinaria o iscritti nelle liste di collocamento da lungo periodo.
Ulteriori classificazioni, nell'ambito di ciascuna classe, vengono operate con riguardo ai settori di produzione, alle categorie professionali ed alle qualifiche possedute dai lavoratori. In base a tali classificazioni, i lavoratori vengono inclusi nelle graduatorie di avviamento, per la formazione delle quali si tiene conto:

  • del carico familiare;
  • dell'anzianità di iscrizione nelle liste di collocamento;
  • della situazione economica e patrimoniale desunta anche dallo stato di occupazione dei componenti del nucleo familiare;
  • degli altri elementi concorrenti nella valutazione dello stato di bisogno del lavoratore.

Il lavoratore iscritto ha l'obbligo di comunicare alla sezione circoscrizionale competente ogni mese (ovvero nel diverso termine eventualmente fissato dalla commissione regionale per l'impiego) la permanenza dello stato di disoccupazione, a pena di cancellazione dalle liste (analoga sanzione è comminata nel caso in cui il lavoratore non risponda alla convocazione o rifiuti un posto di lavoro a tempo indeterminato, corrispondente ai suoi requisiti professionali, per due volte consecutive e senza giustificato motivo).
La seconda fase del procedimento di collocamento, ossia quella dell'avviamento al lavoro, ha inizio con la richiesta che il datore deve inoltrare, per iscritto, all'ufficio competente.
L’art. 9bis, come si è detto, ha totalmente innovato il sistema del collocamento dei lavoratori dando facoltà a tutti i datori di lavoro di assumere direttamente i prestatori. Precedentemente alla L. 608/96, il datore di lavoro in cerca di manodopera doveva presentare una richiesta agli uffici di collocamento e in particolare:

  • una richiesta numerica, prima dell’entrata in vigore della L. 223/91, dove poteva indicare soltanto il numero di persone di cui occorreva;
  • un richiesta nominativa, dopo la L. 223/91, che non sostituiva comunque quella numerica per quanto riguarda l’assunzione obbligatoria di prestatori facenti parte di categorie protette .

Attualmente, tutte le assunzioni possono essere fatte direttamente, senza il preventivo nulla-osta da parte degli organi del collocamento, necessario solo per l’assunzione di extracomunitari non residenti in Italia e di lavoratori italiani destinati a prestare la propria opera in paesi non appartenenti alla CE. Permane comunque per i lavoratori, l’obbligo di iscrizione nelle liste di collocamento.
Al momento dell’assunzione il datore di lavoro è tenuto a registrare immediatamente il lavoratore nel libro matricola ed a consegnargli una dichiarazione sottoscritta dei dati relativi a tale registrazione. Deve inoltre comunicare agli uffici di collocamento, entro 5 giorni dall’avvenuta assunzione, l’assunzione stessa.

 

Il collocamento obbligatorio

Il collocamento obbligatorio, regolato sino ad oggi dalla L. 482/68, è destinato ad una significativa riforma per effetto della L. 68/99. Quest’ultima si pone come finalità “la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”.

La L. 68/99 estende il suo ambito di operatività:

  • alle persone in età lavorativa affette da minoranze fisiche, psichiche o sensoriali e ai portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile;
  • alle persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33%, accertata dall’INAIL;
  • alle persone non vedenti o sordomute;
  • alle persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per servizio con minorazioni ascritte dalla prima all’ottava categoria (secondo le tabelle annesse al Testo Unico delle norme in materia di pensioni di guerra).

Tra le principali novità della L. 68/99 rileva la variazione delle quote di riserva a carico dei datori di lavoro pubblici e privati, distinte nelle seguenti:

  • 7% dei lavoratori occupati per i datori con più di 50 dipendenti;
  • 2 lavoratori per i datori che hanno tra i 36 e i 50 dipendenti;
  • 1 lavoratore per i datori che hanno tra i 15 e i 35 dipendenti.

A differenza della precedente normativa basata esclusivamente sul meccanismo della richiesta numerica, la L. 68/99 prevede la richiesta nominativa per:

  • tutte le assunzioni cui sono tenuti i datori di lavoro privati che occupano da 15 a 35 dipendenti, nonché i partiti politici, le organizzazioni sindacali e sociali e gli enti da essi promossi;
  • il 50% delle assunzioni cui sono tenuti i datori di lavoro, che occupano da 36 a 50 dipendenti;
  • il 60% delle assunzioni cui sono tenuti i datori di lavoro, che occupano più di 50 dipendenti.

Promozione dell’occupazione

Numerosi sono gli strumenti predisposti dal legislatore per favorire l’inserimento occupazionale dei giovani e, più in generale, degli inoccupati e disoccupati appartenenti alle aree geografiche più svantaggiate.
Anzitutto rileva il contratto di formazione e lavoro che, accanto all’apprendistato, ha l’obiettivo di mediare l’esigenza dell’immediato inserimento del giovane nel mondo del lavoro con quella di una contestuale attività formativa. Entrambi gli strumenti negoziali sono stati da ultimo oggetto di una significativa riforma apportata dalla L. 196/97 (c.d. “pacchetto Treu”). Quest’ultima legge, inoltre, ha stabilito:

  • il riordino della formazione professionale, orientato alla valorizzazione della stessa per il miglioramento della qualità dell’offerta di lavoro;
  • l’attuazione degli interventi formativi anche mediante il ricorso generalizzato a stage in grado di realizzare il raccordo tra formazione e lavoro, valorizzando il momento dell’orientamento e fornendo un primo contatto tra i giovani e le imprese;
  • lo svolgimento delle attività di formazione professionale da parte delle Regioni o Province, anche in convenzione con gli istituti di istruzione secondaria o soggetti privati.

Al fine di incentivare il ricorso delle imprese ad avvalersi di nuova forza lavoro, si è dato vita nel tempo al sistema delle assunzioni agevolate, ovvero di assunzioni di particolari categorie di lavoratori cui sono connessi sgravi contributivi e incentivi economici o fiscali che determinano una riduzione del costo del lavoro per l’impresa. Particolari misure sono volte alla promozione dell’occupazione giovanile:

  • tirocini formativi e di orientamento, costituiscono lo strumento attraverso il quale si consente al giovane, acquisendo un’esperienza pratica della realtà aziendale, di completare la formazione scolastica o professionale conseguita e di ottenere elementi idonei ad agevolare le sue scelte occupazionali;
  • piani di inserimento professionale, costituiscono una tipologia di tirocinio mirata ad agevolare le scelte professionali e a fornire una formazione professionale aggiuntiva mediante un’esperienza lavorativa effettuata in un contesto aziendale;
  • lavori di pubblica utilità, analoghi ai lavori socialmente utili, possono essere attivati nei settori dei servizi alla persona, della salvaguardia e della cura dell’ambiente e del territorio, dello sviluppo rurale e dell’acquicoltura, del recupero e della riqualificazione degli spazi urbani e dei beni culturali;
  • borse lavoro, mirano ad inserire i giovani inoccupati nelle realtà aziendali mediante l’incentivo dell’azzeramento dei costi retributivi e contributivi dell’impresa.

 

dal divieto di intermediazione, interposizione e appalto di manodopera al lavoro interinale

 

Il divieto di intermediazione nel rapporto di lavoro

Accanto al divieto di mediazione privata nel collocamento della manodopera, sancito dalla L. 264/49, il nostro ordinamento prevede anche il divieto di intermediazione e di interposizione nel rapporto di lavoro, posto dall'art. 1, L. 23 ottobre 1960, n. 1369. Tale norma trova il suo immediato precedente legislativo nell'art. 2127, c.c., che vieta il cd. cottimo collettivo affidato ad un dipendente dell'imprenditore e dispone che, in caso di violazione di tale divieto, l'imprenditore risponde direttamente, nei confronti dei prestatori di lavoro assunti dal proprio dipendente, degli obblighi derivanti dai contratti di lavoro da essi stipulati.
L'art. 1, L. 1369/1960, ha, rispetto all'art. 2127, c.c., una portata più ampia. Esso, infatti, da un lato, estende il divieto di interposizione al lavoro a cottimo organizzato - oltre che dal dipendente dell'imprenditore - da un terzo o da una società, anche cooperativa; d'altro, pone il più generale divieto, per l'imprenditore, di affidare in appalto o in subappalto, od in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l'esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l'impiego di manodopera assunta e retribuita dall'appaltatore o dall'intermediario, qualunque sia la natura dell'opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono.
L'art. 1, co. III, L. 1369/1960, chiarisce che per appalto di mere prestazioni di lavoro deve intendersi ogni forma di appalto o subappalto, anche per l'esecuzione di opere o di servizi, ove l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante, quand'anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all'appaltante.
In caso di violazione dell'art. 1, L. 1369/1960, i lavoratori occupati sono considerati a tutti gli effetti dipendenti dell'imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni. Come appare, si è in presenza di un'ipotesi peculiare di invalidità del contratto di lavoro, dal quale scaturiscono egualmente effetti giuridici per i prestatori.
Sia il divieto di mediazione privata che quello di intermediazione e appalto nelle prestazioni di lavoro, un tempo di carattere assoluto, hanno oggi, a seguito della L. 196/97 e del D.Lgs. 469/97, determinati spazi di in operatività. L’ordinamento ammette infatti la mediazione privata svolta con requisiti e alle condizioni di cui all’art. 10 D.Lgs. 469/97, così come ammette, ai sensi degli artt. 1-11 L. 196/97, il lavoro interinale, molto vicino ad un appalto di manodopera.

 

Il lavoro interinale

Nel lavoro interinale, un’agenzia di collocamento privata smista soggetti in cerca di occupazione indirizzandoli temporaneamente presso imprese che necessitano di manodopera. L’introduzione nell’ordinamento della disciplina sul lavoro interinale, approvata con L. 196/97, consente di superare, entro certi limiti, i vincoli previsti dal divieto di mediazione e interposizione di manodopera ex. art. 2127 c.c., L. 264/49 e L. 1369/60.
Il rapporto di lavoro interinale consta di tre figure cardine:

  • l’impresa fornitrice che ha il compito di fornire all’impresa richiedente un proprio lavoratore per un certo periodo di tempo;
  • l’impresa utilizzatrice;
  • il prestatore di lavoro temporaneo.

Il rapporto tra impresa fornitrice e impresa utilizzatrice è regolato dal contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo. Il rapporto tra impresa fornitrice e lavoratore è regolato da un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo. In entrambi i casi risulterà essere nulla qualsiasi clausola che tenda, anche indirettamente, a limitare l’impresa utilizzatrice o il lavoratore nel continuare il rapporto di lavoro dopo la scadenza del contratto di lavoro temporaneo.
Quanto all’ambito di applicazione, il contratto di lavoro interinale può essere stipulato:

  • nei casi in cui sia previsto dai contratti collettivi nazionali di categoria;
  • nei casi di utilizzazione del tutto temporanea di personale da adibire a qualifiche non previste dai normali assetti produttivi aziendali;
  • nei casi in cui occorre sostituire lavoratori assenti, ferme restando le ipotesi di divieto previste.

Il prestatore di lavoro temporaneo ha diritto a ricevere la retribuzione e il pagamento dei contributi previdenziali esclusivamente dall’impresa fornitrice. Quanto alla determinazione della retribuzione stessa, il trattamento economico non deve essere inferiore a quello cui hanno diritto tutti i dipendenti inquadrati allo stesso livello nell’organico della impresa utilizzatrice.

 

il rapporto di lavoro: contenuto

Il rapporto di lavoro si configura come un rapporto complesso per la molteplicità degli elementi che concorrono a definire la posizione giuridica delle parti, e cioè i loro reciproci diritti e doveri . Il contenuto sostanziale della prestazione, e cioè l’attività dedotta nel rapporto, è desunta da una serie di elementi, e precisamente dalle mansioni, dalle qualifiche e dalle categorie.

 

Mansioni

Le mansioni indicano l’insieme dei compiti e delle concrete operazioni che il lavoratore è chiamato ad eseguire e che possono essere pretesi dal datore di lavoro: indicano, in sostanza, l’oggetto specifico dell’obbligazione lavorativa.

 

Qualifiche

La qualifica designa lo status professionale del lavoratore, legalmente e contrattualmente identificato secondo il contenuto delle mansioni. In particolare essa esprime il tipo e il livello di una figura professionale e concorre con le mansioni a determinare la posizione del lavoratore nella struttura organizzativa dell’impresa, da cui derivano una serie di diritti e doveri inerenti al rapporto di lavoro.

 

Categorie

Le categorie costituiscono delle entità classificatorie che raggruppano i vari profili professionali. Si tratta di un sistema di classificazione professionale che, al pari delle qualifiche, delinea il particolare regime giuridico cui il lavoratore e sottoposto ai fini del trattamento economico. L’individuazione delle categorie si desume dall’art. 2095 c.c. nonché dalla contrattazione collettiva. E’ possibile, in tal modo, distinguere le categorie legali da quelle contrattuali.

Le categorie legali

L'art. 2095, co. I, c.c., come novellato dall'art. 1, L. 190/1985, contempla quattro categorie di prestatori di lavoro, destinatarie di determinate regolamentazioni previste dalla legge: dirigenti, quadri, impiegati ed operai. Lo stesso articolo, al co. II, rinvia alle leggi speciali ed alla contrattazione collettiva per la determinazione dei requisiti di appartenenza alle categorie legali di cui al co. I, sia per quanto attiene alla collocazione nelle singole imprese, sia per ciò che concerne la collocazione nei vari settori.

I dirigenti

L'art. 1 del contratto collettivo nazionale di lavoro del 3 ottobre 1989, per i dirigenti industriali, definisce i dirigenti come quei lavoratori che "ricoprono nell'azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano la loro funzione al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell'impresa". La peculiarità degli interessi dei dirigenti rispetto a quelli degli altri lavoratori comporta:

  • uno speciale inquadramento sindacale in associazioni separate;
  • una contrattazione collettiva separata;
  • un trattamento previdenziale diverso da quello riservato agli altri prestatori di lavoro.

Ancora, ai dirigenti non si applicano alcune leggi di tutela, ossia quelle sull'orario di lavoro, sul contratto a termine, sul licenziamento.

I quadri

L'art. 2, L. 190/1985, definisce i quadri come i "prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa". Lo stesso articolo rimanda alla contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la determinazione dei requisiti di appartenenza alla categoria "in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura organizzativa dell'impresa". Come per la definizione dei dirigenti, anche per quella dei quadri il legislatore fa riferimento alle funzioni, e non alle mansioni svolte dal prestatore. Tuttavia, sul piano della disciplina, la differenziazione tra le due categorie è netta. Per i quadri è prevista, infatti, l'applicabilità delle norme che regolano il rapporto individuale di lavoro degli impiegati, salvo diversa disposizione dei contratti collettivi; si esclude, inoltre, che possano essere ricompresi nella categoria dei quadri i lavoratori già classificati come dirigenti.

Gli operai

L'art. 1, R.D. 1825/1924, fornisce una definizione in negativo dell'operaio, essendo tale, per questa disposizione, il lavoratore che non può essere inquadrato in nessuna delle altre categorie. Con riguardo alla distinzione tra impiegato ed operaio, la dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono, dopo molte incertezze, che sia determinante, non il carattere intellettuale o manuale del lavoro prestato, bensì il grado della collaborazione fornita dal lavoratore al datore. Così, mentre la prestazione dell'impiegato, anche d'ordine, si caratterizza per l'attività di "collaborazione all'impresa" - di cui si è detto al paragrafo precedente -, quella dell'operaio si caratterizza per la "collaborazione nell'impresa", consistente in un generico apporto al processo produttivo, realizzato mediante la mera attuazione delle direttive ricevute.

  • i funzionari: si tratta di personale con funzioni direttiva, previsto dalla contrattazione collettiva nei settori del credito e delle assicurazioni;
  • gli intermedi: si tratta di una categoria collocabile nel grado superiore della categoria operaia. Figura tipica è il capo operaio, preposto alla guida ed al controllo di un gruppo di operai.

L’inquadramento unico

La distinzione tra impiegati ed operai è oggi parzialmente superata dall'introduzione, ad opera della contrattazione collettiva, di un nuovo sistema di inquadramento professionale: il c.d. sistema di inquadramento unico. Esso si fonda su una classificazione unica dei lavoratori, che vengono ordinati in una pluralità di livelli professionali, e non più, come avveniva in passato, per gruppi di qualifiche all'interno delle varie categorie.
L’appartenenza a tali categorie è determinata sulla base di:

  • declaratorie, cioè definizioni generali delle caratteristiche dell’attività prestata;
  • esemplificazioni, cioè di un’elencazione delle mansioni pertinenti ai diversi profili professionali.

Le novità introdotte dal nuovo sistema possono, così, sintetizzarsi:

  • come già detto, superamento parziale della distinzione tra impiegati ed operai;
  • riduzione del numero di livelli per gruppi omogenei in cui si raggruppano le mansioni ai fini retributivi;
  • promozione della professionalità dei lavoratori;
  • tendenziale unificazione del trattamento economico e normativo.

Il mutamento delle mansioni

L'art. 2103, c.c., novellato dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori, al co. I, prima parte, testualmente recita: "Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione". Tale disposizione limita il c.d. jus variandi, ossia il potere unilaterale del datore di modificare le mansioni del lavoratore, il quale, oltre che alle mansioni per le quali è stato assunto, può essere adibito soltanto:

  • a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, con pari retribuzione (c.d. mobilità orizzontale): il concetto di equivalenza va inteso in senso professionale, nel senso cioè che le nuove mansioni non devono modificare in peggio il corredo di esperienza, nozioni e perizia, acquisito dal prestatore nell'effettivo svolgimento delle precedenti mansioni (PERA);
  • ovvero a mansioni superiori (c.d. mobilità verticale): in questo caso, il prestatore ha diritto al trattamento economico e normativo corrispondente all'attività svolta, mentre l'assegnazione alle mansioni superiori diventa definitiva, ove non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi.

L'art. 2103, ult. co., c.c., prevede espressamente che "ogni patto contrario è nullo". Si tratta di un'ipotesi di nullità testuale che determina l'inefficacia di ogni modificazione in peius delle mansioni del prestatore, con attribuzione a quest'ultimo del diritto alla restituzione delle mansioni originarie o equivalenti ovvero, in alternativa, al risarcimento del danno causato alla sua professionalità.

 

Il trasferimento del lavoratore

L'art. 2103, co. 1, c.c., disciplina anche il potere di trasferimento, disponendo che il lavoratore "non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive". Ciò in quanto il trasferimento può comportare la lesione di interessi lavorativi ed extralavorativi. L'onere della prova della legittimità del trasferimento è a carico del datore. Va notato che l'art. 2103, c.c., non si riferisce al trasferimento da una località all'altra, ma al trasferimento da un'unità produttiva all'altra: per unità produttiva deve intendersi ogni articolazione autonoma dell'impresa o azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di produzione di beni o servizi dell'impresa della quale è elemento organizzativo.

 

Obblighi e diritti del lavoratore

La prestazione

La prestazione di lavoro subordinato consiste nella messa a disposizione del proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore (art. 2094). Trattasi di una obbligazione di mezzi che impegna il prestatore a tenere un determinato comportamento, ma anche a raggiungere mediante tale attività, un risultato ulteriore.
La prestazione di lavoro deve essere:

  • lecita;
  • possibile;
  • determinata e determinabile;
  • personale;
  • patrimoniale.

 

Obblighi integrativi

L'obbligo di diligenza

Il primo degli obblighi integrativi facenti capo al prestatore è l'obbligo di diligenza. L'art. 2104, c.c., sancisce che "Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale". La norma in esame fa riferimento a tre criteri, alla cui stregua la diligenza del prestatore deve essere valutata, e cioè quelli:

  • della natura della prestazione dovuta, che costituisce una specificazione dell'art. 1176, co. II, c.c., in virtù del quale "nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata";
  • dell'interesse dell'impresa, che per alcuni si identifica con l'interesse dell'impresa in sé considerato, per altri con l'interesse soggettivo dell'imprenditore; posizione intermedia è quella di chi ritiene che l'interesse dell'impresa sia da considerare quale interesse soggettivo dell'imprenditore, inteso però non in senso stretto, ma come specifico interesse a ricevere la prestazione nell'ambito di un certo contesto;
  • dell'interesse superiore della produzione nazionale, criterio organizzativo da considerarsi implicitamente abrogato con la caduta del sistema corporativo e non sostituibile con il criterio dell'utilità sociale di cui all'art. 41, co. II, Cost., che costituisce un limite alla libera iniziativa economica privata, ma non anche un parametro di valutazione dell'adempimento dell'obbligazione lavorativa.

L'inosservanza del dovere di diligenza comporta per il prestatore:

  • l'obbligo di risarcire, a titolo di responsabilità contrattuale, il danno che dalla sua condotta negligente o imprudente sia derivato al datore;
  • nonché l'eventuale sottoposizione a sanzioni disciplinari.

L'obbligo di obbedienza

Il co. II dell'art. 2104, c.c., pone a carico del prestatore l'obbligo di obbedienza, sancendo che egli deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro che gli vengono impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende. Come la giurisprudenza ha ripetutamente precisato, la soggezione del prestatore al datore ed ai suoi collaboratori non può superare i limiti imposti dalle norme di legge - in particolare, da quelle dello Statuto dei lavoratori - e dalle norme contrattuali, potendo, in caso contrario, il lavoratore, esercitare il c.d. jus resistentiae, cioè rifiutarsi di osservare le disposizioni impartite. L'inosservanza dell'obbligo di obbedienza può costituire, nei casi più gravi, giustificato motivo (soggettivo) di licenziamento.

L'obbligo di fedeltà

L'art. 2105, c.c., rubricato "Obbligo di fedeltà" pone a carico del prestatore un obbligo volto a tutelare l'interesse dell'imprenditore alla capacità di concorrenza dell'impresa (GHERA). Esso trae origine dal principio generale per il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (artt. 1175 e 1375, c.c.).
Tre sono i divieti che costituiscono il contenuto dell'art. 2105, c.c., e cioè:

  • il divieto per il prestatore di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore: esso va distinto dal divieto di concorrenza sleale, di cui all'art. 2598, c.c., che rappresenta una forma di illecito extracontrattuale e si verifica solo nei casi espressamente previsti dalla norma;
  • il divieto di divulgazione delle notizie attinenti alla organizzazione ed ai metodi di produzione dell'impresa (c.d. segreti aziendali), con riferimento al quale va chiarito, da un lato, che si ha "divulgazione" quando le notizie di cui si tratta non abbiano ancora raggiunto un alto grado di diffusione e, dall'altro, che la divulgazione è vietata se ed in quanto finalizzata ad arrecare pregiudizio all'impresa;
  • il divieto di uso dei c.d. segreti aziendali: tale divieto, al pari di quello di divulgazione, è penalmente sanzionato (si vedano, in proposito, gli artt. 621, 622 e 623, c.p.).

Sul piano civilistico, la violazione dell'art. 2105, c.c., dà luogo sia alla responsabilità disciplinare sia al risarcimento del danno eventualmente causato al datore.
In conclusione, va anche ricordato che per alcuni autori (BUONCRISTIANO, MAZZIOTTI) e per la giurisprudenza (Cass. 5257/87), l'art. 2105, c.c., è una norma dispositiva e non imperativa, per cui l'autonomia delle parti - individuali o collettive - può sia consentire lo svolgimento di attività in concorrenza sia vietare al lavoratore l'espletamento di altre attività, autonome o subordinate, a favore di terzi, indipendentemente dalla rilevanza o meno di esse sotto il profilo della concorrenza.

Il patto di non concorrenza

Il divieto di concorrenza, sancito dall'art. 2105, c.c., avendo natura contrattuale, si estingue al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Tuttavia, l'art. 2125, c.c., consente alle parti di limitare lo svolgimento dell'attività del prestatore anche successivamente alla cessazione del contratto, con la stipulazione del "patto di non concorrenza". Tale stipulazione è circondata da particolari garanzie, essendo richiesti:

  • la forma scritta, a pena di nullità;
  • la previsione di un corrispettivo a favore del lavoratore;
  • il contenimento del vincolo entro determinati limiti di oggetto, luogo e tempo;

La violazione del patto di non concorrenza può dar luogo ad una condanna al risarcimento del danno, ma non ad un ordine di cessazione dell'attività svolta.

Diritti del lavoratore

I diritti del lavoratore costituiscono le situazioni giuridiche attive, riferibili alla prestazione lavorativa, che si esprimono nelle facoltà, libertà e prerogative riconosciute al lavoratore. Tali diritti possono essere classificati nel modo seguente:

  • diritti patrimoniali, di cui fanno parte:
    • il diritto alla retribuzione;
    • il diritto al trattamento di fine rapporto;
    • le indennità speciali
  • diritti personali.

I diritti personali

I diritti personali sono i diritti inerenti alla personalità del lavoratore nel cui ambito assumono peculiare rilievo:

  • il diritto all'integrità fisica ed alla salute nei luoghi di lavoro: a tutela di esso, l'art. 2087, c.c., impone al datore l'adozione di tutte le misure necessarie "secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica". Tale norma, però, benché ispirata ad una funzione prevenzionale, è stata per lo più utilizzata con funzione risarcitoria di eventi dannosi già prodotti. Il legislatore ha tentato di ovviare ai suoi limiti con l'art. 9, St. lav., che ne ha modificato la stessa ratio. L'art. 9, St. lav., infatti, da un lato, impegna nella politica di prevenzione non il solo datore, ma anche i lavoratori, che vi partecipano mediante le loro rappresentanze; dall'altro, prevede, sempre da parte delle rappresentanze dei lavoratori, non solo il controllo sull'applicazione delle norme esistenti, ma anche la promozione di nuove misure protettive, idonee a modificare le condizioni dell'ambiente di lavoro. Le previsioni dell'art. 9, St. lav., sono state poi razionalizzate dai contratti collettivi che hanno previsto sistemi di accertamento, analisi e controllo delle condizioni ambientali, nonché l'istituzione di registri dei dati ambientali e biostatistici e dei c.d. libretti personali sanitari e di rischio per i lavoratori. Dei risultati ottenuti dalla contrattazione collettiva ha tenuto conto anche la L. 833/1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale;
  • la libertà e la dignità del lavoratore: l'art. 2087, c.c., pone a carico del datore l'obbligo di adottare misure idonee a tutelare, oltre all'integrità fisica, anche la personalità morale dei lavoratori, ossia la sfera di libertà e riservatezza, che il contratto di lavoro può limitare solo se richiesto, in senso stretto, dalle esigenze tecnico-produttive (MAZZIOTTI). Anche in quest'ultimo caso è necessario, comunque, il rispetto delle norme dello Statuto dei lavoratori ed in particolare: dell'art. 1, che tutela la libertà di opinione dei prestatori e dell'art. 8, che vieta al datore di effettuare indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore (degli artt. 3, 4 e 6, St. lav. si parlerà in materia di vigilanza e controllo dell'attività lavorativa);
  • la tutela dell'interesse dei lavoratori ad adempiere funzioni pubbliche, che dà diritto alla conservazione del posto di lavoro, al computo del periodo di sospensione della prestazione lavorativa ai fini pensionistici ed alla assistenza sanitaria;
  • il diritto allo studio per i lavoratori studenti;
  • la tutela delle attività culturali, ricreative ed assistenziali.

I diritti sindacali

I diritti sindacali sono diritti che costituiscono espressioni tipiche dell'attività sindacale, riconosciuta ai singoli prestatori di lavoro.
La dottrina più accreditata distingue:

  • i diritti sindacali generali, espressione della libertà di organizzazione ed attività sindacale e del diritto di sciopero;
  • ed i diritti sindacali speciali, concernenti alcune forme di attuazione della libertà sindacale (si pensi, ad es., al diritto allo svolgimento di referendum, al diritto ai premessi retribuiti e non retribuiti, ecc.).

È chiaro che ai diritti del lavoratore sono correlati altrettanti obblighi del datore, e viceversa.

Le invenzioni e le opere dell’ingegno del lavoratore

Il linea generale, la disciplina che riguarda tale ipotesi (artt. 2590 c.c. e 23 L.brev.) stabilisce che mentre il diritto morale alla paternità dell’opera resta all’inventore, il diritto patrimoniale al rilascio del brevetto e alla sua utilizzazione spetta al datore di lavoro. La logica sottesa a tale disciplina, infatti, è che l’invenzione spetti non a chi l’ha realizzata ma a colui che ha promosso, organizzato e finanziato l’attività della ricerca. Tuttavia possono presentarsi tre diverse fattispecie con altrettante diverse soluzioni (artt. 23 e 24 L.brev.):

  • invenzione di servizio, quando l’attività inventiva è l’oggetto della prestazione lavorativa per la quale è prevista una precisa remunerazione: in tal caso il diritto al rilascio del brevetto spetta originariamente ed automaticamente al datore di lavoro;
  • invenzione d’azienda, quando è realizzata nell’ambito di un rapporto di lavoro dove tuttavia non è prevista un compenso per l’attività inventiva né quest’ultima rientra nell’oggetto della prestazione lavorativa: il brevetto spetta sempre al datore di lavoro ma l’inventore ha diritto ad un equo premio;
  • invenzione occasionale, quando l’invenzione, pur rientrando nel campo dell’attività dell’azienda, non ha alcun nesso oggettivo con le mansioni del dipendente: in questo caso il diritto al brevetto spetta al dipendente ma il datore di lavoro ha un diritto di prelazione per l’acquisto del brevetto.

 

Obblighi e poteri del datore di lavoro

Anche la posizione giuridica del datore di lavoro ha una struttura complessa dovuta alla sussistenza di diritti e doveri collegati con i corrispondenti diritti ed obblighi del lavoratore. Per quanto concerne la posizione attiva va rilevato che i relativi diritti possono essere configurati come poteri giuridici in senso proprio, esercitabili in modo discrezionale per la tutela di un interesse proprio o dell’impresa. La forma di manifestazione di tali poteri è del tutto libera potendo essere sia orale che scritta. Naturalmente i poteri dell’imprenditore incontrano dei limiti legislativi, primo fra tutti il divieto di discriminazione previsto dall’art. 15 St. La.

 

Il potere direttivo

Il potere direttivo in senso stretto si configura come potere organizzativo diretto a conformare l’attività utile di ciascun lavoratore alle esigenze dell’impresa stessa. Esso si traduce sul piano generale nelle istruzioni che il datore ed i suoi collaboratori impartiscono per l’esecuzione e la disciplina del lavoro.
In tale ambito si suole ricomprendere l’esercizio dei seguenti poteri:

  • potere gerarchico, che designa la posizione di supremazia del datore di lavoro quale capo dell’impresa dal quale dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori;
  • potere conformativo, indica il potere di specificazione dell’attività lavorativa, consistente nella concreta determinazione della modalità per l’esecu-zione del lavoro preordinando le singole prestazioni lavorative, qualifica per qualifica, reparto per reparto;
  • potere direttivo in senso stretto, consiste nell’emanazione delle disposizioni concernenti l’organizzazione del lavoro, stabilendo una determinata disciplina tecnica del lavoro (es. orari, turni ecc.)

 

la retribuzione

La retribuzione è l'obbligazione fondamentale a cui il datore di lavoro è tenuto nei confronti del prestatore. Essa "può essere considerata il corrispettivo della messa a disposizione delle energie lavorative, in quanto costituisce il prezzo di quest'ultima, prezzo che non risponde a criteri strettamente economici essendo troppi i fattori sociali e politico-sindacali che si intrecciano nella determinazione del suo ammontare. Determinazione che trova la sua prima fonte in una norma costituzionale, l'art. 36, co. I" (MAZZIOTTI). Questa norma testualmente recita "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa". Nonostante la genericità dell'art. 36, co. I, Cost., è possibile individuare il significato:

  • sia del criterio della proporzione, in virtù del quale la retribuzione deve essere determinata secondo un criterio oggettivo di equivalenza alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, per cui la sua commisurazione dipende non soltanto dalla durata e dall'intensità della prestazione, ma anche dal tipo di mansioni espletate e dalle loro caratteristiche intrinseche;
  • sia del criterio della sufficienza, che corregge o almeno tempera il rigido criterio proporzionalistico, rispetto al quale assume un'importanza maggiore; in base al criterio della sufficienza, la misura della retribuzione deve oltrepassare il minimo vitale o di sussistenza, al fine di assicurare un livello di vita sufficiente a garantire un'esistenza libera e dignitosa non soltanto al prestatore come singolo, ma pure alla sua famiglia;
  • infine, correlativamente al disposto dell’art. 2099 c.c., del criterio della determinatezza o determinabilità: in caso di riconosciuta incongruità del trattamento economico previsto per il lavoratore subordinato da un contratto individuale di lavoro, il giudice ben può adeguare il trattamento stesso ricorrendo ai parametri stabiliti nella contrattazione collettiva di categoria, anche se essa non è direttamente applicabile al caso di specie.

Altri caratteri della retribuzione sono:

  • l’obbligatorietà, in quanto trattasi di un diritto irrinunciabile del lavoratore;
  • la corrispettività, in quanto trova la sua causa nel rapporto di lavoro;
  • la continuità, dal momento che la retribuzione spetta per tutta la durata del rapporto di lavoro.

L'art. 36, Cost., ha innanzitutto natura programmatica, in quanto vincola il legislatore a stabilire, con provvedimenti del Governo o con appositi meccanismi procedurali di carattere amministrativo, il salario minimo spettante al lavoratore. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico, non è mai stata emanata una legislazione determinatrice dei minimi salariali, per cui la giurisprudenza riconosce all'art. 36, Cost., oltre che la natura di norma direttiva, anche una funzione precettiva, considerandola direttamente vincolante nei confronti dell'autonomia privata. In altri termini, i giudici affermano che, in assenza di determinazione convenzionale della retribuzione o nell'ipotesi in cui la retribuzione pattuita sia insufficiente, il datore deve corrispondere un emolumento equivalente alla retribuzione minima prevista nei contratti collettivi di categoria o del settore produttivo di appartenenza del lavoratore, integrando i medesimi il requisito della sufficienza voluto dall'art. 36, Cost.. Per tale via, si realizza l'estensione erga omnes delle norme dei contratti collettivi riguardanti le tariffe salariali, che si applicano, infatti, in tal modo, anche ai prestatori dipendenti da imprese non aderenti alle associazioni sindacali.

Gli elementi della retribuzione

La retribuzione presenta una struttura composita perché "pur essendo il corrispettivo della prestazione di lavoro può essere utilizzata, a causa della sua intrinseca elasticità, per realizzare determinati scopi aziendali" (MAZZIOTTI). Dunque essa si compone di vari elementi, quali:

  • la paga base, il cui ammontare è fissato dai contratti collettivi per l'orario normale di lavoro, corrispondentemente alle varie categorie e qualifiche. Ad essa si aggiungono i c.d. scatti di anzianità, aumenti percentuali della retribuzione, previsti dalla contrattazione collettiva, con frequenza generalmente biennale;
  • le attribuzioni patrimoniali accessorie, previste dai contratti collettivi ed individuali, consistenti, nella maggior parte dei casi, in attribuzioni corrisposte, in aggiunta alla paga base, in maniera saltuaria o, più spesso, continuativa. Rientrano nella categoria:
    • i superminimi, incrementi collettivi od individuali che corrispondono a quella parte di retribuzione che supera i minimi tariffari;
    • le maggiorazioni per il lavoro straordinario, notturno e festivo;
    • le gratifiche (si pensi, ad esempio, alla tredicesima mensilità);
    • i premi di produzione o di rendimento.

Un cenno a sé merita l'indennità di contingenza, istituto volto a correggere, almeno in parte, la natura della retribuzione come credito di valuta e, quindi, ad adeguarne il valore nominale a quello reale. Il sistema si è basato, fin dall'origine, sulla c.d. scala mobile, meccanismo che comporta un adeguamento automatico del livello retributivo al costo della vita attraverso il riferimento alle variazioni dei prezzi di particolari beni costituenti il c.d. paniere. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Settanta, l'istituto della scala mobile è entrato in crisi e, dopo vari interventi legislativi, è stato soppresso con il protocollo triangolare di intesa tra Governo e parti sociali del 31 luglio 1992.

Il principio di omnicomprensività della retribuzione

Problema particolarmente discusso in dottrina ed in giurisprudenza è quello dell'individuazione delle attribuzioni patrimoniali da far rientrare nel concetto giuridico di retribuzione. Esso inerisce alla sussistenza o meno, nel nostro ordinamento, del principio di omnicomprensività della retribuzione, per il quale essa ricomprende non solo il compenso che costituisce il diretto corrispettivo della prestazione lavorativa, ma anche tutti gli emolumenti che presentano carattere continuativo, periodico o costante nel tempo. Tale principio non è privo di risvolti sul piano pratico: primo fra tutti, quello dell'individuazione delle erogazioni che possono essere prese in considerazione per il calcolo di istituti che assumono la retribuzione come base di computo. La giurisprudenza era, in passato, nel senso della omnicomprensività della retribuzione, sostenuta sulla base di una congerie di argomentazioni, delle quali la più rilevante era quella dell'applicazione estensiva dell'art. 2121, c.c.. Oggi, anche a causa della modifica di tale articolo ad opera della L. 297/1982, tale orientamento è mutato e prevale quello per cui non esiste nel nostro ordinamento un concetto monolitico di retribuzione ed è da escludere che l'omnicomprensività valga oltre i casi richiamati espressamente dalla legge e dai contratti collettivi.

I sistemi retributivi

Alla stregua dell'art. 2099, c.c., la retribuzione può essere:

  • a tempo, se commisurata alla frazione di tempo di lavoro svolto (ora, giorno, mese). In tale sistema retributivo assume importanza la distinzione tra:
    • retribuzione oraria, o salario, tipica del lavoro operaio e rapportata al numero di ore effettivamente lavorate, con la conseguenza che qualsiasi sospensione del lavoro comporta l'automatica perdita della retribuzione;
    • retribuzione mensile, o stipendio, propria del lavoro impiegatizio e stabilita in misura fissa mensile, comprensiva anche dei giorni di riposo settimanale o infrasettimanale;
  • a cottimo, se commisurata alle unità di prodotto fornite dal lavoratore, cioè al risultato produttivo. Nell'ambito di tale forma retributiva occorre distinguere:
    • il cottimo pieno, che si ha quando la retribuzione viene determinata in base alla quantità di lavoro prestato;
    • il cottimo misto, in cui la retribuzione è calcolata in parte a tempo ed in parte in base al sistema del cottimo;
    • il cottimo collettivo, legato al rendimento, non del singolo lavoratore, ma di un gruppo organizzato di lavoratori;
    • il concottimo, che designa un particolare trattamento retributivo riservato a lavoratori non cottimisti, il cui lavoro può aumentare con l'intensificarsi del ritmo di lavoro di prestatori cottimisti.

Il cottimo può poi essere:

    • obbligatorio, quando, in ragione dell'organizzazione del lavoro il prestatore deve osservare un determinato ritmo produttivo e quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione (art. 2100 c.c.);
    • vietato, per gli apprendisti.

A tutela dei prestatori, l'art. 2101, c.c., dispone che "L'imprenditore deve comunicare ai prestatori di lavoro i dati riguardanti gli elementi costitutivi della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguirsi e il relativo compenso unitario".
Ancora, sempre a termini dell'art. 2099, c.c., la retribuzione può essere:

  • a provvigione, se è commisurata al numero degli affari conclusi;
  • con partecipazione agli utili o ai prodotti, quando il lavoratore è retribuito, in tutto o in parte, con una percentuale sugli utili conseguiti dall'imprenditore nell'esercizio della sua attività;
  • in natura, ipotesi residuale, che si riscontra in alcune forme di lavoro domestico, agricolo e nel settore della pesca.

Le modalità di pagamento della retribuzione

La retribuzione è, di regola, corrisposta in danaro ed è, quindi, soggetta alla disciplina dettata dagli artt. 1277 e ss., c.c.. La contrattazione, collettiva ed individuale, fissa generalmente l'ammontare della retribuzione con riferimento ad un anno di lavoro; la corresponsione avviene, tuttavia, in ratei periodici e, per il principio c.d. della post-numerazione, dopo l'espletamento della prestazione lavorativa. Le modalità ed i termini di corresponsione della retribuzione sono quelli in uso nel luogo in cui il lavoro viene svolto, che è anche il luogo in cui la retribuzione viene pagata. In ordine alle modalità, la L. 5 gennaio 1953, n. 4, sanzionata penalmente, fa obbligo al datore di accompagnare la corresponsione della retribuzione con la consegna di un "prospetto paga", recante l'indicazione di tutti gli elementi costitutivi di essa.

Il trattamento di fine rapporto e l'indennità in caso di morte

La L. 29 maggio 1982, n. 297, ha sostituito all'indennità di anzianità - consistente nella retribuzione che maturava al momento della cessazione del rapporto di lavoro e che era pari al prodotto dell'importo dell'ultima retribuzione per il numero di anni di servizio prestato - il diverso istituto del trattamento di fine rapporto. Quest'ultimo, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, ha natura retributiva e previdenziale insieme, perché rappresenta quella parte di retribuzione cui il lavoratore alle dipendenze di un privato o di un ente pubblico economico ha diritto in ogni caso di cessazione del rapporto, al fine di superare le eventuali difficoltà economiche connesse a tale cessazione.
L'art. 2120, c.c., nella nuova formulazione, dispone che il trattamento di fine rapporto si calcola accantonando, anno per anno, una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. Il totale delle quote accantonate - con esclusione della quota maturata nell'anno - è incrementato, su base composta, al 31 dicembre di ciascun anno, con l'applicazione di un tasso costituito dall'1,5% in misura fissa e dal 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall'ISTAT, rispetto al mese di dicembre dell'anno precedente.
Nella retribuzione media da prendere a base del calcolo devono farsi rientrare tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese. Previsioni diverse possono, però, essere contenute nei contratti collettivi a cui la L. 297/1982 concede ampio spazio, tanto che la Cassazione ritiene possibili anche deroghe in peius, purché la disciplina pattizia assicuri al prestatore un trattamento complessivamente più favorevole.
L'art. 2120, co. VI, c.c., dispone che il lavoratore, con almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore, può chiedere in costanza di rapporto di lavoro, un'anticipazione non superiore al 70% sul trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta. I commi dal VII all'XI dello stesso articolo contemplano una serie di limiti per tale anticipazione, che deve essere giustificata dalla necessità di:

  • eventuali spese sanitarie per terapie ed interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche;
  • acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile (si ricorda che la sent. n. 142/1991 della Corte cost. ha dichiarato illegittimo l'art. 2120, co. VIII, lett. b), nella parte in cui non prevede la possibilità di concessione in caso di acquisto in itinere comprovato con mezzi idonei a dimostrarne l'effettività).

L'indicazione delle finalità per cui può essere chiesta l'anticipazione è evidentemente generica: ciò si spiega in considerazione dell'ampio margine che la legge lascia in materia alla contrattazione collettiva ed individuale, chiamata ad integrare e migliorare la disciplina legislativa.
Il trattamento di fine rapporto, unitamente all'indennità di preavviso, spetta nel caso di morte del prestatore, ai "superstiti", ossia al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del lavoratore, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado. La ripartizione deve seguire i criteri stabiliti dall'accordo tra i superstiti; in difetto di accordo, il criterio del bisogno attuale di ciascuno.
Secondo l'orientamento dottrinale prevalente, il diritto spetta ai prossimi congiunti indicati dalla legge "iure proprio", ciò che implica importanti conseguenze sotto il profilo fiscale e sotto quello dei rapporti del de cuius con i creditori, che non possono rivalersi sull'indennità in questione avente natura anche previdenziale ed assistenziale. Solo in mancanza di "superstiti" subentrano le norme della successione testamentaria o legittima e l'acquisto avviene "iure successioni”.

 


A tutela dei lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli, è predisposto un istituto, chiamato in sostanza a sostituire il vincolo dell'avviamento numerico: è previsto, cioè, che i datori che occupano più di 10 dipendenti devono riservare una percentuale del 12% delle nuove assunzioni a particolari categorie di lavoratori (quelli iscritti da più di 2 anni nella prima classe delle liste di collocamento; quelli iscritti nelle liste di mobilità; quelli appartenenti a speciali categorie determinate con delibera della Commissione regionale per l'impiego, approvata dal Ministro del lavoro).

 

fonte: http://www.studiando.altervista.org/UNIVERITY/2anno/LAVORO/APPUNTI%20DI%20BARI%20Diritto%20del%20Lavoro%20-%20GheRa.doc

fonte: http://www.studiando.altervista.org

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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