Banche funzioni e funzionamento
Banche funzioni e funzionamento
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FUNZIONI DELLA BANCA
Le banche sono aziende di produzione indiretta che operano nel settore del credito svolgendo un’attività d'intermediazione abbinata alla prestazione di numerosi servizi.
Le banche fanno parte del settore terziario e agiscono nell'ambito dei mercati diretti ed aperti.
Le funzioni esercitate dalle banche sono numerose ma le più importanti sono le seguenti:
- Funzione creditizia
- Funzione monetaria
- Funzione di trasmissione degli impulsi di politica monetaria
- Funzione di servizi
Funzione creditizia: le banche agiscono da intermediarie tra coloro che offrono capitali e coloro che li richiedono. Questa loro attività di intermediazione ha anche un importante contenuto economico-sociale in quanto le banche stimolano la formazione del risparmio e lo indirizzano verso le attività produttive favorendo lo sviluppo dell'intero sistema economico.
Funzione monetaria: le banche sono il perno del sistema dei pagamenti sia interni sia internazionali. Tali pagamenti vengono compiuti solo in minima parte con la moneta legale mentre la loro quota maggiore è effettuata con moneta bancaria.
La funzione creditizia e la funzione monetaria sono strettamente interdipendenti. Infatti le banche conferiscono ai depositi raccolti, moneta e con la concessione dei prestiti espandono gli stessi depositi e quindi aumentano la moneta virtuale a disposizione del mercato (moltiplicatore dei depositi).
Funzione di trasmissione degli impulsi di politica monetaria: le banche, mediante le operazioni di credito, agiscono sul processo di produzione e di distribuzione del reddito nazionale. Quindi lo stato si serve della banca per raggiungere i suoi obiettivi di politica monetaria.
Funzione dei servizi: le banche propongono alla clientela, oltre alle operazioni di credito, anche una gamma sempre più vasta di prestazioni complementari e collaterali, le prime di carattere bancario (incasso di effetti), le seconde di tipo parabancario (leasing , factoring).
Le scelte strategiche delle aziende di credito devono essere concepite per garantire alla gestione un equilibrio sotto il profilo:
- Patrimoniale
- Economico
- Finanziario
L’equilibrio patrimoniale si realizza quando la banca opera in condizioni di solvibilità. Affinché tale situazione si realizzi, le attività patrimoniali devono essere superiori alle passività.
L’equilibrio economico si realizza quando la banca opera in condizioni di redditività. Affinché tale situazione si realizzi tutti i ricavi devono essere maggiori dei costi.
L’equilibrio finanziario si realizza quando la banca opera in condizioni di liquidità. Affinché tale situazione si realizzi, le entrate devono essere superiori alle uscite.
La gestione dell’azienda bancaria richiede, quindi, la formulazione di opportune scelte strategiche o politiche gestionali, finalizzate al raggiungimento di un corretto rapporto e di un equilibrio tra solvibilità, redditività e liquidità.
Ad incidere maggiormente sul piano economico e quindi della redditività sono i tassi d’interesse. I tassi passivi, corrisposti a depositanti in relazione alle operazioni di raccolta, sono inferiori ai tassi attivi che vengono richiesti, in relazione alle operazioni di impiego. La cosiddetta forbice tra i tassi attivi e passivi rappresenta il più importante fattore di redditività nella gestione delle aziende di credito.
Tra i tassi attivi bancari, particolare importanza assumono
- Il prime rate è il minor tasso che le banche applicano nei confronti della clientela primaria(più affidabile) in relazione alle operazioni di impiego.
- Il top rate è invece il tasso più elevato, applicato nei confronti della clientela che è meno affidabile e presenta, quindi, una notevole rischiosità.
Per mantenere sempre l’equilibrio la banca cerca di:
- Diversificare gli impieghi per ridurre i rischi
- Raccogliere e investire in modo correlato
- Dispone di riserve di liquidità
Per quanto riguarda le riserve abbiamo:
- Riserve di liquidità di prima linea, cioè riserve di denaro contante
- Riserve di liquidità di seconda linea, costituite da attività, spesso fruttifere, in grado di essere smobilizzate in tempi brevi.
CLASSIFICAZIONE DELLE OPERAZIONI BANCARIE
- Operazioni raccolta fondi
- Operazioni di impiego fondi
- Operazioni di intermediazione mobiliare e valutaria
- Operazioni di investimento
- Servizi
IL C/C DI CORRISPONDENZA
Attualmente il rapporto bancario più diffuso è il conto corrente di corrispondenza, costituisce per gli enti creditizi la principale forma tecnica sia di raccolta fondi, sia di impiego.
Sotto il profilo giuridico si qualifica come un contratto atipico a contenuto misto, ha per oggetto l’incarico, assegnato alla banca, di effettuare per conto del correntista una molteplicità di pagamenti e riscossioni, in quanto il cliente trasferisce all’ente creditizio il proprio servizio di cassa.
A seconda dell’andamento del saldo, è possibile distinguere:
- C/c passivi generalmente presentano saldi di segno Avere (creditori) costituiscono un operazione di raccolta fondi e gli interessi che su di essi maturano sono quindi passivi per l’istituito di credito.
- C/c attivi generalmente presentano saldi di segno Dare (debitori) costituiscono un operazione di impiego fondi.
- C/c per elasticità di cassa presentano alternativamente saldi creditori e saldi debitori, rappresentano un’operazione sia di raccolta sia di impiego.
Il c/c di corrispondente si compone in:
- Estratto conto
- Staffa
- Prospetto per il conteggio delle competenze
L’estratto conto riepiloga in ordine cronologico di registrazione le operazioni che, nel periodo considerato, hanno movimentato il c/c.
La staffa o scalare interessi o conto scalare, riporta n ordine cronologico di valutale medesime operazioni contenute nell’estratto conto, con esclusione di quelle la cui valuta non è maturata. La valuta rappresenta il giorno in cui maturano gli interessi.
Il prospetto per il conteggio delle competenze espone i calcoli per la determinazione di interessi, commissioni e spese di tenuta conto.
Le operazioni postergate e antergate:
- Sono postergate le operazioni che hanno valuta posteriore rispetto alla chiusura del conto corrente.
- Sono antergate le operazioni che hanno valuta anteriore alla data di riapertura del conto, sono pertanto di competenza del trimestre precedente.
Fonte: http://www.storiadilioni.it/angolo%20dello%20studente/TEMI%20SVOLTI/FUNZIONI%20DELLA%20BANCA.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Banche funzioni e funzionamento
L’ASSEGNO
(R.D. 21/12/33 n.1736).
CHE COS'È L'ASSEGNO BANCARIO
L’assegno bancario è uno strumento di pagamento che consente a chi è titolare di un conto corrente bancario di pagare una somma ad un altro soggetto o a se stessi. E’ un titolo pagabile a vista e non un mezzo per concedere credito.
Quindi l’assegno ha la funzione economica di mezzo di pagamento: può essere utilizzato in sostituzione del denaro da chi ha una disponibilità di fondi presso una Banca: in tal caso, il cliente della Banca, anziché prelevare i soldi per pagare un creditore, può dare l’ordine alla Banca di effettuare il pagamento al creditore, emettendo un assegno bancario a favore di quest’ultimo.
L’assegno bancario costituisce titolo esecutivo: ciò significa che, se presentato all’incasso nei termini previsti dalla legge e decorrenti dalla data indicata nell’assegno, deve essere pagato.
I SOGGETTI COINVOLTI
- “TRAENTE” colui che emette un assegno
- “TRATTARIO” è la banca presso la quale il traente ha il conto corrente
- “BENEFICIARIO” o “PRENDITORE” è colui al quale deve essere pagato l’assegno
REQUISITI PER L’EMISSIONE:
- Rapporto di Provvista cioè presenza della somma di denaro all’interno del conto
- Concessione da parte della banca di emettere assegni
IL TERMINE DI PRESENTAZIONE è:
- 8 giorni, se l’assegno è pagabile nello stesso comune in cui è emesso;
- 15 giorni, se è pagabile in un comune diverso da quello in cui fu emesso;
- 20 giorni, se è pagabile in uno Stato diverso da quello in cui fu emesso, ma europeo o appartenente al bacino del Mediterraneo;
- 60 giorni, se è pagabile in uno Stato diverso da quello in cui fu emesso ed appartenente ad un diverso continente.
Si noti che l’assegno, anche se non presentato nei termini, costituisce sempre titolo esecutivo nei confronti del traente; si perde, tuttavia, l’azione c.d. di regresso nei confronti dei giranti (cioè, l’azione che viene esperita nei confronti dei giranti, anziché nei confronti di colui che ha emesso l’assegno, per ottenere il pagamento della somma indicata nell’assegno).
Decorsi i termini di presentazione, il traente può dare l’ordine alla Banca di non pagare l’assegno e può disporre altrimenti dei fondi senza incorrere nel reato (ormai depenalizzato) di emissione di assegni a vuoto. In mancanza di tale ordine, la Banca può pagare ugualmente, anche dopo la scadenza del termine.
REQUISITI FORMALI PER LA COMPILAZIONE DI UN ASSEGNO
Gli assegni bancari sono moduli standardizzati contenuti in libretti che la banca consegna al correntista
Perché sia compilato validamente, occorre che contenga alcuni requisiti essenziali:
1 - 2 l’indicazione della data e del luogo di emissione;
3 - 4 la somma da pagare;
5 – eventuali sbarre di “sbarramento”
6 – la clausola “non trasferibile”
7 – il beneficiario
8 - la firma del traente;
11 – il nome della banca trassata con le coordinate bancarie (ABI e CAB)e la denominazione di assegno bancario.
L'importo in cifre (in alto a destra) si scrive indicando, dopo la virgola, i centesimi, anche nel caso in cui l'importo non abbia decimali; in tal caso si dovranno indicare due zeri (00) dopo la virgola.
Esempio:
534 euro e 56 centesimi si scrive 534,56
534 euro si scrive 534,00
L'importo in lettere deve riportare l'indicazione dei centesimi espressi in cifre, che dovranno essere separati con una barra.
Esempio:
534 euro e 56 centesimi si scrive cinquecentotrentaquattro/56
534 euro si scrive cinquecentotrentaquattro /00
ATTENZIONE
E’ consigliabile intestare sempre un assegno per evitare che, in caso di smarrimento o furto, possa essere incassato da persone diverse. La banca è comunque tenuta ad identificare il portatore dell’assegno. Inoltre l’omessa indicazione del beneficiario (assegno in bianco) può comportare situazioni poco piacevoli, qualora l’assegno capiti in mano a persone disoneste. |
E’ bene incassare incassare subito un assegno sia perché la somma ricevuta e poi depositata produce interessi, sia perché incassando l’assegno dopo i termini di presentazione si corre il rischio di non godere delle azioni di tutela tipiche dell’assegno e di non essere pagati. |
La data di emissione è un requisito obbligatorio, sia per motivi di evasione fiscale, ma soprattutto nell’interesse personale, in quanto finché un assegno resta circolante il traente non può chiudere il proprio conto o cambiare banca se ne avesse bisogno, perché così facendo rischierebbe il protesto per emissione di assegno senza autorizzazione. |
L’assegno per essere valido deve essere integro, se un assegno ha lo spigolo superiore sinistro tagliato non può circolare e non deve essere accettato in pagamento perché potrebbe essere stato rubato (infatti le banche quando accettano un assegno hanno l’obbligo di tagliarne lo spigolo superiore sinistro) |
E’ importante che gli assegni siano emessi con la clausola “non trasferibile, soprattutto se si tratta di assegni circolari. Infatti in caso di smarrimento o furto è più semplice richiedere il rimborso è sufficiente sporgere denuncia alle autorità e portare la denuncia in banca. |
Quando si gira un assegno è preferibile specificare il nome di colui al quale si vuole girare l’assegno stesso. Le persone che girano l’assegno si assumono la responsabilità del pagamento. |
“GIRATE DI” UN ASSEGNO –
Con il termine “girata” si intende un’operazione con cui il girante -colui che cede il titolo - ordina che il pagamento dell’assegno venga effettuato nei confronti del giratario.
Se l’assegno bancario contiene delle girate, significa che ognuno dei giranti garantisce l’importo scritto sull’assegno, e potrà, dunque, essere chiamato a rifonderlo nel caso di mancato pagamento da parte della Banca.
Le girate sono poste a tergo degli assegni privi della clausola di non trasferibilità, è obbligatorio l’indicazione chiara e leggibile del codice fiscale del girante (sia esso persona fisica o giuridica) da apporsi sopra la firma di girata.
IL “PROTESTO” DI UN ASSEGNO
Il mancato pagamento dell’assegno all’atto di presentazione per l’incasso deve risultare dal protesto, ovvero da un atto pubblico (redatto da un notaio o un pubblico ufficiale o ufficiale giudiziario), nel quale si accertata in forma solenne l’avvenuta presentazione del titolo in tempo utile ed il conseguente rifiuto della Banca di pagare.
Soltanto per l’assegno bancario, la legge ammette che il protesto sia sostituito (ai fini dell’attestazione del rifiuto del pagamento di un assegno presentato in tempo utile) da:
- la dichiarazione del trattario (ovvero, la Banca) scritta sull’assegno con l’indicazione del luogo e del giorno della presentazione;
- la dichiarazione di una stanza di compensazione datata e attestante che l’assegno è stato trasmesso in tempo utile e non è stato pagato. L’assegno protestato costituisce titolo esecutivo per l’ammontare non pagato per mancanza di fondi. Se il mancato pagamento è parziale, l’azione esecutiva potrà essere esercitata per quella parte della somma portata dall’assegno e non pagata.
Il portatore del titolo potrà richiedere:
- l’ammontare dell’importo non pagato risultante sull’assegno;
- gli interessi al tasso legale dal giorno della presentazione;
- le spese per il protesto o le altre spese.
L'ASSEGNO BANCARIO CON CLAUSOLE PARTICOLARI:
L'ASSEGNO SBARRATO
L’assegno può recare sulla facciata anteriore due sbarre tracciate dal traente (colui che ha emesso l’assegno) o dal portatore: è lo sbarramento generale, nel qual caso l’assegno può essere pagato dalla Banca soltanto ad un suo cliente accreditandolo sul so conto corrente o ad un’altra Banca.
L’assegno può recare tra le due sbarre il nome di un banchiere: è lo sbarramento speciale, col quale l’assegno può esser pagato solo alla banca indicata.
L’uso degli assegni sbarrati si giustifica come norma antiriciclaggio, perché evita che si perdano le tracce di un assegno.
L'ASSEGNO NON TRASFERIBILE -
L’assegno con la clausola “non trasferibile” può esser pagato soltanto al “prenditore” (beneficiario=colui al quale è stato emesso l’assegno) o essere accreditato sul suo conto corrente. Può essere girato solo ad una Banca per l’incasso. La clausola “non trasferibile” può essere apposta dal traente (chi ha emesso l’assegno) o da un girante. La Banca che paga a persona diversa dal prenditore o dal Banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento.
Al fine di rendere più difficile il riciclaggio di denaro proveniente dal compimento di reati, gli assegni bancari e circolari superiori a 20 milioni devono essere emessi con clausola “non trasferibile”.
L'ASSEGNO POSTDATATO
Essendo un mezzo di pagamento, l’assegno non può mai avere una scadenza futura: e sempre pagabile a vista. Nella pratica, però, è tutt’altro che raro l’uso dell’assegno quale strumento di credito: a tal fine, si rilascia un assegno postdatato (si mette sul titolo una data futura che figura come data di emissione, ma di fatto funziona come data di scadenza) oppure si rilascia un assegno con la data di emissione in bianco e con l’accordo che non verrà presentato alla Banca prima di un certo termine.
La postdatazione è comunque inefficace, perché l’assegno presentato prima del giorno indicato come data di emissione è pagabile nel giorno della presentazione
Il fatto è inoltre colpito con sanzioni fiscali, poiché è applicabile all’assegno postdatato l’imposta proporzionale di bollo disposta per la cambiale (si tratta di una violazione fiscale per evasione dell’imposta di bollo, come previsto dalla Legge 386/90).
L’assegno con clausola “da accreditare” Non può essere pagato in contanti, ma deve essere accreditato sul conto del portatore del titolo.
L’assegno turistico o “Traveller’s cheque”
E’ emesso da una Banca su una Banca estera a favore di un prenditore: la Banca traente (che l’ha emesso) subordina il pagamento al fatto che il prenditore, dopo aver firmato il titolo al momento dell’emissione, apponga una seconda firma al momento del pagamento (in modo da permettere alla Banca di controllare l’autenticità della firma, se risulti, cioè, uguale alla prima).
L'EMISSIONE DI ASSEGNI "ASSEGNI A VUOTO"
Si definisce “assegno a vuoto” quello emesso senza che sul conto corrente bancario del soggetto che l’ha emesso vi sia la provvista, ovvero l’ammontare portato dal titolo.
La Banca, di norma, non lo pagherà, ma il portatore dell’assegno potrà agire contro il traente (colui che l’ha emesso), facendo valere l’assegno quale titolo esecutivo.
LA CENTRALE D’ALLARME INTERBANCARIA
Dal 4 gennaio 2002 la circolazione dell’assegno bancario è diventata più sicura.
La CAI è un archivio informatizzato in cui vengono inseriti i nominativi di:
- coloro che hanno emesso assegni senza autorizzazione dalla Banca/Posta o senza provvista (senza fondi);
- coloro ai quali è stata revocata l’autorizzazione all’utilizzo di carte di pagamento (carte di credito);
- coloro che abbiano denunciato lo smarrimento o il furto di assegni o carte di credito.
La nascita di questo archivio informatizzato ha il preciso scopo di garantire l’organica raccolta di tutte le informazioni utili e l’uniforme gestione delle stesse.
ASSEGNO CIRCOLARE
L'assegno circolare è un titolo di credito emesso e firmato da una banca per una somma disponibile presso la banca stessa al momento dell'emissione.
Le banche rilasciano gli assegni circolari, a coloro che ne fanno richiesta solo dietro versamento di una somma corrispondente oppure dietro utilizzo di fondi disponibili in deposito.
L'assegno circolare viene quindi accettato da tutti come se fosse denaro contante.
L'assegno circolare è un titolo all'ordine e si applicano, in quanto compatibili, le norme relative all'assegno da accreditare, sbarrato, non trasferibile e turistico
L'assegno circolare è trasferibile da una persona all'altra mediante girata, per impedirne la circolazione si può scrivere su di esso la clausola "non trasferibile".
L'assegno circolare deve necessariamente riportare oltre a tutti i dati essenziali precedentemente descritti anche la denominazione di “assegno circolare”
L’ASSEGNO POSTALE
Gli assegni postali sono paragonabili in tutto e per tutto ad un normale assegno bancario, gli assegni postali possono essere versati su qualsiasi conto bancario italiano.
La normativa che regola il protesto si applica anche agli assegni postali, così come tutte le disposizioni relative all'assegno bancario.
I nuovi assegni postali in euro sono accettati ovunque e sono disponibili per tutti i tipi di pagamenti. I correntisti possono versare tutte le tipologie di assegni bancari comunque intestati. Il libretto degli assegni postali ordinari è gratuito.
L'assegno vidimato è un assegno a copertura garantita, che dà al beneficiario la sicurezza del pagamento. Può essere incassato, in qualunque momento, presso l'ufficio postale prescelto. Questi assegni sono lo strumento ideale e sicuro per pagare chi non possiede un conto corrente. Il costo del singolo assegno vidimato è di 62 centesimi ad assegno.
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BIBLIOGRAFIA: internet
- www. Wikipedia
- www.consulenzafinanziaria.net
- www.dirittoprivatoinrete
- Edu.pattichiari-it/
L’ASSEGNO |
fonte: http://www.atuttascuola.it/collaborazione/primativo/economia/ASSEGNO.doc
autore: Primativo Gabriele
I CONCETTI BASILARI DELLA MACROECONOMIA
La distinzione tra microeconomia (economia del piccolo) e macroeconomia (economia del grande), nonostante la presenza di alcune zone grigie è, di per sé, abbastanza chiara. La microeconomia analizza il comportamento del singolo agente, sia esso un privato cittadino o un’impresa, ma che anche i meccanismi delle diverse forme di mercato che pure implicano la presenza di aggregati, da una (monopolio) a una miriade di imprese (concorrenza perfetta). Si parla di “grado di monopolio” per gli innumerevoli casi di situazioni intermedie. La macroeconomia studia invece il comportamento di grossi insiemi di operatori o del sistema economico nel suo complesso, avendo sempre un riferimento territoriale: per esempio il mondo intero, l’unione europea, l’Italia, il Piemonte, il Comune di Cherasco, etc.
I modelli economici sono sintesi, spesso espresse in termini matematici, delle relazioni che intercorrono tra le variabili economiche, indipendenti e dipendenti. Un modello economico è uno strumento per pensare in modo semplificato ma deve essere capace di rappresentare fedelmente la realtà.
Politica economica è un termine con molteplici significati. Volendone selezionare uno solo si potrebbe definire come quel ramo della scienza economica che indica al decisore pubblico (il policy maker) come utilizzare la conoscenza del funzionamento dell’economia – così come descritta dai modelli teorici micro e/o macroeconomici – al fine di conseguire gli obiettivi e le finalità, di natura collettiva, che si è preposto. Un’ipotesi diffusamente accettata è quella per la quale l’operatore pubblico debba intervenire solo quando ci si trova in un caso di fallimento del mercato: quando il libero mercato, cioè, non è in grado di far raggiungere alla collettività una situazione di benessere economico ottimale o ritenuta tale. I casi più frequenti di fallimento del mercato sono quelli per i quali si viene a formare un alto livello di disoccupazione, un aumento eccessivo dei prezzi, una differenziazione nei livelli dei redditi ritenuta non equa secondo criteri che possono essere sociali, politici, etici, o nella mancata produzione di servizi che la collettività desidera ma che le imprese non hanno convenienza o possibilità di produrre.
I beni e servizi capitali (o di investimento o strumentali) sono beni e servizi che non soddisfano direttamente bisogni umani, ma sono funzionali alla produzione di altri beni. Il bene capitale per eccellenza è il macchinario industriale. Ci sono beni che non hanno “natura” predefinita di “beni di consumo” o di “beni di investimento”. I beni di investimento sono acquistati e utilizzati dall’operatore imprese in senso lato; i beni di consumo sono acquistati e utilizzati dall’operatore famiglie. Un’automobile è un bene di consumo (durevole) se viene acquistata da un privato cittadino, ma è un bene di investimento se è acquistata da un’impresa per portare i suoi dirigenti da casa all’ufficio, o se è acquistata da un taxista o da un commesso viaggiatore. Nel linguaggio corrente vengono definiti “investimenti” un gran numero di transazioni economiche che investimenti non sono. In particolare, sono definiti “investimenti” quelli che invece sono “impieghi di risparmio". Componenti dell’operatore famiglie risparmiano di solito una parte (grande o piccola) di ciò che guadagnano e raramente tengono il denaro sotto il materasso. Molto più frequentemente lo tengono in banca, sul conto corrente o in altre forme di risparmio liquido. Non di rado, però, essi acquistano titoli che rendono un certointeresse, come titoli di debito pubblico, quali, ad esempio, BOT e CCT, oppure come obbligazioni emesse da imprese private, oppure acquistano titoli di natura diversa, come le azioni, che rendono partecipi della proprietà delle imprese che li hanno emessi ma anche dei rischi che ciò implica. Tutte queste transazioni economiche non sono investimenti. Infatti nessuna di queste implica un acquisto di un bene produttivo né (di conseguenza) un aumento dello stock di capitale dell’economia nel suo complesso e un aumento della capacità produttiva. Si tratta di impieghi di risparmio effettuati dall’operatore Famiglie, anche se non sarà raro sentir dire: “ho fatto un investimento, ho comprato dei BOT”, oppure “azioni”.
I fattori produttivi sono il lavoro, il capitale e la terra.
Il termine “produttività” esprime la capacità dei fattori produttivi di “creare” valore aggiunto e gli indicatori di produttività misurano tale capacità: essi misurano cioè qual è il contributo che ciascun fattore dà alla creazione di valore nell’ambito del processo produttivo. Tali indicatori spesso sono definiti semplicemente “produttività”. Si definisce pertanto “produttività” il rapporto tra le quantità prodotte (misurate nell’unità di misura idonea) e la quantità di un fattore produttivo necessaria a produrle, essendo date le quantità (e la qualità) degli altri fattori impiegati e la tecnologia adottata. Di conseguenza, la produttività del fattore lavoro (o “produttività del lavoro”) è misurata dal rapporto tra le quantità prodotte e la quantità di lavoro necessaria a produrle, essendo date le quantità di capitale (ed eventualmente di terra) utilizzate nel processo produttivo. La produttività del capitale è misurata dal rapporto tra le quantità prodotte e la quantità di capitale fisico necessaria a produrle, essendo date le quantità di lavoro utilizzate nel processo produttivo. La produttività della terra è misurata dal rapporto tra le quantità prodotte e la quantità di terra necessaria a produrle, essendo date le quantità di capitale e di lavoro utilizzate nel processo produttivo. Si definisce “competitività” di un’impresa la capacità di diffondere i propri prodotti nel mercato battendo la concorrenza delle altre imprese. La competitività può essere di qualità o di prezzo: quest’ultima è legata alla produttività.
Ogni bene o servizio economico destinabile alla vendita ha un suo prezzo che è la quantità di denaro che il venditore riceve e che l’acquirente paga per ciascuna unità del bene scambiata. In macroeconomia, il concetto di “livello generale dei prezzi”, è dato dalla media ponderata dei prezzi di tutti i beni e servizi presenti sul mercato (in realtà quasi tutti: tutti sarebbe impossibile).
I prezzi tendono, nel loro insieme, ad aumentare nel tempo: questo fenomeno è detto “inflazione”. L’inflazione è dunque l’aumento del livello generale dei prezzi. Essa si misura tramite il “tasso di inflazione”. Il tasso di inflazione è l’aumento del livello generale dei prezzi verificatosi in un certo arco di tempo, misurato in termini percentuali. L’arco di tempo più utilizzato è l’anno, ma anche il mese, il trimestre, etc. Quindi, se senza altre specificazioni si dice che nel 2010 l’inflazione in Italia è stata del 1,9%, si intende che dal 1° Gennaio al 31 Dicembre di quell’anno i prezzi sono aumentati mediamente del 1,9%. Il livello dei prezzi considerato in un solo periodo non è utile per comprendere l’andamento dell’inflazione: occorre disporre del valore del livello dei prezzi in almeno due diversi periodi. Il tasso di inflazione tendenziale è la variazione percentuale del livello dei prezzi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (per esempio, gennaio 2011 rispetto a gennaio 2010). Il tasso medio inflazione è la media dei tassi di inflazione misurati in un arco temporale (trimestre, anno). La differenza può non essere trascurabile, specie per quanto concerne il tenore di vita dei consumatori (in particolare per i percettori di redditi fissi o per i creditori). L’andamento dell’inflazione è spesso calcolata da un numero indice: l’indice dei prezzi. Questo pone pari a 100 il livello dei prezzi dell’anno base (scelto arbitrariamente dallo statistico): tutte la variazioni successive possono così essere facilmente lette come variazioni percentuali. Non di rado l’inflazione viene denominata in maniera differente in base alle diverse cause scatenanti: a) l’inflazione da domanda, che è generata da una domanda aggregata superiore all’offerta aggregata. Allora, come in una sorta di asta, i beni sono venduti a chi è disposto a pagare di più e ciò, ovviamente, spinge i prezzi verso l’alto; b) l’inflazione da costi, che è generata da costi medi di produzione crescenti.
La variazione del potere di acquisto del denaro non va confusa con l’inflazione. Essa ne è diretta conseguenza, ma è di segno opposto e non coincide in termini quantitativi. Per esempio, se i prezzi raddoppiano il potere di acquisto del denaro si dimezza: cioè, se il tasso di inflazione è del 100% (raddoppio dei prezzi) il denaro perde il 50% del proprio potere di acquisto.
La deflazione è il fenomeno opposto all’inflazione: è la riduzione del livello generale dei prezzi. Anch’essa è misurata in termini percentuali, con riferimento a un certo periodo di tempo. Essa ha spesso effetti micidiali in un’economia capitalista (a differenza di quanto si potrebbe credere).
Nel mercato vengono scambiate alcune “merci” particolari: pertanto esse hanno anche “prezzi” particolari. Il salario: infatti la forza-lavoro è una merce, seppure una “merce particolare”: “una merce che pensa” si è detto. I lavoratori la possiedono e la offrono sul mercato del lavoro; le imprese ne hanno bisogno e dunque la domandano. Si noti come, a differenza di quanto scrivono i quotidiani nelle apposite rubriche, l’offerta di lavoro si riferisce a chi offre la sua forza-lavoro – e quindi cerca un posto di lavoro – mentre la domanda di lavoro si riferisce a chi desidera acquistare la forza-lavoro altrui e dunque offre posti di lavoro.
Se dividiamo le grandezze espresse in termini nominali per il livello generale dei prezzi, avremo le grandezze in termini reali.
E’ importante la distinzione tra salario nominale e salario reale. Il primo è quanto il lavoratore riceve in busta paga e, salvo eccezioni, è crescente nel tempo. Il secondo si ottiene dividendo il salario nominale per il livello dei prezzi: esso coincide con il potere di acquisto del salario e, in periodi di inflazione, di solito è calante, a meno di sistemi di difesa salariale automatici molto efficienti.
Anche il tasso di interesse è un prezzo: spesso si dice sia “il costo del denaro”, ma più correttamente si definisce come “il prezzo per poter disporre temporaneamente di denaro altrui”. Anche il tasso di interesse può essere nominale o reale. Un tasso di interesse reale negativo è possibile, mentre è praticamente inimmaginabile un tasso di interesse nominale inferiore a zero.
Di solito la domanda di un bene dipende, inversamente, dal prezzo: molti (ma non tutti) sostengono che per i fattori produttivi ciò non sia vero (o sia vero solo in parte). La loro domanda è invece “derivata” dal livello della domanda di quei beni che essi concorrono a produrre. Ciò significa che, se aumenta la domanda di un bene, le imprese che producono tale bene domanderanno più lavoro e più beni capitali (e dunque più denaro per realizzare gli investimenti) al fine di aumentare la produzione, soddisfare il mercato e guadagnare di più. (Per esempio, nel 1997, gli effetti della legge “sulla rottamazione”).
Una terza “merce particolare” è la valuta estera. Il suo prezzo è detto tasso di cambio. Esso è il “prezzo” di una valuta espresso in termini di un’altra. Se il tasso dei cambio euro/dollaro è 1,35 significa che occorre 1 dollaro e 35 centesimi per “comprare” un euro. L’euro è dunque “più forte” del dollaro. Il termine “svalutazione” significa che una moneta si è indebolita rispetto alle altre (o rispetto alle principali). Il tasso di cambio euro/dollaro alcuni mesi fa era 1,50: dunque l’euro si è un po’ svalutato. Attenzione, il termine “svalutazione” non ha nulla a che fare con “inflazione” o “perdita di potere di acquisto”, anche se ne può essere sia conseguenza che causa.
La forza lavoro è data dalla somma di tutti coloro che hanno un lavoro (gli occupati) e tutti coloro che non lo hanno ma lo stanno cercando (i disoccupati). Il rapporto tra forza lavoro e popolazione totale in età lavorativa (15 - 64 anni) è detto tasso di attività.
E’ definito “occupato” colui che ha lavorato per almeno un’ora durante la settimana rilevata dall’ISTAT. Risultano pertanto ufficialmente occupate anche coloro che sono quantomeno sotto-occupate. Il tasso di occupazione è calcolato come il rapporto tra il numero degli occupati e la popolazione in età lavorativa (ultima rilevazione ISTAT 57%). Il tasso di disoccupazione è dato dal rapporto tra il numero dei disoccupati e il numero dei componenti la forza lavoro (8,6%). Ne discende che se in una nazione il tasso di occupazione aumenta, il tasso di disoccupazione può non diminuire: anzi, può addirittura aumentare. Si calcola anche il tasso di disoccupazione giovanile (29%). La precisione dei dati è inficiata dalla presenza dell’economia sommersa e cioè di quell’attività economica di cui la Pubblica Amministrazione non è a conoscenza. Ciò accade per le seguenti motivazioni: evasione fiscale, evasione contributiva, non osservanza della normativa contrattuale (salario minimo e orari di lavoro) e delle regolamentazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, mancanza di permessi e autorizzazioni amministrative, etc. Conseguenza dell’esistenza dell’economia sommersa è il fenomeno noto come lavoro nero. (immigrati, di solito privi di permesso di soggiorno o di cittadini italiani che risultano invece disoccupati o estranei alla forza lavoro: per esempio pensionati, casalinghe, studenti) o che sono occupati anche in un’altra attività regolare: (i doppiolavoristi). Vi sono ovvie difficoltà di misurazione dell’economia sommersa (lo dice la parola stessa...). Secondo il rapporto CENSIS essa è pari a quasi il 20% delle risorse prodotte in Italia.
Parecchie imprese che agiscono nell’ambito dell’economia sommersa, ma che svolgono attività lecite, sono particolarmente inefficienti, per cui, se dovessero sopportare i costi imposti dal fisco, non potrebbero reggere la concorrenza delle imprese più efficienti sul “mercato ufficiale”. Se tali imprese dovessero chiudere, vi sarebbe un notevole calo dell’occupazione e dei redditi “di fatto”, difficili da gestire politicamente. Più volte sono stati varati piani di “emersione graduale”, con risultati modesti.
Il mercato del lavoro, nella sua versione classica, ipotizza concorrenza perfetta tra le imprese per accaparrarsi la “merce lavoro” e tra i lavoratori per vendere la propria. Si afferma dunque che il libero mercato del lavoro produce sempre piena occupazione, in quanto sono occupati tutti i lavoratori che sono disposti a lavorare in cambio del salario reale che è determinato dal mercato in quel momento; i disoccupati lo sono perché lo vogliono essere. Il premio Nobel 1995 per l’economia Robert Lucas, afferma: “C’è un elemento di volontarietà in ogni forma di disoccupazione, nel senso che, per quanto miserabili siano le opzioni lavorative che uno trova correntemente di fronte a sé, egli può sempre scegliere di accettarle”. Il concetto di disoccupazione involontaria è molto difficile da definire, secondo quanto afferma Lucas, “perché la cosa da misurare non esiste”.
Weitzman, contrariamente a Lucas – dichiarando la necessità di interventi correttivi di politica economica – sostiene: “Quando la domanda è depressa a causa della disoccupazione, ciascuna impresa non vede la possibilità di vendere sul mercato l’aumento di produzione determinato dall’attività di un eventuale lavoratore in più. L’impossibilità dei disoccupati di comunicare all’insieme delle imprese la loro domanda futura (cioè quella che avrebbero se venissero assunti e percepissero un salario) determina un circolo vizioso di disoccupazione involontaria che si autoalimenta. La correzione del problema va oltre le possibilità di manovra e di decisione di ciascuna singola impresa, eppure esso scomparirebbe se tutte le imprese aumentassero l’occupazione e la produzione contemporaneamente. Siamo di fronte a uno dei più evidenti casi di fallimento del mercato”. James Tobin (permio Nobel per l’economia nel 1981), in un’intervista rilasciata nel 1993 ha dichiarato: “... Interpretare l’aumento della disoccupazione in questo paese (gli USA) dal 5,7% nel 1978 all’11% nel 1982 come il desiderio da parte dei lavoratori di prendersi del tempo libero in attesa di lavorare quando i salari reali sarebbero stati più elevati, è ridicolo.”
Il valore aggiuntodi un’impresa si misura sottraendo dal valore monetario complessivo della produzione realizzata nel periodo (la produzione lorda vendibile) il valore dei beni intermedi utilizzati (cioè delle materie prime e dei semilavorati) nel processo produttivo. Il termine valore aggiunto ben si attaglia a questo tipo di misurazione: l’impresa acquista beni intermedi li trasforma in qualcosa, la produzione vendibile, che ha un valore superiore. Il valore aggiunto così calcolato è al lordo degli ammortamenti. Se l’impresa vende nel periodo considerato tutti i beni prodotti, il valore della produzione vendibile coincide con il ricavo totale. In caso contrario, varieranno, in più o in meno. le scorte presenti nei magazzini dell’impresa.
Il valore aggiunto così ottenuto si distribuisce tra salari (retribuzione al fattore lavoro), rendite e profitti. Le rendite sono ciò che i proprietari di beni economici ottengono in contropartita della cessione temporanea dell’uso di tali beni: le principali rendite sono gli interessi (cessione di denaro), gli affitti (cessione di immobili), le rendite terriere (cessione di terreni agricoli). I profitti sono la differenza tra ricavi totali e costi totali e vanno a retribuire la proprietà dei mezzi produttivi (il “padrone” o gli azionisti). Per esempio, se in un anno un mobilificio acquista legno, chiodi e colla e paga l’energia elettrica che usa nel processo produttivo spendendo in tutto 200.000 euro, e produce e vende mobili per 1.000.000 di euro, avrà realizzato un valore aggiunto di 800.000 euro. Se per i salari spende 400.000 euro e per le rendite 100.000 euro, i suoi costi totali saranno pari a 700.000 euro. Ricavo totale (1.000.000) – costo totale (700.000) = profitto totale, 300.000 euro. Salari (400.000) + rendite (100.000) + profitti (300.000) = 800.000, necessariamente pari al valore aggiunto calcolato per differenza.
La somma dei valori aggiunti creati da tutte le imprese, dai lavoratori autonomi, dai liberi professionisti e dalle amministrazioni pubbliche operanti in un territorio in un certo arco temporale è uguale al valore della produzione aggregata di quel sistema economico in quello stesso periodo. Il valore di tale produzione aggregata è il PIL (prodotto interno lordo). Il PIL è al lordo degli ammortamenti: se questi sono sottratti, avremo il prodotto interno netto. I servizi prodotti dalla Pubblica Amministrazione sono erogati gratuitamente ai cittadini e dunque non esiste né ricavo né profitto: il valore aggiunto della produzione di tali servizi è misurata pertanto dalla retribuzione del fattore e dalle eventuali rendite pagate. Lo Stato, o altri enti pubblici possono essere proprietari di imprese private, come Alitalia o le FFSS. Lo Stato può vendere ai privati tali imprese (come ha fatto con Alitalia): esse infatti non fanno parte della pubblica amministrazione: infatti, le FFSS, per esempio, vendono i servizi che producono, proprio come le imprese private.
Il PIL in Italia nel 2010 è stato di circa 1.500 miliardi di euro (un trentesimo dell’economia mondiale), il che ne fa la settima più grande economia del mondo. Dividendo tale importo per circa 60 milioni di abitanti il PIL pro capite annuo è pari a 25.000, il ventesimo (su 202 paesi) al mondo.
Il reddito disponibile si ottiene sottraendo le imposte pagate dalle famiglie e dalle imprese. Il reddito disponibile pro capite è pari a circa 14.000 euro.
Il rapporto tra PIL nominale (a prezzi correnti) di un dato anno e il corrispondente PIL reale (a prezzi costanti) e assume il nome di deflatore implicito dei prezzi del PIL (deflatore del PIL). Ci sono anche altri indicatori dell’aumento dei prezzi. Tra i più noti vi sono l’indice dei prezzi all’ingrosso e al dettaglio e l’indice dei prezzi al consumo (IPC): quest’ultimo era usato per calcolare gli scatti della scala mobile.
L’offerta aggregata si identifica con la quantità di produzione che è realizzata su di un territorio in un determinato periodo di tempo (generalmente uno Stato e un anno). L’offerta aggregata può essere misurata in termini nominali e in termini reali. L’offerta aggregata in termini nominali è pari al PIL; i servizi non destinabili alla vendita sono sommati al resto della produzione misurando il valore aggiunto in essi contenuto.
La domanda aggregata è data dalla somma di tutti i beni e servizi privati domandati dal mercato, destinati ai consumi e agli investimenti, più il valore dei servizi erogati dal settore pubblico e fruiti dai cittadini, il tutto espresso in termini nominali.
La crescita economica è misurata dalle crescita in termini reali del PIL: di solito si misura in termini percentuali. Quando i media parlano di crescita del PIL si riferiscono alla crescita reale. Altrettanto importante è la crescita del PIL pro capite. Si parla di stagnazione economica quando il PIl non cresce o cresce pochissimo (meno dell’1% all’anno). Si parla di recessione quando il PIL diminuisce e di depressione economica quando, in seguito alla recessione, i prezzi cominciano a diminuire: ciò di solito aggrava la recessione.
Crescita e sviluppo sono spesso ritenuti sinonimi, ma la prima considera solo l’aumento della produzione di beni e servizi (e quindi del reddito), mentre il secondo ha un aspetto qualitativo oltre che quantitativo. Alcune economie (per esempio, Europa, Stati Uniti, Canada, Giappone) hanno sperimentato negli ultimi due secoli tassi di crescita e di sviluppo molto elevati; ciò è stato reso possibile dalla disponibilità di risorse produttive (lavoro e capitale), dalle innovazioni tecnologiche (macchine a vapore, elettricità, computer, etc.), dalla presenza di un ambiente istituzionale favorevole, dalla qualità delle risorse umane (formazione della manodopera, livello d’istruzione), dalle risorse naturali (disponibilità di fonti d’energia e di altre materie prime), da efficaci politiche a sostegno della produzione, politiche fiscali, etc. Il pieno sviluppo economico è stato raggiunto più recentemente da altri stati, quali l’Australia, la Corea, Israele e la Nuova Zelanda mentre si trovano in una situazione di grande crescita (ma non si può ancora parlare di “paesi sviluppati”) il Brasile e l’India. La Cina è un caso a parte, ma rientra ancora, nell’opinione di chi scrive queste note, nel secondo gruppo.
Le fluttuazioni economiche sono periodi di crescita o di calo (o stagnazione) del PIL. Due fluttuazioni determinano un ciclo economico. Il succedersi dei cicli economici è quel procedere più o meno regolare di espansione e contrazione dell’attività economica attorno al suo sentiero di sviluppo tendenziale (trend). Ovviamente non è detto che ciò che è avvenuto in passato debba continuare a verificarsi. La crisi del ’29 mise a grave rischio la sopravvivenza stessa del sistema capitalistico durante buona parte degli anni ’30 e gli Stati Uniti prima e gli stati europei poi poterono uscire dalla crisi, o quantomeno alleggerirne gli effetti, solo tramite interventi pubblici nell’economia che modificarono in parte la struttura stessa del sistema economico, creando le cosiddette economie miste.
Le famiglie suddividono il loro reddito tra consumi e risparmi. Sia per gli individui sia per gli stati, più alto è il reddito, maggiore è il consumo. Tuttavia, maggiore è il reddito, più bassa è la propensione al consumo, e cioè la percentuale del reddito che è spesa in consumi. Una famiglia che ha un reddito di 1000 euro al mese avrà una propensione al consumo, molto probabilmente, del 100% (o quasi), una famiglia con un reddito di 10.000 euro al mese potrà risparmiare parecchio: se spende in consumi 7.000 euro, ciò significa che ha una propensione al consumo del 70%. Le famiglie impiegano i propri risparmi (erroneamente si dice “investono”). Anche le imprese effettuano risparmi; questi si definiscono risparmi d’impresa e si tratta dei profitti non distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi: normalmente essi servono a finanziare parte degli investimenti. Anche la Pubblica Amministrazione può risparmiare, nei rari casi in cui ci sia un avanzo di bilancio e cioè quando la spesa pubblica è inferiore alle entrate: si parla di avanzo primario quando c’è un attivo nel bilancio della PA al netto delle spese per interessi.
Il bilancio dello Stato è il documento contabile annuale con il quale si mostrano i risultati, previsti o conseguiti, della gestione della finanza pubblica. Esso registra le entrate e le spese della Pubblica Amministrazione Centrale. Il bilancio dello Stato è di previsione se viene formulato prima del periodo di gestione al quale si riferisce: esso riporta le entrate e le spese che si prevede di realizzare nel periodo di riferimento. Il bilancio dello Stato è consuntivo se viene redatto al termine del periodo al quale si riferiscono le entrate e le spese e quindi riporta il risultato di operazioni già concluse. Si definisce di competenza il bilancio che registra le entrate che lo Stato ha il diritto di accertare e le spese che si impegna a effettuare indipendentemente dall’effettiva riscossione e pagamento. Il bilancio di cassa invece registra le entrate effettivamente riscosse e le spese effettivamente pagate indipendentemente dal momento in cui l’obbligo o il diritto sono maturati.
Le entrate sono costituite principalmente dalle imposte dirette (IRE, l’ex IRPEF) e indirette (IVA, imposta di fabbricazione degli oli minerali) e dai contributi sociali, destinati al finanziamento delle principali prestazioni dello Stato assistenziale (pensioni, ammortizzatori sociali come la cassa integrazione, etc.). La somma di tutto ciò forma l’aggregato delle entrate tributarie. Queste espresse in percentuale del PIL misurano la pressione fiscale, pari al 43,3% nel 2009. Le spese corrispondono principalmente all’erogazione di servizi e ai trasferimenti che sono pagamenti unilaterali (le pensioni innanzitutto e poi sussidi vari, a enti, famiglie, imprese) e sono pari a circa il 47% del PIL.
Il passivo tra entrate e spese in un anno costituisce il deficit (o disavanzo) pubblico. Il trattato di Maastricht pone il 3% del PIL come tetto massimo per il deficit annuale, salvo casi di eccezionale recessione (come quella attuale), in cui possono essere consentiti “sforamenti”. In caso di disavanzo, lo Stato deve prendere a prestito il denaro necessario, indebitandosi, principalmente vendendo ai privati titoli di credito emessi dal tesoro. L’emissione di tali titoli comporta l’onere del pagamento degli interessi (servizio del debito) e l’obbligo di restituirne il valore alla scadenza. Tali titoli possono anche essere venduti a operatori stranieri e perciò si distingue tra debito esterno e debito interno. Occorre subito chiarire l’importantissima differenza tra disavanzo pubblico (o deficit pubblico) e debito pubblico. Il primo si riferisce differenza negativa tra entrate e uscite in un certo anno, mentre il secondo rappresenta la sommatoria di tutti i disavanzi verificatisi nella storia del paese, che non siano stati rimborsati. Il debito pubblico dipende dunque dall’ammontare dei disavanzi precedenti; esso aumenta quanto si verifica un nuovo disavanzo e diminuisce quando si realizza un avanzo (cioè quando le entrate sono maggiori delle spese). Il trattato di Maastricht pone il 60% del PIL come tetto massimo per il debito pubblico, salvo casi particolari (Italia e Belgio innanzitutto e poi la Grecia) per meriti…storici.
La Bilancia dei Pagamenti è quel documento contabile che registra tutte le transazioni economiche che intercorrono, in un determinato periodo di tempo (di solito un anno), tra i residenti di una nazione e i residenti nel resto del mondo, cioè all’estero. Da tali transazioni scaturiscono introiti o esborsi di valuta, oppure l’accensione di crediti o debiti. E’ registrata a credito ogni transazione che comporta una vendita, a debito ogni transazione che implica un acquisto. La Bilancia dei Pagamenti è composta di tre conti, all’interno dei quali le transazioni intercorrenti tra i paesi dell’area dell’euro sono separate da quelle con il resto del mondo. I tre conti sono: il conto corrente, il conto capitale e il conto finanziario.
Nel conto corrente sono registrati gli acquisti, e cioè le importazioni e le vendite, e cioè le esportazioni, di beni e di servizi nonché i flussi di redditi da lavoro e da capitale (stipendi e retribuzioni, interessi e dividendi) e infine i trasferimenti unilaterali. La parte che registra le sole importazioni ed esportazioni (import-export) di beni è detta Bilancia Commerciale. Tra i trasferimenti pubblici vi sono quelli dovuti all’appartenenza a una qualche organizzazione internazionale, come, per l’Italia, le Nazioni Unite e l’Unione Europea ai fondi dei quali ciascun paese membro contribuisce in base (circa) alle dimensioni della propria economia e al proprio reddito pro-capite; tra i trasferimenti unilaterali facoltativi pubblici vi sono gli aiuti ai paesi del Terzo Mondo, a quelli colpiti da gravi calamità, etc. I trasferimenti unilaterali privati consistono principalmente nelle rimesse degli emigrati, in entrata come in uscita, e altri tipi di donazioni. Nel conto capitale sono registrate le operazioni commerciali relative ad attività di investimento immateriale, quali compravendite di brevetti, diritti d’autore, avviamento di aziende, etc. e inoltre i trasferimenti unilaterali in conto capitale che comprendono i trasferimenti di proprietà di beni capitali o di fondi collegati all’acquisto o alla dismissione di beni capitali e la remissione di debiti. Nel conto finanziario sono registrate i movimenti di capitale finanziario a breve, medio e lungo termine, distinguendo tra: compravendita di azioni, obbligazioni, di titoli pubblici e le variazioni delle riserve ufficiali. Alla contabilità con l’estero, per quanto accurata, qualche operazione sfugge – specie quando importatori ed esportatori sopra-fatturano e sotto-fatturano, o quando sono esportati capitali di dubbia provenienza, etc. – per cui si rende necessaria la voce “errori e omissioni”. Questa voce per l’Italia è stata storicamente molto elevata, ma ha subito un forte ridimensionamento dopo la definitiva fissazione del tasso di cambio con l’euro.
Vi è un regime di tassi fissi quando i tassi di cambio nominali tra le valute di due o più paesi sono stabiliti una volta per tutte dai governi o dalla banche centrali e non sono determinati dalla domanda e dell’offerta del mercato. Se vi è un regime di tassi fissi, la Banca centrale di ciascun paese si impegna a sostenere e difendere tale tasso di cambio, qualora un eccesso di offerta rispetto alla domanda della moneta nazionale sui mercati monetari internazionali premesse verso una sua svalutazione.
Vi è un regime di tassi flessibili quando i tassi di cambio nominali sono determinati dalla domanda e dall’offerta delle valute sui mercati internazionali, e pertanto si possono modificare di ora in ora. Più una valuta è domandata, più si rafforza e tende a rivalutarsi; più è offerta, più si indebolisce e tende a svalutarsi.
I regimi di tassi semi-fissi ammettono una banda di oscillazione che è, di norma, piuttosto stretta. Se gli operatori non mettono in dubbio la volontà e la possibilità concreta di ciascuna banca centrale di mantenere i cambi fissati, i movimenti internazionali di capitale finanziario avvengono in senso stabilizzante. Se la moneta di un paese è al suo valore minimo consentito, tutti pensano che essa si dovrà rafforzare, perché la banca centrale di quel paese interverrà a sostegno. Sarà quindi conveniente acquistarla al prezzo attuale: molti lo faranno e ciò contribuirà a rafforzare tale moneta ancor prima dell’intervento della banca centrale. Viceversa, se gli operatori pensano che la banca centrale di uno o più paesi non sia in grado di difendere il cambio, allora i movimenti internazionali di capitale finanziario tenderanno a essere destabilizzanti, perché tutti cercheranno di sbarazzarsi di tale moneta, contribuendo così a indebolirla.
Le monete in un regime di tassi fissi (o semi-fissi) sono spesso bersaglio degli speculatori internazionali, che possono “attaccare” una moneta di un paese in difficoltà finanziarie (di frequente lo sono, tra i grandi paesi, l’Argentina, il Brasile, il Messico e, in passato, a volte l’Italia), vendendo massicciamente la valuta di quel paese; per difendere il cambio, la Banca centrale acquisterà tutta la propria valuta offerta pagandola con la valuta pregiata che ne costituisce le riserve valutarie, in maniera da equilibrare la domanda con l’offerta; quando però le riserve stanno per esaurirsi la Banca centrale deve “arrendersi” e svalutare, trovandosi così le casse piene di moneta nazionale svalutata e vuote di valuta pregiata: l’opposto accade agli speculatori, che così avranno ottenuto il loro scopo. La speculazione però può anche non riuscire, se la Banca centrale ha sufficienti riserve o se altre “consorelle” o organismi internazionali accorrono in suo aiuto.
Determinano la domanda e l’offerta di una valuta sui mercati internazionali:
a) le importazioni e le esportazioni di beni e servizi, compresi quelli registrati sotto la voce “conto capitale”. Per effettuare le importazioni, gli operatori nazionali chiedono valuta straniera per pagare i loro fornitori esteri La maggior parte dei paesi non “del primo mondo” richiede però il pagamento in dollari per le proprie esportazioni (si pensi ai paesi esportatori di petrolio) e ciò contribuisce a mantenere elevata la domanda del dollaro e dunque il suo valore.
b) le operazioni registrate dal conto finanziario, al netto delle variazioni delle riserve ufficiali. Il saldo del conto finanziario è determinato principalmente dal differenziale del tasso di interesse: se il tasso di interesse di un paese è più elevato di quello estero, ciò induce gli stranieri a domandare moneta di quel paese per potervi acquistare titoli di debito pubblico o obbligazioni, in quanto, impiegando il medesimo ammontare di capitale finanziario, si potrà ottenere un compenso più elevato.
Se sommiamo i saldi del conto corrente, del conto capitale e del conto finanziario (al netto delle variazioni delle riserve ufficiali) possiamo avere un pareggio, un attivo o un passivo dei conti con l’estero.
E’ probabile che il tasso di cambio nominale venga modificato da variazioni di diversa entità del livello dei prezzi nei diversi paesi. Poniamo per esempio che i prezzi in Europa e negli Stati Uniti fossero i medesimi ponendo inoltre, per semplicità, che il tasso di cambio dollaro/euro fosse pari a 1. Ora immaginiamo che in Europa i prezzi aumentino del 3% e negli USA del 2%: con il tasso di cambio pari a 1, sarà più conveniente acquistare negli Stati Uniti. Ciò significa che l’euro è sopravvalutato dal tasso di cambio nominale pari a 1 ed è perciò probabilmente destinato a indebolirsi, fino a uguagliare i diversi poteri di acquisto. C’è dunque un rapporto di causa - effetto orientato dal tasso di inflazione al tasso di cambio. Il differenziale inflazionistico fa diminuire la competitività dei prodotti dei paesi dove l’inflazione è più alta che altrove.
Se però si è verificata la svalutazione di una moneta per motivi diversi da quello di un maggior tasso di variazione dei prezzi, i beni prodotti in questo paese diventano più competitivi, perché il loro prezzo sarà minore se espresso in valuta straniera e ciò gioverà alle esportazioni. Le importazioni dovrebbero invece diminuire, perché divenute più care, contribuendo al miglioramento della Bilancia Commerciale, se vi è concorrenza tra i beni importati e i beni nazionali. La svalutazione avrebbe dunque effetti benefici sull’economia reale. Ma può accadere che non sia possibile produrre all’interno del proprio paese molti dei beni importati. L’Italia, per esempio, importa gran parte delle materie prime di cui ha bisogno, compreso il petrolio dal quale trae buona parte dell’energia necessaria per far funzionare l’intero sistema produttivo. In questo caso le importazioni sono a domanda rigida e, se le importazioni diventano più care in moneta nazionale ed entrano nella produzione della maggior parte dei beni, si innesca un’inflazione da costi, detta inflazione importata. Si può allora innescare un processo a catena: un indebolimento della valuta nazionale crea inflazione importata e l’inflazione crea le condizioni per un’ulteriore svalutazione e così via: molti paesi dell’America Latina (e a volte anche l’Italia ai tempi della “liretta”) sono stati in passato soggetti a questo infernale meccanismo.
La quantità di moneta disponibile è definita offerta di moneta, ed è generalmente controllata dallo Stato, o da un’organizzazione sovrannazionele, e delegata alla Banca Centrale. In Europa, 17 stati membri dell’Unione Europea hanno adottato una moneta unica, l’euro, delegando la politica monetaria alla Banca Centrale Europea (BCE). La moneta consiste innanzitutto nelle banconote, le monete e i conti correnti bancari, che consentono l’emissione di assegni, l’accredito bancario e l’uso di moneta elettronica (bancomat e carta di credito). I conti correnti, come i depositi a risparmio, sono definiti moneta-bancaria, la quale, avendo le stesse funzioni di quella legale, è assimilata a essa. La Banca Centrale ha il monopolio della creazione di moneta legale, e, inoltre, regola l’offerta di moneta complessiva di moneta controllando gli istituti di credito (banche) e gli strumenti di politica monetaria. Una riduzione dell’offerta di moneta (ovvero della base monetaria) determina una deflazione mentre un suo aumento può creare inflazione.
Fonte: http://www.personalweb.unito.it/lia.fubini/1%20concetti%20basilari%20della%20macroeconomia.doc
Autore: lia.fubini ?
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