Fiabe brevi per bambini piccoli

 

 

 

Fiabe brevi per bambini piccoli

 

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Fiabe brevi per bambini piccoli

 

L'ACCIARINO

 

Un soldato arrivava marciando per la strada maestra: Un, due! Un, due!

Aveva uno zaino sulle spalle e una spada al fianco: era stato in guerra e ora ritornava a casa. Lungo la strada incontrò una vecchia strega, ripugnante e col labbro inferiore lungo fino al petto. Questa gli disse: "Salve, soldato! Hai proprio una spada e uno zaino enormi!

Sei un vero soldato! Adesso potrai avere tutti i soldi che vorrai!".

"Grazie, vecchia strega" le rispose il soldato.

"Vedi quel grosso albero?" chiese la strega, indicando un albero che si trovava lì vicino. "Dentro è completamente cavo. Dovresti arrampicarti fino in cima per vedere il buco da cui potrai calarti per arrivare in fondo all'albero. Io ti passerò una corda alla vita per poterti tirare su, quando me lo dirai".

"Cosa dovrei fare nell'albero?" chiese il soldato.

"Prendere i soldi!" gli fu risposto. "Devi sapere che in fondo all'albero troverai un largo corridoio tutto illuminato, dato che ci sono più di cento lampade. Ci sono tre porte che puoi aprire, perché c'è la chiave nella serratura. Quando entrerai nella prima stanza, ci sarà sul pavimento una grande cesta con un cane seduto sopra; il cane ha gli occhi grandi come due tazze da tè, ma non ti devi preoccupare.

Io ti do il mio grembiule a quadretti che stenderai sul pavimento; poi vai tranquillo dal cane e spostalo sul mio grembiule, apri la cesta e prendi tutte le monete che vuoi. Queste sono di rame, se invece le vuoi d'argento, devi passare nella seconda stanza; lì c'è un cane con gli occhi grandi come due ruote di mulino; ma non temere, se lo metti sul mio grembiule puoi prendere tutti i soldi che vuoi! Se invece preferisci, puoi avere delle monete d'oro, e tante quante ne potrai trasportare; è sufficiente che tu entri nella terza stanza. Ma il cane che sta sulla cesta delle monete ha gli occhi grandi come la Torre Rotonda di Copenaghen: quello è un cane per davvero, credimi! Ma non preoccuparti! Posalo sul mio grembiule, lui non ti farà niente, e tu potrai prendere dalla cesta tutto il denaro che vorrai".

"Non è certo una cattiva idea!" disse il soldato. "Ma che cosa devo dare a te, vecchia strega? Perché posso ben immaginare che vorrai avere qualcosa per te".

"No" ribatté la strega, "non voglio nemmeno un centesimo. Tu devi solo portarmi un vecchio acciarino, che mia nonna aveva dimenticato l'ultima volta che era stata laggiù".

"Bene! Allora legami la corda intorno alla vita".

"Ecco fatto!" replicò la strega, "e questo è il mio grembiule a quadretti bianchi e turchini".

Allora il soldato si arrampicò sull'albero, si lasciò calare nella cavità e si trovò, come la strega aveva previsto, in un grande corridoio, dove ardevano centinaia di lampade. Aprì la prima porta. Lì sedeva il cane con gli occhi grandi come tazze da tè, che gli abbaiava contro.

"Sei proprio un bel tipo!" disse il soldato; lo mise sul grembiule della strega e prese tutto il denaro che poteva stargli nella tasca, poi chiuse la cesta e vi rimise sopra il cane. Subito dopo entrò nella seconda stanza. Uh! lì c'era il cane con gli occhi grandi come ruote di mulino.

"Non dovresti guardarmi così a lungo" disse il soldato, "potrebbero farti male gli occhi!" e così dicendo posò il cane sul grembiule della strega: ma quando vide le moltissime monete d'argento nella cesta, gettò tutte le monete di rame che aveva raccolto e si riempì le tasche e lo zaino con le monete d'argento. Poi entrò nella terza stanza. Che orrore! Il cane che si trovava lì aveva veramente due occhi grandi come la Torre Rotonda di Copenaghen! e gli giravano nella testa come due ruote.

"Buona sera" disse il soldato e si tolse il berretto, dato che non aveva mai visto un cane simile, ma dopo averlo osservato per un po', pensò che ormai bastava, lo posò quindi sul pavimento e aprì la cassa - santo cielo, quanto oro c'era dentro! Avrebbe potuto comprare tutta Copenaghen e tutti i maialini di zucchero delle venditrici ambulanti e tutti i soldatini di piombo, le fruste e i cavalli a dondolo del mondo. Erano un bel po' di soldi!

Allora il soldato gettò tutte le monete d'argento che gli riempivano le tasche e lo zaino e le sostituì con quelle d'oro, sì, le tasche, lo zaino, il berretto e pure gli stivali vennero riempiti tanto che il soldato non poteva quasi camminare. Adesso sì che ne aveva di soldi!

Rimise il cane sulla cesta, chiuse la porta e gridò lungo il tronco cavo:

"Tirami su, vecchia strega!".

"Hai preso l'acciarino?".

"E' vero! me ne ero completamente dimenticato" e così andò a prenderlo. La strega lo tirò su e lui si trovò sulla strada maestra con le tasche, gli stivali, lo zaino e il berretto pieni di monete.

"Che cosa ne fai ora dell'acciarino?" chiese alla strega.

"Che ti importa? Ormai ti sei preso il denaro, quindi ora dammi l'acciarino".

"Quante storie!" le rispose il soldato. "Dimmi immediatamente cosa vuoi fare dell'acciarino, altrimenti ti taglio la testa con la mia spada".

"No!" gridò la strega.

Così il soldato le tagliò la testa. La strega giaceva a terra. Il soldato mise tutte le sue monete nel grembiule della strega, lo annodò, se lo mise in spalla come un fagotto, si infilò l'acciarino in tasca e si incamminò verso la città.

Era una bella città e lui entrò nella migliore locanda, pretese per sé le stanze migliori e il cibo che più gli piaceva: tanto ormai era ricco, con tutti i soldi che aveva.

Il servitore, che gli doveva lucidare gli stivali, pensò fra sé che quelli erano troppo malandati per un ricco signore qual era il soldato, che non ne aveva ancora comprato di nuovi; il giorno dopo però si comprò degli stivali e degli abiti eleganti. Ora era diventato un signore distinto e gli raccontarono delle bellezze del villaggio e del loro re e di quanto graziosa fosse la sua figliola, la principessa.

"Dove si può vederla?" domandò il soldato.

"Non è assolutamente possibile vederla!" risposero tutti insieme.

"Abita in un grande castello di rame, tutto circondato di mura e di torri. Nessuno, eccetto il re, può farle visita, perché è stato predetto che sposerà un semplice soldato e questo al re non piace affatto".

"Mi piacerebbe proprio vederla" pensò il soldato, ma non poté ottenere il permesso.

Così il soldato viveva allegramente, andava a teatro, passeggiava nel giardino reale di Copenaghen e dava ai poveri tanto denaro - e questo era ben fatto. Lo sapeva bene dai tempi passati, quanto fosse brutto non avere neppure un soldo. Ora era ricco e aveva abiti eleganti e si trovò tantissimi amici tutti a ripetergli quanto era simpatico, un vero cavaliere e questo al soldato faceva molto piacere. Ma spendendo ogni giorno dei soldi e non guadagnandone mai, alla fine rimase con i soli spiccioli e fu costretto a trasferirsi, dalle splendide stanze in cui aveva abitato, in una piccolissima cameretta, proprio sotto il tetto, e dovette pulirsi da sé gli stivali e cucirli con un ago da rammendo, e nessuno dei suoi amici andò a trovarlo, perché c'erano troppe scale da fare.

La sera era molto buia e lui non poteva neppure permettersi un lume, così ricordò che c'era ancora un po' di pietra con l'acciarino che aveva preso nell'albero cavo in cui lo aveva calato la strega.

Prese la pietra e l'acciarino, ma non appena sfregò per avere del fuoco e le scintille schizzarono dalla pietra focaia, la porta si spalancò e comparve il cane che aveva gli occhi grandi come due tazze da tè e che il soldato aveva visto nell'albero; il cane gli disse:

"Che cosa comanda il mio signore?".

"Cosa?" chiese il soldato, "è proprio un bell'acciarino, ora posso ottenere quello che voglio. Procurami del denaro!" ordinò al cane, e hop! il cane sparì, ma subito ricomparve tenendo in bocca un grande sacco pieno di monete.

Il soldato capì quanto era prezioso quell'acciarino. Se lo sfregava una volta, compariva il cane che stava sulla cesta delle monete di rame, se invece lo sfregava due volte, veniva quello delle monete d'argento, con tre sfregamenti appariva quello delle monete d'oro.

Il soldato si trasferì nuovamente nelle stanze lussuose, si rivestì di splendidi abiti e subito tutti i suoi amici lo frequentarono e gli dimostrarono molto affetto.

Una volta pensò: "E' proprio un peccato che non si possa vedere la principessa. Tutti dicono che sia bella, ma che cosa importa, se deve restare per sempre chiusa nel castello di rame dalle molte torri. Non posso proprio riuscire a vederla? Dov'è il mio acciarino?" e così lo sfregò per avere il fuoco e gli apparve il cane con gli occhi come tazze da tè.

"Siamo nel pieno della notte" disse il soldato, "ma io desidero immensamente vedere la principessa, anche per un solo istante".

Il cane era già uscito dalla stanza, e prima che il soldato se ne rendesse conto, lo vide di ritorno con la principessa; era addormentata sulla schiena del cane ed era così graziosa, che chiunque poteva vederlo che era una principessa: il soldato non poté fare a meno di baciarla, dato che era un vero soldato.

Il cane poi se ne ripartì con la principessa, ma al mattino, mentre il re e la regina prendevano il tè, la principessa raccontò di aver fatto uno strano sogno quella notte, di aver sognato un cane e un soldato.

Lei aveva cavalcato quel cane e il soldato l'aveva baciata.

"E' proprio una bella storia!" esclamò la regina.

Una delle vecchie dame di corte fu messa la notte successiva a vegliare il letto della principessa, per scoprire se era stato proprio un sogno o qualcos'altro.

Il soldato desiderava ardentemente di rivedere la bella principessa e così il cane giunse di nuovo nel palazzo, prese la principessa e corse più forte che poté, ma la vecchia dama di corte s'infilò gli stivali e corse altrettanto in fretta; così vide che entravano in una grande casa e pensò: "Ora so qual è il posto" e fece una grossa croce con il gesso sul portone. Poi tornò a casa a coricarsi; e anche il cane riportò a casa la principessa; ma quando vide che era stata fatta una croce sul portone della casa in cui viveva il soldato, prese lui stesso del gesso e segnò con una croce tutte le porte della città, e questa fu una buona idea, perché così la dama di corte non poté più trovare la porta giusta: c'erano croci dappertutto.

La mattina presto il re e la regina, la dama di corte e tutti gli ufficiali uscirono per scoprire dove era stata la principessa.

"Eccola!" disse il re quando vide la prima porta segnata con una croce. "No, è quella, maritino mio" replicò la regina che aveva trovato un'altra porta con la croce.

"Ma come? lì ce n'è una, e là un'altra!" dissero tutti, quando videro che c'erano croci su ogni porta. Così capirono che quella trovata non serviva a nulla.

La regina però era una donna molto furba, mica capace soltanto di andare in giro in carrozza. Prese la sua grande forbice d'oro, tagliò un pezzo di seta e ne fece un sacchettino; poi lo riempì di piccoli semi di grano, lo legò alla schiena della principessa e infine gli fece un buco, così il grano poteva segnare la strada che la principessa percorreva.

Di notte arrivò di nuovo il cane, si mise la principessa sulla schiena e corse con lei dal soldato che le voleva molto bene e desiderava tanto essere un principe per prenderla in sposa.

Il cane non si accorse che il grano segnava proprio il percorso dal castello alla finestra del soldato, da cui si arrampicava con la principessa. Il mattino dopo il re e la regina videro finalmente dove la loro figliola era stata, presero il soldato e lo misero in prigione.

E lì dovette rimanere; era così buio e triste laggiù; gli dissero pure: "Domani sarai impiccato". Il soldato non fu certo felice di sentirlo, tanto più che aveva dimenticato l'acciarino alla locanda. Il mattino dopo poté vedere attraverso le sbarre di ferro della finestrella tutta la gente affrettarsi per vederlo impiccare. Udì i tamburi e vide marciare i soldati. Tutta la gente corse via; c'era pure un garzone di macellaio con le ciabatte e un grembiule di cuoio, che correva così velocemente che una delle ciabatte volò vicino al muro da dove il soldato guardava fuori.

"Ehi tu, ragazzo! Non devi avere tutta questa fretta" disse il soldato. "Non può accadere nulla finché non arrivo io; ma tu vorresti correre là dove abito e prendermi il mio acciarino? Ti darò quattro monete! Però devi fare molto in fretta!" Il garzone voleva guadagnare quei quattro soldi, partì come il fulmine per andare a prendere quell'acciarino, lo diede al soldato, e... adesso sentiremo cosa succede!

Appena fuori dalla città era stata innalzata una grande forca, circondata da soldati e da molte centinaia di migliaia di persone. Il re e la regina erano seduti sul trono proprio di fronte al giudice e al consiglio.

Il soldato si trovava già in cima alla scala, ma prima che gli legassero il laccio intorno al collo, disse che si deve concedere sempre un ultimo desiderio al condannato, e lui desiderava tanto fumarsi la pipa; in fondo sarebbe stata la sua ultima fumata di pipa in questo mondo!

Il re non volle negargli il permesso; il soldato prese il suo acciarino, fece fuoco e, un, due, tre comparvero i tre cani, quello con gli occhi grandi come tazze da tè, quello con gli occhi come ruote di mulino e quello i cui occhi sembravano la Torre Rotonda.

"Aiutatemi perché non venga impiccato!" gridò il soldato e subito i cani si precipitarono tra i giudici e il consiglio, afferrarono uno alle gambe e uno per il naso e li lanciarono in aria, così in alto che, ricadendo, si ruppero in mille pezzi.

"Non voglio!" gridò il re, ma il cane più grosso prese sia lui che la regina e li gettò dietro tutti gli altri. In quel momento i soldati si spaventarono e la gente gridò: "Soldatino, tu devi diventare nostro re e sposare la graziosa principessa!".

Allora il soldato sedette nella carrozza reale e i tre cani danzarono e gridarono "Urrà!" e i ragazzi fischiarono con le dita e i soldati presentarono le armi. La principessa uscì dal castello di rame e divenne regina, e ne fu molto soddisfatta. La festa per il matrimonio durò otto giorni e i cani erano seduti a tavola con gli altri e spalancavano tanto d'occhi.

 

Hans Christian Andersen


LA PRINCIPESSA SUL PISELLO

 

C'era una volta un principe che voleva avere per sé una principessa, ma doveva essere una vera principessa.

Perciò viaggiò per tutto il mondo per trovarne una, ma ogni volta c'era qualcosa di strano: di principesse ce n'erano molte, ma non poteva mai essere certo che fossero vere principesse; infatti c'era sempre qualcosa che andava storto. Così se ne tornò a casa ed era veramente molto triste, perché desiderava con tutto il cuore trovare una vera principessa.

Una sera c'era un tempo bruttissimo, lampeggiava e tuonava, la pioggia cadeva a catinelle, che cosa terribile! Bussarono alla porta della città e il vecchio re andò ad aprire.

Là fuori c'era una principessa. Ma com'era conciata con quella pioggia e quel brutto tempo! L'acqua le scorreva lungo i capelli e i vestiti e le entrava nelle scarpe dalla punta e le usciva dai tacchi; eppure sosteneva di essere una vera principessa.

"Adesso lo scopriremo!" pensò la vecchia regina, ma non disse nulla, andò nella camera da letto, tolse tutte le coperte e mise sul fondo del letto un pisello, sopra il quale pose venti materassi e poi venti piumini.

Lì doveva passare la notte la principessa.

Il mattino successivo le chiesero come aveva dormito.

"Oh, terribilmente male" disse la principessa, "non ho quasi chiuso occhio tutta la notte. Dio solo sa, che cosa c'era nel letto! Ero sdraiata su qualcosa di duro, e ora sono tutta un livido. E' terribile!".

Così poterono constatare che era una vera principessa, perché attraverso i venti materassi e i venti piumini aveva sentito il pisello. Nessuno poteva essere così sensibile se non una vera principessa!

Il principe la prese in sposa, perché ora sapeva di aver trovato una principessa vera, e il pisello fu messo nella galleria d'arte, dove ancor oggi si può ammirare, se nessuno l'ha preso.

Bada bene, questa è una storia vera!

 

Hans Christian Andersen

 

IL BRUTTO ANATROCCOLO

 

Era così bello in campagna, era estate! Il grano era bello giallo, l'avena era verde e il fieno era stato ammucchiato nei prati, la cicogna passeggiava sulle sue slanciate zampe rosa e parlava egiziano, perché aveva appreso quella lingua da sua madre. Intorno ai campi e ai prati c'erano grandi boschi, e in mezzo ai boschi si trovavano laghi profondi; era proprio bello in campagna! Esposto al sole si trovava un vecchio maniero circondato da canali profondi, e tra il muro e l'acqua crescevano grosse foglie di farfaraccio, ed erano talmente alte che i bambini più piccoli potevano stare dritti all'ombra di quelle più grandi. Quel posto era selvaggio come un profondo bosco; lì si trovava un'anatra col suo nido. Doveva covare gli anatroccoli, ma ormai si sentiva quasi stanca, sia perché ci voleva molto tempo sia perché non riceveva quasi mai visite. Le altre anatre preferivano nuotare lungo i canali piuttosto che risalire la riva e sedersi sotto una foglia di farfaraccio a chiacchierare con lei.

Finalmente una dopo l'altra, le uova scricchiolarono. "Pip, pip" si sentì, tutti i tuorli delle uova erano diventati vivi e mettevano fuori la testolina.

"Qua, qua!" disse l'anatra, e subito tutti schiamazzarono a più non posso, guardando da ogni parte sotto le verdi foglie; e la madre lasciò che guardassero, perché il verde fa bene agli occhi.

"Com'è grande il mondo!" esclamarono i piccoli; adesso avevano infatti molto più spazio di quando stavano nell'uovo.

"Credete forse che questo sia tutto il mondo?" chiese la madre. "Si stende molto lontano, oltre il giardino, fino al prato del pastore; ma fin là non ci sono mai stata. Ci siete tutti, vero?" e intanto si alzò. "No, non siete tutti. L'uovo più grande è ancora qui. Quanto ci vorrà? Ormai sono quasi stufa", e si rimise a covare.

"Allora, come va?" domandò una vecchia anatra venuta a farle visita.

"Ci vuole tanto tempo per quest'unico uovo!" rispose l'anatra che covava. "Non vuole rompersi. Ma dovresti vedere gli altri! Sono i più graziosi anatroccoli che io abbia mai visto; assomigliano tanto al loro padre, quel briccone, che non viene nemmeno a trovarmi".

"Fammi vedere l'uovo che non vuole rompersi!" disse la vecchia. "Può darsi che sia un uovo di tacchina! Anch'io sono stata ingannata una volta, e ho passato dei guai con i piccoli che avevano una paura da non credere dell'acqua. Non riuscii a farli uscire. Schiamazzai e beccai, ma non servì a nulla. Fammi vedere l'uovo. Sì, è proprio un uovo di tacchina. Lascialo stare e insegna piuttosto a nuotare ai tuoi piccoli".

"Adesso lo covo ancora un po'; l'ho covato per così tanto tempo che posso farlo ancora un po'!".

"Fai come ti pare!" commentò la vecchia anatra andandosene.

Finalmente quel grosso uovo si ruppe. "Pip, pip" esclamò il piccolo e uscì: era molto grande e brutto. L'anatra lo osservò.

"E' un anatroccolo esageratamente grosso!" disse. "Nessuno degli altri è come lui! Purché non sia un piccolo di tacchina! Bene, lo si scoprirà presto. Deve entrare in acqua, anche a costo di prenderlo a calci!".

Il giorno dopo era una giornata bellissima; il sole brillava sulle verdi foglie di farfaraccio. Mamma anatra andò con tutta la famiglia al canale. Splash! si buttò in acqua; "qua, qua!" disse, e tutti i piccoli si tuffarono uno dopo l'altro. L'acqua coprì le loro testoline, ma subito tornarono a galla e galleggiarono beatamente; le zampe si muovevano da sole e c'erano proprio tutti, anche il piccolo brutto e grigio nuotava con loro.

"No, non è un tacchino!" esclamò l'anatra, "guarda come muove bene le zampe, come si tiene bene dritto! E' proprio mio! In fondo è anche carino se lo si guarda bene. Qua, qua! venite con me, vi porterò nel mondo e vi presenterò agli altri abitanti del pollaio, ma state sempre accanto a me, che nessuno vi calpesti, e state attenti al gatto!".

Entrarono nel pollaio. C'era un baccano terribile, perché due famiglie si disputavano una testa d'anguilla, che alla fine andò al gatto.

"Vedete come va il mondo!" disse la mamma anatra leccandosi il becco, dato che anche lei avrebbe voluto la testa d'anguilla. "Adesso muovete le zampe" aggiunse, "provate a salutare e a inchinarvi a quella vecchia anatra. E' la più distinta di tutte, è d'origine spagnola, perciò è così pesante! Vedete, ha uno straccio rosso intorno a una zampa. E' una cosa proprio eccezionale, la massima onorificenza che un'anatra possa ottenere. Vuol dire che non la si vuole abbandonare, e che è rispettata sia dagli animali che dagli uomini. Muovetevi! Non tenete i piedi in dentro! Un anatroccolo ben educato tiene le gambe ben larghe, proprio come il babbo e la mamma. Ecco! Adesso chinate il collo e dite qua!".

E così fecero, ma le altre anatre lì intorno li guardarono ed esclamarono: "Guardate! Adesso arriva la processione, come se non fossimo già abbastanza, e, mamma mia com'è brutto quell'anatroccolo!

Lui non lo vogliamo!" e subito un'anatra gli volò vicino e lo beccò alla nuca.

"Lasciatelo stare" gridò la madre "non ha fatto niente a nessuno!".

"Sì, ma è troppo grosso e strano!" rispose l'anatra che lo aveva beccato, "e quindi ne prenderà un bel po'!".

"Che bei piccoli ha mamma anatra!" disse la vecchia con lo straccetto intorno alla zampa, "sono tutti belli, tranne uno, che non è venuto su bene. Sarebbe bello che potesse rifarlo!".

"Non è possibile, Vostra Grazia!" rispose mamma anatra, "non è bello, ma è d'animo molto buono e nuota bene come tutti gli altri, anzi un po' meglio. Credo che, crescendo, diventerà più bello e che col tempo sarà meno grosso. E' rimasto troppo tempo nell'uovo, perciò ha un corpo non del tutto normale". E intanto lo grattò col becco sulla nuca e gli lisciò le piume. "Comunque è un maschio" aggiunse, "e quindi non è così importante. Credo che avrà molta forza e riuscirà a cavarsela!".

"Gli altri anatroccoli sono carini" disse la vecchia. "Fate come se foste a casa vostra e, se trovate una testa d'anguilla, portatemela".

E così fecero come se fossero a casa loro.

Ma il povero anatroccolo che era uscito per ultimo dall'uovo e che era così brutto venne beccato, spinto e preso in giro, sia dalle anatre che dalle galline: "E' troppo grosso!" dicevano tutti, e il tacchino, che era nato con gli speroni e perciò credeva di essere imperatore, si gonfiò come un'imbarcazione a vele spiegate e si precipitò contro di lui, gorgogliando e con la testa tutta rossa. Il povero anatroccolo non sapeva se doveva rimanere o andare via, era molto abbattuto perché era così brutto e tutto il pollaio lo prendeva in giro.

Così passò il primo giorno, e col tempo fu sempre peggio. Il povero anatroccolo veniva cacciato da tutti, persino i suoi fratelli erano cattivi con lui e dicevano sempre: "Se solo il gatto ti prendesse, brutto mostro!" e la madre pensava: "Se tu fossi lontano da qui!". Le anatre lo beccavano, le galline lo colpivano e la ragazza che portava il mangime alle bestie lo allontanava a calci.

Così volò oltre la siepe; gli uccellini che si trovavano tra i cespugli si alzarono in volo spaventati. "E' perché io sono così brutto" pensò l'anatroccolo e chiuse gli occhi, ma continuò a correre.

Arrivò così nella grande palude, abitata dalle anatre selvatiche. Lì giacque tutta la notte: era molto stanco e triste.

Il mattino successivo le anatre selvatiche si alzarono e guardarono il loro nuovo compagno. "E tu chi sei?" gli domandarono, e l'anatroccolo si girò da ogni parte e salutò come meglio poté.

"Sei veramente brutto!" esclamarono le anatre selvatiche, "ma non ce ne importa niente, purché tu non ti sposi con qualcuno della nostra famiglia!" Quel poverino non pensava certo a sposarsi, gli bastava solo poter stare fra i giunchi e bere un po' d'acqua della palude.

Restò lì due giorni, poi arrivarono due oche selvatiche, o meglio, due paperi selvatici, dato che erano maschi. Era trascorso poco tempo da quando erano usciti dall'uovo e per questo erano molto spavaldi.

"Ascolta, compagno", dissero, "tu sei così brutto che ci piaci molto!

Vuoi venire con noi e essere uccello di passo? In un'altra palude qui accanto ci sono delle graziose oche selvatiche, tutte signorine, che sanno dire qua! Tu potresti avere fortuna, dato che sei così brutto!" "Pum, pum!" si sentì in quel momento, tutte e due le anatre caddero morte tra i giunchi e l'acqua si arrossò per il sangue. "Pum, pum!" si sentì ancora, e tutte le oche selvatiche si sollevarono in schiere.

Poi spararono di nuovo. C'era caccia grossa; i cacciatori giravano per la palude, sì, alcuni si erano arrampicati sui rami degli alberi e si sporgevano sui giunchi. Il fumo grigio si spandeva come una nuvola tra gli alberi neri e rimase a lungo sull'acqua. Nel fango arrivarono i cani da caccia; plasch, plasch! Canne e giunchi dondolavano da ogni parte. Spaventato, il povero anatroccolo piegò la testa tentando di infilarsela sotto le ali, ma in quello stesso istante si trovò vicino un cane terribilmente grosso, con la lingua che gli penzolava fuori dalla bocca e gli occhi che brillavano orrendamente; avvicinò il muso all'anatroccolo, mostrò i denti aguzzi e plasch! se ne andò senza fargli niente.

"Dio sia lodato!" sospirò l'anatroccolo, "sono talmente brutto che persino il cane non osa mordermi".

E rimase tranquillo, mentre i pallini fischiavano tra i giunchi e si udivano gli spari un colpo dopo l'altro.

Solo a giorno inoltrato tornò la calma, ma ancora il povero giovane non osava rialzarsi; aspettò ancora parecchie ore prima di osare guardarsi intorno, e poi si affrettò a lasciare la palude più presto che poteva. Corse per campi e prati, ma c'era molto vento e faticava ad avanzare.

Verso sera arrivò a una povera e piccola casa di contadini, era così misera che lei stessa non sapeva da che parte doveva cadere, e così restava in piedi. Il vento soffiava intorno all'anatroccolo, tanto che dovette sedersi sulla coda per poter resistere, ma diventava sempre peggio. Allora notò che la porta si era scardinata da una parte ed era tutta inclinata, e che lui, attraverso la fessura, poteva infilarsi nella stanza, e così fece.

Qui abitava una vecchia col suo gatto e la gallina; il gatto, che lei chiamava "figliolo", sapeva inarcare la schiena e fare le fusa, e faceva persino scintille se lo si accarezzava contro pelo. La gallina aveva le zampe piccole e basse e per questo la chiamavano "coccodè gamba corta", faceva le uova e la donna le voleva bene come a una figlia.

Al mattino si accorsero subito dell'anatroccolo estraneo, e il gatto prese a fare le fusa e la gallina a chiocciare.

"Che sta succedendo?" chiese la vecchia, e si guardò intorno, ma non ci vedeva bene e così pensò che l'anatroccolo fosse una grassa anatra che si era persa. "E' proprio una bella preda!" disse, "ora potrò avere uova di anatra, purché non sia un maschio! Lo metterò alla prova".

E così l'anatroccolo restò in prova per tre settimane, ma non fece nessun uovo. Il gatto era il padrone di casa e la gallina la padrona, e dicevano sempre: "Noi e il mondo!" perché credevano di esserne la metà, e ovviamente la metà migliore. L'anatroccolo pensava che si potesse avere anche un'altra opinione, ma questo la gallina non lo sopportava.

"Fai le uova?" domandò la gallina.

"No".

"Allora te ne puoi stare zitto!".

E il gatto gli disse: "Sei capace di inarcare la schiena, di fare le fusa e di fare scintille?".

"No!".

"Bene, allora non devi avere più opinioni, quando parlano le persone ragionevoli".

E l'anatroccolo se ne stava in un cantuccio, di malumore. Poi cominciò a pensare all'aria fresca e al bel sole. Lo prese una strana voglia di andare nell'acqua, alla fine non poté più trattenersi e ne parlò alla gallina.

"Che ti succede?" gli chiese lei. "Non hai niente da fare, è per questo che ti vengono le fantasie. Fai le uova, o fai le fusa, vedrai che ti passa!" "Ma è così bello galleggiare sull'acqua!" disse l'anatroccolo "così bello averla sulla testa e tuffarsi giù fino al fondo! " "Sì, è certo un gran divertimento!" commentò la gallina, "tu sei ammattito! Chiedi al gatto, che è il più intelligente che io conosca, se gli piace galleggiare sull'acqua o tuffarsi sotto! Quanto a me, neanche a parlarne! Chiedilo anche alla nostra signora, la vecchia dama ! Più intelligente di lei non c'è nessuno nel mondo. Credi che lei abbia voglia di galleggiare o di avere l'acqua sopra la testa?" "Voi non mi capite!" disse l'anatroccolo.

"Certo, se non ti capiamo noi chi ti dovrebbe capire, allora? Non sei di sicuro più intelligente del gatto o della donna, per non parlare di me! Non darti delle arie, piccolo! e ringrazia il tuo creatore per tutto il bene che ti è stato fatto. Non hai forse potuto stare in una stanza calda e non hai una compagnia da cui puoi imparare qualcosa? Ma tu sei strambo, e non è certo divertente vivere con te. Puoi credermi:

lo faccio per il tuo bene anche se ti dico cose spiacevoli; così si vedono i veri amici. Cerca piuttosto di fare le uova o di fare le fusa o le scintille!" "Credo che me ne andrò per il mondo" disse l'anatroccolo.

"Fai come ti pare!" gli rispose la gallina.

E così l'anatroccolo se ne andò. Galleggiava sull'acqua e ci si tuffava, ma era disprezzato da tutti gli animali per la sua bruttezza.

Giunse l'autunno. Le foglie del bosco ingiallirono, il vento le afferrò e le fece danzare; e su nel cielo sembrava facesse veramente freddo. Le nuvole erano cariche di grandine e di fiocchi di neve, e sulla siepe si trovava un corvo che, ah! ah! si lamentava dal freddo.

Vengono i brividi solo a pensarci. Il povero anatroccolo non stava certo bene.

Una sera mentre il sole tramontava splendidamente, uscì dai cespugli uno stormo di bellissimi e grandi uccelli; l'anatroccolo non ne aveva mai visti così belli. Erano di un bianco lucente, con lunghi colli flessuosi: erano cigni. Mandarono un grido bizzarro, aprirono le loro magnifiche e lunghe ali e volarono via, dalle fredde regioni fino ai paesi più caldi, ai mari aperti! Si alzarono così alti che il brutto anatroccolo provò una strana nostalgia, si rotolò nell'acqua come una ruota, sollevò il collo verso di loro ed emise un grido talmente acuto e strano, che si impressionò lui stesso. Oh, non riusciva a scordare quei bellissimi e fortunati uccelli e quando non li vide più, si tuffò in acqua fino sul fondo, e tornato in superficie era come fuori di sé.

Non sapeva che uccelli fossero e neppure dove stavano andando, ma ciò nonostante li amava come non aveva mai amato nessun altro. Non li invidiava assolutamente. Come avrebbe potuto desiderare una simile bellezza! Sarebbe stato contento se solo le anatre lo avessero accettato tra loro. Povero brutto animale!

E l'inverno fu freddo, tanto freddo. L'anatroccolo dovette nuotare in continuazione per evitare che l'acqua gelasse, ma ogni notte il buco in cui nuotava si faceva sempre più piccolo. Ghiacciò, poi la superficie scricchiolò. L'anatroccolo doveva muovere le zampe senza fermarsi, affinché l'acqua non si chiudesse; alla fine si indebolì, si fermò e rimase incastrato nel ghiaccio.

Al mattino presto arrivò un contadino, lo vide e col suo zoccolo ruppe il ghiaccio, poi lo portò a casa da sua moglie. Lì lo fecero rinvenire.

I bambini volevano giocare con lui, ma l'anatroccolo pensò che gli volessero fare del male; e per paura cadde nel secchio del latte e lo fece rovesciare nella stanza. La donna strillò e agitò le mani, lui allora volò sulla dispensa dove c'era il burro, e poi nel barile della farina, e poi di nuovo fuori! Uh, come si era conciato! La donna gridava e lo inseguiva con le molle del camino e i bambini si urtavano tra loro cercando di agguantarlo e intanto ridevano e gridavano. Per fortuna la porta era aperta; l'anatroccolo volò fuori in mezzo ai cespugli, nella neve caduta, e restò lì, stordito.

Sarebbe troppo straziante raccontare tutte le miserie e i patimenti che dovette sopportare nel duro inverno. Era nella palude tra le canne, quando il sole riprese a splendere caldo. Le allodole cantavano, era arrivata la bella primavera!

Allora alzò con un colpo solo le ali, che frusciarono più robuste di prima e che lo sostennero con forza, e prima ancora di rendersene conto si trovò in un grande giardino, pieno di meli in fiore, dove i cespugli di lillà profumavano e curvavano i lunghi rami verdi giù fino ai canali serpeggianti. Oh! Che bel posto! e com'era fresca l'aria di primavera! Dalle fitte piante sbucarono, proprio davanti a lui, tre bellissimi cigni bianchi; frullarono le piume e galleggiarono dolcemente sull'acqua. L'anatroccolo riconobbe quegli splendidi animali e fu invaso da una strana tristezza.

"Voglio volare con loro, con quegli uccelli regali; mi ammazzeranno con le loro beccate, perché io, così brutto, oso accostarmi a loro. Ma non mi importa! è meglio essere ucciso da loro che essere beccato dalle anatre, beccato dalle galline, preso a calci dalla ragazza che cura il pollaio, e soffrire tanto d'inverno!". E volò nell'acqua e nuotò verso quei magnifici cigni; questi lo guardarono e andarono verso di lui frullando le piume. "Uccidetemi!" esclamò il povero animale, e abbassò la testa verso la superficie dell'acqua aspettando la morte, ma, che cosa vide in quell'acqua limpida? Vide sotto di sé la sua propria immagine: non era più il goffo uccello grigio scuro, brutto e sgraziato, anche lui era un cigno.

Che importa essere nati in un pollaio di anatre, se si è usciti da un uovo di cigno?

Ora era contento di tutte quelle sofferenze e avversità che aveva subìto, si godeva di più la felicità e la bellezza che lo salutavano.

E i grandi cigni nuotavano intorno a lui e lo accarezzavano col becco.

Nel giardino arrivarono dei bambini e buttarono pane e grano nell'acqua; poi il più piccino gridò: "Ce n'è uno nuovo!". E gli altri bambini esultarono con lui: "Sì, ne è arrivato uno nuovo!". Battevano le mani e saltavano, poi corsero a chiamare il babbo e la mamma, e gettarono ancora pane e dolci in acqua, e tutti dicevano: "Quello nuovo è il più bello, così giovane e fiero!". E i vecchi cigni si inchinarono dinnanzi a lui.

Allora si sentì timidissimo e infilò la testa sotto le ali, non sapeva neppure lui cosa avesse! Era troppo felice, ma non era affatto superbo, perché un cuore buono non diventa mai superbo! Ricordava come era stato perseguitato e insultato, e adesso sentiva dire che era il più bello di tutti gli uccelli! I lillà curvarono i rami fino all'acqua e il sole brillava caldo e luminoso. Allora lui frullò le piume, rialzò il collo slanciato e esultò nel cuore: "Tanta felicità non l'avevo mai sognata, quando ero un brutto anatroccolo!".

 

Hans Christian Andersen

 

GENTE BALZANA

 

Una pulce, una cavalletta e un saltamartino vollero un giorno vedere chi fra loro sapeva saltare più in alto; così invitarono tutto il mondo, e chi altro lo voleva, ad assistere a quella gara; era davvero gente balzana quella che si riunì nella stanza.

"Io darò in moglie la mia figliola a chi che salterà più in alto" dichiarò il re, "perché è un peccato che questa gente salti per niente!." La pulce si presentò per prima: aveva proprio buone maniere e salutava da tutte le parti, perché aveva sangue di signorina ed era abituata a frequentare gli uomini, il che è di grande aiuto.

Poi giunse la cavalletta, che era in realtà più pesante ma era veramente bene educata e portava un'uniforme verde che le stava molto bene; inoltre si raccontava che provenisse da un'antichissima famiglia dell'Egitto e che in quel paese fosse ben considerata; era stata presa direttamente dal prato e posta in una casa a tre piani costruita con le carte da gioco, tutte con figure vestite con la parte colorata rivolta verso l'interno; c'erano sia porte che finestre ritagliate nel petto della dama di cuori. "Io canto così bene" disse la cavalletta, "che sedici grilli indigeni, che strillavano da quando erano nati ma non avevano mai avuto una casa di carte da gioco, quando mi sentirono si arrabbiarono talmente che diventarono ancora più magri di quanto già non fossero..." Sia la pulce che la cavalletta continuavano a raccontare chi erano e tutte e due credevano di meritare in sposa una principessa.

Il saltamartino non disse niente, ma si seppe che lui pensava molto, e quando il cane di corte lo ebbe annusato un po', dichiarò che anche lui proveniva da una famiglia per bene; poi il vecchio consigliere, che aveva avuto tre decorazioni perché stava sempre zitto, assicurò che il saltamartino aveva doti profetiche; si poteva infatti capire dal suo dorso se l'inverno sarebbe stato mite o rigido, e questo di sicuro non lo si può capire dalla schiena di chi scrive l'almanacco.

"Va bene, io non voglio dire niente! " esclamò il re. "Quello che penso me lo tengo per me".

Ora toccava fare il salto. La pulce saltò così in alto che nessuno la poté vedere, ragion per cui tutti sostennero che non aveva saltato per niente, e questo era ignobile!

La cavalletta saltò solo la metà di quanto avesse saltato la pulce, ma finì proprio in faccia al re e così quello disse che era una villana.

Il saltamartino se ne stette a lungo fermo a riflettere, e si pensò che non sapesse neppure saltare.

"Purché non stia male!" disse il cane di corte e lo annusò di nuovo; rutch! egli fece un piccolo salto di traverso e finì in grembo alla principessa, che si trovava su un basso sgabello d'oro.

Al che il re dichiarò: "Il salto più alto è arrivare a mia figlia, questa è l'astuzia del gioco, ma era necessario dell'ingegno per capirlo, e il saltamartino ha dimostrato di averlo".

E così egli ebbe la principessa.

"Io però ho fatto il salto più alto!" esclamò la pulce, "ma non fa niente! Lasciate che la principessa abbia quella carcassa d'oca con la pece e lo stecchino! Io ho saltato più in alto, ma in questo mondo bisogna avere un certo volume per essere visti".

E la pulce se ne andò nella legione straniera, dove si dice sia stata uccisa.

La cavalletta si ritirò nel fosso a pensare a come va il mondo e commentò: "Volume ci vuole! Volume ci vuole!" e si mise a cantare la sua triste canzone, ed è da lì che abbiamo tratto la storia, che però potrebbe benissimo non essere vera, anche se è stata stampata.

 

Hans Christian Andersen

 

LA PICCOLA FIAMMIFERAIA

 

C'era un freddo tremendo, nevicava e cominciava a fare buio; ed era la sera dell'ultimo dell'anno. In mezzo al buio e al freddo una povera bimba, scalza e a capo scoperto, camminava per la strada; aveva pur le ciabatte quando era uscita di casa, ma a cosa le sarebbero servite?

erano troppo grandi per lei, talmente grandi che negli ultimi tempi le aveva portate la mamma. E ora la piccina le aveva subito perse, quando due carri che passavano a forte velocità l'avevano obbligata a traversare la strada di corsa. Una ciabatta non le riuscì più di ritrovarla, e l'altra se la prese un ragazzo, dicendo che l'avrebbe usata come culla quando avesse avuto dei figli.

Adesso la bimba camminava scalza, e i suoi piedini nudi erano viola dal freddo; in un vecchio grembiule aveva una gran quantità di fiammiferi e ne teneva un mazzetto in mano. Per tutto il giorno non ce l'aveva fatta a vendere niente e nessuno le aveva dato neppure una monetina; era lì affamata e infreddolita, e tanto avvilita, poveretta!

I fiocchi di neve si posavano tra i suoi lunghi capelli dorati, che si arricciavano graziosamente sul collo, ma lei a questo non pensava di certo. Le luci splendevano dietro ogni finestra e per la via si spandeva un delizioso profumo di oca arrosto: era la sera dell'ultimo dell'anno, e proprio a questo lei stava pensando.

A un angolo della strada fatto da due case, una più sporgente dell'altra, sedette e si rannicchiò, tirando a sé le gambette, ma aveva ancora più freddo e non osava tornare a casa. Temeva che suo padre l'avrebbe picchiata, perché non aveva venduto neppure un fiammifero e non aveva nemmeno un soldo.

E poi faceva così freddo anche a casa! Avevano soltanto il tetto sopra di loro e il vento passava tra le fessure, anche se avevano cercato di tapparle con paglia e stracci.

Le manine erano quasi congelate per il freddo. Ah! forse un fiammifero sarebbe servito a qualcosa. Doveva solo sfilarne uno dal mazzetto e sfregarlo contro il muro per scaldarsi un po' le dita.

Ne prese uno, e "ritsch", contro il muro. Come scintillava! come ardeva! era una fiamma calda e chiara e pareva una piccola candela quando ci metteva intorno le manine. Che strana luce! La bimba credette di trovarsi seduta davanti a una stufa con i pomelli d'ottone, e il fuoco bruciava e scaldava così bene! No, che succede?

stava già allungando i piedini per scaldarsi un po' pure quelli, quando la fiamma sparì. E insieme alla fiamma pure la stufa.

E si ritrovò seduta per terra, con un pezzo di fiammifero bruciato tra le mani.

Subito ne sfregò un altro, che illuminò il muro e lo rese trasparente come un velo. Così poté vedere dentro la stanza una bella tavola imbandita, con una tovaglia bianca e vasellame di porcellana e un'oca arrosto fumante, farcita di prugne e di mele!

Improvvisamente l'oca saltò giù dal vassoio e si trascinò sul pavimento, già con la forchetta e il coltello infilzati nel dorso, proprio verso la bimba: ma in quel momento il fiammifero si spense e davanti alla bambina restò soltanto il muro freddo. Allora ne accese un altro. E si trovò ai piedi del più bello albero di Natale. Era persino più grande e più addobbato di quello che aveva visto l'anno prima dalla vetrina del ricco droghiere; migliaia di candeline ardevano sui rami verdi e figure variopinte pendevano dall'albero, proprio come quelle che decoravano le vetrine dei negozi.

Pareva che guardassero verso di lei. La bimba alzò le manine per salutarle, ma il fiammifero si spense. Le innumerevoli candeline dell'albero di Natale salirono sempre più in alto, fino a diventare le chiare stelle del cielo; poi una di loro cadde, formando nel buio della notte una lunga striscia di fuoco. "Ora muore qualcuno!" disse la bimba, perché la sua vecchia nonna, la sola che era stata buona con lei, che però ora era morta, le aveva detto: "Quando cade una stella, allora un'anima va al Signore".

Accese un altro fiammifero che illuminò tutt'intorno, e in quel chiarore la bimba vide la nonna, lucente e dolce!

"Nonna!" gridò, "oh, portami con te! So che tu sparirai quando il fiammifero si spegne; sparirai come è scomparsa la stufa, l'oca arrosto, l'albero di Natale!".

E accese tutti gli altri fiammiferi che aveva nel mazzetto, perché voleva trattenere la visione della nonna; e i fiammiferi bruciarono con tanto splendore che era più chiaro che di giorno.

La nonna non era mai stata così bella, così grande. Attirò a sé la bimba e la tenne in braccio; insieme si elevarono sempre più nel chiarore e nella gioia. Ora non c'era più né freddo, né fame, né paura: si trovavano presso Dio.

La bambina fu trovata il mattino dopo in quell'angolo della strada, con le guance rosse e il sorriso sulle labbra. Era morta, morta di freddo l'ultima sera del vecchio anno. L'anno nuovo avanzava sul suo piccolo corpicino, circondato dai fiammiferi mezzo bruciacchiati.

"Ha voluto scaldarsi" commentò qualcuno, ma nessuno poteva sapere le cose belle che lei aveva visto, né in quale chiarore era entrata con la sua vecchia nonna, nella gioia dell'Anno Nuovo!

 

Hans Christian Andersen

 

IL FOLLETTO E LA SIGNORA

 

Tu conosci certamente il folletto, ma conosci anche la signora, la moglie del giardiniere? Lei era istruita, recitava versi, e ne scriveva lei stessa con grande facilità; soltanto le rime per "far baciare i versi", come diceva lei, le davano un po' di problemi. Lei sapeva scrivere e parlar bene, avrebbe potuto benissimo diventare pastore o almeno moglie di un pastore.

"La terra è bella nel suo abito della festa!" disse, e quel pensiero l'aveva messo in bello stile con la rima baciata, e l'aveva sviluppato in una lunga e bellissima canzone.

Il maestro di scuola, il signor Kisserup, ma il nome non ha importanza, era un suo nipote ed era venuto in visita; ascoltò la poesia della zia, e questo gli fece bene, disse, veramente bene al cuore. "Lei ha spirito, signora" esclamò.

"Quante storie!" rispose il giardiniere, "non le dica queste cose! Una moglie deve essere pratica, pratica e dignitosa, e interessarsi che la minestra nella pentola non bruci".

"Toglierò l'odore di bruciato con un pezzo di carbone" rispose la signora. "E l'odore di bruciato che sta in te lo toglierò con un bacio. Sembra quasi che tu pensi solo ai cavoli e alle patate; eppure che ami i fiori!", e così lo baciò. "I fiori sono spirito" commentò.

"Stai attenta alla pentola!" ripeté lui andandosene in giardino: il giardino era la sua pentola e lui badava a quello.

Ma il maestro di scuola sedette accanto alla signora e si mise a parlare con lei: tenne una sorta di sermone, fatto a suo modo, sulle parole molto belle di lei: "la terra è bella!".

"La terra è bella, dovete sottometterla, fu detto, e noi diventammo padroni. Chi con lo spirito, chi con il corpo. Qualcuno fu messo al mondo come un punto esclamativo, qualcun altro come un punto di domanda, perché ci si domandi cosa ci faccia qui! Uno diventa vescovo, un altro un semplice maestro di scuola, ma ogni cosa è fatta con saggezza. La terra è bella nel suo vestito della festa! Questa è proprio una poesia che stimola la riflessione, signora, è piena di sentimento e di cognizioni geografiche".

"Lei ha spirito, signor Kisserup" disse la signora, "molto spirito, glielo assicuro! Si vede chiaro in se stessi quando si parla con lei." E andarono avanti a parlare, sempre molto bene; ma in cucina c'era qualcun altro che parlava, era il folletto, quel piccolo folletto vestito di grigio con il cappello rosso: lo conosci? Il folletto stava in cucina ed era un ficcanaso, e parlava, ma nessuno lo sentiva, tranne il grande gatto nero, "il ladro di panna" come lo chiamava la signora.

Il folletto era molto arrabbiato con la signora, perché lei non credeva che lui esistesse; in realtà non l'aveva mai visto, ma con la sua cultura doveva sapere che esisteva e perciò mostrargli qualche piccola attenzione. Eppure, non ci pensava mai, la sera di Natale, a preparare per lui una tazza di riso col latte, come l'avevano avuta tutti i suoi antenati, e da parte di signore che non avevano nessuna cultura; riso col latte affogato nel burro e nella panna. Al gatto venne l'acquolina in bocca soltanto a sentirlo.

"Mi chiama 'Concetto'!" disse il folletto, "e questo per me è inconcepibile! In realtà mi nega! Questo l'ho scoperto origliando, e ora ho scoperto un'altra cosa: è lì a passare il tempo con il castigatore dei bambini, il maestro di scuola. Io mi trovo d'accordo con il marito: "Bada alla tua pentola!", e lei non lo fa; ora farò in modo che trabocchi!".

Il folletto soffiò sul fuoco che avvampò e bruciò con più forza.

"Surresurrerup!" e la minestra sgorgò fuori.

"Ora vado a fare dei buchi nelle calze del padrone!" disse il folletto, "farò un buco enorme sull'alluce e uno sul calcagno, così sarà obbligata a rammendare e non farà più poesie: la signora poetessa che rammenda le calze del marito!".

Il gatto starnutì, era raffreddato nonostante avesse sempre la pelliccia.

"Ho aperto la porta della dispensa" gli disse il folletto, "c'è della panna, densa come un impasto di farina. Se non ci vai tu a leccarla, lo farò io!".

"Dato che mi daranno la colpa e le botte" disse il gatto, "è giusto che la panna la lecchi io!".

"Prima la panna, poi la frusta!" disse il folletto. "Ma ora andrò nella stanza del maestro di scuola e gli annoderò le bretelle allo specchio e gli caccerò i calzini nella bacinella dell'acqua, così crederà che il punch era troppo forte e gli ha confuso la mente.

L'altra notte mi sono messo sulla catasta di legna accanto al canile, mi diverte tanto prendere in giro il cane alla catena. Ho dondolato le gambe, ma il cane non riusciva a prendermi, nonostante saltasse in alto. Così si arrabbiò e abbaiò in continuazione, mentre io continuavo a dondolare le gambe. Era davvero un bello spettacolo. ll maestro di scuola si svegliò a quel rumore, per ben tre volte guardò fuori, ma non mi vide, benché avesse gli occhiali: infatti dorme sempre con gli occhiali".

"Dimmi miao, quando arriva la signora!" disse il gatto, "Non ci sento bene oggi, sono malato." "Tu sei goloso!" ribatté il folletto. "Lecca, lecca! che la malattia se ne va. Ma pulisciti i baffi, che non ti resti attaccata della panna. Ora vado a origliare".

Il folletto si mise vicino alla porta accostata, non c'era nessuno nella stanza tranne la signora e il maestro di scuola che parlavano di quello che il seminarista con una bella espressione chiamava: i doni dello spirito, doni che dovevano venire prima delle pentole e delle padelle nel governo della casa.

"Signor Kisserup" disse la donna, "a questo riguardo le voglio mostrare qualcosa che non ho ancora fatto vedere a nessuno, tanto meno a un uomo; sono le mie poesie brevi, alcune in realtà sono un po' lunghe, ma le ho intitolate RIME BACIATE DI UNA DAMA DI CULTURA. Mi piacciono tanto le espressioni all'antica!".

"Bisogna conservare anche quelle" commentò il maestro di scuola, "bisogna eliminare il tedesco dalla nostra lingua." "E' quello che faccio" spiegò la signora. "Lei non mi sentirà mai dire "Kleiner" o "Butterteig", io dico sempre 'frittelle' e 'pasta sfoglia'".

Intanto trasse da un cassetto un quaderno con una copertina verde chiara con due macchie d'inchiostro.

"C'è una grande serietà in questo libro!" spiegò. "Io sono profondamente attratta da tutto quel che è patetico. Ecco qui SOSPIRO NELLA NOTTE, IL MIO CREPUSCOLO e QUANDO SPOSAI KLEMENSEN, mio marito.

Questa si può anche saltare, anche se ovviamente è molto sentita e ben pensata. I DOVERI DI UNA CASALINGA è il pezzo più bello; tutte sono assai patetiche, in ciò sono brava, solo un pezzo è divertente, pieno di pensieri allegri, bisogna avere anche quelli. Pensieri su... ora non rida di me! pensieri sul fatto di essere poetessa. Sono conosciuti soltanto da me, dal mio cassetto, e ora anche da lei, signor Kisserup.

Io amo la poesia, mi invade, mi sollecita, mi consiglia e mi governa.

Questa l'ho intitolata PICCOLO FOLLETTO. Lei conosce sicuramente la vecchia superstizione contadina dei folletti di casa, che fanno sempre qualche scherzo; io ho immaginato di essere la casa e che la poesia, le sensazioni che sono in me fossero il folletto, lo spirito che consiglia; in PICCOLO FOLLETTO ho cantato il suo potere e la sua grandezza, ma lei deve farmi la promessa di non rivelare queste cose né a mio marito né a nessun altro. Legga ad alta voce, così posso vedere se capisce la mia scrittura".

Il maestro di scuola lesse e la signora si mise ad ascoltare; anche il piccolo folletto ascoltò; origliava, lo sai bene, e arrivò proprio nel momento in cui fu letto il titolo: PICCOLO FOLLETTO.

"Parla di me!" esclamò. "Che può avere scritto di me? Mi metterò a beccarla, beccherò le sue uova, i suoi pulcini e farò dimagrire il vitello grasso; ma guarda un po', questa signora!".

E si mise in ascolto con le orecchie tese e il collo allungato; ma quando sentì dire della magnificenza e del potere del folletto, del dominio che aveva sulla signora (tu sai bene che la signora voleva dire l'arte del poetare, ma il folletto prese tutto alla lettera), cominciò a sorridere; gli occhi gli brillarono dalla gioia, la bocca assunse una piega piena di distinzione; si sollevò sui talloni e rimase in punta di piedi, crescendo di un intero pollice. Era incantato da tutto quello che veniva detto sul piccolo folletto.

"La signora ha spirito e grande cultura! Che ingiustizia le ho fatto!

Lei mi ha messo nelle sue RIME BACIATE che verranno pubblicate e lette. Ora il gatto non avrà più il permesso di leccare la panna della signora, lo farò io stesso. Uno mangia meno di due, dunque è sempre un bel risparmio; e io farò in questo modo oltre a onorare e rispettare la signora".

"E' proprio come un uomo questo folletto" disse il vecchio gatto.

"Basta un miagolìo dolce da parte della signora, un miagolìo su di lui, e subito cambia parere. E' proprio furba la signora!".

Ma lei non era furba, era il folletto che era umano.

Se non capisci questa storia chiedi, ma non chiedere né al folletto, né alla signora.

 

Hans Christian Andersen

 

La Bella Addormentata nel Bosco.

 

Un re e una regina erano finalmente riusciti ad avere una erede: era una bimba, a cui diedero il nome di Aurora.

Per il battesimo invitarono i sovrani e le fate delle terre confinanti, ma dimenticarono la Fata della Montagna, tanto vecchia che nessuno si ricordava più di lei. Le fate fecero doni preziosi ad Aurora: la bellezza, la grazia, la gentilezza, l'intelligenza, la simpatia, l'abilità in tutto.

Al turno della settima, che avrebbe dovuto pronunciarsi sull'amore, arrivò la Fata della Montagna.

"Non mi avete invitato, ma voglio anch'io fare un dono: sarà la più bella principessa fino all'età di sedici anni, ma si pungerà con un fuso e morirà".

Detto questo, la fata sparì in una nuvola nera.

La settima fata allora disse:

"Non posso annullare il suo incantesimo, ma posso fare in modo che dopo la puntura cada in un sonno di cento anni, da cui sarà svegliata dal bacio del vero amore".

Il re, padre di Aurora, fece distruggere tutti i fusi.

Passarono sedici anni: Aurora era nel castello di campagna ed iniziò ad esplorare le stanze. In una viveva una vecchina sorda che non aveva mai sentito del divieto di filare con l'arcolaio. Aurora fu stupita dal fuso, che non aveva mai visto, e volle provare ad usarlo: ma si ferì e cadde a terra come morta.

Giunse la settima fata, che fece cadere in un sonno profondo tutti gli abitanti del castello. Poi avvolse tutto il castello in una impenetrabile foresta di rovi.

Trascorsero cento anni: un giorno passò di lì il principe di un paese confinante.

Notò i rovi e il castello che spuntava e chiese a un eremita se sapeva qualcosa. L'eremita gli disse:

"Mio nonno mi disse che lì dormiva una principessa di rara bellezza: tanti principi hanno provato a raggiungerla ma non ci sono riusciti!".

Il principe volle tentare, e si addentrò nella foresta: i rovi si aprivano al suo passaggio.

Giunse nel castello ed iniziò ad esplorarlo: nella camera da letto trovò la principessa addormentata.

Era così bella che non poté fare a meno di baciarla.

Aurora si ridestò e ringraziò il suo salvatore.

I due giovani si sposarono e vissero felici e contenti.

 

Autore: non indicato nel testo originale

 

I FICHI DEL PARROCO 

 

Un parroco di campagna chiamato Arlotto era orgoglioso della pianta di fico che cresceva nel suo orto.

Un anno, alla fine dell'estate, fra le foglie adocchiò due grossi fichi che stavano per maturare. Quando gli sembrarono maturi chiamò il figlio del sagrestano e gli disse:

"A mezzogiorno mi coglierai qui due fichi e me li porterai sopra un piatto".

Quando fu l'ora, il ragazzino si arrampicò sull'albero, colse i fichi e li posò nel piatto. Appena se li vide davanti, non seppe resistere alla tentazione e mentre andava da Arlotto ne mangiò uno.

Il parroco lo rimproverò?:

"Dov'è l'altro fico?".

"L'ho mangiato", ammise il piccolo.

"Ah si? E come hai fatto?".

Il ragazzino era già intimorito e pensava che il parroco volesse sapere come lo aveva mangiato e così prese il secondo fico per il picciolo e senza sbucciarlo se lo mangiò in un boccone. Il parroco era sbalordito: prima montò su tutte le furie, poi sorrise alla furberia ingenua del ragazzino e lo perdonò.

 

Autore: non indicato nel testo originale

 

Il nonno e il nipotino

 

C'era una volta un uomo molto anziano che camminava a fatica; le ginocchia gli tremavano, ci vedeva poco e non aveva più neanche un dente. Quando sedeva a tavola, reggeva a malapena il cucchiaio e versava sempre il brodo sulla tovaglia; spesso gliene colava anche dall'angolo della bocca.

Il figlio e sua moglie provavano disgusto, perciò costringevano il vecchio nonno a sedersi nell'angolo dietro la stufa e gli davano poco da mangiare e in una brutta ciotola di terracotta. Il povero vecchio guardava sconsolato il loro tavolo, con gli occhi lucidi.

Un giorno le sue mani sempre tremanti non riuscirono a reggere la ciotola, che cadde a terra e si ruppe. La donna lo rimproverò, ma il vecchio non disse nulla e sospirò. Allora per pochi soldi gli comprarono una ciotola di legno.

Un giorno, mentre sedevano in cucina, il nipotino di quattro anni armeggiava per terra con dei pezzetti di legno.

"Che cosa stai facendo?" gli domandò il padre..

" Ecco…" rispose il bambino. "Sto costruendo un trogolo per farci mangiare mamma e papà quando sarò grande".

I genitori allora si guardarono in faccia e alla fine scoppiarono in lacrime. Fecero subito sedere il vecchio nonno al loro tavolo e da quel giorno lo lasciarono mangiare sempre assieme a loro.

E quando versava il brodo non dicevano più nulla.

Autore: non indicato nel testo originale

 

Il Gatto con gli stivali

 

C'era una volta un vecchio mugnaio con tre figli, un asino, un gatto soriano e nemmeno un becco d'un quattrino. Vecchiaia e fatiche avevano logorato il corpo e la mente del mugnaio, tanto è vero che, giunto alla fine dei suoi giorni, divise i suoi averi tra i figlioli:

- Al primo Arduino, lascio il mulino; al secondo, Alvaro, il somaro; e per te, Germano, non ho che il gatto.-

Arduino ed Alvaro erano felici:

- Io con il mio mulino e tu con il tuo somaro faremo società con servizio di consegna del macinato al domicilio dei clienti. Ci arricchiremo in pochi anni! -

Rimasto solo, Germano, diede un'occhiata al gatto e si grattò la testa:

- Io - gli disse - lo so che sei un buon gatto e ti voglio bene. Ma se davvero sei furbo come dicono, taglia subito la corda e lasciami solo con la mia miseria. Con quel che so fare io posso garantirti soltanto tre cose: freddo d'inverno, caldo d'estate e fame tutto l'anno. -

Il gatto che fino a quel momento non aveva mai detto una parola a nessuno, gli strizzò l'occhio e cominciò a parlare:

- Tu caro mio, devi solo fare due cose, procurarmi un paio di stivali ed affidarti al mio ingegno; altro che fame! Fra tre mesi saremo a Corte! -

Il giovanotto, tutt'altro che convinto, fece spallucce e gli diede una lisciatina sulla groppa:

- E bravo gatto! - esclamò - Allora sai anche parlare! -

- Il bisogno aguzza l'ingegno e scioglie la lingua anche ai gatti - rispose la bestiola.

Faceva abbastanza caldo e Germano, senza ribattere parola, portò il suo mantello di panno al monte di pietà e col ricavato comprò gli stivali al gatto e si sdraiò all'ombra, con le dita intrecciate dietro la nuca ad aspettare gli eventi.

Il gatto, grande cacciatore, si mise subito al lavoro e meno di un'ora dopo stringeva tra le grinfie un bel leprone. Senza perdere tempo, con il suo leprone in sacco, andò alla Reggia e si presentò al Re. Si prosternò ai piedi del trono e tirò fuori la lepre gridando:

- Ecco Maestà: mi invia il mio signore e padrone, il Marchese di Carabas, con questo piccolo omaggio destinato al reale salmì...-

Al Re che era un buon gustaio, non parve vero accettare il dono; ma chi era quel simpatico Marchese, mai sentito nominare? Boh! Anche sua figlia, la principessa Isabella era rimasta bene impressionata dalle parole del gatto.

Il quale intanto, era già fuori a procurare un po' di cena per sé e per il padrone. E la mattina dopo, all'ora giusta, eccolo di nuovo a Corte, stavolta con quattro favolosi fagiani dorati:

- Ti porto, o Sire, un modesto omaggio del mio signore e padrone, il Marchese di Carabas, per i reali arrosti. -

E il Re, a sfogliare il libro della Nobiltà nella vana ricerca di quello sconosciuto Marchese. E la bella Isabella, a sognare a occhi aperti un possibile matrimonio con un così generoso e sollecito suddito.

Insomma, per farla corta, tutte le mattine per più di un mese, si ripeté a Corte la medesima scena del gatto con gli stivali latore di gustosissimi messaggi da parte del Marchese di Carabas, suo signore e padrone.

Venne luglio, gran calura e grano maturo nei campi. Una mattina il gatto sapendo che il Re sarebbe uscito con la figlia per fare un giro rinfrescante sulla carrozza dorata, svegliò presto il padrone che dormiva sotto un pino e , tutto eccitato, gli gridò:

- Presto, presto, padroncino, spogliatevi dei vostri stracci e immergetevi nel l'aghetto tra poco passerà di qui la carrozza reale!

- Ma io non so nuotare!- ribatté Germano allibito.

- E via! - rispose il Gatto - Sapete bene che nel laghetto non c'è più di mezzo metro di acqua. Anzi dovete starvene seduto tenendo fuori solo la testa, perché nella vettura c'è anche la principessa Isabella.

Poi corse incontro alla carrozza Reale e cominciò a gemere, a sbracciarsi, a chiedere aiuto:

- Vi prego, Maestà, fate soccorrere il Marchese di Carabas, mio signore e padrone!... Alcuni malviventi lo hanno spogliato dei preziosi abiti e lo hanno buttato ad annegare nel lago.

Il Re figurarsi, mandò subito paggi, coppieri, maggiordomi, ciambellani, consiglieri e tutta la cianfrusaglia del suo seguito al soccorso del suddito più generoso e nobile del regno, mentre due corrieri a cavallo, partivano verso la Reggia per prendere dal guardaroba reale il più sontuoso abito che potessero trovare.

Isabella stava per svenire; ma quando le portarono dinanzi il pseudo Marchese tutto in ghingheri negli abiti reali, vedendolo così giovane, ben fatto e bello, se ne innamorò in un battibaleno e giurò a se stessa che ne avrebbe fatto il suo sposo. Il giovane salvato dalle acque, ringraziò Sua Maestà, rese omaggio alla regale figlia e prese posto nella carrozza dorata che proseguì il viaggio.

Ma il gatto con gli stivali già la precedeva da parecchio. E lungo la strada ogni volta che incontrava dei contadini al lavoro nei campi, gridava loro, con voce insinuante:

- Ehi buona gente, tra poco passerà la carrozza del Re; se vi domanderanno di chi è questa terra rispondete che è del Marchese di Carabas ... Non avrete da pentirvene...

E infatti, arrivata la carrozza, il Re si affacciava a chiedere:

- Ma di chi è questa bella terra! - e i contadini, con un inchino:

- E' del Marchese di Carabas, Sire.

E il gatto avanti. Finalmente la bestiola arrivò al castello dell'Orco Ezechiele che era anche il padrone delle terre intorno, e chiese d'essere ricevuto. Eccolo dunque dinanzi all'Orco. Gran riverenza, destinato a solleticare la vanità del mostro. Infine l'ingenua domanda:

- Ma è proprio vero Signor Orco, che lei è capace di trasformarsi in qualsiasi animale vivente?... C'è chi dice di si e chi dice di no.

L'Orco sbottò in una gran risata:

- Vorrei proprio vedere chi dice di no! Guarda! - e dinanzi al misero gatto, mezzo morto di paura, ecco ergersi al posto dell'Orco un enorme leone.

- Ba... Ba... basta! - gemé il Gatto - Son più che convinto e vedo benissimo che un orco grosso come lei può trasformarsi in un leone altrettanto grosso. Ma non avrebbe, nel suo catalogo di trasformazioni, qualcosa su scala ridotta? Sarebbe, per esempio, capace di diventare un piccolo topo di campagna?..

Altra sonora risata dell'Orcaccio ed ecco sulla gran poltrona saltellare un topino. Il gatto che non aspettava altro, gli fu addosso in un lampo e ... se lo divorò in due bocconi. Poi la nostra furbissima bestiola si volse a tutta la servitù con occhi dolci:

- Tra poco - gridò - giungerà al castello la vettura dorata con il Re e il vostro nuovo padrone. Voglio che sian ricevuti con tutti gli onori e con un gran pranzo di gala.

Insomma: quello stesso giorno furono anche decise le nozze tra Germano e Isabella.

E il gatto? Oh, per se non volle quasi niente! Si tolse per sempre gli scomodi stivaloni, non rivolse mai più la parola a nessuno e tornò al suo mestiere di gatto di buona famiglia.

Autore del testo : non indicato nel testo di origine

 

Cappuccetto Rosso

 

C'era una volta in un villaggio una bambina, la più carina che si potesse mai vedere. La sua mamma n'era matta, e la sua nonna anche di pìù.

Quella buona donna di sua madre le aveva fatto fare un cappuccetto rosso, il quale le tornava così bene a viso, che la chiamavano dappertutto Cappuccetto Rosso.

Un giorno sua madre, avendo cavate di forno alcune stiacciate, le disse:

"Va' un po' a vedere come sta la tua nonna, perché mi hanno detto che era un po' incomodata: e intanto portale questa stiacciata e questo vasetto di burro".

Cappuccetto Rosso, senza farselo dire due volte, partì per andare dalla sua nonna, la quale stava in un altro villaggio. E passando per un bosco s'imbatté in quella buona lana del Lupo, il quale avrebbe avuto una gran voglia di mangiarsela; ma poi non ebbe il coraggio di farlo, a motivo di certi taglialegna che erano lì nella foresta.

Egli le domandò dove andava.

La povera bambina, che non sapeva quanto sia pericoloso fermarsi per dar retta al Lupo, gli disse:

"Vo a vedere la mia nonna e a portarle una stiacciata, con questo vasetto di burro, che le manda la mamma mia".

"Sta molto lontana di qui?", disse il Lupo.

"Oh, altro!", disse Cappuccetto Rosso. "La sta laggiù, passato quel mulino, che si vede di qui, nella prima casa, al principio del villaggio."

"Benissimo", disse il Lupo, "voglio venire a vederla anch'io. Io piglierò da questa parte, e tu da quell'altra, e faremo a chi arriva più presto."

Il Lupo si messe a correre per la sua strada, che era una scorciatoia, con quanta forza avea nelle gambe: e la bambina se ne andò per la sua strada, che era la più lunga, baloccandosi a cogliere le nocciuole, a dar dietro alle farfalle, e a fare dei mazzetti con tutti i fiorellini, che incontrava lungo la via.

Il Lupo in due salti arrivò a casa della nonna e bussò.

"Toc, toc."

"Chi è?"

"Sono la vostra bambina, son Cappuccetto Rosso", disse il Lupo, contraffacendone la voce, "e vengo a portarvi una stiacciata e un vasetto di burro, che vi manda la mamma mia."

La buona nonna, che era a letto perché non si sentiva troppo bene, gli gridò:

"Tira la stanghetta, e la porta si aprirà".

Il Lupo tirò la stanghetta, e la porta si aprì. Appena dentro, si gettò sulla buona donna e la divorò in men che non si dice, perché erano tre giorni che non s'era sdigiunato. Quindi rinchiuse la porta e andò a mettersi nel letto della nonna, aspettando che arrivasse Cappuccetto Rosso, che, di lì a poco, venne a picchiare alla porta.

"Toc, toc."

"Chi è?"

Cappuccetto Rosso, che sentì il vocione grosso del Lupo, ebbe dapprincipio un po' di paura; ma credendo che la sua nonna fosse infreddata rispose:

"Sono la vostra bambina, son Cappuccetto Rosso, che vengo a portarvi una stiacciata e un vasetto di burro, che vi manda la mamma mia".

Il Lupo gridò di dentro, assottigliando un po' la voce:

"Tira la stanghetta e la porta si aprirà."

Cappuccetto Rosso tirò la stanghetta e la porta si aprì.

Il Lupo, vistala entrare, le disse, nascondendosi sotto le coperte:

"Posa la stiacciata e il vasetto di burro sulla madia e vieni a letto con me".

Cappuccetto Rosso si spogliò ed entrò nel letto, dove ebbe una gran sorpresa nel vedere com'era fatta la sua nonna, quando era tutta spogliata. E cominciò a dire:

"O nonna mia, che braccia grandi che avete!".

"Gli è per abbracciarti meglio, bambina mia."

"O nonna mia, che gambe grandi che avete!"

"Gli è per correr meglio, bambina mia."

"O nonna mia, che orecchie grandi che avete!"

"Gli è per sentirci meglio, bambina mia."

"O nonna mia, che occhioni grandi che avete!"

"Gli è per vederci meglio, bambina mia."

"O nonna mia, che denti grandi che avete!"

"Gli è per mangiarti meglio."

E nel dir così, quel malanno di Lupo si gettò sul povero Cappuccetto Rosso, e ne fece un boccone.

La storia di Cappuccetto Rosso fa vedere ai giovinetti e alle giovinette, e segnatamente alle giovinette, che non bisogna mai fermarsi a discorrere per la strada con gente che non si conosce: perché dei lupi ce n'è dappertutto e di diverse specie, e i più pericolosi sono appunto quelli che hanno faccia di persone garbate e piene di complimenti e di belle maniere.

 

Carlo Collodi

COME VENNE LA PIOGGIA (Racconto Bantu')

 

Quando il mondo fu creato, la pioggia non esisteva.

Gli animali erano preoccupati e si riunirono a gruppi per invocare la pioggia lanciando le loro voci verso il cielo.

Prima provarono gli elefanti, coi loro barriti, poi gli ippopotami e poi i leoni, ma la pioggia non arrivava.

Poi toccò alle giraffe, e agli animali più piccoli: i fenicotteri, i conigli e i topi. Ancora niente.

Per ultime toccava alle rane. Tutti gli animali le implorarono di gridare verso il cielo il loro bisogno di acqua. Le rane non aspettavano altro per mettersi a gracidare e così presero a cantare tutte insieme e il loro grido era talmente assordante e sgradevole che il cielo si stancò di sentirlo e si coprì di nubi per attutire quel suono.

Ma fu inutile: il gracidio penetrava attraverso la cortina di nubi e così il cielo pensò di affogare le rane per farle smettere una volta per tutte.

Mandò giù tanta di quella pioggia che le rane finalmente tacquero contente.

E da allora si credono padrone dell'acqua, perché furono loro a far piovere, e vivono in ogni stagno nella melma, e continuano a gracidare per chiedere la pioggia.

 

LA STORIA DI UNA GOCCIA D'ACQUA 

 

Di certo non conosci la storia della goccia d'acqua, che trema sulla corolla del fiore. La gocciolina, che brilla al sole come se fosse d'argento, viveva un giorno in un torrentello limpido e chiacchierino. Dopo aver corso a lungo fra due rive fiorite di margherite, un bel giorno la gocciolina precipito' in un grande fiume e comincio' a correre forte e a vedere tante cose belle. Un giorno arrivo' al mare e lo vide bello, pareva un altro cielo, quando era sereno, e invece quando si infuriava diventava una distesa di schiuma bianca. Poi venne un gran caldo e pareva che il sole volesse bersi il mare. La nostra gocciolina si senti' sollevare su verso il cielo: era diventata una specie di fumo leggero e invisibile. E in cielo si trasformo' in una nuvoletta bianca. Aveva molte amiche e con loro giocava volentieri a rincorrersi, fino a quando venne un ventaccio violento e freddo. E tutte le nuvolette si unirono formando un unico pesante nuvolone nero, che fini' per disciogliersi e cadere sulla terra sotto forma di pioggia. La nostra gocciolina ora si dondola di nuovo sulla corolla del fiore.

 

Autore non indicato nel testo di origine

 

La regina delle api 

 

C'era una volta una coppia che desiderava ardentemente un figlio ma non riusciva ad averne.

Un giorno il marito andò in un campo a tagliare del bambù. All'improvviso udì una vocina che lo implorava di non fargli del male.

- Dove sei?- chiese l'uomo.

- In questa canna! -  rispose la vocina.

L'uomo aprì la canna di bambù e trovò un bambino piccolissimo, con il volto da ranocchio. Lo portò a casa e con la moglie si affezionarono subito al bambino, anche se non era molto bello. Lo chiamarono Bambù.

Passarono gli anni e Bambù crebbe. Diventò un bravissimo ragazzo che aiutava il padre nel lavoro.

Un giorno, il giorno del suo diciottesimo compleanno, i genitori gli diedero un abito e una spada e lo mandarono al mercato a vendere il riso e a comprare delle stoffe.

Bambù attraversò la foresta ed ad un tratto si accorse di essere seguito. Gli si parò di fronte un leone affamato. Bambù gli disse:

- Non ho niente da darti, oggi. Ripassa domani.

Ma il leone gli rispose:

- Ma io so già cosa mangiare: tu!

Allora Bambù gli disse:

- Vattene via, altrimenti ti infilzerò con la mia spada!

Il leone, intimorito, scappò via.

Bambù era quasi uscito dalla foresta, quando incontrò un'ape che gli chiese di salvare la sua regina. La regina era una bellissima ragazza, piccolissima, con due ali argentate, che era rimasta impigliata in una ragnatela. Bambù la salvò, ed allora la regina gli regalò tre semi di melone. Questi semi ti aiuteranno a realizzare quello che vuoi. Basterà che tu lo desideri!

Bambù andò al mercato e concluse i suoi affari. Poi tornò verso casa ed attraversando la foresta rincontrò il leone, ancora più feroce ed affamato. Bambù desiderò di ucciderlo con la spada di suo padre, ed ecco che di colpo riuscì a farlo.

Un seme di melone era svanito nel frattempo dalla sua tasca.

Bambù scoprì che i semi erano prodigiosi. Ascoltò il suo cuore e desiderò di essere un bel giovane e di rivedere la regina delle api.

I due semi sparirono e Bambù diventò un bellissimo ragazzo: di fronte a lui giunse la regina delle api, che ingrandì fino a diventare una vera ragazza.

I due tornarono a casa, si sposarono e vissero felici e contenti.


La torta di compleanno

 

C'era una volta un bambino di nome Valentino. Il suo visetto dolce e la sua espressione serena lo rendevano molto simpatico a tutti e quindi anche gli altri bambini che si trovavano a giocare con lui lo coinvolgevano volentieri nei loro giochi e si divertivano insieme a lui senza problemi.

Valentino era molto attento a tutto quello che vedeva intorno a sé e anche se era ancora molto piccolo - aveva quasi tre anni - tutto quello che lo circondava era motivo di distrazione e di curiosità.

La mamma quindi che aveva capito il suo carattere cercava di coinvolgerlo spesso in qualche attività e così mentre faceva i lavori di casa gli dava in mano a volte una scopa, a volte uno straccio, a volte una pentola per farlo partecipare a piccoli lavoretti come se si trattasse di nuovi giochi.

Valentino era, come abbiamo detto, assai curioso, inoltre il fatto di imitare quello che faceva la mamma lo faceva sentire molto importante. Per questo si divertiva a fare le stesse cose che vedeva fare alla sua mamma e in questo modo, quando non era con gli altri bambini, passava il suo tempo senza fare capricci e senza annoiarsi.

Un giorno la mamma decise di fargli una torta perché l'indomani Valentino avrebbe appunto compiuto tre anni. Così cominciò a preparare tutti gli ingredienti necessari e chiamò Valentino per farsi aiutare in questo nuovo bellissimo gioco.

La mamma di Valentino era una donna molto tenera e dolce, certamente però il mestiere di mamma era pesante e a volte la sera lei era molto stanca e affaticata, qualche volta il troppo lavoro o le mille incombenze la facevano diventare silenziosa e sfiduciata. Allora il papà, che capiva bene questi suoi sacrifici, per incoraggiarla le regalava un piccola rosellina prendendola da un ramoscello del loro giardino. Così, quando la mamma doveva restare sveglia la sera fino a tardi per riordinare la casa mentre Valentino dormiva beato o quando, preoccupata per una febbre improvvisa di Valentino, si sentiva malinconica e ansiosa, il marito usciva in giardino e le prendeva una rosellina e lei la metteva in una scatolina dipinta che poi riponeva su una mensola vicino al salotto.

Quel giorno Valentino e la mamma erano molto allegri e la torta avrebbe finito per farli sentire ancora più felici insieme. Così mentre la mamma preparava le uova e la farina Valentino era autorizzato a versare le mandorle e a mescolare con un cucchiao di legno il tutto per incominciare a impastare la torta. Che occhi brillanti aveva Valentino, questi piccoli compiti lo rendevano eccitato e gaio, la mamma gli parlava dolcemente e lo invitava ad aiutarla e così piano piano la torta era quasi finita.

Suonarono alla porta di casa e la mamma dovette allontanarsi per un momento.

Valentino allora pensò di fare una cosa nuova, prese la scatolina delle rose, la aprì e con le sue piccole manine mise qualche rosellina sulla torta.

Quando la mamma tornò non potè fare a meno di sorridere, non si aspettava certo che Valentino usasse i suoi preziosi regali per la sua torta ma non lo rimproverò e lasciò che la torta restasse così. Era tardi e domani certamente i nonni e gli zii avrebbero capito che quello era un dolce fatto in casa.

L'indomani infatti arrivarono tutti i parenti con i loro regali per Valentino, portarono mille pacchettini colorati e Valentino si divertiva molto ad aprirli. Batteva le manine contento e in cambio mille bacetti schioccavano sulle sue guance paffute.

Poi arrivò in tavola la torta. La mamma iniziò a tagliarla e a distribuirla nei piatti ma, ad ogni fetta tagliata, subito la torta tornava intera come prima .

Tutti erano meravigliati di questo fatto e così pensarono di portare la torta da un vecchio saggio che viveva in solitudine in una casetta di legno in riva al fiume per farsi dare una spiegazione sul mistero della torta che si ricomponeva ogni volta anche se si tagliava una fetta.

Il vecchio saggio si mise un istante a pensare, si passò una mano sugli occhi e sulla fronte, poi prese Valentino per mano e gli disse: "I cuori delle mamme sono sempre i più grandi, la loro pazienza con i bambini, il loro spirito di sacrificio per fare in modo che i bambini crescano nel modo migliore è immenso. Tu hai messo le roselline sulla torta e ogni rosellina è un momento di amore della mamma dedicato a te. Questi momenti sono tantissimi, non finiscono mai e si ripetono sempre, per questo la torta non finirà mai e anche se taglierai una fetta la torta tornerà come prima.

Valentino non riuscì a capire tutto il significato di questa storia ma ad ogni compleanno il prodigio si ripeteva e così più tardi Valentino capì tutto e nei suoi occhi e nel suo cuore entrò il primo messaggio di vita.


Giorgino

 

C'era una volta una bambina che si chiamava Sabrina.

Aveva un papa' che si chiamava Fulvio e una mamma che si chiamava Maria ed erano veterinari.

I veterinari sono i dottori degli animali.

Avevano anche un cane, razza cocker, taglia minima, grande come un canarino.

Era marrone e si chiamava Giorgino.

Giorgino era un bravo cane ma sapeva solo il bauese, cioe' la lingua dei cani.

Un giorno Giorgino corse a casa e si vedeva che era spaventato.

"Bauuuuuuuu"

Il papa' Fulvio che sapeva il bauese capi' quello che Giorgino diceva ed era questo:

"Allarme, allarme, le galline non vogliono piu' fare le uova perche' sono stanche di sentirsi dire che non sono animali intelligenti. Vogliono diventare laureate, cioe' andare all'universita'."

Voleva dire che non ci sarebbero state piu' torte, ne' dolci ne' salate, che non si potevano fare frittate ne' uova strapazzate…. non ci sarebbe stata piu' nemmeno la maionese, ne' il gelato alla crema o il tiramisu.

Allora il papa' Fulvio organizzo' una scuola speciale per le galline che si laurearono tutte e ricominciarono a fare le uova.

Ma non era finita. Giorgino arrivo' di corsa anche il giorno dopo e

"Bauuuuuu".

"Cosa c'e' di nuovo?" disse il papa' veterinario.

E giorgino spiego' (in bauese) che le mucche non volevano fare piu' latte. erano stanche di sentire persone arrabbiate che dicevano : porca vacca. Era una grave mancanza di rispetto e per protesta avevano deciso di non produrre piu' latte.

La faccenda era grave perche' avevano ragione. Allora il papa' Fulvio decise di attaccare manifesti sui muri della citta' per spiegare alla gente che bisognava rispettare le mucche, non come in India ma comunque abbastanza, perche' riprendessero a fare il latte. Senza latte non c'erano piu' formaggi ne' yogurt, ne' gelati o burro.

Le mucche finirorno la protesta e torno' il latte e il papa' di Sabrina divento' sindaco del suo paese.

 

 

Fonte:

http://www.maella.it/Download/Bimbi%20-%20%20Il%20Grande%20Libro%20Delle%20Fiabe.doc

Autori dei testi: indicati nei testi, dove non indicato non erano indicati nel documento di origine

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