Hume David
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Hume David
Hume
David Hume nacque in Scozia, a Edimburgo, nel 1711; si dedicò fin da giovane a studi filosofici e a ricerche erudite e quando nell 740 pubblicò il suo Trattato sulla natura umana, rimase profondamente scosso per l'indifferenza con cui venne accolto quello che noi consideriamo il suo capolavoro. Pochi anni dopo per far conoscere il suo pensiero, pubblicò le Ricerche sull'intelletto umano (1748), che costituiscono una sorta di divulgazione del Trattato, e nel 1752 diede alle stampe le Ricerche sui principi della morale. Ma un vero successo Hume lo aveva già ottenuto con i Saggi morali e politici del 1742, per la ricchezza dei motivi trattati e per l'agevole eleganza della sua prosa che caratterizza anche gli scritti sul problema della religione come i Dialoghi sulla religione naturale (1749-1751) e soprattutto la Storia naturale della religione del 1757. Hume scrisse anche una importante Storia dell'Inghilterra pubblicata nel 1763. Fu un conoscitore del mondo e degli uomini, come testimoniano le sue lettere e le pagine scritte anche durante i suoi viaggi per l'Europa, dove entrò in contatto con i maggiori ingegni del tempo; tra l'altro strinse rapporti di amicizia anche con Rousseau, che per un certo periodo fu suo ospite in Inghilterra. Hume morì nel 1776 nella sua città natale.
Nel quadro della cultura filosofica del Settecento acquista particolare risalto l'opera di David Hume* (1711-1766). Il filosofo esordì giovanissimo con un Trattato sulla natura umana in cui, riprendendo la tradizione empiristico-gnoseologica della filosofia inglese, riproponeva in modo originale il problema della conoscenza. Questo pensatore ha affrontato, alla luce dei risultati della sua teoria gnoseologica, tutti i temi tipici della cultura illuminista: problemi economici, civili, morali e sociologici.
Hume ha una formazione «classica» ma la sua cultura è storica, politica ed economica come è caratteristico di un intellettuale illuminista. Nelle sue opere si dimostra straordinariamente sensibile a tutti gli aspetti della riflessione filosofica. Proprio le sue riserve sulla possibilità umana di concretare forme di sapere assoluto, gli consentono di esaminare e di approfondire aspetti plurali dell'esperienza. E quindi il vasto campo dell'agire dèll'uomo, dei suoi comportamenti, delle sue credenze, dei suoi obbiettivi che diviene l'oggetto di una riflessione filosofica che, a sua volta, è strumento di azione e di comportamento intelligente in vista del meglio; un pensatore il cui scetticismo filosofico lo conduce a trovare i problemi concreti e vitali dell'uomo, secondo quelle prospettive che la cultura del secolo andava maturando.
Hume nel suo Trattato del 1740 e in seguito nelle Ricerche sull'intelletto umano del 1748 elabora una prospettiva gnoseologica che destituisce di significato cognitivo la proposizione della metafisica: il sapere viene dalla esperienza e procede per generalizzazioni che derivano da una proiezione probabili stica. Nei Saggi morali epolitici del 1742 e nella Storia naturale della religione del '55 e in altri numerosi saggi di vario contenuto, il filosofo scozzese svolge un pensiero in gran parte giocato su «ragionamenti morali», come li definisce lui stesso, fondati sull'esperienza e riguardanti il comportamento e la natura dell'uomo. Per Hume la filosofia, in ultima analisi, deve riprendere i comuni ragionamenti umani che esprimono valutazioni e giudizi morali, per riproporli secondo criteri più puntuali e rigorosi.
La struttura della conoscenza
Hume vive nel pieno del secolo dei «lumi» che esalta la ragione pragmatica, capace di intendere e dominare tutto ciò che è nell'esperienza dell'uomo; da questo atteggiamento culturale derivava una grande fiducia nelle scienze in generale e non soltanto in quelle fisico-matematiche ma anche in quelle che intendevano esplorare l'esperienza dell'uomo nella sua vita di relazione, nelle sue credenze, nelle sue leggi e nelle i5ti-tuzioni civili, politiche ed economiche.
Il filosofo di Edimburgo, inoltre, ereditava una tradizione culturale e filosofica che aveva trovato il suo momento più maturo nell'empirismo psicologico di Locke il quale aveva voluto stabilire il principio di un metodo di ricerca capace di ricostruire la genesi dei contenuti mentali. Per questa via {ocke aveva messo in crisi il tradizionale concetto di sostanza materiale e allo stesso modo Berkeley, nonostante i suoi preminenti interessi teologici, aveva rimesso in discussione il concetto di spazio. Hume, fedele a questa lezione, nella sua indagine sulle strutture dèllà conoscenza umana, giungerà a vanificare i còncetti di sostanza spirituale, di tempo e di causa-effetto.
Compito della logica, secondo Hume, è quello di comprendere la natura dei nostri contenuti mentali e di chiarire le modalità con cui opera il pensiero umano. Anche per Liume l'esperienza è costituita da «tutto ciò che può essere presente alla nostra mente, sia che usiamo dei sensi, o che siamo animati da passioni, o che esercitiamo il pensiero e la riflessione».
Tutto ciò che costituisce un contenuto mentale o anche emotivo come una qualsiasi passione e le nostre stesse procedure mentali che usiamo quando ragioniamo, costituiscono quindi l'esperienza. Questi contenuti mentali vengono distinti da Hume in due categorie: le impressioni e le idee Le impressioni sono i dati originari dell'esperienza, dotati di particolare forza e vivacità come la presenza di un oggetto, di un paesaggio o di una emozione che ci invade. Le idee, invece, non sono altro che il ricordo delle impressioni che la memoria conserva e come tali, quindi esse costituiscono un contenuto mentale meno vigoroso e forte di quanto non siano le impressioni. L'impressione, cioè, è un fatto attuale che mi colpisce con una data intensità, mentre l'idea o ricordo di quella impressione è qualcosa di più freddo e distaccato su cui noi ragioniamo e calcoliamo. Una cosa, dice Hume è vivere un'intensa passione amorosa e un'altra ricordarla e parlarne dopo molto tempo.
Le nostre idee, quindi, hanno una loro legittimità solo quando sono riconducibili ad una precedente impressione che le hanno prodotte. Si tratta quindi di un empirismo radicale che considera il pensiero come un sistema di organizzazione delle esperienze, privo di qualsiasi struttura propria, dato che tutti i suoi contenuti derivano dalle impressioni sensibili, sull'origine delle quali noi non possiamo affermare nulla a meno che non azzardiamo ipotesi metafisiche rinunciando così ad un discorso filosoficamente corretto del tutto fondato sull'esperienza.
La conoscenza vera e propria, però, si concreta in operazioni mentali più o meno complesse le quali esigono che il ricordo delle impressioni, cioè le idee, vengano accostate o separate secondo un certo ordine. Mentre la memoria puramente passiva conserva le impressioni come idee, l'immaginazione è il momento con cui il pensiero stabilisce legami e relazioni tra le idee, dando così luogo ai ragionamenti e al sapere vero e proprio. Si tratta della teoria dell'associazionismo di Hume, in base al quale pensiero-immaginazioné pér una ragìòne naturale, istintiva e inesplicabile, stabilisce rapporti e relazioni tra le idee con una certa costante regolarità: una attività del pensiero che funziona in modo autonomo e quasi istintivo.
Questa attività del pensiero si svolge secondo un meccanismo associazionistico basato sulla somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la causalità; grazie a questo meccanismo associazionistico noi siamo portati ad accostare un'idea ad un'altra che le assomiglia, oppure a un'altra che le è vicina in senso spaziale o temporale e, cosa più importante, ad un'altra che consideriamo causa od effetto.
Il pensiero umano, quindi, tende a costruire tutto un sistema di relazioni con cui il pensiero coordina tra loro le idee e i dati di fatto, cioè le impressioni immediate e attuali.
Il sapere geometrico-matematico e la conoscenza sensibile
Il sapere umano risulta fondato sui contenuti della nostra coscienza, le impressioni e le idee. Le scienze geometrico-matematiche hanno certamente validità, ma solo quella che deriva loro dal fatto che ragionamenti e dimostrazioni mirano unicamente a stabilire determinate relazioni tra idee. Le idee della geometria non hanno corrispettivo alcuno nella realtà sensibile dove mai nessuno ha sperimentato sfere o triangoli perfetti. I ragionamenti geometrici sono dunque scienza di relazioni tra idee che non hanno corrispettivo nella realtà sperimentale.
La matematica, comprendente l'algebra e l'aritmetica, opera anch'essa su astrazioni mentali con rigorosa coordinazione, astrazioni che non hanno corrispondenti nel mondo dell'esperienza sensibile e anch'essa, come la geometria, si sviluppa rigorosamente solo in base al principio di non-contraddizione per cui, poste certe premesse, si deve giungere a determinate conseguenze. Pertanto, secondo Fiume, le scienze geometrico-matematiche possiedono un assoluto rigore ma i~loro oggetti, figure e numeri, sono astratte rappresentazioni mentali cui nulla corrisponde nella realtà.
L'area più vasta laddove si costruisce il sapere, riguarda il mondo sensibile e le scienze speritrientali che hanno a che fare con i fàtti, cioè con le impressioni, che ci offrono l'immagine di un mondo di cose e di eventi: secondo Hume, è proprio il pensiero umano che per sua natura tende a dare un ordine, come sospinto da una «dolce violenza» che gli è intrinseca.
Questo istintivo accostamento tra i dati della nostra esperienza si verifica secondo la somiglianza, la contiguità e soprattutto in base alla causalità che ci induce a stabilire un certo nesso tra un fatto e un altro. La diversità tra questo tipo di esperienza e quella geometflco-matematica sta nel fatto che mentre la seconda impone rigidamente risultati determinati che non possono essere che quelli che sono, l'esperienza sensibile non è così costrittiva; infatti posta una certa sequenza di fatti, per esempio la successione tra il lampo e il rombo del tuono, non è detto che il lampo debba necessariamente causare il fragore del tuono così come non è detto che il sorgere del sole, che pure ho sperimentato per tutta la vita, sia certo anche per il domani.
Per Hume l'esperienza di fatto fornitaci dalle impressioni è costituita da un susseguirsi di dati che, anche se sembrano presentare una certa regolarità, non ci danno mai il senso di una loro intrinseca necessità, come invece accade nelle deduzioni geometrico-matematiche, perché nell'esperienza sensibile, posto l'antecedente, la cosiddetta causa, non possiamo ricavare la logica necessità del conseguente, cioè dell'effetto: noi al massimo possiamo affermare che se anche fino ad oggi abbiamo sperimentato determinate sequenze di impressioni, da questo non possiamo affatto ricavare la necessità logica che anche per l'avvenire debba essere così (critica al principio di causa-effetto che la tradizione filosofica e il senso comune hanno sempre considerato una sorta di legame oggettivamente esistente tra due fenomeni).
È ben noto il celebre argomento di Fiume delle palle del biliardo: se un uomo, privo di qualsiasi esperienza, vede ripetutamente una palla che urta contro un'altra palla immobile che a sua volta si mette in moto, costui comincia a pensare, in conseguenza della «abitudine», che il moto della prima palla sia causa del moto della seconda e che il moto della seconda, successivo nel tempo, sia l'effetto. Di conseguenza costui comincerà a «credere» sospinto dalla «dolce forza» cui abbiamo accennato, all'esistenza di un legame oggettivo tra i due fatti, per cui, poste le medesime circostanze, la sequenza si ripeterà sempre, così come, posto un triangolo, se ne ricaveranno sempre le stesse implicazioni geometriche.
In realtà l'esperienza in questo caso ha proposto solo due fatti: il moto della prima palla e il moto della seconda e null'altro. Ora tenuto conto del radicale empirismo humiano che si appella solo a ciò che viene sperimentato, in questo come in tutti i casi similari, è soltanto il soggetto pensante che in seguito alla ripetizione della sequenza in base all'abitudine costruisce l'esistenza di un rapporto oggettivo tra i due fatti fornitigli dalla esperienza. L'uomo, in conseguenza del suo associazionismo psicologico non riducibile a termini razionali, tende a «credere» che in genere la sequenza verificatasi in passato debba ripetersi sicuramente anche per l'avvenire. Questo meccanismo associativo della causalità si verifica, in realtà, in conseguenza della contiguità o vicinanza nello spazio e nel tempo, per cui noi siamo indotti a interpretare un semplice post hoc, cioè una banale successione temporale, in un propter hoc, cioè come una connessione causale necessaria in base alla tendenza a credere che le successioni siano legate causalmente per una necessità oggettiva e permanente.
Da questo punto di vista critico, mentre per i ragionamenti geometrico-matematici, poste determinate premesse seguono conseguenze necessarie, per l'esperienza sensibile la conseguenza non segue necessariamente, ma è anticipata solo dalla nostra esperienza passata la quale peraltro mai ci ha fornito la «ragione» necessaria della conseguenza.
Questo rigoroso empirismo viene da Hume esteso anche all'esame di altri concetti-chiave dell'esperienza; lo spazio e il tempo, secondo questa interpretazione, sono soltanto modi di collegare cose e fatti. L'intuizione del tempo, ad esempio, non ci può venire per se stessa, ma è il frutto di una nostra interpretazione di una successione di sensazioni. Se io sento cinque note di flauto, chiarisce Hume stesso, io ricavo il senso di una successione temporale, ma tuttavia devo riconoscere che l'esperienza mi ha dato solo cinque note di flauto, mentre la prospettiva temporale l'ho costruita io soltanto. Allo stesso modo Hume procede riguardo i concetti di sostanza materiale e di sostanza spirituale; per la prima egli accetta il punto di vista lockiano e anche per lui la sostanza materiale è in definitiva una permanenza nel tempo di una impressione, è una nostr inferenza e non la diretta esperienza di un «qualcosa». Per la sostanza spirituale vale lo stesso ragionamento: il mio «io» è l'insieme delle impressioni e delle idee che avverto, ma se tolgo tali impressioni e idee, non rimane più assolutamente nulla di quel supposto sostrato spirituale che comunemente è definito come «anima», «coscienza» e simili.
Questo empirismo radicale di Hume che sviluppa fino in fondo le prospettive di Locke, toglie definitivamente di mezzo la tradizione metafisica e spiritualistica che aveva ancora caratterizzato il pensiero secentesco; nello stesso tempo però il filosofo scozzese mostra che la scienza newtoniana, che pure si appella all'esperienza, usa ancora impropriamente alcuni concetti necessari alla scienza come quelli di spazio e tempo assoluto, attribuendo ad essi una consistenza oggettivo-metafisica, che di fatto in una prospettiva radicalmente empiristica essi non hanno, visto che sono frutto dell'«abitudine» e della tendenza a «credere» insita nell'uomo.
Le passioni e la morale
Per Hume ogni azione umana nasce e si sviluppa secondo la forza delle passioni e dei sentimenti che agitano l'animo di ogni individuo, colto o ignorante, civile o primitivo che sia. Questo tema lo svolge in piena coerenza con i suoi presupposti empiristici. Nella sua Ricerca intorno ai principi della morale del 1752 egli si chiede se la moralità sia frutto dell'attività razionale o non piuttosto della dinamica dei sentimenti. Rifacendosi in questo a Locke, Hume si pronuncia per la seconda soluzione, respingendo ogni impostazione del problema di carattere razionalistico e platonico, anche se riconosce che la ragione può sempre intervenire per operare distinzioni ed elaborare giudizi. L'azione dell'uomo è fondata sul senso morale o sul sentimento che ci induce ad amare o rifiutare un nostro simile, un determinato evento, una qualsiasi situazione, un oggetto e simili; questa capacità di accettare o rifiutare qualcosa nasce sempre da una impressione che, per riflesso, genera una passione e le nostre scelte finiscono sempre con l'essere determinate da queste passioni che entrano in conflitto tra loro.
Il problema morale nasce quando noi dobbiamo concedere o negare il nostro consenso alle nostre passioni che ovviamente sono della più varia natura. Secondo Hume se è vero che tendiamo a dare il nostro consenso alle passioni che ci danno piacere, è anche vero che non è sempre morale ciò che ci attrae. Il piacere che ci guida, per corrispondere alla moralità, deve essere un piacere disinteressato che Hume chiama simpatia, ovvero partecipazione affettiva, piacere disinteressato che ci coinvolge anche senza il nostro particolare interesse, come quando godiamo del trionfo della giustizia o comunque dell'affermazione di un principio socialmente utile.
Il sentimento della simpatia rende possibile una consonanza e una partecipazione che avvicina gli uomini tra loro e li rende partecipi delle stesse emozioni, così come le corde di un'arpa che, più o meno, vibrano tutte quante all'unisono con quella toccata dal suonatore; questo sentimento inoltre si dimostra socialmente utile e pertanto, come la giustizia, finisce col costituire un fattore di grande valore sociale.
Come già per Spinoza, le nostre scelte sono dettate dal prevalere di una passione sulle altre e la ragione, esclusa da questo gioco, può soltanto valutare dall'esterno i risultati di questo contrasto.
Per Hume, quindi, i valori etici non sono mai ricavabili da unità di misura trascendenti e assoluti. In contrasto quindi con Hobbes e con il francese Helvétius, Hume finisce col sostenere che non è l'istinto egoistico della conservazione à guidare le nostre azioni, ma piuttosto il criterio della simpatia-benevolenza largamente approvato dall'umanità per la sua alta utilità sociale.
L'etica di Hume è tutta pervasa da un profondo sentimento filantropico e da quel vivace senso della concreta realtà, tipico del tempo, che emerge anche dalle argomentazioni di tipo politico-sociale; Hume, in proposito, rifiuta tanto l'ipotesi poetica di uno stato di natura primordiale, quanto le varie ipotesi sociali di ispirazione egualitaria che si rifacevano appunto all'idea di uno stato originario di natura. Di conseguenza, per quanto Hume si dimostri critico spregiudicato in fatto di religione, altrettanto si dimostra cauto conservatore in materia politica, dove mantiene il suo criterio di fondo che è quello della «realtà di fatto» che tien conto della presenza di una borghesia in espansione, con i suoi meriti e i suoi difetti, per cui realisticamente le leggi, le istituzioni, la giustizia, anziché derivare da schemi astratti, sono l'espressione storica e reale di un ordinamento sociale dato.
La religione come storia naturale
Hume che non aveva alcun gusto per lo scandalo intellettuale e sociale venne tuttavia a trovarsi al centro del dibattito che allora si svolgeva in Inghilterra nei confronti del problema religioso. Il suo radicale empirismo portava infatti a conclusioni antimetafisiche che gli avevano suscitato contro numerosi attacchi dei deisti. Hume fu indotto a precisare il suo pensiero in materia religiosa nei Dialoghi sulla religione naturale scritti tra il 1749 e il 1751 ma pubblicati postumi nel 1779, e nella Storia naturale della religione del 1757. Nella introduzione alla Storia naturale della religione Hume chiarisce con la sua abituale semplicità i suoi intenti di studioso in questi termini: «...due questioni richiedono in modo particolare la nostra attenzione: l'una riguarda i fondamenti razionali della religione, l'altra si riferisce alle origini della religione nella natura umana».
Nei Dialoghi egli si preoccupa, in primo luogo, di discutere i fondamenti razionali della religione proprio in polemica con la tradizione teologica e con gli ambienti deisti del tempo. Contro gli argomenti metafisici, Hume conduce una polemica tutta giocata nell'astratto del ragionamento, senza pretendere affatto di discutere o denegare i sentimenti e la pietà degli spiriti religiosi. Dal punto di vista teorico non si tratta di negare l'esistenza di Dio, ma si tratta di negare che i tradizionali argomenti della teologia filosofica, la dimostrino. Sul tradizionale argomento aprioristico che afferma perentoriamente l'esistenza di Dio in base al fatto che risalendo di causa in causa bisogna pur sempre giungere ad una causa prima (si tratta del tradizionale argomento cosmologico), Hume, conseguentemente con il suo criterio gnoseologico, sostiene che l'esistenza di qualcosa deve essere fondata su una impressione, e che Dio non è mai stato oggetto di esperienza sensibile per nessuno. Inoltre l'idea della non-esistenza di Dio non è contraddittoria con quella di esistenza, come potrebbe accadere tra due contrastanti affermazioni aritmetiche che perciò sarebbero contraddittorie.
La prova dell'esistenza di Dio basata sul concetto di causa non ha consistenza alcuna perché il legame causale nasce solo dall'esperienza e gli stessi spiriti religiosi, dice Hume, ne sentono la totale insufficienza.
Un'altra prova classica dell'esistenza di Dio viene desunta dall'ordine dell'universo che appare agli uomini come un tutto composto di parti ben connesse tra loro da una onnipotente Mente superiore. Secondo Hume questa visione finalistica è ricavata direttamente dall'esperienza dove noi vediamo che le costruzioni dell'uomo hanno ovviamente sempre un loro artefice; per analogia spontanea noi siamo quindi portati a pensare che anche l'universo deve avere un suo artefice che non può che essere Dio stesso. Hume riconosce che il pensiero comune può sbrigativamente essere portato a stabilire una analogia del genere, ma afferma anche che una «sana filosofia deve accuratamente guardarsi da una illusione così naturale», proprio perché nella nostra esperienza abbiamo spesso osservato che stabilire analogie tra fenomeni magari somiglianti porta a gravi errori. Questa prova, quindi, per Hume pecca di antropomorfismo, perché si spinge ben oltre i limiti del probabile, perché mentre nel casi dei manufatti umani e del loro rapporto con l'artefice noi abbiamo di retta esperienza, nel caso dell'universo apparentemente ordinato no non abbiamo esperienza alcuna di un possibile artefice.
Hume riconosce, senza inutile estremismo fanatico di religiosi o atei, che il senso della finalità intelligente dell'universo alimenta indubbiamente la tendenza alla religiosità, anche se afferma che a provocare questa esperienza contribuiscono in maniera più decisiva altre pulsioni. È nella Storia naturale della religione che Hume tenta di ricostruire le ragioni più profonde che spingono l'uomo a concepire la divinità e a vivere i sentimenti religiosi. Egli esamina il problema dell'origine delle religioni in chiave decisamente antropologica, nel senso che egli cerca di individuare il sorgere del fenomeno religioso nei bisogni elementari degli uomini. A suo avviso, infatti «i primi concetti della religione non sorsero della contemplazione delle opere della natura, ma da una preoccupazione degli eventi della vita, dalle speranze e dai timori che muovono incessantemente il pensiero umano». Il senso della religione, quindi, non è dovuto «alla curiosità filosofica o al puro amore della verità...». Quindi, presso i primi uomini, l'esperienza religiosa si è delineata attraverso «l'ansiosa preoccupazione per la felicità, il terrore della miseria futura, lo spavento della morte, la sete di vendetta, il desiderio del cibo e di altre cose necessarie. Sospinti da simili speranze e timori, e specialmente da questi ultimi, gli uomini indagano il corso delle cause future ed esaminano i vari e contrastanti eventi della vita umana. E in questo spettacolo disordinato, con lo sguardo ancora più disordinato e sbalordito essi scorgono le prime e oscure tracce della divinità».
L'uomo, quindi, originariamente sospinto dal timore sul suo avvenire, è portato ad attribuire a cause sconosciute tutto l'andamento della sua vita; da ciò le prime religioni politeistiche che vedevano in ogni fenomeno e in ogni angolo della natura un genio, una forza intelligente capace di proteggere o di colpire secondo la logica della psicologia umana, e in qualche modo sempre somigliante anche esteriormente all'uomo. E questi sentimenti, sostiene Hume, si rafforzano non nei momenti più felici, ma proprio di fronte ai disastri e alle difficoltà perché è allora che lo sgomento e il terrore pervadono l'animo umano.
Le prime religioni politeistiche secondo Fiume erano sostanzialmente rozze e volgari, perché le divinità adorate e invocate erano concepite secondo una rudimentale psicologia umana e pertanto erano afflitte da tutti i limiti degli uomini. Iracondi, invidiosi, vendicativi gli dèi del politeismo non offrono certo l'idea di una esperienza religiosa degna dell'uomo. Col tempo gli uomini giungono lentamente alla concezione di un solo dio ma, osserva Hume, anche la concezione monoteistica non nasce da ragionamenti meditati. In questo caso gli uomini «concordano per caso con i principi razionali e la vera filosofia, sebbene siano condotti a quella nozione non dalla ragione, di cui sono estremamente incapaci, ma dall'adulazione e dai timori propri della più volgare superstizione».
Il monoteismo, inoltre, secondo Hume genera ancora dal suo stesso seno il politeismo, perché gli uomini, nella loro pochezza, non riescono ad accontentarsi di un essere perfetto e onnipotente, ma invisibile e lontano, e perciò finiscono con l'immaginare una serie di divinità inferiori collocate tra loro e la divinità suprema, per cui compaiono divinita intermedie rappresentate con statue o pitture che diventano nuovamente oggetto di culti grossolani e superstiziosi. Tuttavia il politeismo ha pur sempre il vantaggio di favorire la tolleranza religiosa, perché una divinità intermedia e non molto potente dà la certezza ai suoi fedeli che possano esistere ed essere onorate altre divinità.
Invece l'idea di un dio unico onnipotente induce stoltamente i devoti a pensare come empio e assurdo il culto di un'altra divinità. Da questa spinta deriva il fanatismo e l'intolleranza che hanno sempre straziato le società dominate dal culto monoteistico. Nell'ambito del cristianesimo esiste un po' di tolleranza soltanto in Inghilterra e in Olanda dove i magistrati civili la impongono in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche e con i bigotti.
Hume avanza anche forti riserve sulle funzioni moralizzatrici delle religioni che incoraggiano superstizione, fanatismo, intolleranza e odio teologico; pertanto egli afferma l'opportunità di una religione illuminata dalla filosofia, che insegni la tolleranza e la comprensione fra gli uomini. Il filosofo scozzese vede nella tradizione popolare della religione la fonte del fanatismo, ma nel deismo una religione dotta che non può influire sulle credenze comuni. Ma è la riflessione humiana sulle ragioni antropologiche - la paura, il timore, l'insicurezza, la morte - che alimenta dall'intimo lo spirito religioso che costituisce il contributo più profondo di Fiume. La religione entra così a fare parte di una «storia naturale dell'uomo», cioè viene colta come elemento che appartiene a un processo obbiettivo e in quest'ambito va intellettualmente compresa. Non vi è nulla in Hume della religione come inganno del potere di molta parte dell'illuminismo. Le conclusioni di Hume quindi sono improntate alla cautela e al dubbio e nel suo studio sulla religione egli argutamente conclude: «Non cerchiamo oltre e opponendo superstizione a superstizione, abbandoniamole tutte alle loro querele. Noi, mentre esse contendono e si infuriano, per fortuna possiamo rifugiarci nelle calme, quantunque oscure, regioni della filosofia».
Fonte: http://www.adripetra.com/DidatticaDispense/SecondoTr/Filosofia/HUME.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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