Kierkegaard vita e opere
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Kierkegaard vita e opere
Kierkegaard
L’opera di Kierkegaard, anche se non propriamente filosofica, è dotata di un grande spessore speculativo e di interesse particolare nel quadro delle teorie che intendono porsi come alternative all’idealismo di Hegel. Le soluzioni adottate da questo singolare scrittore costituiscono, infatti, la più compiuta critica ai temi dell’idealismo. Kierkegaard, nel suo reciso rifiuto di Hegel,
- Alla Totalità della Ragione oppone la singolarità dell’individuo
- Alla sintesi conciliatrice della dialettica hegeliana oppone le “alternative inconciliabili”.
- Alla necessità oppone la possibilità.
- All’immanentismo oppone la difesa della trascendenza
- All’identificazione idealistica uomo – Dio, oppone la difesa della differenza qualitativa fra l’uomo e Dio, tra il finito e l’infinito.
Perfettamente inserita nell’ambito di questa polemica anti-hegeliana è la sua battaglia, intrapresa a difesa della religione cristiana.
Sören Aabye Kierkegaard, nacque a Copenhagen il 5 maggio 1813. Educato rigidamente da un padre che lui stesso individuò come causa della sua profonda malinconia, Kierkegaard si iscrisse alla facoltà di teologia della sua città, dove dominava l’ispirazione hegeliana. Si laureò con una dissertazione dal titolo “Sul concetto d’ironia con particolare riferimento a Socrate”, che pubblicò l’anno seguente. Alcuni episodi spiacevoli della sua vita, come la diatriba teologica che ebbe con un giornale umoristico danese, la polemica con un teologo hegeliano ed il fidanzamento, presto sciolto, con la giovane Regina Olsen, ebbero nella sua vita interiore e nelle sue opere una profonda risonanza, apparentemente sproporzionata alla loro reale entità. Nel suo Diario di un seduttore (1843) egli parla di un “grande terremoto” prodottosi nella sua vita in seguito ad una rivelazione paterna che lo avrebbe costretto a mutare atteggiamento di fronte al mondo ed a conservare la sua esistenza “al punto zero”. Una grave colpa gravava, secondo Kierkegaard, sulla sua famiglia, colpa per la quale essa doveva scomparire, “cancellata dalla mano di Dio”. Sono state formulate molte ipotesi, ma a cosa precisamente si riferisse i biografi non lo hanno mai scoperto. Egli parlò nel Diario, di una “scheggia”, secondo l’espressione di San Paolo, che portava “nella carne”e con la quale avrebbe dovuto convivere. Il senso di questa minaccia oscura e inafferrabile lo portò probabilmente a rompere il fidanzamento con una donna che amava e a non intraprendere la carriera di pastore. La stessa minacciosa ossessione gli impedì di pubblicare con il suo vero nome gli scritti, che uscirono in massima parte sotto pseudonimi, ed è uno degli elementi da tener presente per la comprensione del suo pensiero. Morì l’11 ottobre 1855.
Aut-Aut (di cui fa parte il Diario di un seduttore); Timore e Tremore (1843); Il concetto dell’Angoscia (1844); La malattia mortale (1849), sono solo alcuni tra i suoi scritti più famosi che prendono le mosse da un doppio rifiuto, quello della filosofia hegeliana e quello del vuoto formalismo della chiesa danese.
- Le radici della polemica con Hegel.
Kierkegaard fu un giovane tormentato, che oppose il talento di scrittore alla propria incapacità di vivere la vita. Egli fu fidanzato, ma non si sposò, studiò per prendere i voti, ma non fu mai prete. La sua attività fu quella di contemplativo. Fu soprattutto uno scrittore cristiano. In un’epoca in cui il cristianesimo era ridotto a mero fatto culturale, a semplice strumento per il mantenimento dell’ordine sociale, morale e politico, egli ritenne urgente ripristinare la “verità” sulla trascendenza ed interiorità del messaggio di Cristo. Ai suoi occhi l’interprete più completo del moderno spirito anti-cristiano era Hegel. Lui era il colpevole. Contro di lui ed i suoi epigoni locali, come il vescovo Martensen, Kierkegaard polemizzò aspramente tutta la vita.
Incominciamo con l’identificare i punti chiave della polemica, per sostanziare ciò di cui stiamo parlando.
- 1. La riscoperta del singolo.
Il punto nodale della polemica è la dissoluzione hegeliana della singola esistenza nel “liquido mare della Ragione”. Nel suo sistema totalizzante, Hegel “si dimentica” del singolo esistente. L’individuo diviene un puntino insignificante, irreale, come abbiamo visto, astratto. Il singolo, fuori del sistema, per Hegel non conta. Il Tutto, lo Spirito, è ciò che conta. Questa “distratta dimenticanza”, questa “insignificante omissione”, l’individuo, è ciò che Kierkegaard non perdona a Hegel. Per cui, di fronte all’immensa universalità della Ragione hegeliana, Kierkegaard presenta l’istanza del microscopico singolo. Alla riflessione sull’assoluto propria della filosofia di Hegel, Kierkegaard oppone la riflessione sull’esistenza. Per Hegel solo l’universalità è reale, “concreta”(= “il vero è l’intero”). Per Kierkegaard, al contrario, l’universale è sempre “astratto” e concreta è solo la singolarità. La verità, afferma Kierkegaard, è una verità solo quando è verità per me, come singolo. Non per nulla egli, che ha combattuto tutta la vita la pretesa idealistica di identificare uomo e Dio, avrebbe voluto sulla sua tomba come epitaffio l’iscrizione “quel singolo” e questo per sottolineare l’abisso incolmabile che divide il modo d’essere del singolo da quello dell’assoluto, la infinita “differenza qualitativa” fra il singolo e Dio, tra il finito e l’infinito, ma anche l’infinita dignità del più minuscolo, insignificante individuo.
Per questo Kierkegaard merita di essere considerato il padre dell’esistenzialismo.
- 2. L’esistenza umana come “Possibilità”.
Abbiamo affermato che Kierkegaard pone l’accento sull’esistenza. Questo significa che accantona la riflessione sull’essenza delle cose. La differenza tra i due concetti, essenza ed esistenza, è antica.
Nell’impossibilità, in questa sede, di chiarire le variabili di cui si è arricchita la distinzione in secoli di speculazione, diciamo per semplicità che l’esistenza per Kierkegaard è “la possibilità dell’essenza tradotta in atto” e corrisponde alla realtà singolare, al singolo. Secondo l’etimologia latina del termine (ex esistere = stare fuori) l’esistenza è ciò che sta fuori del concetto, del puro essere. “Un uomo singolo – dice Kierkegaard – non ha certo un’esistenza concettuale”, dunque l’esistenza per Kierkegaard è la traduzione concreta ed individuale dell’essenza, è categoria propria dell’individuo.
Il peccato di Hegel, secondo Kierkegaard, è stato il considerare soltanto l’essenza delle cose e non l’esistenza,liquidando quest’ultima comesemplice accessorio dell’essenza universale delle cose. Hegel ha fatto dell’uomo un genere animale e in ogni genere animale la specie è la cosa più alta (egli parla di essenza umana che è l’umanità). Per Kierkegaard, invece, l’uomo non è un semplice animale. Ogni essere umano è creatura “forgiata ad immagine di Dio” quindi, nel mondo umano, l’individuo è più in alto della specie, alla quale non può essere sacrificato. Il singolo individuo umano si distingue dalla specie e dal genere cui appartiene, poiché, pur avendo caratteristiche “generali”, possiede anche aspetti irripetibili che lo caratterizzano individualmente e che non sono “logicamente deducibili” dalla sua essenza universale. E soprattutto, ciò che muove gli animali è l’istinto, che condiziona necessariamente i loro comportamenti, mentre l’uomo, è dotato di libero arbitrio. Rispetto agli altri viventi, ha la possibilità di scegliere e la libertà di decidere. Questa è la prerogativa esistenziale dell’essere umano.
- La prima caratteristica dell’opera di Kierkegaard è dunque l’aver riscoperto l’esistenza nel singolo.
- La seconda è l’aver ricondotto l’intera esistenza umana alla categoria della libertà là dove Hegel parlava di necessità.
- E soprattutto,è da ricordare che questa libertà in Kierkegaard si traduce in una Possibilità di scegliere.
- Il sentimento paralizzante del possibile.
Kierkegaard dunque propone una definizione dell’esistenza umana come Libertà.
Già Kant aveva riconosciuto, a fondamento della dignità umana, la libertà dell’azione morale che si esplica in possibilità di scegliere. Di questa libertà, però, aveva messo in luce il valore positivo, di enorme ricchezza. Kierkegaard, al contrario, scopre sulla sua pelle e mette in luce, con un’enfasi mai proposta prima in filosofia, il carattere negativo e paralizzante della possibilità come tale.
Ogni possibilità che entri a costituire l’esistenza umana, dice Kierkegaard, oltre che possibilità-che-sì è sempre anche possibilità-che non. La possibilità in se stessa, come categoria, implica, infatti, la rinuncia e “la possibile nullità del possibile stesso”. L’ammissione della possibilità, in altre parole, implica l’introduzione nel mondo del “nulla”. Tradotta in termini concreti, infatti, la possibilità si manifesta all’essere umano come “possibilità di scelta tra due o più alternative”. Una volta fatta, la scelta annulla le altre possibilità.
II. 1. La minaccia del nulla.
Un senso di oscura minaccia ha perseguitato Kierkegaard, condizionando i tratti salienti della sua esistenza. I rapporti con la famiglia, l’impegno di fidanzamento, la carriera ecclesiastica e la sua stessa attività di scrittore sono apparsi a Kierkegaard carichi di alternative terribili che hanno finito per paralizzarlo. Egli è quel “discepolo dell’angoscia”, figura è descritta nelle pagine finali del suo Concetto dell’angoscia, del 1844, che sente in sé le possibilità annientatrici che ogni decisione presa prospetta. In questo libro egli affronta direttamente il senso dell’esistenza come possibilità. Le scelte fatte, che costellano la vita stessa del singolo, lasciano sul terreno una quantità infinita di possibilità scartate, di “possibili esistenze attuabili” cadute nel nulla.
Se il “togliere conservando” era l’Aufhebung hegeliana, la sintesi “che supera e mantiene” al contempo, il motore della filosofia di Kierkegaard è invece l’angoscia di fronte al “nulla”, in cui precipita ciò che non si può conservare una volta eliminato.
Di fronte alla “libertà di scegliere”l’individuo prova un senso d’insufficienza in quanto le possibilità che gli si offrono si escludono l’una con l’altra. L’angoscia è il sentimento puro della possibilità. È l’indeterminatezza delle possibilità che rende insuperabile l’angoscia. Il divieto divino di nutrirsi dei frutti dell’albero rende inquieto Adamo perché risveglia in lui la “possibilità della libertà”, l’angosciante libertà di potere.
a) Nonostante il fiero rifiuto di Hegel egli è in fondo un perfetto “Idealista”. Infatti, vuole tutto e quindi non può scegliere. E non ha scelto, non ha scartato; ha mantenuto, ha conservato tutto, sì, ma in equilibrio instabile, al “punto zero”, come lo chiama lui, il punto dell’indecisione permanente, dell’impossibilità di decidere tra alternative opposte. Di fronte ad ogni scelta egli ha provato la paralisi, si è sentito una “cavia d’esperimento per l’esistenza”. Forse potrebbe essere proprio questo “la scheggia nella carne” di cui parla nel Diario, che gli ha impedito di sposare Regina, di intraprendere la carriera ecclesiastica e di firmare i suoi libri: l’impossibilità di ridurre la propria vita ad un compito preciso, di scegliere tra alternative opposte, di attuarsi in una possibilità unica! Il centro del suo io è stato il non avere un centro.
b) Per questo motivo egli presenta nelle sue opere solo possibilità fondamentali per l’esistenza, alternative, opzioni, di fronte alle quali lui assume il contegno del contemplativo, del poeta che, di lontano, parla per pseudonimi, in modo da accentuare il distacco tra se stesso e le vite che viene descrivendo, in modo da far capire chiaramente che egli non si impegna a scegliere tra esse.
c) L’unica ancora di salvezza “lanciata dall’alto” che sottrae l’uomo alla disperazione, in questa condizione di non scelta, di dispersione nel possibile, è la fede. Ma, come vedremo, questa è essenzialmente un paradosso.
III. Le tre modalità dell’esistenza.
Lo sforzo costante di chiarire, di studiare, le possibilità fondamentali dell’esistenza, quelle tra cui ha evitato accuratamente di scegliere, lo ha portato a vivere attraverso il filtro della scrittura, l’unica esperienza per lui possibile. Nelle sue opere maggiori egli propone tre differenti modalità dell’esistenza nelle quali si può concretizzare la vita di un individuo. Nella prima di queste opere, Aut-Aut (Enten-Eller in danese), pubblicata nel 1843 come una raccolta di scritti pseudonimi, Kierkegaard presenta l’alternativa tra le prime due sfere di esistenza, quella estetica e quella morale. Il titolo stesso sta ad indicare la scelta esclusiva di uno dei due termini dell’opposizione. Nell’opera Timore e Tremore, dello stesso anno, emerge la terza sfera, quella religiosa.
Le tre sfere di vita sono chiuse, autonome e impermeabili. Non sono gradi di uno sviluppo dialettico necessario ma opportunità, reciprocamente escludentisi, in cui non esiste dialettica progressiva. Mentre per Hegel, l’uomo si costituisce come essere etico solo nello Stato ed a partire da esso e poi, per necessità dialettica, gradualmente come essere estetico, religioso ed infine filosofico, in Kierkegaard ognuna delle opportunità esistenziali si presenta all’uomo come alternativa che esclude le altre. Un individuo può vivere tutta la sua esistenza in una sola dimensione, oppure può decidere liberamente di passare da uno stadio all’altro. Inoltre mentre nella dialettica hegeliana il terzo momento è una sintesi, un superamento ma anche una conciliazione degli altri due precedenti, per Kierkegaard attività etica, estetica e religiosa sono alternative inconciliabili, scegliendo l’una l’individuo è costretto a rinunciare alle altre. Tra la vita religiosa e le altre modalità esistenziali non c’è mediazione né sintesi. “Fra di esse c’è un abisso e un salto”. Non si può essere cristiani soltanto un po’. O lo si è interamente o non lo si è. La dialettica quantitativa hegeliana si può riassumere nella formula Et-Et, quella qualitativa di Kierkegaard nella formula Aut-Aut.
- 1. La Vita estetica.
Nello stadio della vita estetica, l’individuo sceglie di nutrirsi unicamente di bellezza e dell’attimo fuggente. L’esteta è l’artista, che vive, momento per momento, evitando il banale, il meschino e il ripetitivo, come se non esistesse il domani; il suo motto è la massima di Orazio: carpe diem (cogli l’oggi). La figura emblematica di questo stadio, descritta da Kierkegaard nel Diario di un seduttore, è rappresentata da Don Giovanni, il leggendario cavaliere spagnolo, immortalato nell’omonima opera di Mozart e protagonista del Convitato di pietra di Molière. In Aut-aut, il seduttore è sciolto da ogni impegno, insidia migliaia di donne senza amarne alcuna, cercando unicamente la novità; dalla sua vita è esclusa la monotonia e la musica lo rappresenta in quanto la più sensuale delle arti. Alfine però lo sbocco naturale della concezione estetica, quale antidoto alla noia ed alla responsabilità della vita, si rivela, fatalmente, la stessa noia che si intendeva fuggire. Negandosi la ripetizione, l’uomo estetico, infatti, si priva della stabilità. L’indifferenza nei confronti di tutto, da parte di chi non vuole impegnarsi in nulla, porta inevitabilmente alla noia, che interviene come conseguenza di una vita progettualmente e affettivamente demotivata. L’uomo estetico non può smettere di ricercare il piacere e fermarsi a pensare, poiché in tal caso scoprirebbe il vuoto e la miseria della sua esistenza e lo assalirebbe la disperazione. Non avendo acconsentito a fare delle scelte, non essendosi impegnato in un progetto di vita egli è nessuno. Non ha un’identità e avverte la disperazione del suo essere senza senso, del suo essere nulla.
III. 2. Vita Etica.
L’uomo, preso dalla disperazione può decidere però di cambiare vita e sceglierne una che comporti delle responsabilità. Alla base della vita etica vi è una scelta. L’esteta s’illude di averne compiuta una, quella della libertà dai vincoli; in realtà l’ha semplicemente elusa, dal momento in cui ha escluso dalla sua vita ciò che è definitivo. Egli ha scelto di non scegliere. Nello stadio etico, invece, l’uomo sceglie di vivere conformemente a principi morali e a regole che lo portano ad assumersi responsabilità, in termini più filosofici: all’indeterminatezza delle infinite possibilità, l’uomo etico oppone la concretezza di una scelta. L’uomo etico accetta l’onere di una famiglia, di un lavoro o di un impegno sociale, quindi accetta il dovere e il sacrificio, ma anche la realizzazione sociale. Il matrimonio è l’espressione tipica dell’eticità, infatti, quella del matrimonio, è “la scelta” per antonomasia, è una decisione a favore della stabilità. Contrapposta a quella del seduttore, la figura di questo stadio etico è quella del buon marito, incarnato, in Aut-Aut,nella persona del Giudice Guglielmo, che ha scelto di vivere con una sola donna, all’interno dell’istituzione matrimoniale. Mentre l’uomo estetico viveva nell’istante, sempre inquieto (come il Farfallone amoroso delle “Nozze di Figaro” di Mozart), l’uomo etico appare pacificato e vive per riconfermare la scelta effettuata. Questa “ripetizione” della scelta iniziale è l’indice dell’abbandono della “eccezionalità” per vivere nella “consuetudine” e nel “dovere”.
Per quanto appagante e pacificatrice, però, anche questa scelta di vita appare limitata. In questo stadio l’uomo può provare un sentimento d’insoddisfazione per una vita incapace di offrire risposta al problema del significato ultimo dell’esistenza.
L’etica, avendo l’idealità come scopo, urta contro la naturale disposizione al male dell’uomo, “contro lo scoglio della peccaminosità dell’individuo”. L’uomo (= inteso come umanità), laddove ha realizzato la società e si è realizzato in essa, si è infatti reso colpevole di ingiustizie e soprusi; nulla di ciò che ha compiuto è innocente, a partire dal peccato originale con il quale ha perso la “purezza” in cambio della “consapevolezza” (= l’uomo si è affermato negando Dio). Quindi l’uomo etico, colui che ha operato una scelta consapevole, è gravato dal pentimento. Realizzarsi nel mondo infatti significa scegliere una strada, e per farlo occorre conoscere se stessi, la propria indole. Questo significa interrogarsi integralmente sui propri e gli altrui limiti ed errori scoprendosi inadeguati, finiti, limitati e “colpevoli in quanto uomini”. L’etica, che presume “la realizzazione di sé” nel mondo, pone l’individuo di fronte a Dio. Questa è l’origine di ciò che Kierkegaard chiama angoscia, la consapevolezza del limite invalicabile della natura umana. Ed è questa angoscia che predispone al pentimento.
III. 3. Vita Religiosa.
L’uomo etico, il buon giudice Guglielmo, integerrimo e integro, riconosce la sua colpevolezza in un mondo segnato dal male e dal peccato, assume su di sé la responsabilità del male e si riconosce come peccatore. Egli, con le sue leggi, i suoi valori, la sua scelta di vita, di fronte al male si arrende. Il male nel mondo c’è. Il suo matrimonio, la sua bontà e la sua dirittura morale possono assolverlo dalla corresponsabilità del male nel mondo? Questo lo scacco, il fallimento anche della vita etica, per cui essa, in virtù della sua stessa struttura, necessita di un ulteriore “salto”, quello nella sfera religiosa.
Descritto impareggiabilmente in Timore e Tremore del 1843, il salto nello stadio religioso è più abissale del precedente. Non si tratta più soltanto di frenare il turbine delle passioni dell’esteta nell’assunzione della responsabilità. Qui si tratta di un salto nella fede, per il quale la decisione richiede la sospensione delle leggi del mondo e dei valori, non in nome dell’immediatezza del piacere estetico, bensì in nome di Dio. Kierkegaard chiarisce questa nuova opposizione con la figura di Abramo, scelto come emblema dell’uomo religioso. Vissuto fino a 70 anni nel rispetto della legge morale, Abramo riceve da Dio l’ordine, terribile e non motivato, di uccidere suo figlio, Isacco, di andare contro il proprio sentimento ed infrangere la legge, per la quale è vissuto. Si tratta di obbedire alla volontà di Dio infrangendo la legge degli uomini. Quale padre ucciderebbe il proprio figlio? Certo non un padre giudice. “Non uccidere” è anche un imperativo etico, non solo religioso. L’ordine di Dio imposto ad Abramo sovverte quest’imperativo, contrasta con l’affetto naturale e non trova giustificazione dinnanzi agli altri uomini, ai familiari stessi di Abramo. Egli decide di obbedire al comando. L’affermazione del principio religioso, dunque, implica la sospensione del principio morale. Tra i due principi non vi è continuità, possibilità di conciliazione o di “sintesi”. Essi si oppongono in maniera radicale. La scelta tra i due principi, quello etico, la legge degli uomini, e quello religioso, l’obbedienza assoluta a Dio, non può essere agevolata da nessun principio generale di comportamento. L’uomo di fede, come Abramo, seguirà l’ordine divino anche a costo di una frattura totale con la sua stirpe e con la norma morale, di uno scandalo e della disumanità. Gli altri uomini non comprendono Abramo, non lo condividono, non lo giustificano. Abramo, osservante della legge, la trasgredisce per volontà di Dio. Il salto nel religioso è così un salto nel paradosso del rapporto individuale. La fede, infatti, non è, e non deve essere, per Kierkegaard, un principio generale. E’ un fatto privato tra uomo e Dio. Un rapporto assoluto con l’Assoluto. La fede è il dominio della solitudine. Non si entra in essa “in compagnia”. Non si odono voci umane e non si scorgono regole certe. Da qui il carattere incerto e pericoloso della vita religiosa. Come può, infatti, un uomo essere sicuro di essere “l’eccezione giustificata”? Come può aver la certezza di essere “l’eletto”, colui al quale Dio in persona ha affidato un compito eccezionale che giustifica, anzi esige, la sospensione dell’etica? C’è un solo segno, indiretto, dice Kierkegaard, l’angoscia (= che non è la disperazione). L’angoscia dell’incertezza s’impone con forza nell’animo di colui che è veramente stato scelto da Dio. L’incertezza angosciante è la sola assicurazione che il comando viene da Dio.
E questo, dice Kierkegaard, è il paradosso della fede. Con essa l’uomo è posto di fronte a un bivio, credere o non credere. Da un lato è l’uomo che deve scegliere, dall’altro ogni sua iniziativa è esclusa perché è da Dio che deriva tutto, anche la fede. L’uomo può pregare Dio che gli conceda la fede, ma la possibilità di pregare è essa stessa un dono divino. Quindi la fede è un paradosso e uno scandalo. Cristo è il segno di questo paradosso e di questo scandalo. Egli è colui che soffre e muore come uomo mentre parla e agisce come un Dio. La vita religiosa è nelle maglie di questa contraddizione inesplicabile. Questa contraddizione è la stessa dell’esistenza umana e Kierkegaard vede, rivelata nel cristianesimo la sostanza stessa dell’esistenza: paradosso, scandalo, contraddizione.
- Necessità e libertà. La fede.
L’angoscia è la condizione generata nell’uomo dalla possibilità. Essa è legata all’onnipotenza del possibile, a ciò che non è ma può essere, all’indeterminatezza delle eventualità. L’angoscia è il sentimento generato da una situazione di radicale incertezza. È il dubbio legato al futuro, all’avvenire. Nella Malattia mortale (1849), Kierkegaard precisa il secondo sentimento fondato sulla struttura problematica dell’esistenza, incontrato già nello stadio estetico, la disperazione. L’angoscia è figlia della possibilità, della libertà, in cui ci si può smarrire quando non si è in grado di scegliere tra alternative inconciliabili. La disperazione invece è strettamente legata alla necessità, all’ineluttabile e nasce dalla deficienza del possibile, quando “tutto è perduto” e quando “tutto è già deciso”. In questo caso la possibilità diviene l’unico rimedio alla disperazione. E’quella che si invoca quando si è disperati. Una possibilità che si opponga alla necessità ineluttabile, una “possibilità di salvezza”, “una possibilità di fuga”. Quando questa possibilità è impossibile, il credente si rivolge a Dio, perché egli crede che a Dio tutto sia possibile. La fede allora come antidoto alla disperazione. La fede come l’opposto della disperazione. Io posso pregare perché Dio è Volontà, è “Libertà”. Non potrei farlo se Dio fosse “Necessità”, se anche in lui tutto fosse già stabilito. Di fronte all’instabilità dell’esistenza costituita dal possibile, la fede si appella al principio stesso di ogni possibilità, a Dio, cui tutto è possibile. La religione, la religione cristiana, non è per Kierkegaard una visione razionale del mondo, né la trascrizione fantastica di tale visione, è soltanto la via della salvezza, l’unico modo di sottrarsi alla disperazione, mediante l’instaurazione di un rapporto immediato con Dio.
Per Hegel l’Assoluto, il Vero si realizza nella Storia. Per Kierkegaard invece Dio, il Dio Cristiano, Trascendente, si manifesta nell’Istante in cui l’uomo instaura il suo rapporto con lui, l’istante è il momento in cui riceve il dono della fede. La verità di Cristo non era più evidente per il testimone oculare, il contemporaneo di Gesù, di quanto non lo sia per qualsiasi cristiano che abbia ricevuto la fede. Il fatto storico non ha testimoni privilegiati, giacché si ripresenta nell’istante, ogni volta che il singolo uomo riceve il dono della fede. L’istante replica nel singolo il privilegio di aver personalmente conosciuto Cristo.
Dal punto di vista della tradizione filosofica l’“esistenza” è sempre stata una prerogativa subordinata dell’“essenza”. L’Essenza, in base alla definizione aristotelica, è “ciò per cui una cosa è quel che è” e si differenzia da tutte le altre cose. Essa, quindi, sta ad indicare la somma delle determinazioni di una cosa, specificate nella sua definizione, che ne costituiscono la natura (o “specie” in termini aristotelici). , che permane sempre identica a se stessa L’Esistenza ha invece il proprio essere da un altro, che sta al di fuori. L'esistenza non ha l'essere “in proprio” ma esiste solo in quanto è subordinata ad un essere superiore.
Il personaggio di Don Juan si rifà ad un dramma in versi dell'anno 1630 dello scrittore spagnolo Tirso de Molina, Il seduttore di Siviglia e il convitato di pietra (El burlador de Sevilla y Convidado de piedra). Da qui Molière ha tratto il materiale per il suo don Giovanni, musicato in seguito da Mozart, su libretto di Carlo da Ponte.
Egli è realmente libero, poiché infrange l’indifferenza delle alternative possibili e si sperimenta, senza maschere né alibi, nell’azione concreta, quotidiana.
Fonte: Fonte: http://keynes.scuole.bo.it/~miglioli/kant/Kierkegaard%20per%20i%20ragazzi.doc
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Kierkegaard vita e opere
Kierkegaard e la critica all’hegelismo: il singolo, la possibilità, la scelte, l’angoscia e la disperazione
Soren Kierkegaard ( 1813 – 1845) nasce in Danimarca figlio di un commerciante. La sua agiatezza di famiglia gli permise di studiare e di vivere senza eccessive ristrettezze. Parte anche lui da Hegel, studia teologia, volendo diventare un pastore protestante, e filosofia a Copenaghen e a Berlino, poi torna a vivere in Danimarca al centro di polemiche e di critiche per le sue opere. Il suo libro più famoso è Aut- aut ( Entten Eller 1843) Vedi, per approfondire a pag.279 del manuale)
La verità del Singolo.
Hegel, come ben ricordi, sostiene che solo l’intero, il totale è reale; la sua filosofia è lo sforzo di chiudere, di giustificare tutto in un disegno razionale che includa ogni cosa. Kirkegaard abbandona totalmente questo punto di partenza: dobbiamo, dice, esaminare la nostra esperienza come singoli irripetibili. Il singolo è una realtà irriducibile, l’unica realtà che noi sperimentiamo. Bisogna partire dall’esistenza ( io esisto, qui, ora) non dall’ essere astratto, lontano, non esperibile ( come fa certa metafisica classica e come vuole fare Hegel). Devo riflettere su me stesso e sulla mia esistenza singole, non sull’ astratto essere.
La categoria esistenziale del possibile
La nostra esistenza di singoli è caratterizzata dalla possibilità di scelte. Cioè la nostra vita è dominata dal possibile ( non dal necessario, dall’inevitabile come nella storia hegeliana) E’ il possibile la categoria fondamentale dell’esistenza. E la possibilità implica la scelta: scelta e possibilità sono le categorie da cui parte Kierkegaard. Essere costretti a fare delle scelte comporta difficoltà ed angoscia. L’angoscia è la malattia dello spirito che si manifesta di fronte alla possibilità: lo smarrimento in fronte alla possibilità e alle scelte che bisogna fare.
Aut – Aut : le scelte esistenziali inconciliabili: il seduttore, il marito, Abramo.
Aut aut, il testo più famoso di Kirkegaard, fin dal titolo indica delle scelte che si autoescludono: sono tre stati dell’esistenza che egli identifica. L’ uomo estetico vive attimo per attimo gettandosi nelle situazioni interessanti e piacevoli che gli si offrono e gustandole con intensità, ma è destinato a provare a provare un’ironia scettica, noia, perché si rende conto che nessuna realtà finita può diventare un valore guida per la sua vita. La vita estetica e concretamente rappresentata da Don Giovanni, il seduttore ( Diario del seduttore è la parte di aut aut che lo descrive). Ma, consapevolmente o inconsapevolmente la disperazione è l’ultimo sbocco della concezione estetica della vita, frutto dell’ansia per una vita diversa. La vita etica dà una alternativa possibile: essa è l’affermazione del dominio del dovere e della fedeltà a se stesso. La esemplificazione della vita etica è la figura del marito che consacra la propria vita al lavoro e al matrimonio. Ma anche la vita etica è accompagnata dalla insoddisfazione, senso del limite, da pentimento. Esiste quindi un’altra scelta di vita: la vita religiosa, esemplificato da Abramo che, contro ogni regole, sta per sacrificare il suo unico figlio. Con il suo atteggiamento trasgredisce i principi della morale e la sua azione è assolutamente individuale: E’ una dimensione inspiegabile concettualmente, che può destare ammirazione e timore. La fede rappresenta l’irruzione dell’assoluto e di fronte ad essa non ci si deve porre domande sulla sua utilità né abbandonarsi alle sue consolazioni, ma comportarsi in un modo solo: tacere.
L’angoscia e la disperazione
L’esistenza è dunque per Kierkegaard caratterizzata dalla possibilità di scelte inconciliabili. La categoria fondamentale della possibilità, come detto sopra, è legata all ‘ esperienza dell’angoscia. E’ l’infinità o l’indeterminatezza delle possibilità che rende insuperabile l’angoscia e ne fa la situazione fondamentale dell’uomo nel mondo. La disperazione è invece legata alla natura dell’io umano. L’uomo si rende conto e vive la propria finitudine, la propria incapacità, e questa esperienza gli fa vivere il senso della disperazione.
L’eredità di Kirkegaard nel ‘900: l’esistenzialismo
Nel 900, specie dopo i disastri delle guerre mondiali, il pensiero di kierkegaard viene ripreso soprattutto da una corrente culturale e filosofica chiamata esistenzialismo. Gli esistenzialisti partono dalla situazione concreta del singolo: l’esistenza con tutta la sua problematicità: la scelta, l’aut aut, l’angoscia, la finitudine, la possibilità e l’incertezza tutti temi già anticipati in parte da Kierkegaard, ma rivisti nel mondo dell’incertezza in cui si rova la nostra epoca.
I più importanti esistenzialisti sono Jean Paul Sartre, in Francia, Martin Heidegger, in Germania e in Italia Nicola Abbagnano.
Fonte: http://www.luciorizzotto.it/classe5/filosofia/Kierkegaard.doc
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