Relativismo etico, antidogmatismo e tolleranza
1. Il relativismo etico descrittivo
La tesi del relativismo etico descrittivo è che gli individui, e in particolare gli individui appartenenti a culture diverse, hanno opinioni morali spesso discordanti, tali per cui uno è convinto che X sia buono e un altro che X sia cattivo, uno ritiene che nelle circostanze C si debba fare Y e un altro ritiene invece che nelle circostanze C non si debba fare Y. Questa è una tesi di etica descrittiva, cioè una tesi avanzata allo scopo di riferire ciò che avviene nel mondo dei fatti, e può dunque essere considerata vera o falsa a seconda che i fatti stiano o non stiano nel modo in cui essa li rappresenta.
Per la precisione bisogna dire che questa tesi può in effetti essere proposta in più di una versione. Nella versione più semplice essa è riducibile all'asserzione che individui diversi esprimono (spesso o talvolta) giudizi morali contrastanti, ed appare dunque come un'ovvietà, perché è innegabile che individui diversi esprimano (spesso o talvolta) opinioni morali contrastanti. In altre versioni, invece, appare meno pacifica.
Ad esempio, questa tesi appare meno pacifica nella versione in cui dice che la diversità delle opinioni morali espresse dagli individui è determinata, almeno in alcuni casi, dalla diversità dei valori o dei principi da cui tali opinioni dipendono e in base ai quali potrebbero essere giustificate . A questa versione del relativismo etico descrittivo si contrappone infatti la posizione universalista secondo cui tutti gli individui, o meglio tutte le culture, condividono gli stessi valori o principi morali fondamentali, cioè quelli che possono essere richiamati in ultima istanza per la giustificazione dei giudizi morali, e pertanto le divergenze tra i giudizi morali che vengono avanzati dai diversi individui dipendono unicamente da disaccordi sui fatti rilevanti per la formazione e la giustificazione di tali giudizi. Si deve peraltro notare che l'universalismo etico descrittivo non è necessariamente una concezione ottimistica, secondo cui la diffusione e la crescita delle conoscenze scientifiche, producendo accordi sui fatti, è in grado di ridurre progressivamente lo spazio dei conflitti morali. Infatti, il sostenitore dell'universalismo etico descrittivo potrebbe anche ammettere che i disaccordi sui fatti che determinano la diversità delle opinioni morali non possano essere tutti risolti dalla crescita delle conoscenze empiriche, poiché alcuni di questi riguardano l'esistenza di divinità e il contenuto dei loro comandi.
2. Il relativismo metaetico
Dal relativismo etico descrittivo deve essere distinto il cosiddetto relativismo metaetico, cioè la posizione secondo cui la correttezza, validità o verità dei giudizi morali dipende da criteri che possono essere diversi per individui diversi, ovvero per individui che appartengono a culture diverse. Secondo questa posizione, la correttezza, validità o verità dei giudizi morali è non oggettiva o assoluta, ma relativa a un contesto o a un insieme di criteri o coordinate; vi è una pluralità di contesti possibili; non vi sono criteri indipendenti da questi contesti per mostrare la superiorità di uno di questi contesti sugli altri.
Il relativismo metaetico comprende una varietà di posizioni, e qui sarà opportuno precisare che possono essere considerate relativiste teorie metaetiche di diverso tipo: da un lato teorie metaetiche naturaliste, ed oggettiviste per quanto riguarda la verità dei giudizi etici, dall'altro lato teorie metaetiche non naturaliste e non oggettiviste . Le teorie metaetiche naturaliste possono essere considerate relativiste se attribuiscono ai termini etici fondamentali un significato tale per cui giudizi come «È bene fare X» o «È giusto fare X» risultano veri o falsi in relazione a chi li proferisce o li valuta in vista di una possibile accettazione. A questo riguardo, un esempio è costituito dalla teoria secondo cui 'buono' ha un significato tale per cui dire che un'azione X è buona equivale a dire che X è un'azione che non ci piace; un altro esempio è costituito dalla teoria secondo cui 'giusto' ha un significato tale per cui dire che un'azione X è giusta equivale a dire che X è conforme alle consuetudini seguite dal gruppo al quale si appartiene. Una teoria metaetica non naturalista è invece relativista se assume che siano variabili le ragioni ultime, cioè i valori o principi fondamentali, utilizzabili da individui o gruppi diversi per giustificare i propri giudizi morali, e che dunque che siano variabili, da individuo a individuo o da gruppo a gruppo, i criteri di correttezza, validità o verità di questi giudizi.
La diversità tra queste teorie è evidente. Secondo le teorie relativiste naturaliste i giudizi morali sono "oggettivamente" veri o falsi e tuttavia è possibile che individui diversi esprimano giudizi morali veri e divergenti: ad esempio, secondo la teoria per cui dire che un'azione è buona equivale a dire che quell'azione ci piace, è possibile che l'affermazione di Tizio che l'azione X è buona e l'affermazione di Caio che l'azione X non è buona, pur essendo in un certo senso divergenti, siano entrambe "oggettivamente" vere, perché è possibile che effettivamente a Tizio piaccia X ed a Caio non piaccia X. Secondo una teoria relativista non naturalista, invece, la verità dei giudizi morali è non "oggettiva", ma relativa agli insiemi di valori o principi fondamentali in base ai quali i diversi individui giustificano (o giustificherebbero, nel caso in cui fosse loro richiesto) i loro giudizi morali: ad esempio, il giudizio secondo cui l'azione X è buona può essere al tempo stesso vero in relazione all'insieme di valori o principi fondamentali di Tizio e falso in relazione all'insieme di valori o principi fondamentali di Caio.
Le teorie relativiste naturaliste vanno incontro alle consuete obiezioni che possono essere rivolte alle metaetiche naturaliste. A queste teorie si può ad esempio obiettare che appare perfettamente sensato dire «Faccio X non perché mi piace, ma perché è bene agire così», oppure «So che fare X è contrario alle consuetudini della mia comunità, ma farò X perché è giusto agire così» e che, in definitiva, ogni definizione naturalista dei termini etici fondamentali è resa problematica dalla possibilità di negare sensatamente che una qualche azione, pur soddisfacendo le condizioni stabilite dalla definizione, sia buona, giusta o doverosa. Per le difficoltà in cui incorrono e per il fatto di non essere oggi molto diffuse, non terrò conto di queste teorie nella discussione che segue.
Più diffuse appaiono le teorie relativiste non naturaliste, delle quali bisogna rilevare la prossimità alle teorie metaetiche scettiche, cioè alle teorie secondo cui i giudizi morali non sono veri né falsi, perché non si riferiscono a fatti e costituiscono semplicemente l'espressione di emozioni o sentimenti individuali. Infatti, l'idea secondo cui i giudizi morali non sono veri né falsi non è troppo diversa dall'idea secondo cui ogni giudizio morale può essere al tempo stesso vero e falso, perché giustificabile sulla base dei valori o principi fondamentali adottati da alcuni individui e non giustificabile sulla base dei valori o principi fondamentali adottati da altri individui.
Si deve comunque notare che il relativismo metaetico sembra talvolta presentarsi, nelle pagine dei suoi sostenitori, anche in una versione che lo rende abbastanza ben distinguibile dallo scetticismo metaetico. La versione in cui non è ben distinguibile dallo scetticismo metaetico è quella per così dire individualista, secondo cui i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli adottati dai singoli individui che esprimono tali giudizi: non sembrano infatti esservi grandi differenze tra l'idea che i giudizi morali non siano veri o falsi e l'idea che la verità dei giudizi morali dipenda da criteri puramente soggettivi. La versione che sembra meglio distinguibile dallo scetticismo metaetico è quella per così dire culturalista, secondo cui i principi o valori fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli propri delle culture alle quali appartengono gli individui che esprimono tali giudizi: questa versione fa infatti dipendere la verità dei giudizi morali da criteri non puramente soggettivi, ma intersoggettivi e pubblici (sebbene contingenti e non universali).
Il problema è però che questa seconda forma di relativismo o è, al di là delle apparenze, riducibile alla prima oppure è difficilmente sostenibile, e per più di una ragione. La versione culturalista è infatti riducibile alla versione individualista se alla tesi di quest'ultima, cioè alla tesi secondo cui i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli adottati dai singoli individui che esprimono tali giudizi, si limita ad aggiungere l'asserzione (vera o falsa a seconda che corrisponda o non corrisponda ai fatti) che individui appartenenti alla stessa cultura condividono in genere gli stessi valori o principi fondamentali. La versione culturalista si distacca invece dalla versione individualista, e risulta effettivamente ben distinguibile dallo scetticismo metaetico, se assume che le culture abbiano una sorta di autorità per quanto concerne i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali, cosicché il giudizio morale di Tizio deve essere considerato vero o falso a seconda che soddisfi o non soddisfi i criteri propri della cultura cui Tizio appartiene e non quelli, eventualmente diversi, che Tizio potrebbe eventualmente adottare. I problemi che comporta questa versione sono però evidenti. Anzitutto non è chiaro se e come sia possibile tracciare precise linee di confine tra le diverse culture, in modo da includere nell'una o nell'altra cultura ogni individuo che esprima giudizi morali. Inoltre non è chiaro se e come sia possibile individuare con sufficiente precisione i valori o i principi morali fondamentali propri di una cultura, visto che in molte culture (comunque queste siano delimitate) sembrano convivere individui provvisti di opinioni morali profondamente diverse. Infine, non è chiaro come sia possibile conferire il valore di criteri di verità ai valori o principi morali propri delle culture e non a quelli adottati dai singoli individui, dato che la questione della verità dei nostri giudizi non sembra concepibile come una questione risolvibile in base a principi di autorità o a regole di maggioranza.
Bisogna dunque concludere che il relativismo metaetico, nella sua variante più persuasiva, è sostanzialmente affine allo scetticismo metaetico. A suo sostegno, così come a sostegno dello scetticismo metaetico, possono essere addotte varie ragioni, e prima tra tutte l'assenza di un mondo di fatti morali che consenta di verificare i giudizi morali nel modo in cui il mondo fisico consente di verificare le asserzioni relative sui fatti. Varie sono però anche le ragioni per cui può essere considerato insoddisfacente.
3. Il relativismo etico normativo
Il relativismo etico normativo consiste in una dottrina morale, o meglio in una famiglia di dottrine morali. Adottare la posizione del relativismo etico normativo significa dunque avere determinate convinzioni o credenze morali, condividere determinati giudizi riguardo al modo in cui è bene, giusto o doveroso agire.
Del relativismo etico normativo bisogna anzitutto distinguere una possibile variante che fa riferimento agli individui e un'altra che fa riferimento a gruppi. Secondo la prima, ognuno deve agire (o è bene o giusto che agisca) in conformità con le proprie idee di come si deve (o è bene o giusto) agire. Secondo l'altra variante, ognuno deve agire (o è bene o giusto che agisca) in conformità con le idee di come si deve (o è bene o giusto) agire condivise all'interno del proprio gruppo, comunità o cultura, ovvero seguendo le regole ivi accettate e osservate. Poiché la variante che fa riferimento a gruppi appare più diffusa, qui non terrò conto di quella che fa riferimento a individui.
Della variante che fa riferimento a gruppi sono possibili una pluralità di versioni. In primo luogo, infatti, possono essere caratterizzati diversamente i gruppi alle cui opinioni morali o norme l'individuo deve adeguarsi: questi gruppi possono ad esempio essere identificati con comunità statali oppure con gruppi culturali. E vale la pena di osservare che, se questi gruppi sono identificati con comunità statali, il relativismo normativo finisce col coincidere con il cosiddetto giuspositivismo etico, cioè con la concezione secondo cui in ogni circostanza è giusto o doveroso osservare le norme dall'ordinamento giuridico cui si è soggetti, quale che sia il loro contenuto .
In secondo luogo, bisogna rilevare che il relativismo normativo può presentarsi in una versione elementare (e meno diffusa) e in una versione più complessa, rispettosa dei confini tra comunità o culture. La versione elementare è quella secondo cui gli individui devono agire osservando le norme vigenti nel territorio della comunità o nel gruppo che li accoglie. La versione più complessa è quella secondo cui gli individui devono agire osservando le norme vigenti nel territorio della comunità o nel gruppo che li accoglie solo entro i confini di questo territorio o all'interno di questo gruppo, cioè senza interferire con l'azione di altri individui che in altri territori o all'interno di altri gruppi seguano le norme ivi vigenti. La differenza tra le due versioni è evidente: la prima, diversamente dalla seconda, conferisce validità ad ogni norma vigente in ogni comunità di un certo tipo. Infatti, se nella comunità C vige la norma N secondo cui ci si deve impossessare delle teste degli individui appartenenti ad altre comunità, la prima variante dice che N deve essere osservata da tutti gli appartenenti alla comunità C; la seconda variante dice invece che N non deve essere osservata dagli appartenenti alla comunità C (tranne nel caso, assai improbabile, in cui in altre comunità sia vigente la norma secondo cui ci si deve far tagliare la testa dai membri di C).
Al relativismo etico normativo si contrappone l'universalismo etico normativo. Riguardo a questa contrapposizione, bisogna però chiarire due aspetti: il primo è che anche il relativismo metaetico è in un certo senso una dottrina universalista; il secondo è che anche l'universalismo normativo può imporre obblighi o conferire diritti non a tutti gli individui, ma solo ad alcuni che siano provvisti di determinati caratteri o che si trovino in determinate situazioni.
Il relativismo etico normativo è, in un certo senso, una dottrina universalista, in quanto necessariamente assume che sia valida una norma universale: nella variante elementare, assume che sia valida la norma universale secondo cui tutti gli individui devono osservare le norme vigenti nella propria comunità o nel proprio gruppo; nella variante rispettosa dei confini tra culture o comunità, assume invece che sia valida la norma universale secondo cui ognuno deve osservare le norme vigenti nella propria comunità o nel proprio gruppo unicamente entro il territorio di questa comunità o nei rapporti con i membri di questo gruppo.
L'universalismo normativo non necessariamente impone obblighi o conferisce diritti a tutti gli esseri umani, perché le norme universali che assume come valide non necessariamente impongono obblighi e/o conferiscono diritti incondizionatamente a tutti gli individui: la maggior parte delle dottrine universaliste assumono infatti che siano valide anche norme universali che impongono obblighi e conferiscono diritti (non a tutti incondizionatamente, ma) a tutti a coloro che presentano determinate proprietà, ossia a questi soltanto. Da un lato, è possibile che una dottrina universalista assuma che siano valide norme che impongono obblighi o conferiscono diritti a tutti coloro che hanno generato un figlio, cioè ai soli genitori, o a tutti coloro che siano di sesso femminile, cioè alle sole donne, o a tutti coloro che svolgano un certo lavoro, cioè ad esempio ai soli giornalisti o ai soli avvocati, ecc. E dunque è anche possibile che una dottrina universalista imponga un obbligo solo a coloro che si trovano in società provviste di determinati caratteri, nell'ambito di culture provviste di determinati mezzi tecnici e non di altri, entro comunità stanziate in territori provvisti di determinati beni e non di altri, ecc. Dall'altro lato, è possibile che una dottrina universalista fornisca un fondamento ad alcune forme di potere, ad esempio al potere democratico, e quindi conferisca validità anche alle norme prodotte da queste forme di potere. Tradizionalmente, alcune dottrine di questo genere hanno sostenuto che gli esseri umani devono seguire le norme giuridiche vigenti nel territorio in cui vivono, ma solo fin quando tali norme non siano contrastanti, o non siano eccessivamente contrastanti, con determinati principi morali fondamentali. È peraltro evidente che una dottrina morale universalista non può sostenere, dovendo distinguersi dal relativismo, che debbano essere seguite, a prescindere dal loro contenuto, tutte le norme prodotte da qualsiasi forma di potere si sia imposta in un territorio o entro un gruppo culturale.
4. Il bello del relativismo?
Chi si dichiara relativista sembra spesso convinto del fatto che la diffusione di idee relativiste abbia conseguenze apprezzabili sull'azione e sugli atteggiamenti degli individui. Credo che la distinzione dei tre tipi di relativismo etico sia utile per mostrare che questa convinzione dipende probabilmente da equivoci.
È possibile che la tesi del relativismo etico descrittivo, in qualcuna delle sue possibili versioni, sia vera: ad esempio, è possibile che davvero individui diversi adottino valori morali differenti e che dunque i conflitti morali non dipendano solo da disaccordi su determinati fatti rilevanti. Se questa tesi è vera, allora indubbiamente si pongono per la nostra azione problemi diversi da quelli che si porrebbero se la tesi fosse falsa. Però è altrettanto indubbio che da ciò non segue nulla per quanto concerne il modo in cui dobbiamo agire.
Alcuni ritengono che il relativismo metaetico e lo scetticismo metaetico siano posizioni da preferire a quella dell'oggettivismo metaetico. Come ho già detto, una discussione a questo riguardo non è qui possibile; ciò che conta è comunque che neppure da queste posizioni discende una qualche indicazione per la nostra azione. Il relativismo metaetico e lo scetticismo metaetico forniscono infatti una risposta non alla domanda di come si deve agire, ma alla domanda se e in che senso i giudizi morali possano essere considerati veri o falsi.
Evidentemente, il solo tipo di relativismo in grado di orientare la nostra azione è il relativismo etico normativo, cioè una particolare dottrina morale. Ma questa dottrina morale può ritenersi fondata o in qualche modo attraente? Non solo è possibile dubitarne; è anche ragionevole credere che in effetti non siano molti, anche tra coloro che si dichiarano relativisti, quelli che davvero sarebbero disposti ad accettare il relativismo etico normativo in tutte le sue implicazioni.
Abbastanza frequentemente i sostenitori del relativismo sembrano ritenere che il relativismo etico normativo sia una conseguenza necessaria del relativismo etico descrittivo e/o del relativismo metaetico. Sembra cioè che essi ragionino più o meno così: individui diversi, o culture o popoli diversi, hanno credenze morali irriducibilmente diverse; dunque, si deve ritenere che i giudizi morali non siano oggettivamente veri o falsi, ma siano veri o falsi solo in relazione a un insieme di credenze morali fondamentali adottato da un individuo o da una cultura o da un popolo ecc. (oppure, si deve dunque ritenere che i giudizi morali non siano veri né falsi); dunque, ognuno deve seguire le regole della propria cultura o comunità senza interferire nelle attività delle altre culture o comunità. Questo ragionamento è però sbagliato. Dall'osservazione che gli individui hanno opinioni morali contrastanti non segue infatti che i giudizi morali non siano oggettivamente veri o falsi, così come dall'osservazione che gli individui hanno credenze diverse sull'origine dell'universo o sulle cause di alcune malattie non segue che le asserzioni degli astronomi o dei biologi non siano oggettivamente vere o false. E neppure si può asserire che la prescrizione secondo cui gli individui devono osservare le regole della propria cultura o comunità discenda dall'osservazione che gli individui di culture o comunità diverse hanno opinioni morali contrastanti o dall'assunzione secondo cui i giudizi morali non sono oggettivamente veri o falsi. Vi è certamente un legame tra il relativismo etico normativo ed il relativismo etico descrittivo, ma solo in quanto il primo presuppone una qualche forma del secondo, dato che la prescrizione secondo cui ognuno deve osservare le regole della propria cultura o comunità non sarebbe sensata se non vi fossero culture o comunità distinte provviste di regole diverse. Nessuna relazione necessaria può invece essere individuata tra il relativismo etico normativo e le concezioni metaetiche del relativismo e dello scetticismo: si potrebbe semmai sostenere che uno scettico coerente, se davvero ritiene che i giudizi morali costituiscano solo l'espressione di emozioni e sentimenti, dovrebbe esprimere i propri sentimenti ed emozioni senza mascherarli dietro il linguaggio della morale, cioè rinunciare ad avanzare giudizi morali e a dare il proprio sostegno a dottrine morali, siano queste universaliste o relativiste.
Le attrattive del relativismo etico normativo appaiono abbastanza diverse a seconda che prendiamo in considerazione la variante elementare di questa dottrina o la variante complessa, rispettosa dei confini tra comunità o culture. La variante elementare, infatti, nega tutto ciò che siamo soliti ritenere provvisto di valore morale, in quanto conferisce valore a tutto ciò che in ogni possibile cultura o comunità potrebbe essere considerato provvisto di valore: all'imperialismo e al bellicismo così come al pacifismo, all'intolleranza così come alla tolleranza, e poi alla diseguaglianza, allo sfruttamento, al razzismo, ecc. La variante complessa, invece, accoglie almeno uno dei nostri valori: una certa forma di tolleranza, consistente nella non interferenza, tra le diverse culture o comunità.
Ma, tutto considerato, anche la variante complessa può difficilmente essere considerata attraente. Essa consente la convivenza pacifica tra le diverse culture o comunità, ma a ciò sacrifica ogni altra cosa. Anch'essa infatti legittima ogni forma di intolleranza, diseguaglianza, sfruttamento e razzismo, purché permanga all'interno della cultura o comunità che la accoglie . Inoltre, essa delegittima ogni tentativo di mutare le regole delle diverse culture, a meno che questi tentativi non siano consentiti da queste stesse regole: cioè condanna ogni aspirazione ad una diversa società che sia condannata dalla società stessa in cui sorge e si manifesta. Come è stato sottolineato più volte, il relativismo etico normativo consiste in una dottrina morale conservatrice e conformista .
Inoltre, il relativismo etico normativo, quale che sia la variante presa in considerazione, o fa riferimento alle regole poste nell'ambito di comunità statali, e come ho già accennato coincide quindi con il giuspositivismo etico, o si basa su una concezione piuttosto dubbia delle culture. Infatti, nel prescrivere a ogni individuo di osservare le tradizioni o le regole della propria cultura, presuppone che sia possibile tracciare confini rigidi e precisi tra le diverse culture, come se queste fossero entità ben distinguibili e non fenomeni caratterizzati da fluidità e da compenetrazione. E sulla base di questo presupposto inevitabilmente assoggetta un gran numero di individui a culture o tradizioni in cui non si riconoscono.
5. Relativismo etico, antidogmatismo, tolleranza, pacifismo
Il relativismo viene talvolta considerato attraente in quanto viene confuso con l'antidogmatismo, cioè con l'atteggiamento di chi non erige le proprie convinzioni a dogmi inattaccabili dalla critica ed è pronto a rivederle alla luce delle convinzioni altrui, mostrandosi così disponibile al dialogo e attento alle ragioni degli altri. A questo riguardo si può rilevare da un lato che appare inopportuno chiamare relativismo l'antidogmatismo e dall'altro lato che l'antidogmatismo, così come il dogmatismo, non è implicato da alcuna delle tre posizioni del relativismo etico che prima ho distinto, né peraltro dalle posizioni che a queste si contrappongono. Chi adotta il relativismo etico descrittivo può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico, così come chi adotta l'universalismo etico descrittivo. Chi adotta il relativismo metaetico può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico allo stesso modo di chi adotta l'oggettivismo metaetico. Infine, anche chi adotta il relativismo etico normativo, cioè chi adotta una dottrina morale relativista, può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico, cioè pronto a mutare la propria dottrina morale, non diversamente da chi adotta una dottrina morale universalista.
Qualcuno sembra però credere che le convinzioni morali degli altri siano più facilmente apprezzabili da chi ritiene che non vi siano verità assolute in etica, e che dunque il relativismo metaetico, anche se non implica l'antidogmatismo, favorisca comunque atteggiamenti antidogmatici meglio dell'oggettivismo metaetico. Anche quest'idea, però, è ragionevolmente sbagliata e si può anzi sostenere che è l'oggettivismo, e non il relativismo metaetico, a rivelarsi più favorevole all'antidogmatismo. Per l'oggettivismo, infatti, la questione se un certo giudizio morale sia vero o falso non è una questione privata di colui che proferisce il giudizio, risolvibile guardando alla coerenza di questo con l'insieme delle credenze morali fondamentali del parlante, ma è una questione in un certo senso pubblica, perché un giudizio vero è un giudizio che deve essere accettato da tutti e che non può che imporsi a tutti per le ragioni che lo fondano. Chi adotti la posizione oggettivista sarà dunque spinto a prendere in considerazione i giudizi morali avanzati dagli altri e le ragioni con cui questi sono giustificati, per valutare se tali giudizi, date le ragioni che li sorreggono, siano migliori candidati alla verità dei propri. Per il relativismo, invece, la questione se un certo giudizio morale sia vero o falso è in un certo senso una questione privata di colui che proferisce il giudizio, poiché questo sarà probabilmente vero per il parlante, cioè sulla base delle credenze morali fondamentali che egli adotta (e presumibilmente falso sulla base di altre credenze morali fondamentali che altri adottano o potrebbero adottare). Chi adotti la posizione relativista, dunque, non ha particolari motivazioni a prendere in considerazione i giudizi morali avanzati dagli altri e le ragioni con cui questi sono giustificati: la questione se questi giudizi, date le ragioni che li sorreggono, siano candidati alla verità migliori dei propri giudizi difficilmente si pone là dove si ritiene che ogni individuo abbia le proprie verità. Ancor meno propenso a valutare i propri giudizi morali confrontandoli con quelli degli altri sarà poi chi adotta la posizione dello scetticismo metaetico: per chi è convinto che i giudizi morali esprimano solo sentimenti ed emozioni, ovvero gusti personali, non sembra infatti ragionevole intavolare una discussione al fine di individuare il giudizio morale migliore, cioè sorretto più solidamente da ragioni (come è noto, è inutile disputare intorno ai gusti).
Un'altra attrattiva del relativismo viene talvolta individuata nella tolleranza, poiché ad alcuni sembra che il relativismo, in qualcuna delle sue forme, implichi la tolleranza. A questo riguardo abbiamo già visto che il relativismo etico normativo, in una sua versione, prescrive effettivamente una certa forma di tolleranza, in quanto prescrive ad ogni cultura di non interferire negli affari delle altre culture. Certamente, però, il relativismo normativo non prescrive, in nessuna delle sue forme, la tolleranza alla quale siamo soliti attribuire valore, cioè la non interferenza del potere in determinati ambiti dell'azione umana, come quelli della manifestazione del pensiero o della religione: esso conferisce infatti validità alle regole di ogni possibile cultura, a prescindere dalla questione se queste garantiscano o non garantiscano la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa o qualunque altra libertà.
Un'idea piuttosto diffusa è che il valore della tolleranza presupponga il relativismo metaetico o lo scetticismo metaetico, perché solo dalla convinzione che in etica vi siano molte verità o nessuna verità può seguire l'idea che non vi è alcuna ragione per imporre agli altri le nostre credenze morali o determinati comportamenti che ci appaiono giusti. Anche questo modo di pensare, però, è evidentemente sbagliato: relativismo metaetico e scetticismo metaetico non implicano alcun valore particolare, e dunque neppure il valore della tolleranza .Per contro, chi ritenga che il valore della tolleranza sia provvisto di un fondamento oggettivo, e dunque debba essere adottato da tutti, si porrà inevitabilmente nell'ambito dell'oggettivismo metaetico .
Alcuni sembrano infine ritenere che dal relativismo segua il pacifismo e dal suo opposto la legittimazione della guerra, almeno in alcune circostanze. In particolare vengono addossate responsabilità belliche alle dottrine morali universaliste che fanno proprio il valore della democrazia o l'idea dei diritti umani. Anche questa posizione, però, è evidentemente sbagliata. Da un lato è vero che il relativismo etico normativo assicura la pace tra le diverse culture (mentre ciò non è evidentemente assicurato né dal relativismo etico descrittivo né dal relativismo metaetico). Dall'altro lato, però, è falso che l'universalismo etico normativo legittimi necessariamente la guerra in qualche circostanza. Le dottrine morali universaliste possono infatti essere le più varie quanto al contenuto, e dunque possono essere le più varie anche le posizioni che da esse discendono riguardo alla legittimità della guerra nell'una o nell'altra circostanza.
Neppure si può sostenere che la guerra sia necessariamente legittimata da dottrine universaliste che facciano proprio il valore della democrazia o l'idea dei diritti umani. Se e in quali circostanze la guerra sia legittima dipende, ancora, dal contenuto complessivo di queste dottrine. È certamente probabile che dottrine di questo genere consentano azioni e interventi volti a favorire l'instaurazione di regimi democratici o a garantire la protezione dei diritti umani. Ma questi non saranno necessariamente interventi bellici: sono indubbiamente possibili dottrine universaliste che in ogni circostanza (o in quasi tutte le circostanze) consentano solo forme di intervento che sarebbero giudicate favorevolmente dalla maggior parte dei pacifisti. |
La questione del relativismo tra filosofia e dibattito pubblico
1. Il puro e l'impuro
Il relativista a buon mercato è ansioso di tradurre il proprio punto di vista in atteggiamenti pratici, in prese di posizione definite in ambito politico. Ma il relativismo può essere formulato anche in una prospettiva del tutto diversa: cioè, come una tesi concernente la natura delle norme morali che non ci dice di per sé nulla su quali norme debbano o possano essere adottate. Inoltre, si può essere relativisti in etica anche senza respingere in blocco l'idea di una verità oggettiva e assoluta. Il relativista a buon mercato tipicamente ignora questa distinzione; ma c'è invece chi ne tiene conto, sostenendo contemporaneamente l'oggettività dei fatti e la soggettività e relatività dei valori. «La concezione soggettivistica dei valori appare [...], almeno a prima vista, molto più plausibile. La ragione di questa apparente plausibilità è che, nel caso dei valori, sembra che non abbiamo un'analoga distinzione tra il valore intrinseco di qualcosa e la nostra opinione sul suo valore. [...] Le cose sono "là fuori", e sono come sono indipendentemente da quel che ne possiamo pensare noi; i valori, invece, non sono "là fuori" indipendentemente dal fatto che noi li attribuiamo (o, almeno, li riconosciamo). O così ci sembra a prima vista» . Naturalmente, quest'ultima frase suggerisce che in realtà le cose non stanno come ci sembra a prima vista, e che quindi anche i valori sono oggettivi, sono quello che sono a prescindere dalle nostre opinioni in proposito. Sebbene capiti di rado che le opinioni etiche, politiche o religiose possano essere giustificate in modo tale da guadagnare ad esse un consenso generalizzato, ciò «non equivale a una dimostrazione che in questi ambiti la conoscenza sia impossibile e la discussione infondata» . Il «soggettivismo nichilistico» o semplicemente «nichilismo». L'idea è che, da un lato, qualcosa sia un valore per un soggetto X solo se X lo riconosce come tale, e che, dall'altro, il riconoscimento da parte di X di qualcosa come un valore sia determinato completamente dalla biologia, dalla psicologia, dalla storia personale di X; sicché in definitiva «è un mero fatto - l'effetto di un processo causale - che qualcosa sia un valore per qualcuno» . Il nichilismo, conferisce al relativismo etico un contenuto abbastanza preciso, ma ne costituisce anche una versione particolarmente problematica: infatti, «l'operazione nichilistica sui valori, in buona sostanza, abolisce la dimensione morale dell'esistenza e svuota il vocabolario dell'etica» . Perché? Perché il nichilismo implica che «non ci sono propriamente valori, ma soltanto preferenze (individuali o collettive) determinate da varie circostanze» e che le opzioni in campo etico sono in definitiva come le scelte dettate dal gusto: « Si scelgono i valori come si scelgono le marche di sigarette o gli abiti da indossare» .
Non è vero - si potrebbe essere tentati di rispondere - che il nichilista sia costretto ad assimilare l'adesione ai valori morali alle mere scelte di gusto, perlomeno se, queste ultime sono concepite come cose di scarsa importanza. Anche l'oggettivista etico più convinto - si potrebbe dire - deve ammettere che le nostre esistenze sono in larga misura plasmate dalla nostra costituzione fisica e psicologica e dalla nostra storia personale: chi negherebbe mai che questi fattori, agendo per via causale, concorrano a determinare non solo dettagli marginali come la predilezione per un tipo di sigarette o un certo hobby, ma il nostro intero stile di vita, le nostre simpatie e antipatie più radicate, i nostri odi e amori più intensi e profondi? Chi negherebbe mai che fattori puramente causali intervengano a costituire il nostro stesso senso di identità personale? Ma allora - si potrebbe concludere - che cosa c'è di così assurdo nell'idea che anche l'adesione a certi valori morali piuttosto che ad altri sia determinata da cause dello stesso tipo?
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Si noti: i "valori" del nichilista non perdono la loro natura di valori perché non siano più in grado di orientare il comportamento di chi li riconosce. Gusti e preferenze possono condizionare il comportamento al massimo grado. [...] I gusti sono in questo senso impegnativi quanto i valori. Non sono, però, impegnativi sul piano specificamente morale .
Presentare una scelta come determinata casualmente da fattori "oggettivi" riduce la nostra responsabilità, e soprattutto dissocia la scelta da ogni giudizio di superiorità sull'oggetto della scelta [...] Una scelta motivata soltanto dai propri gusti non implica alcun giudizio di valore su ciò che viene scelto, né di disvalore su ciò che viene scelto. Allo stesso modo, se una scelta è determinata soltanto da circostanze oggettive - biografiche, ambientali, sociologiche - essa non implica alcun giudizio di valore .
Dunque, sebbene alcuni dei suoi esempi siano da questo riguardo un po' fuorvianti, il contrasto tra valori morali e gusti che, rende assurdo il nichilismo non è costituito da un diverso grado di radicamento nella nostra psiche o di incidenza sui nostri comportamenti; è invece una differenza intrinseca e irriducibile concernente il tipo di giudizi attraverso i quali l'adesione ai valori morali e le preferenze di gusto rispettivamente si esprimono e il tipo di impegni che, tramite la formulazione di questi giudizi, si contraggono.
Una volta chiarito questo, però, c'è ancora spazio per una difesa del nichilismo. Ammettiamo pure che, i giudizi morali - per il nostro modo di intenderli, per il tipo di giustificazioni che ne diamo e le conseguenze che ne traiamo - debbano essere classificati in una categoria nettamente distinta da, e non riducibile a, quella dei giudizi di gusto (o più in generale dei giudizi per mezzo dei quali diamo voce a predilezioni dichiaratamente soggettive). La cosa è plausibile. C'è, intuitivamente, un divario netto tra il dire, da un lato, "Detesto le fragole" o "Mi piace la montagna" e il dire, dall'altro, "Si devono aiutare i più deboli" o "E' male non mantenere la parola data": in particolare, io posso rendere conto esaurientemente delle due prime affermazioni menzionando una mia caratteristica fisica (sono allergico alle fragole) o certi dati autobiografici (quando da bambino mi portavano in vacanza in montagna, mi ci divertivo più che al mare); nel caso dei giudizi morali, considerazioni del genere sarebbero una giustificazione inadeguata e rischierebbero anzi di suonare incongrue. Benissimo. Ma da ciò segue forse che il nichilista, per il fatto di sostenere che anche l'adesione ai valori morali è determinata, in fondo, dalla nostra costituzione psico-fisica e dalla nostra storia personale, «abolisce la dimensione morale dell'esistenza e svuota il vocabolario dell'etica»? Non necessariamente. La tesi del nichilista è, in realtà, compatibile con il riconoscimento della specificità e irriducibilità del linguaggio morale e del sistema concettuale che lo sottende.
Per chiarire i termini della questione, torna buono l'esperimento mentale seguente. Immaginiamo una comunità i cui membri siano abituati a fare riferimento a due elenchi - A e B, diciamo - che includono ciascuno cose assai disparate: animali, piante, oggetti, alimenti, luoghi, attività, stati in cui un individuo può occasionalmente trovarsi, ecc. Le cose nell'elenco A sono dette "pure", quelle nell'elenco B "impure". Questa classificazione ha conseguenze importanti per la vita della comunità: essa induce a forme di comportamento anche molto complesse che rispecchiano, parlando in generale, un atteggiamento positivo nei confronti delle cose che figurano nel primo elenco, e un atteggiamento negativo nei confronti di quelle che figurano nel secondo. Peraltro, i membri della comunità non sanno spiegare in modo articolato che cos'è che rende puro ciò che è puro e impuro ciò che è impuro, non sono in grado di fornire, per queste due nozioni, qualcosa che somigli a una definizione. Negherebbero che "puro" e "impuro" significhino rispettivamente attraente e disgustoso, sebbene l'elenco A includa molte cose che i più trovano attraenti e l'elenco B molte cose per le quali i più provano disgusto; negherebbero che significhino rispettivamente salubre e insalubre, sebbene molte cose classificate come pure siano davvero salubri e molte classificate come impure insalubri; negherebbero che significhino rispettivamente consentito e vietato dai libri sacri, sebbene i libri sacri dicano in forma esplicita di molte cose pure che sono consentite e di molte cose impure che sono vietate; ecc. Gli elenchi A e B sono aperti, soggetti ad ampliamento e talvolta a rettifica. Di tanto i tanto i sapienti della comunità si chiedono se sia pura o impura una cosa non ancora classificata o la cui classificazione sia stata messa in dubbio; dal modo in cui affrontano la questione si capisce che si tratta secondo loro di stabilire una verità di fatto, non di prendere una decisione arbitraria; dopo una lunga discussione trovano un accordo ed esprimono un parere; e la loro autorevolezza fa sì che tale parere sia accettato dagli altri.
Di fronte a una quadro come quello descritto, noi, osservatori esterni non partecipi delle credenze della comunità, ci domandiamo quali mai possano essere le proprietà designate dagli aggettivi "puro" e "impuro". Rileviamo alcune regolarità, facciamo alcune ipotesi; ma, nonostante i nostri sforzi, non ne veniamo a capo. Finiamo per concludere che i membri della comunità sono vittime di una illusione: non è vero che, quando usano questi due aggettivi, stiano parlando, come pensano, di due proprietà determinate; non è vero che, quando si interrogano sulla purità o impurità di qualcosa, si pongano una questione che ha un'unica risposta oggettivamente corretta; la progressiva costituzione degli elenchi A e B è determinata in realtà da fattori eterogenei e casuali. Insomma: finiamo per adottare un'analisi nichilistica del puro e dell'impuro. Si dovrà allora dire che questa nostra analisi abolisce quella che è, per i membri della comunità, una «dimensione dell'esistenza» e che ne «svuota il vocabolario»? In un certo senso sì, naturalmente; ma in un altro senso no: non nel senso che l'analisi tradisca la specificità e irriducibilità del modo di pensare e di esprimersi dei membri della comunità quando sono in gioco il puro e l'impuro. Siamo persuasi, poniamo, che i vermi e i cioccolatini sono stati classificati tra le cose impure gli uni perché provocano in molti un'istintiva ripugnanza, gli altri perché una volta un sommo sacerdote ne ha fatto indigestione: non per questo siamo costretti a dire che, nel linguaggio della comunità, "I vermi sono impuri" e "I cioccolatini sono impuri" equivalgono rispettivamente a "I vermi mi ripugnano" e a "Se uno mangia troppi cioccolatini, gli viene il mal di pancia". L'analisi nichilistica è perfettamente compatibile con il riconoscimento del fatto che i membri della comunità concepiscono e usano gli aggettivi "puro" e "impuro" come se designassero due proprietà oggettive non suscettibili di essere caratterizzate in modo compiuto con parole diverse. Inoltre, il nichilista può benissimo descrivere le conseguenze che la classificazione delle cose in pure e impure ha per la vita della comunità; può addirittura avere buone ragioni per sostenere che, sebbene fondata in definitiva su un'illusione, l'abitudine di classificare le cose in questo modo ha, all'interno della comunità, una funzione positiva.
2. Argomenti profani
Le tesi filosofiche hanno di rado implicazioni politiche dirette. Perciò ho cercato di evitare di aver l'aria di voler stabilire chi, tra il relativista e l'antirelativista, è il vero amico della democrazia liberale, il vero critico del potere, il vero avversario dell'autoritarismo e del totalitarismo, e al tempo stesso il più sicuro baluardo contro il terrorismo e le altre forme di violenza intollerante. Semplicemente non credo che nessuna di queste posizioni sia una diretta conseguenza di questa o quella forma di relativismo, o di negazione del relativismo .
In una situazione in cui le società e le culture non sono più protette dalla distanza, il confronto è inevitabile: la scelta è soltanto tra un confronto serio, fondato su conoscenze, e la chiacchiera multiculturale, basata su aneddoti, impressioni e pregiudizi .
Qualunque cosa si intenda per "serio", è indiscutibile che il confronto o è serio o non è serio. Personalmente, però, tra le cose non serie farei rientrare anche, oltre la «chiacchiera multiculturale», tutte le nefaste scempiaggini su identità, radici, conflitto tra civiltà, orgoglio dell'Occidente, ecc. per mezzo delle quali si è cercato e si cerca di coonestare scelte di politica internazionale che con la salvaguardia di grandi valori etici e culturali non hanno in realtà nulla a che fare.
«Il valore della tolleranza» è «considerato, non a torto, tipicamente europeo-occidentale» .Secondo Amartya Sen, «la tesi [...] dell'eccezionalismo occidentale in materia di tolleranza» è «frutto solo d'ignoranza». Ne so troppo poco per avere in proposito un'opinione personale (anche se i fatti menzionati da Sen mi colpiscono come significativi). Comunque, trattandosi di una tesi controversa e che per giunta, vera o falsa che sia, si presta a usi capziosi ("siccome noi siamo tolleranti e loro no, bombardiamoli" o, meno ferocemente, "siccome noi siamo tolleranti e loro no, vietiamogli di costruire moschee"), è forse inopportuno asserirla senza addurre evidenza a suo sostegno.
Naturalmente, che ci sia scarso consenso intorno alle giustificazioni che vengono proposte per questa o quella credenza religiosa o etica non abolisce il diritto di ciascuno di presentare quelle credenze come giustificate: si tratterà di vedere caso per caso, come sempre, se le giustificazioni proposte siano accettabili. [...] Nel dibattito pubblico non si accredita una tesi presentandola come oggetto di fede, né la si scredita in nome della laicità. Chi rifiutasse di dar ragione delle proprie tesi meriterebbe davvero il titolo di 'dogmatico', che invece non spetta automaticamente a chi, semplicemente, propone tesi minoritarie che sono, mettiamo, parte integrante di una visione religiosa delle cose. Le autorità religiose o anche i semplici credenti, che intervengono nel dibattito pubblico proponendo tesi coerenti con la loro visione religiosa ma sostenendole con argomenti «profani» sono spesso sospettati di mistificazione: in realtà, si dice, sostengono quelle tesi perché le fanno derivare dalla loro fede, e i loro argomenti sono un puro orpello retorico:
Si crea spesso l'equivoco per cui gli esponenti della religione-di-Chiesa dichiarano di voler difendere posizioni secondo "ragione" puramente umana e laica, mentre in realtà la forza del loro argomentare poggia (in modo non detto) su postulati religiosi o di dottrina teologica o metafisica, che sono di fatto sottratti alla discussione pubblica corrente e alla presunta incompetenza dei laici. Le obiezioni di questo genere, a me pare, sono irrilevanti. Le argomentazioni vanno sempre prese al loro valore facciale: se sono cattive argomentazioni, vanno respinte perché sono cattive; se sono buone, vanno accolte quali che siano le ragioni profonde e nascoste che hanno indotto a metterle in campo. [...] Processi alle intenzioni e denunce di secondi fini sono scorciatoie che lasciano il tempo che trovano [...], e tendono a spostare il confronto dal piano della discussione a quello dell'insulto .
Tre punti a mo' di commento.
Primo. Direi anch'io che ciascuno ha il diritto di «presentare [le proprie] credenze come giustificate»; anzi, direi semplicemente che ciascuno ha il diritto di presentare le proprie credenze. Marconi afferma: «nel dibattito pubblico non si accredita una tesi presentandola come oggetto di fede». Non mi è chiaro che cosa significhi "accreditare nel dibattito pubblico"; comunque, se qualcuno dichiara pubblicamente di credere qualcosa per fede, io non mi scandalizzo: magari lo sto persino a sentire e magari trovo quello che dice interessante.
Secondo. «Le argomentazioni vanno sempre prese al loro valore facciale: se sono cattive argomentazioni, vanno respinte perché sono cattive; se sono buone, vanno accolte». Sottoscrivo. E nel caso specifico delle argomentazioni addotte dalle autorità cattoliche a sostegno dei loro decreti in campo etico - perché di questo appunto si sta parlando -, ritengo che siano perlopiù argomentazioni cattive, anzi pessime: sovente «meri orpelli retorici». Quando si deve valutare la bontà di una (presunta) argomentazione, il dire che si tratta di un mero orpello retorico non è affatto un'«obiezione irrilevante»; al contrario, è un'obiezione sostanziale.
Terzo. Un conto sono le argomentazioni, un altro l'argomentare e il discutere. Dovendo decidere se impegnarmi in una discussione, o se perseverare in una discussione già avviata, non posso non tenere conto dell'atteggiamento e dei fini dei miei interlocutori. Le ragioni (profonde e nascoste o magari alla luce del sole) che inducono qualcuno a mettere in campo certe argomentazioni non hanno il potere di trasformare un'argomentazione buona in una cattiva o viceversa, ma rendono più o meno sensato, a seconda dei casi, il mio discutere con lui.
Fermiamoci su questo punto. «Chi rifiutasse di dar ragione delle proprie tesi meriterebbe davvero il titolo di 'dogmatico', che invece non spetta automaticamente a chi propone tesi minoritarie che sono parte di una visione religiosa delle cose». In realtà, l'essere o no dogmatici non ha molto a che fare con il dare o non dare ragione delle proprie tesi, almeno se per "dare ragione" si intende il sostenere per mezzo di argomentazioni. Da un lato, al livello delle scelte etiche fondamentali la possibilità di argomentare è in generale assai più ridotta per usare le semplici parole di Hume, «la morale è più sentita che giudicata». Dall'altro, si può essere dispostissimi a dare ragione delle proprie tesi ed essere ciò nonostante dei dogmatici. Dogmatico è colui il quale - indipendentemente dal fatto che possa e voglia sostenere il proprio punto di vista con argomentazioni esplicite e articolate - esclude a priori la possibilità di riconoscersi in errore, di cambiare idea, di uscire mai da una discussione ammettendo che chi la pensava diversamente da lui lo ha convinto. Inutile aggiungere che questo è l'atteggiamento tipico delle autorità ecclesiastiche quando emettono i loro pronunciamenti in campo etico. Molti di noi credono di sapere un sacco di cose su come è fatto il mondo; al tempo stesso, si rendono conto che l'errore è sempre in agguato e che la fiducia nella propria capacità di distinguere il vero dal falso è tanto più fondata quanto più si è pronti a sottoporre i propri convincimenti alla prova della logica e dell'esperienza, modificandoli se necessario. Analogamente, possiamo accettare certi principi morali e, al tempo stesso, essere aperti a una loro revisione, se a ciò dovesse indurci qualche argomentazione persuasiva o, più verosimilmente, qualche esperienza personale o magari l'esposizione a condizioni, forme di vita, mentalità diverse dalle nostre. Ma un atteggiamento aperto di questo genere è, ovviamente, quanto di più remoto si possa immaginare dalla rigidezza dottrinale - dogmatica, appunto - propria della gerarchia della Chiesa cattolica.
Ho detto sopra che discutere con qualcuno è più o meno sensato a seconda del suo atteggiamento e dei suoi fini. Ha senso una discussione con il dogmatico? Perché no? Per esempio, può avere il senso di una pubblica tenzone: so che il mio interlocutore non ammetterà mai di avere torto, ma chi assiste al nostro confronto potrà giudicare liberamente se sono migliori le sue argomentazioni o le mie. Nel caso della discussione relativa ai temi etici su cui insiste la Chiesa, però, ci sono varie complicazioni, tra cui quelle derivanti dal fatto che la Chiesa pretende spesso di far valere i suoi decreti anche per chi non li condivide, chiedendo che le leggi dello Stato si conformino a essi. Nel tentativo di legittimare una tale pretesa, la Chiesa ricorre a ciò che Marconi chiama «argomenti profani». E' la famosa storia della "morale naturale": per giustificare questa o quella norma etica - si sostiene - è sufficiente ricorrere a principi che
- sono accessibili anche all'intelligenza non illuminata dalla fede e
- sono vincolanti per tutti, credenti e non credenti. Il laico che, senza mettere in questione una siffatta impostazione, si impegni a discutere gli argomenti della Chiesa relativi a un qualche tema specifico, rischia di trovarsi irretito in una situazione dialettica ambigua.
L'idea che ci siano principi etici che soddisfano le condizioni (i) e (ii) - principi che possono essere conosciuti senza bisogno di dedurli da qualche presunta verità di fede e che hanno validità universale - è un'idea in sé rispettabile e, per così dire, innocua. Il problema sta in un paio di assunzioni ulteriori che conferiscono alla nozione di morale naturale come la Chiesa l'intende un carattere tutto speciale. Dicendo che ci sono principi etici la cui conoscibilità non dipende dalla previa accettazione di una qualche "verità rivelata", si suggerisce che all'identificazione di tali principi possano concorrere tutti tramite il libero confronto delle rispettive opinioni e che nessuno abbia a priori più autorità di chiunque altro in materia. Può perciò sorgere l'illusione che la Chiesa, menzionando principi di cui afferma che soddisfano la condizione (i), attenui il proprio dogmatismo e accondiscenda a dialogare con il non credente su un piede di parità. In realtà, si tratta appunto di un'illusione. Per la Chiesa, i principi della morale naturale non hanno bisogno di essere dedotti da verità di fede; ma solo la luce della fede consente di discernerli in modo chiaro e certo; e quindi, poiché le gerarchie ecclesiastiche si considerano depositarie e uniche interpreti autorizzate della rivelazione, ritengono che anche i loro verdetti nel campo della morale naturale debbano essere accolti come definitivi e insindacabili («il papa è voce della ragione etica dell'umanità» . Questa è la prima assunzione. La seconda riguarda l'interpretazione della condizione (ii). Dire che una norma etica vale per tutti senza eccezioni non significa necessariamente che si debba costringere a rispettarla anche chi non vuole. Supponiamo, per esempio, che sia sempre e comunque immorale suicidarsi; non ne segue affatto che tu debba impedire a un malato terminale di porre fine alle sue sofferenze togliendosi la vita; magari c'è un'altra norma, perfettamente compatibile con la precedente e altrettanto fondamentale, che in un caso del genere ti obbliga a lasciare agire un individuo in conformità alla sua libera scelta, aiutandolo anzi a farlo con dignità. Per la Chiesa, invece, l'attribuzione a una norma etica del carattere di validità universale autorizza proprio a imporne l'osservanza anche a chi non la riconosce. E' solo in virtù di queste assunzioni ulteriori - che, ripeto, non sono affatto conseguenze necessarie di (i) e (ii) - che la nozione di morale naturale può essere invocata dalla Chiesa per cercare di giustificare la propria intromissione nelle scelte dei non cattolici. Il sillogismo delle autorità ecclesiastiche è, in sintesi, il seguente: siccome i principi della morale naturale valgono per tutti indistintamente, bisogna costringere tutti a conformarvisi; ma siamo noi a sapere quali sono i principi della morale naturale; dunque, tutti devono conformarsi a ciò che diciamo noi.
Spero sia chiaro, a questo punto, in che senso rischia di trovarsi in una situazione dialettica ambigua il laico che controbatta gli «argomenti profani» della Chiesa a proposito di questa o quella questione specifica, senza però contestare ciò che la Chiesa, più o meno tacitamente, presuppone e che costituisce lo sfondo su cui il dibattito si svolge. In una discussione, ciò che è presupposto dal mio interlocutore e non è da me esplicitamente respinto, conta come se fosse da me accettato. Il laico dovrebbe quindi avere, in cima alla sua agenda, non la questione della fecondazione assistita o dell'aborto o delle coppie di fatto o qualsiasi altra questione particolare, ma piuttosto la rivendicazione di questi due principi: nel campo della morale non ci sono autorità assolute; qualora, su materie del tipo di quelle di cui si sta parlando, non ci sia unanimità, ciascuno è libero di comportarsi come meglio crede. «Processi alle intenzioni e denunce di secondi fini - sono scorciatoie che lasciano il tempo che trovano, e tendono a spostare il confronto dal piano della discussione a quello dell'insulto». In realtà, è spesso la discussione a lasciare il tempo che trova: e quando questo accade, quando la discussione lascia ognuno della propria opinione, l'unica alternativa alla tolleranza reciproca è non già l'insulto, che sarebbe poco male, ma il reciproco tentativo di sopraffazione.
L'idea che il tentativo della gerarchia ecclesiastica di influenzare il processo legislativo in materia di etica della convivenza e della procreazione costituisca una inammissibile interferenza viene giustificata - appellandosi al principio generale secondo cui «ciascuno è libero di praticare le proprie convinzioni morali e anche di propagandarle, ma non dovrebbe volerle imporre ad altri per legge» .
Lo Stato italiano ha leggi che rispecchiano convinzioni morali largamente diffuse ma non unanimi: si pensi, ad esempio, alle norme sulla tutela del paesaggio. Si dirà che il paesaggio è ovviamente un bene collettivo, e quindi spetta alla collettività normare il suo uso mentre, ad esempio, il corpo di ciascuno è soltanto suo e quindi ciascuno ne fa quello che vuole. Tuttavia, non è così in tutti i casi: il nostro Codice Civile proibisce ad esempio l'automutilazione [...]. Oppure, si pensi alle norme contro la crudeltà sugli animali: in questo caso sono state [....] imposte a tutti certe convinzioni morali che, almeno nel nostro paese, non sono certo unanimi; eppure gli animali non sono un bene collettivo, nella maggior parte dei casi sono proprietà privata di qualcuno .
Il mero fatto che lo Stato italiano abbia certe leggi non significa assolutamente nulla in un contesto in cui la questione è come debbano essere le leggi. Ma non insisterò su questo punto perché il punto cruciale è un altro. Sarebbe certo difficile negare che possano essere accettabili «leggi che rispecchiano convinzioni morali largamente diffuse ma non unanimi»: siccome l'unanimità piena è rara, chi negasse una cosa del genere sarebbe costretto a sostenere che non si ha quasi mai il diritto di legiferare. Per conto mio, auspico leggi che, prima ancora di tutelare il paesaggio o vietare l'automutilazione, rispecchino certi ideali di uguaglianza e solidarietà che, appunto, sono largamente diffusi ma non unanimemente condivisi. Al tempo stesso, però, tutti coloro che non sono fautori del totalitarismo - ammettono che c'è una sfera di libertà individuali che le leggi non devono violare. Il problema è allora semplicemente se a questa sfera appartenga un'ampia gamma di comportamenti rispetto ai quali la gerarchia ecclesiastica manifesta invece una ossessiva volontà di controllo. Io credo di sì.
Da un punto di vista laico, i vescovi sono cittadini italiani come gli altri [...] e hanno diritto di costituire una lobby che si propone di influenzare l'opinione pubblica e il processo legislativo, tanto quanto hanno il diritto di farlo gli industriali del tabacco e del petrolio. I vescovi italiani si comportano, di fatto, proprio come una lobby, cercando di influenzare i parlamentari di cui sono in grado di condizionare l'elezione. Che questo possa non piacere a un cattolico, si capisce; ma un cittadino qualsiasi non dovrebbe avere in questo caso particolare, obiezioni diverse da quelle che può avere all'azione delle lobby in generale. [...] Le lobby possono non piacere, ma, a quanto pare, sono un aspetto inevitabile dei sistemi di democrazia parlamentare; e questi sistemi, si sa, sono i peggiori eccettuati tutti gli altri .
In realtà, grazie al Concordato, i vescovi sono cittadini italiani un po' diversi non solo da me, ma persino dagli industriali del tabacco e del petrolio. E in un paese come il nostro, in cui l'invadenza proterva della Chiesa si estende a tutti i settori della vita civile e politica, parlare di lobby dei vescovi ha quasi il sapore dell'eufemismo. La democrazia si dà per gradi. Sebbene una democrazia perfetta sia un ideale irrealizzabile, chi apprezza la democrazia e ritiene che abbia ancora senso perseguirla non può non guardare con inquietudine a tutti quei casi - li si chiami casi di lobbismo o come si vuole - in cui un gruppo cerca di imporre certe scelte alla collettività agendo al di fuori dei canali attraverso i quali i cittadini possono normalmente esprimere la loro volontà ed esercitare il loro controllo: ogni situazione del genere, infatti, corrisponde a un meno di democrazia. Non è che le lobby possono non piacere; a chi crede davvero nella democrazia, non possono piacere. E chi crede davvero nella democrazia vorrà che il fenomeno sia contenuto e regolato il più possibile. Per ciò che riguarda specificamente l'influenza sul potere politico dalla gerarchia ecclesiastica, si può osservare che in altri paesi a democrazia parlamentare - anche paesi con una forte tradizione cattolica - essa è molto minore che da noi: quindi, sia vero o falso in generale che «le lobby sono un aspetto inevitabile dei sistemi di democrazia parlamentare», non c'è motivo di ritenere che le intrusioni indebite della Chiesa debbano essere subite come una necessità storica ineluttabile. |