Filosofia estetica

 

 

 

Filosofia estetica

 

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Filosofia estetica

 

Appunti del Corso di Estetica, modulo I
2006-2007, secondo semestre (Gianluca Garelli)

Il gusto come problema filosofico

raccolti da:
Viviana Arena
Valeria Manco
Davide Cancila
Chiara Fortezzi
Elisa Foschini

                                                                                                                          
1. Il problema della definizione di una disciplina.

Esiste una certa divergenza su come definire la disciplina filosofica. C’è chi la guarda in modo dogmatico dividendola in categorie, ma in realtà non si può dare una definizione che valga per sempre e che non guardi ai suoi sviluppi. Ovviamente questo vale anche per l’estetica.
Il nostro percorso ha uno specifico punto di partenza che ci porterà a sviluppare progressivamente l’argomento: la vicinanza della pubblicazione, in apertura del XX secolo, di due opere fondamentali. Queste sono l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, pubblicata nel 1902 da Benedetto Croce, e i Principia Ethica,pubblicati nel 1903 da Gorge Edward Moore. Due opere molto lontane nel concepire la filosofia ma accomunate da almeno un aspetto, per noi di particolare interesse: il ricorso alla nozione di intuizione.


Croce definisce l’esperienza estetica (ossia cosa si possa concepire come arte e cosa non sembri avere tale validità) attraverso la categoria dell’intuizione. L’opera d’arte è il risultato cioè della dialettica fra intuizione ed espressione. L’artista ha un’intuizione, ed attraverso la sua modalità espressiva dà vita ad una materia artistica. Però, sorge un dubbio: che rapporto c’è, in Croce, tra le due nozioni? Vi è tra loro equilibrio, o non forse piuttosto uno squilibrio? La risposta è che, in ultima analisi, appare più importante l’intuizione dal momento che, grazie ad essa, l’opera sta già tutta nella mente dell’artista ed è nella sua forma migliore. L’espressione va intesa dunque anzitutto come un mezzo per realizzare ciò che è già compiuto dall’intuizione.


Va detto che Moore non parla esplicitamente di estetica, dato che i Principia si occupano di problemi morali. In questo senso, egli delinea una prospettiva che si potrebbe definire di realismo antinaturalista: esistono cioè proprietà morali che non sono riconducibili a proprietà naturali. Sulla base della tradizione empiristica (soprattutto Hume), Moore ritiene cioè che non sia corretto che i ragionamenti volti a indagare la verità della natura e della sua conoscenza si applichino alla morale. Detto in breve: il fatto che una cosa esista non significa di per sé che essa sia buona; ovvero: dalla semplice posizione dell’essere non si può ricavare un dovere (fallacia naturalistica).
Ora però: se si volesse ora sostituire la parola «etica» con «estetica», e la nozione di «buono» con quella di «bello», troveremmo un perfetto parallelismo tra i due concetti. Infatti, che cos’ è davvero il bello? Potremmo fare tanti esempi: l’amicizia, una canzone, una donna… Ma ciò sarebbe limitativo rispetto alla portata della questione: perché ancora non avremmo risposto in generale il che cosa. Seguendo l’argomentazione di Moore, si potrebbe cercare di risolvere in prima approssimazione la questione dicendo che tutto ciò che tiene insieme queste risposte è una proprietà naturale delle cose, per esempio il piacevole. Dire che il bello è piacevole però è solo uno spostamento del problema originario, e la creazione di un altro. Dobbiamo infatti chiederci: lo spettro semantico delle due parole (bello e piacevole) coincide davvero? E soprattutto: siamo poi proprio sicuri, a questo punto, di saper definire almeno il piacevole? Bello e piacevole infatti sono proprietà che non coincidono del tutto: non creano una tautologia. Bello è dunque, secondo l’argomento che Moore adopera per il buono, una proprietà autoevidente, autonoma ed oggettiva, nel senso di oggetto d’intuizione primitiva; una qualità che si potrebbe definire sopravveniente. La proposta di Moore è in un certo senso paradossale, giacché sembra rivendica l’oggettività di un’intuizione. Per spiegare il paradosso, potremmo forse citare Kant, il quale attribuisce alla legge morale razionalità ed oggettività, è oggettiva in quanto valida per tutti nel regolare imperativamente l’azione.


Appare ora evidente dove si possa riscontrare la coincidenza tra Croce e Moore in ambito estetico: proprio nell’intuizione, e ciò, nonostante il fatto che i due filosofi appartengano a due matrici culturali opposte. Questo e molto significativo. Il richiamo a una nozione problematica come quella di «intuizione» ha fatto sì che l’estetica fosse al centro di un dibattito filosofico molto acceso.

Ludwig Wittgenstein pubblicò nel il Tractatus logico-philosophicus, e, sulla scorta del neopositivismo, elaborò una teoria rappresentazionale del linguaggio. Il linguaggio, se deve essere significativo, deve corrispondere analizzare le condizioni di validità di una proposizione del tipo «S è P» (ossia: a un certo soggetto spetta un certo predicato). Secondo Wittgenstein, una frase ha senso solo se i nomi che la compongono rispecchiano stati di fatto; tutto il resto è insensato. Esistono allora ambiti del sapere che hanno senso, come quelli naturali, ed altri che non lo sono, come appunto l’etica e l’estetica. In questo senso, è emblematica la proposizione finale (n. 7) del trattato: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Da una parte c’è il discorso che può avere legittime pretese di verità e oggettività; dall’altra c’è il dominio dell’insensato.
Come è noto, questa non sarà certamente l’ultima parola di Wittgenstein al riguardo dell’estetica e dell’etica. Ma, sul piano storico-culturale, quali sono le conseguenze di posizioni come queste?
Alfred J. Ayer, fra i padri della filosofia analitica, scrisse Linguaggio, verità e logica (1936) proprio sulla scia di una lettura rigida del Tractatus wittgensteiniano e di altri testi neopositivistici; e finì per concludere proprio che l’etica e l’estetica non fossero scienze. Esse esprimerebbero solo uno stato emotivo. Dire che qualcosa «mi piace» sarebbe, sul piano argomentativo, nulla di più che dire «evviva questo!»: gli attributi dell’etica ed estetica si limiterebbero secondo Ayer a esprimere uno stato emotivo di chi pronuncia il giudizio (emotivismo).


Nei primi anni del Novecento, l’estetica va dunque incontro a una sorta di riduzionismo, o addirittura di negativismo: la filosofia (soprattutto in area analitica) scopre che il dibattito sull’estetica e sull’etica riguarda questioni non concrete e tangibili, e quindi non riesce a fondarsi. Per cui, le soluzioni che rimangono sono poche:
1) il razionalismo eliminativista elimina l’estetica dalla filosofia stessa, in quanto incapace di argomentare razionalmente;
2) la rinascita di una certa tendenza verso un’estetica positivistica (nell’ambito soprattutto del cosiddetto neopositivismo) riconosce che essa esiste, e perciò, si deve fondare attraverso le scienze, le sole a poterla definire. Le esperienze estetiche sarebbero, da questo punto di vista, misurabili in per esempio chiave psicologica, e quindi possono rispondere con regolarità misurabile a determinate leggi. Un esempio estremo potrebbe essere costituito, in questo senso, dall’ideale di macchine capaci di registrare parametri come il battito cardiaco, le varie reazioni fisiche ed emotive di un soggetto di fronte ad un’opera d’arte: la registrazione di queste reazioni ci darebbe così una misurazione scientifica del suo stato emotivo, «esteticamente» sollecitato. È evidente tuttavia che ciò vorrebbe dire orientare l’estetica verso una psicologia positivistica che non farebbe che ribadirne l’inesistenza come considerazione filosofica vera e propria.

 

2. Una considerazione storica: il battesimo dell’«estetica» moderna, tra Baumgarten e Kant.

Il fatto che non si possa definire una volta per tutte che cosa l’estetica sia non implica però che la sua vicenda storica sia priva di significato, e che non sia degna di essere filosoficamente interpretata. Per esempio, ed è quanto ci si propone di fare qui, si potrebbe quantomeno analizzare il problema del gusto a livello storico.
Del gusto non è sempre esistita una definizione; del resto, non bisogna lasciarsi sfuggire il significato metaforico di questa nozione. La parola «gusto» designa infatti pur sempre, in primo luogo, uno dei cinque sensi, anzi: l’intimo fra di essi. Eppure, in ambito estetico, questa nozione come vedremo travalica il livello soggettivo, e diventa significativa per una più ampia concezione storico-culturale generale.
Tutto ciò pone la questione, per esempio, del divenire storico dell’estetica e delle sue categorie – ossia, innanzitutto, del rapporto fra l’estetica antica e l’estetica moderna.La domanda in primo luogo potrà essere allora: l’estetica antica è paragonabile a quella moderna, nell’interrogarsi su cosa sia il bello e l’arte? Se – come è probabile – fra i due modi di vedere si dovesse riscontrare una grande distanza, o addirittura un abisso, l’idea (portata avanti per esempio in ambito fenomenologico) di fondare per sempre l’estetica su qualcosa di puro e di a priori finirebbe per incontrare molte difficoltà nel rendere ragione di come la «sensibilità estetica» possa cambiare col tempo (si pensi alla variazione appunto del gusto).
Ma il problema deve essere posto in maniera ancora più radicale. Si può davvero dire che sia esistita un’estetica antica? Certamente no, se guardiamo alla disciplina e alla nozione di «estetica» da un punto di vista propriamente moderno. Sì, invece, se osserviamo che, per esempio, sia in Platone sia in Aristotele, o magari in Plotino e Agostino, sono stati trattati argomenti in senso lato «estetici». Come possiamo renderci ragione di questa incongruenza?

Un serio approccio storico deve incominciare da un’analisi dell’origine etimologica della parola «estetica».  Essa ci rivela come, in un certo senso, questa parola nasca quasi da una piccola bugia dalle grandi conseguenze: sia, cioè, dovuta a una falsa etimologia. «Estetica» si fa derivare dal dal greco «aísthesis» (la stessa radice del verbo aisthànomai), che significa «sensazione, percezione». I filosofi moderni sulla base di tale parola hanno dato origine al termine estetica attraverso un calco artificioso dell’aggettivo aisthetikon, appunto un attributo che indicava il sensibile. I greci infatti non pensavano certamente di parlare di «estetica» come disciplina,né di fondarla filosoficamente. Per loro, anzi, l’esperienza percettiva non aveva nulla a che fare con la bellezza artistica (come invece sembrerebbe essere, in prima approssimazione, per la filosofia moderna).
Chi è stato colui, dunque, che ha finto di richiamarsi a una auctoritas antica per fondare una disciplina filosofica nuova?
Si tratta di un discepolo di Christian Wolff, padre dell’illuminismo tedesco e filosofo del Settecento, seguece di Leibniz. Wolff sistematizza il pensiero leibniziano attraverso la filosofia di Aristotele (Leibniz infatti non era un filosofo sistematico come Aristotele). Il discepolo di Wolff di cui si parla è Alexander G. Baumgarten. È stato lui a inventare e adoperare la parola «Estetica» per la prima volta nelle sue due opere: Meditazioni su alcuni aspetti del poema (1736) e Aesthetica (1750-1758). Fra le varie definizioni che Baumgarten offre di «estetica», ce ne sono due particolarmente significative, di cui si tratta di comprendere la compatibilità. Egli intende per estetica:
1) la gnoseologia inferiore, ossia la filosofia della conoscenza dovuta alle facoltà inferiori;
2) la scienza filosofica che si occupa del bello.
Baumgarten elabora dunque un sistema filosofico che vede l’estetica intesa sia come la filosofia del bello e dell’arte, sia come analisi filosofica delle facoltà inferiori della conoscenza: entrambe le definizioni sono tuttavia basate sugli stessi principi. Nella prospettiva scolastica, la nostra mente,  nell’atto del conoscere, si articola in intelletto (la facoltà superiore che pensa per concetti) e in sensibilità, la facoltà inferiore e ricettiva delle esperienze. Era stato Cartesio (Meditazioni metafisiche, 1641)a esigere che il sapere trovasse fondazione solida in una razionalità che ne garantisse il valore universale e necessario: invece la sensibilità non ci dà tale fondamento, se no ne risulterebbe giustificata la legittimità di qualsiasi opinione. Ognuno infatti ha una propria esperienza soggettiva e non tutti condividiamo le stesse esperienze. Cartesio invece diceva che la verità di un’esperienza è resa valida dal fatto che 1) abbiamo la certezza del cogito, ossia di essere cosa pensante; 2)possediamo le idee innate, anzitutto quella di Dio, della cui esistenza ritiene che la ragione possa offrire prova certa.


Ora, il problema che ci si pone è: che relazione c’è tra soggettività ed oggettività nell’ambito estetico?
Baumgarten, con la gnoseologia inferiore vuole dare all’estetica il ruolo di scienza filosofica della conoscenza percettiva. Aristotele diceva che non c’è niente nella nostra conoscenza che non sia passato dai sensi. Baumgarten, rimanendo nella prospettiva leibniziano-wolffiana, dice che le nostre conoscenze sono garantite da due qualità: la chiarezza e la distinzione. Ma già secondo Cartesio una conoscenza è vera quando è evidente, ossia chiara e distinta; e questo è per esempio un criterio valido per distinguere la realtà dal sogno. I filosofi scolastici come Baumgarten, si soffermano sul legame fra i due termini. Chiarezza e distinzione sono infatti per loro due gradi progressivi della conoscenza: una rappresentazione può essere chiara ma non ancora distinta, ma non viceversa. Nella prospettiva della scuola, la facoltà inferiore e quella superiore collaborano in una continuità all’attività conoscitiva: attraverso la sensibilità abbiamo una rappresentazione chiara, e quando questa diviene evidente anche per l’intelletto abbiamo anche la sua distinzione. Essi non vogliono intendere la mente come divisa in due, ma semmai come funzionante in due modi diversi, secondo appunto due facoltà: vivremmo altrimenti, paradossalmente, in mondi paralleli.
Baumgarten attribuì dunque alla logica lo studio della facoltà superiore, e all’estetica quello della facoltà inferiore. (Kant metterà in questione tale concezione, accettando la separazione fra le due facoltà: perciò come vedremo sarà fondamentale comprendere il ruolo che nella sua filosofia sarà rivestito dall’immaginazione). Questo è un modello di pensiero ipotizzato per non cadere nello scetticismo che rappresenta l’impossibilità di conoscere razionalmente ed oggettivamente. A differenza di Dio, che ha una conoscenza sia particolare che universale e possiede la chiarezza e la distinzione di tutte le rappresentazioni, l’uomo, che ha una mente finita, limita la propria conoscenza attraverso il condizionamento dei sensi. Se noi avessimo la capacità di far sì che tutte le nostre conoscenze da chiare divenissero anche distinte, saremmo paradossalmente come Dio; tuttavia siamo costitutivamente collocati nello spazio e nel tempo, abbiamo un’esistenza finita. Dio invece, come afferma Leibniz, ha presente la totalità del mondo nello spazio e nel tempo (quindi anche la totalità della storia).
Ora, Baumgarten afferma che della chiarezza si può parlare in due accezioni:
1) chiarezza intensiva: più si intensifica la chiarezza di una rappresentazione, o meglio, di una sua nota caratteristica,più essa va in direzione della distinzione (proprietà qualitativa);
2) chiarezza estensiva, la quale, più che esprimere qualitativamente la proprietà di ciò che si conosce, ne enumera quantitativamente le varie caratteristiche.
Ma tutto ciò cosa ha a che fare con il bello?
Va detto che per Baumgarten l’opposto di una conoscenza chiara e distinta è una conoscenza chiara e confusa. Non si tratta di una contraddizione, nonostante quello che superficialmente potrebbe sembrare. Etimologicamente, infatti, il significato di confusa (con-fusa) è «fusa insieme». Ebbene: Baumgarten riscontra nella poesia una forma di discorso nel quale prevalgono rappresentazioni chiare e confuse. Quindi la poesia esprime la miglior chiarezza estetica possibile (una chiarezza cioè priva di distinzione); laddove, invece, la logica fa affidamento su rappresentazioni chiare e distinte. Ecco allora che quella problematica coincidenza tra la conoscenza sensibile e il sentimento del bello (cioè sostanzialmente le due definizioni dell’estetica sopra ricordate) si giustifica nell’affermazione che il bello è la migliore espressione della sensibilità estetica, perché esso è percepito quando, nelle immagini della poesia, le rappresentazioni sono chiare ma mescolate tra loro (non distinte). Dunque logica ed estetica sono, appunto, due ambiti della filosofia separati.

Come viene recepita la novità terminologica proposta da Baumgarten? Anche in questo caso, la storia si rivela un po’ complicata.
A Johann G. Sulzer, un filosofo svizzero di lingua tedesca, si deve per esempio un’opera monumentale, la Teoria universale delle belle arti (1771-1774): una sorta di vero e proprio dizionario di argomento estetico. Se vi leggiamo la voce «Estetica», troveremo scritto che essa, secondo Sulzer, è «la filosofia delle belle arti, ovvero la scienza che dalla natura del gusto deriva sia la teoria universale sia le regole delle arti belle», la quale «deve essere fondata sulla teoria della conoscenza indistinta e delle sensazioni». Analizzando takle definizione per punti, vedremo che:
1) l’estetica da disciplina gnoseologica diviene ormai anzitutto filosofia delle arti belle, a poco più di venti anni dalla pubblicazione delle teorie di Baumgarten;
2) il gusto serve a formulare una teoria generale su che cosa l’arte sia, e quindi serve a spiegare in che cosa ne consiste la bellezza. Il passaggio è importante, perché in questo modo l’estetica diviene una filosofia: a) descrittiva di che cosa l’arte sia; b) normativa rispetto a come l’arte (nella fattispecie la poesia) deve essere composta. Il che significa: le opere che non rispettano e trasgrediscono la definizione normativa di fatto non possono essere chiamate davvero «arte». Secondo tale teoria le arti vanno eseguite secondo un certo criterio – criterio basato sulla consapevolezza del funzionamento dei meccanismi conoscitivi sensibili dell’uomo.
In Immanuel Kant (1724-1804) gli effetti del discorso baumgartiano sono a dir poco oscillanti. Nel 1764 Kant scrive un’opera precritica non troppo nota, le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime. Qui egli incomincia a elaborare una prospettiva in largo senso “estetica”; eppure è curioso riscontrare come, a qualche anno dalla pubblicazione delle opere di Baumgarten, la parola «estetica» non compaia neanche una volta nello scritto. L’assenza del termine non può essere casuale né quantomeno una mancanza da parte di un autore così attento nei riguardi della filosofia scolastica, e di Baumgarten in particolare.
Quando Kant scrive la Critica della ragion pura (1781), le cose in parte cambiano. Innanzitutto, la critica della ragion pura è l’analisi della ragione dal punto di vista delle forme del suo funzionamento, e non del suo contenuto materiale. Per Kant la ragione è «pura» perché va riempita con la sensibilità (ossia con la materia tratta dall’esperienza). Ora, è noto che il genitivo può avere due valori: oggettivo e soggettivo. In questo caso la critica «della» ragion pura ha la ragione per oggetto, ma la critica stessa, essendo operata dalla ragione medesima, fa sì che questa diventi anche soggetto (dice Kant: giudice del tribunale della ragione in cui questa giudica se stessa e le proprie pretese).
Nella Critica della ragion pura vediamo comparire proprio il termine estetica, che si fa addirittura titolo della prima sezione: «Estetica trascendentale». Per Kant, le nostre forme pure e a priori di conoscere nella sensibilità sono lo spazio e il tempo. Dunque, come per lo stesso Baumgarten, anche qui da Kant l’estetica viene vista come la scienza della sensibilità; ma con un metodo nettamente diverso: quello della filosofia trascendentale (che studia non già le cose in sé, di cui nulla possiamo sapere, ma il modo con cui noi possiamo conoscere i fenomeni). Kant invece in una nota diffida esplicitamente dall’adoperare il termine estetica nell’altra accezione baumgarteniana, in riferimento alla critica d’arte e al bello, ritenendo che si tratti di un uso equivoco e sbagliato.
Kant scrive in seguito la Critica della ragion pratica (1788) e la Critica del giudizio (1790). Occupiamoci di quest’ultima, che da molti è considerata come il primo grande testo classico dell’estetica moderna. Kant suddivide la Critica del giudizio in due parti, e la prima prende il nome proprio di «Critica del giudizio estetico»: laddove però Kant si occuperà proprio di nozioni come il bello e il sublime, e non più affatto della conoscenza sensibile... è evidente dunque che anche la seconda accezione della parola «estetica» viene ora accolta da Kant. In che modo e con quali modificazioni particolari, lo vedremo tuttavia più avanti.
Un’ultima considerazione storica in proposito, in riferimento a Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), altra grande figura dell’idealismo tedesco, la cui filosofia sarà fondamentale per lo sviluppo dell’estetica moderna. Soprattutto grazie ad un suo allievo (H.G. Hotho), il quale trascrisse le sue lezioni, ci sono pervenute le sue lezioni di filosofia dell’arte (Lezioni di estetica, pubblicate postume fra il 1835 e il 1838). Ebbene: è interessante notare come Hegel, nella prima pagina di queste lezioni, annunciando al suo pubblico che l’argomento di studio sarà la filosofia dell’arte, sottolinei fra l’altro che non sa se in proposito l’utilizzo del termine «estetica» sia davvero appropriato, quantomeno se si pensa al significato conferito alla parola da Baumgarten e ripreso da Kant.
Riassumendo: si può insomma affermare che negli anni che vanno da Baumgarten a Hegel, attraverso Kant, nasce quella disciplina che si è soliti designare come «estetica moderna». Nel 1790 Kant compie cioè una sorta di passo indietro ed accoglie a sua volta l’espressione «estetica» in riferimento al discorso filosofico sul bello. Forse proprio in questa scelta kantiana, che analizzeremo più avanti nelle sue peculiarità, è da scorgersi il vero atto di nascita dell’estetica moderna, intesa come ambito disciplinare specifico della filosofia. Emblematica in questo senso è l’affermazione di Croce, che definisce metaforicamente Kant come lo scopritore di un «nuovo continente» della filosofia.

 

3. Problemi di definizione del giudizio di gusto, nel tempo e nello spazio.

Il gusto, in fisiologia, designa un sistema sensoriale che interpreta attraverso la lingua e il palato stimoli fisici. L’accezione traslata, metaforica di gusto fa sì che la parola designi un modo di sentire, di pensare, di condividere esperienze con le altre persone (dunque, paradossalmente, un senso condiviso).
Il gusto è l’intimo fra i cinque sensi: sembra cioè prestarsi meno di tutti alla comunicazione. Mentre la vista e l’udito sono i sensi a distanza, l’oggetto vi è cioè percepito senza contatto, gli altri sensi, a partire dal tatto, esigono il con-tatto con l’oggetto stesso, in particolare il gusto, che addirittura ne esige una interiorizzazione, un’introduzione nel nostro corpo dell’oggetto.
Nell’antichità il verbo latino sapere conservava le due accezioni di gusto: «possedere un senso del gusto», e quindi «saper giudicare». È dunque con una traslazione che «sapere» diventa concettualizzazione e maturazione dell’esperienza sensibile, capacità di giudicare. Un senso che diviene sentimento, modo di sentire; diviene un piacere, un diletto, che non si limita a giudicare un qualcosa di “assaggiato”, ma valuta qualcosa di più complesso: valuta cioè se un qualcosa è caratterizzato da bellezza e bontà.
Nonostante le apparenze, è difficile distinguere fra queste due nozioni. Si pensi ancora a San Paolo, nel cap. VII della Lettera ai Romani, là dovemette in questione la purezza della legge, il criterio della morale. Egli afferma: chi crede di fare il bene viene coinvolto nel peggiore peccato possibile, la superbia; e dice: «A me, che ero intenzionato a fare il bene, vicino è il male». In tale affermazione adotta il termine kalòn: una parola che in greco antico (anche nella lingua della koiné) significa tanto «buono» quanto «bello».
Eva Cantarella, studiosa dell’antichità, è autrice dello studio Itaca (2002), da cui prendiamo spunto per ulteriori considerazioni. L’opera studia la nascita della nozione del diritto nella Grecia antica. In particolare si sofferma nel passaggio dalla Grecia arcaica a quella classica: lo stesso titolo è rappresentativo, indicando la terra dell’eroe Ulisse. L’autrice riprende poi la distinzione antropologica tra shame culture e guilt culture: «cultura di vergogna» e «cultura di colpa». Si tratta ovviamente di modelli ideali che, nelle varie società, prevalgono in vario modo l’uno sull’altro. La cultura di vergogna consiste nell’adeguamento alle regole, non ottenuto attraverso l’imposizione di norme e divieti, ma attraverso modalità che implichino il biasimo e l’esclusione sociale. Vi sono cose che si giudicano inopportune anche se non illegali, secondo una sensibilità che potremmo definire in senso lato «morale» e «estetica» assai più che giuridica. Il modello contrario della cultura di colpa implica che la pena per certe trasgressioni sia il peso del senso di colpa, ed eventualmente una punizione giuridicamente regolata. Va detto che tale distinzione non è un’invenzione della Cantarella ma nasce a metà del Novecento; l’autrice se ne serve per analizzare il comportamento dell’eroe omerico, l’impulso che lo spinge ad agire.
Gli eroi omerici, infatti, non provano vergogna, per esempio, nell’esercizio della violenza verso il nemico; e nemmeno verso l’esercizio smodato e tracotante della violenza. Anzi, i poemi omerici tendono ad attribuire la responsabilità di tali azioni agli dèi che si impossessano dell’animo umano, o al fato, al destino da cui non si può sfuggire. L’antichista Walter F. Otto, ne Gli dèi della Grecia, afferma che negli eroi omerici prevalgono gli aspetti vitali dell’essere: essi non rispondono a una legge morale, che per loro sarebbe stata qualcosa di anacronistico, ma si manifestano così anche nella massima brutalità. Interessante è quindi per noi l’osservazione per cui, secondo la Cantarella, la molla che fa scattare la vergogna negli eroi non scaturisce dal loro interno, bensì dall’esterno: essa è occasionata dal disprezzo sociale, dal biasimo: in ciò che dall’illuminismo in poi potremmo designare in senso lato «opinione pubblica». In una società come quella, il ruolo di Omero, il poeta narratore, diviene allora di importanza fondamentale. Egli è colui che ricostruisce i fatti, la storia e li tramanda secondo la sua visione. Detiene cioè un enorme potere: decide cosa e come deve fare l’eroe, ed è colui che dispone davvero della fama e della memoria:  persino gli dèi hanno bisogno della sua parola per esistere davvero. Gli esempi della Cantarella sono tratti dal dialogo fra Ettore e Andromaca e dall’ira di Achille. Virtù, per i greci areté, è nozione differente dal latino virtus, che significa anzitutto «forza». Areté invece è eccellenza che designa l’essere migliore rispetto a tutti gli altri. Aidos è invece insieme il pudore e la vergogna, e elencheie è la voce popolare che attribuisce la vergogna. L’Iliade”, nel canto XII, narra di Ettore che in un momento di cedimento non vuole scendere a conflitto con Achille, sapendo che lo attendono la sconfitta e la morte. Più che il timore della morte, però, a turbarlo è la paura è di apparire vinto: che si dirà di lui? Questo stesso impulso lo spinge a vincere lo sgomento, nonostante la resistenza di Andromaca, la moglie, e tutti gli argomenti morali che essa sembra addurre per persuaderlo a non sfidare Achille: la morte di Ettore avrebbe infatti conseguenze catastrofiche per la sua famiglia e per la sua città. Ettore non si piega alle sollecitazioni della moglie perché in lui scatta non tanto la paura della distruzione, ma la vergogna per la fama corrotta da un atto vile.
Questo tratto di attenzione alla dimensione del giudizio pubblicamente (più avanti si potrà dire: «politicamente») condiviso si conserva, altrimenti, anche nella Grecia classica e più tarda. Per esempio Platone, nello Ione, un dialogo sui poeti e sui rapsodi, mette ancora in questione il ruolo della poesia come frutto dell’ispirazione divina. Il poeta deterrebbe, così, il potere di tramandare la parola, di “fare” il mondo, il sapere. I Sofisti, dal greco «sapienti», erano per altro verso coloro che davano assoluta centralità alla parola. E, come si è visto, un individuo prima di essere in possesso di una areté (virtù), è detto virtuoso: la sua virtù dipende da una dimensione di memoria pubblica, ossia dal fatto che qualcuno lo nomini tale. L’ambiguità della parola si riscontra anche notoriamente nella tragedia; ed Euripide, ultimo grande tragediografo greco, quasi a sottolineare l’ambiguità di tale tradizione fondata principalmente sul detto e sulla parvenza, riscrive il mito di Elena sulla base di una tradizione secondo cui, a essere rapita, non sarebbe stata davvero la moglie di Menelao, bensì un suo simulacro (ambiguità della cosa, prima e oltre che della parola).

Ricapitolando: nell’analisi di Eva Cantarella del testo omerico notiamo che in battaglia la vergogna è considerata peggiore della morte, e che la cosa che conta davvero, anche ontologicamente, è la fama. Questo aspetto riguarda l’etica dell’eroe. L’uomo che si trova a far fronte all’aidos (vergogna) non è infatti l’uomo volgare, ma solo colui che ha la virtù. Chi non è valente, eroe, non deve sentire la vergogna. Notiamo che tale idea finisce per consolidare socialmente una sorta di doppio legame: restituisce l’uomo comune al quotidiano, al nostro sentire comune, ma allo stesso tempo lo esclude dal mondo eroico. Questo doppio legame spacca la società greca. La democrazia greca, pur risultando lontana dalla democrazia moderna, farà fra l’altro l’enorme sforzo di trasformare una morale riservata agli eroi in morale condivisa da tutti i cittadini.
Grande considerazione per la parola parlata si avrà nell’Atene del quinto secolo, che vede da un lato la celebrazione dell’ambiguità della parola nel teatro tragico (Edipo fraintende le parole dei messaggeri), dall’altro la celebrazione del potere della parola attuata dai sofisti. Nel passaggio da Omero alla polis del quinto secolo avremmo quindi la fama che sancisce l’eccellenza dell’eroe prima, la parola come strumento del potere di cui i cittadini possono servirsi poi.
Notiamo l’importanza del ruolo della parola anche in due opere del sofista Gorgia: Sul non essere o sulla natura (la natura è, paradossalmente, il non essere: estrema conseguenza dell’ambiguità del linguaggio); e Encomio di Elena, in cui l’autore costituisce un discorso sul fatto che Elena, accusata di essere la scatenatrice  della guerra di Troia, non ha colpa,  per il fatto che è stata costretta con la forza e la violenza da Paride o convinta dall’amore o dalla parola. Il discorso è per Gorgia un «signore possente» cui vano sarebbe resistere. Vi è, in questo discorso (che richiama certi aspetti di quanto sopra si è detto a proposito di Euripide), grande maestria retorica: se esso risulta infatti molto convincente è perché l’autore, in una sorta di circolo virtuoso, si serve della parola e della sua efficacia retorica per difendere la parola stessa.
Parlando di shame culture possiamo ricordare infine anche un esempio datoci da uno dei saggi raccolti dell’antropologo Gregory Bateson nel volume Verso un ecologia della mente. Il saggio risale al 1939 ed è  intitolato Bali. Il sistema di valori di uno stato stazionario. Che cos’è uno stato stazionario? Una comunità che tende a mantenere inalterati gli equilibri delle sue strutture sociali. Bali viene educata secondo principi «non schismogenici»: gli uomini vi sono cresciuti secondo un modello che tende ad eliminare ogni conflitto pericoloso per la conservazione di quell’equilibrio sociale. Esistono dunque a Bali, secondo Bateson, forme di infrazione al vincolo sociale che non vengono punite giuridicamente, ma provocano biasimo sociale. Secondo l’autore, la deterrenza di questo sistema funziona allo stesso modo di quella dei sistemi giuridici punitivi.

 

4. Il «gusto» come nozione propriamente moderna.

Nella cultura moderna il termine gusto, come si è detto, designa qualcosa di più vasto e più complesso del semplice ambito sensoriale.
Un filosofo che si è sforzato di trovare una spiegazione adeguata per l’appartenenza della nozione di «gusto» alla cultura moderna è Hans-Georg Gadamer (1900-2002), ultimo rappresentante forse della grande tradizione della filosofia classica tedesca. Al 1960 risale Verità e metodo. Vediamo di intendere anzitutto brevemente il titolo di questo saggio.
La tradizione filosofica moderna interpreta la filosofia come fondazione metodologica della conoscenza. Kant parla esemplarmente, nella Critica della ragion pura, di metodo del corretto uso dei giudizi nel senso che la scientificità dei nostri giudizi è fondata su strutture a priori della nostra mente  (categorie). Kant aveva cercato di sancire il metodo della corretta filosofia della conoscenza, identificando quindi verità e metodo. Da ciò non può che seguire un’alternativa di questo genere: o l’arte non ha assolutamente verità, oppure all’arte si riconosce la massima verità possibile. Ed è esattamente quanto, secondo Gadamer, è successo dopo Kant nella storia della filosofia. Per parte sua, Gadamer ritiene invece che tale idea debba essere superata perché essa ha implicato storicamente la svalutazione di tutti gli altri atteggiamenti filosofici che non sono anzitutto scientifici. Per cui, egli può sostenere che verità e metodo sono due cose differenti. Una letura fondamentale per lui è stata quella del saggio di Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte (1936), in cui l’autore dice che l’arte è uno dei modi in cui si manifesta originariamente la verità.
La prima alternativa, secondo la quale l’arte non ha verità, è per Gadamer troppo riduttiva rispetto a un mondo in cui le esperienze non possono essere riducibili solo a quelle della ragion pura. L’esperienza di una certa cosa si può fare in modi diversi. Con il meccanicismo della critica della ragion pura, per esempio, non si potrebbe distinguere (e già Kant se ne era accorto) un animale da una macchina, ossia non si spiegherebbe per esempio il metabolismo. È per motivi come questo che Kant avrebbe poi scritto fra l’altro la Critica del giudizio.Nel dire invece che, d’altra parte, che l’arte viene dotata secondo alcuni di massima verità, Gadamer ha in mente tutti i pensatori che vedono la scienza come un modo di pensare caduco: ad esempio, in età romantica, Friedrich W.J. Schelling, il quale, nel Sistema dell’idealismo trascendetale (1800), definisce infatti l’Assoluto come «unità indifferenziata di natura e spirito», affermando che il pensiero teoretico, prigioniero della contrapposizione fra soggetto e oggetto, risulta troppo riduttivo per dispiegare l’assoluto. Solo l’arte è in grado di cogliere quell’unità indifferenziata, può andare oltre il dualismo natura-spirito, cioè in chiave simbolica può restituire l’intuizione tale e quale a quella per cui Dio conosce e crea le cose. Solo l’arte, in altre parole, per Scheling è la rivelazione del genio capace di intuire la verità dell’uno. È noto che Schelling sarà poi fortemente criticato da Hegel, che paragona l’assoluto ad un colpo di pistola, un botto che vuole arrivare subito (cioè senza la faticosa mediazione del concetto) al divino: cosa che per Hegel non è invece possibile senza un complesso discorso dialettico. In questo contesto (la «Prefazione» alla Fenomenologia dello spirito)Hegel avrebbe paragonato poi l’Assoluto schallinghiano anche alla «notte in cui tutte le vacche sono nere», intendendo un luogo in cui non è possibile cogliere le differenze: per rendere conto delle quali, non basta dunque la sola intuizione, che è propriamente un sentimento individuale.
Altro esempio che si potrebbe addurre a sostegno della tesi gadameriana è quello di Arthur Schopenauer, autore de Il mondo come volontà e rappresentazione (1819). Secondo Schopenhauer,il mondo del fenomeno è rappresentazione, «velo di Maya», mentre la cosa in sé è costituita dalla Volontà, principio metafisico inesausto il quale fa sì che la vita di tutti gli esseri sia una continua oscillazione fra il dolore e la noia. Da questo stato di cose non ci si può liberare ovviamente per uno sforzo di volontà propria (sarebbe una banale contraddizione pretendere di liberarsi volontaristicamente della volontà stessa), ma anzitutto proprio tramite l’arte, che ha la capacità di intuire le idee, le pure forme la cui contemplazione ci libera dal velo di Maya. L’opera d’arte consente la visualizzazione del mondo ideale, delle forme prive di conflittualità.
Ora, tornando a Gadamer, a suo modo di vedere l’arte che diventa tutto e l’arte che diventa niente sono due punti di vista che, in ultima analisi, rifiutano che l’arte abbia qualcosa di autenticamente comune con la verità. In entrambe le alternative infatti arte e verità si trovano su due piani differenti: è qui che nasce quella difficoltà che caratterizza tutta la storia della moderna «coscienza estetica». Anche nel momento in cui l’arte riceve valutazione straordinaria vi infatti è una messa tra parentesi del quotidiano: l’arte diviene una sorta di «domenica della vita». Si tratta quindi, per Gadamer, di cercare di impostare il discorso estetico (cioè l’analisi filosofica del rapporto fra arte e verità) tenendo conto dei limiti di questa deriva che l’estetica ha assunto negli ultimi 250 anni: precisamente quella tendenza che l’ha fatta diventare qualcosa di «autonomo».

 

5. Gusto e «senso comune».

L’estetica moderna intrattiene dunque un rapporto ambiguo con la verità: ed è anche per questo che è così difficile darne una definizione. Per ovviare a questa difficoltà, Gadamer propone dunque in Verità e metodo di individuare alcuni concetti storicamente formati negli anni in cui l’estetica tende ad autonomizzarsi. Per fare ciò parte dalla nozione di gusto e da quella di senso comune. Tali nozioni, o meglio problemi storicamente corrispondenti, si possono scorgere per la prima volta in Aristotele, e precisamente nell’Etica Nicomachea e nel De anima.
Ovviamente, per tutto ciò che abbiamo detto in precedenza, non si potrà affermare che nell’Etica Nicomachea compaia la nozione di gusto. E tuttavia Gadamer dice che «l’etica greca, l’etica della misura, è in senso profondo e comprensivo un’etica del buon gusto». Pensando al modello etico di Aristotele, e nell’intento di tradurre il suo modo di pensare la morale, bisogna rifarsi secondo Gadamer ad una nozione che per noi moderni parrebbe anzitutto estetica. Infatti ci sono nozioni fondamentali nell’etica di Aristotele come phrònesis, saggezza e eusynesìa, perspicacia, che non possono essere spiegate sulla base dell’orthòs logos, cioè del discorso giusto e corretto (il discorso razionale sul modello della matematica). Saggezza e perspicacia sono infatti due categorie fondamentali per comprendere la vita umana, che non sono spiegabili in termini logico matematici. Il sapere pratico, il fare, non può essere ricondotto a un modello di razionalità rigida (appunto l’orthòs logos). Se vogliamo giudicare il valore morale di un uomo nel momento in cui si confronta con il mondo, il modo più ragionevole è fare – dice Aristotele – come fanno i muratori dell’isola di Lesbo, i quali usavano il regolo di Lesbo, ossia un metro estremamente flessibile, per misurare le colonne con le loro curvature. Allo stesso modo noi, nel discorso morale, non dobbiamo pretendere di rifarci all’orthos logos,ma necessitiamo di un discorso più duttile, adattabile al proprio oggetto. Ci vuole insomma duttilità di pensiero per comprendere il mondo.
Ma come si possono interpretare phrònesis e eusynesìa? Dice Aristotele, e Gadamer lo cita: «che la saggezza non sia scienza (episteme) è chiaro. Essa riguarda l’ultimo termine delle deliberazione e si contrappone all’intelletto astratto (che ragiona in termini logici). La saggezza ha per l’oggetto l’ultimo particolare (la realtà concreta delle cose). Per cui non c’è scienza della saggezza ma aisthesis (sensazione)». Non c’è insomma episteme della saggezza, bensì sensazione, aisthesis: a un criterio in senso lato «estetico». Ecco perché secondo Gadamer la preistoria del concetto di gusto è riconducibile all’etica di Aristotele.
Tale nozione torna in Cicerone nel De Oratore, secndo il quale «la capacità o facoltà di giudicare (gusto connesso al giudizio) non può essere dedotta intermini astratti né a rigore può essere insegnata». Si tratta di una sorta di senso inconsapevole che è indipendente dall’intelletto, e che esige di essere educato.
Gadamer afferma che un altro aspetto importante di questa «preistoria» del gusto si trova quindi nel De anima. Ivi Aristotele dice che la koinè aistesis (senso comune) è «la percezione che ha come oggetto i sensibili comuni a tutti i sensi», ossia è il fondamento della cenestesia. In altre parole: quando diciamo marrone-freddo-pesante in riferimento al tavolo, questo è un oggetto la cui immagine è dovuta al il concorso di più sensi, che è resa possibile appunto dal « senso comune». Esso, dice Aristotele, è sempre attivo e in interrelazione con noi. E non solo con gli uomini. Ecco perché esso non risiede nell’intelletto, del quale non sono dotati tutti gli animali senzienti. (Aristotele risolverà la difficilissima questione ricorrendo alla nozione di phantasia,che è la capacità di fornire dei phantasmata, cioè l’immagine di ciò che appare, i fenomeni). Il primo grado della conoscenza per Aristotele è quindi la sensazione. È però solo la fantasia a fornire l’interfaccia tra sensibilità e intelletto. L’immaginazione consente cioè la ritenzione della traccia(ossia la prestazione che ci consente di percepire l’immagine dopo che il percepito non c’è più), trattiene l’immagine e solo se questa avviene si può concettualizzare l’oggetto.
È dunque il senso comune che fa convergere e mette insieme le singole percezioni. Dove si trova questo luogo? Nella prospettiva fisiologica di Aristotele esso si trova in prossimità del cuore. Egli infatti pensava, sulla base delle sue osservazioni, che fosse il flusso del sangue a trasportare le sensazioni. Osserviamo che per esempio Leonardo fra gli altri accoglierà nella sostanza quest’idea, ma collocherà il senso comune vicino al cervello e agli occhi: «L’occhio riceve le species ovvero le similitudini degli obieti e li dà all’impressiva, alla sensibilità, il quale li trasporta al senso comune e li è giudicata» (Trattato della pittura). Vi è già qui l’idea – ed è ciò a cui dobbiamo esplicitamente prestare attenzione – che il senso comune eserciti un giudizio: ossia che nella sensazione non avvenga solo la ricezione, ma cominci la discriminazione; ossia, che un certo giudizio preceda l’intelletto. La collocazione di Leonardo è molto significativa fra l’altro anche per questo motivo: se è nell’occhio che convergono le sensazioni, è l’occhio che ha la predominanza su tutti i sensi; ed ecco perché a suo dire la pittura aveva una funzione educativa: poiché è capace di sollecitare il giudizio anche in chi non sa leggere, proprio in virtù del senso comune.
A proposito della fantasia e dell’immaginazione: Martin Heidegger nel libro del 1929, intitolato Kant e il problema della metafisica, pubblicato dopo l’interruzione di Essere e tempo (1927), sostiene che la vera facoltà in gioco nella Critica della ragion Pura è ancora l’immaginazione. Essa permette infatti la continuità nelle diverse fasi della conoscenza, che per Kant (a differenza, come si è visto, che per i filosofi della scuola leibniziano-wolffiana, come Baumgarten) era problematica, essendo separate le due facoltà (sensibilità e intelletto) da cui scaturisce la nostra conoscenza. Secondo Baumgarten, infatti, sensibilità e intelletto (lo abbiamo visto) sono due funzioni della stessa facoltà: esiste una continuità tra di esse nel senso che la concettualizzazione operata dall’intelletto è una progressiva chiarificazione della conoscenza sensibile. Se invece le rappresentazioni derivano dall’esterno si tratta di capire come sia possibile il passaggio dalla sensibilità all’intelletto. Nella sua prospettiva filosofica,Leibniz aveva ritenuto proprio per questo che «da fuori» non potesse venire nulla alla nostra conoscenza: sulla scorta di Platone, egli afferma dunque che la conoscenza è già da sempre nella nostra mente introducendo la figura della monade che rappresenta la soggettività, la sostanza, la mente alla quale Leibniz riduce tutto il mondo percepito.
Ma si può escludere totalmente l’esperienza esterna dalle fonti del nostro conoscere? L’obiezione mossa dai grandi empiristi al razionalismo leibniziano sarà proprio quella per cui non esistono idee innate ma esperienze esterne. In età moderna ci saranno quindi da una parte i razionalisti (Wolff, Baumgarten, prima ancora Leibniz) che garantiscono la razionalità della conoscenza, dall’altra gli empiristi (Locke) che garantiscono l’apporto dell’esperienza. Kant capisce l’inconciliabilità dei due punti di vista, che risultano opposti, e ne scorge i punti deboli. La sua soluzione sarà appunto la Critica della ragion pura, secondo cui esiste una struttura trascendentale (forme pure del conoscere) che tuttavia sono per così dire riempite dall’esperienza.

Ora, per tornare a Gadamer, seguendo la storia della parola senso comune si proseguirà la storia del concetto di gusto ai suoi albori. Nel 1648 un filosofo spagnolo, Baltasar Gracián, scrive L’acutezza e l’arte dell’ingegno: uno fra i primi testi filosofici importanti nei quali compare la parola gusto, definito come: «facoltà di distinguere il bello e di goderne nonché di cogliere nella pratica il punto di vista delle cose».Elemento di novità di questa pagina è il nesso tra gusto e bello, associato appunto alla capacità di cogliere nella pratica la misura, il punto giusto delle cose e delle situazioni – virtù che è poi di fatto la phronesis (saggezza), ovvero come si è detto la capacità di essere ragionevoli.
Interessante per noi è soprattutto l’osservazione successiva di Gadamer, il quale dice di Gracián che il suo ideale del gusto deriverebbe dalla risposta ad un problema politico: la legittimazione del «terzo stato». L’incrocio tra phronesis e senso comune deve essere cioè inteso nella sua insospettabile portata politica, valutando il contesto che è quello dell’assolutismo, dalla lotta della monarchia assoluta contro la nobiltà, della preistoria del terzo stato. Come mai nasce la nozione di gusto in un contesto politico dove si rafforza il terzo stato? Ecco che l’indagine sul gusto diventa quasi un problema di filosofia politica. Il gusto è il concetto su cui si basa la buona società, legittimata non più dalla nascita, dall’appartenenza famigliare alla classe, ma dalla comunanza di giudizi e valori condivisi. Ci troviamo cioè secondo Gadamer di fronte ad uno slittamento metaforico che trasforma il «gusto» da privato a pubblico. Nel periodo illuministico si avrà il trionfo di questa nozione di gusto. La società sente cioè il bisogno di legittimare i suoi modi di giudicare: questa la ragione per cui, all’improvviso, in questo periodo saranno scritti numerosissimi trattati filosofici sul gusto.

à  [Sulla diversità dei contesti culturali richiamati a lezione, si veda la voce «Gusto» in allegato]

 

6. Precursori di Kant in area britannica: Burke e Hume.

Edmund Burke pubblica nel 1759 la seconda edizione (la prima era del 1757) dell’Inchiesta filosofica sul senso del bello e del sublime, preceduta da una «Introduzione» intitolata On Taste, «Sul gusto». Di questa nozione aferma: si tratta del « un giudizio più raffinato prodotto in parte da una percezione dei piaceri primari del senso, in parte da quelli secondari dell’immaginazione, nonché dalle conclusioni della ragione circa i vari rapporti di questi piaceri e le passioni dell’uomo, gli usi e le azioni». Quindi il gusto è inteso da Burke come piacere dei sensi che però per così dire non bastano da soli, e vengono educati dall’immaginazione e poi dalla cultura. La base del gusto è insomma uguale in tutti gli uomini, ma i gusti sono variabili proprio perché educati soggettivamente.
Burke è una lettura fondamentale per Kant, in quanto nella Critica del giudizio estetico Kant si rifà al concetto burkiano di gusto per proporre la distinzione tra le due categorie estetiche fondamentali del sentimento del bello e del sentimento del sublime.
Il gusto è quindi per Burke frutto dei piaceri fisici (piaceri primari del senso), ma non è solo un giudizio relativo ad un semplice piacere corporeo. La loro origine è la stessa, solo che nel caso della percezione estetica il gusto esprime un giudizio più raffinato, più elaborato rispetto alla semplice percezione sensoriale. Questa viene filtrata attraverso i modelli culturali proposti dalla natura (piaceri secondari dell’immaginazione) ai quali le esperienze dei sensi vengono appunto confrontate. Per esempio il piacere dell’opera d’arte è comune al piacere diretto del senso (per esempio la differenza tra la percezione di un quadro e quella di una fetta di torta),  solo molto più raffinata ed elaborata.Se una cosa ci piace non dipende solo dalle sue qualità intrinseche, ma anche dal fatto che nel piacere provato per un oggetto è sedimentato anche un fondo storico (in riferimento al contesto e alla situazione sociale culturale). Tutti gli uomini condividono le stesse facoltà mentali, solo che le esercitiamo in maniere differenti. Il dialogo è possibile appunto perché le basi sono le medesime per tutti.
Il discorso di Burke è peraltro particolarmente significativo sul piano politico; infatti egli aggiunge che : «tra gli uomini riguardo alle questioni di gusto vi è una discordia minore più che non riguardo alla maggior parte di quelle cose che dipendono dalla pura ragione. Gli uomini si trovano molto più facilmente d’accordo nel giudicare pregevole una descrizione di Virgilio che nel discutere sulla verità o falsità di una teoria di Aristotele». Burke non ritiene giusto insomma considerare il gusto come una conoscenza di importanza rispetto a quella razionale. Spesso in realtà partiamo dalla formulazione di giudizi di gusto dei quali non siamo nemmeno consapevoli; rovesciando la teoria del gusto di Burke viene fuori infatti una teoria del pregiudizio. L’idea che condividiamo in maniera prerazionale certi valori con una comunità vuol dire che certe volte ci troviamo d’accordo su un giudizio estetico rispetto ad un discorso prevalentemente razionale deriva dal fatto che abbiamo pregiudizi molto radicati. Ed ecco che l’altra faccia della teoria del gusto è la critica degli illuministi al pregiudizio irrazionale: il pregiudizio come critica nei confronti della tradizione, critica del modo di pensare costituito non solo da facoltà razionali ma anche dal mondo condiviso che condiziona queste facoltà.

Negli stessi anni (1757) viene pubblicato La regola del gusto di David Hume, un filosofo che notoriamente avrebbe dato molto filo da torcere a Kant. Hume sviluppa l’idea della variabilità del giudizio di gusto in chiave scettica. Egli afferma: «è naturale che noi cerchiamo una regola del gusto; una regola mediante la quale possano essere conciliati i vari sentimenti degli uomini, o almeno una decisione che, una volta espressa confermi un sentimento o ne condanni un altro». Hume quindi dice che è normale che si cerchi di stabilire in che modo giudichiamo le faccende relative al gusto, ma la regola ricercata rispetto al gusto non è proprio identica a quella che troviamo quando ci si occupa di conoscenza: aggiunge infatti anche, a proposito di quest’ultima, che «fra le mille differenti opinioni che uomini diversi possono nutrire rispetto allo stesso oggetto, ve n’è una, e una sola che è giusta e vera». Vale a dire: se ci pronunciamo sul colore di un oggetto, ci possono essere opinioni diverse (date magari da un daltonico o da un soggetto distante dall’oggetto osservato per dire), ma tramite qualche criterio di indagine si potrà accertare quale sia la sola vera opinione al riguardo. Al contrario  mille diversi sentimenti riguardo a un oggetto sono in qualche modo tutti giusti, perché nessuno rappresenta quello che è realmente nell’oggetto (la bellezza non è una qualità intrinseca). Non si può persuadere un interlocutore della bellezza di una cosa con lo stesso grado di certezza con cui possiamo farlo riguardo al colore di quest’ultima. Il gusto indica quindi una certa conformità o relazione tra l’oggetto e gli organi o facoltà della mente che lo percepiscono. Non c’è una ragione oggettiva per cui una cosa può piacere o meno.


Insomma: la bellezza per Hume non è una qualità delle cose stesse, è soggettiva; quindi «è evidente che nessuna regola di composizione è determinata in base a ragionamenti a priori o può essere considerata come un’astratta conclusione dell’intelletto mediante il confronto di quei caratteri, di quelle relazioni di idee che sono eterne e immutabili». Insomma: tramite la ragione non possiamo dedurre le regole per produrre un’opera d’arte.  Non possediamo infatti criteri a priori su ciò che sia bello o brutto perché il bello è soggettivo; eppure quella del bello è una soggettività che per affermarsi richiede qualche consenso. Il fondamento del sentimento del gusto diventa allora l’esperienza: donde l’utilità di osservazioni generali relative a ciò ce si è trovato universalmente piacevole in tutti i paesi e in tutte le epoche.

 

7. La «Critica del Giudizio», fra Baumgarten e Hume. Un problema morfologico.

Hume scrive il saggio sul gusto nel 1757, un anno prima dell’uscita del secondo e ultimo volume dell’Estetica di Baumgarten. È evidente che, anche in ambito estetico, le teorie dei due filosofi sono esattamente agli antipodi: Hume non riconosce infatti criteri oggettivi che spieghino come produrre un’opera d’arte (in quanto i giudizi di gusto sono soggettivi), Baumgarten invece afferma (abbiamo visto) che sulla base della definizione del bello si possono dedurre le regole del comporre artistico. In ambito estetico, prima di Kant, c’è quindi la compresenza di due tradizioni apparentemente inconciliabili tra loro, ma che non sono altro che la riproposizione di quello che nell’ambito conoscitivo era stato il problema da cui prendeva le mosse la Critica della ragion pura: mettere insieme la razionalità cartesiana con l’empirismo lockeiano, ovvero il fatto che ci siano conoscenze a priori che l’esperienza riempie di contenuto. La Critica della ragion pura riconosce che ci sono forme pure a priori della conoscenza riempite però dal molteplice dell’esperienza.


Nella Critica del giudizio si ripresentano le due stesse tradizioni, ma in ambito estetico: da una parte un criterio razionale della bellezza, dall’altra l’importanza massima dell’esperienza nella formazione del gusto. Kant vuole dunque elaborare una prospettiva estetica che spieghi una certa condivisibilità dell’esperienza di gusto con il fatto che un gusto non può essere imposto. Nel farlo, egli si trova quindi in mezzo a queste due correnti: una tradizione empirista che conduce verso lo scetticismo e il relativismo del giudizio di gusto e una razionalistica che invece porta al normativismo. L’origine dei nostri gusti è empirica, ma il fatto che si possa discutere intorno ad un oggetto di gusto, nonostante l’altro interlocutore non possa essere riconducibile ragionevolmente a ciò che diciamo, significa che nel giudizio di gusto c’è una pretesa di universalità che non si esaurisce nel relativismo. Il paradosso è che si cerca di rendere universale un nostro sentire particolare, ma si avverte pure che questa pretesa è impossibile proprio per la natura soggettiva del nostro sentire.
Nel  dicembre 1787 Kant manda una lettera a Karl Leonard Reinhold, uno dei suoi primi discepoli. Reinhold, secondo Kant, avrebbe potuto contribuire alla diffusione della sua filosofia tra il pubblico, dando una forma più accattivante e una chiave maggiormente popolare a una filosofia propriamente accademica. Nel dicembre 1787 dunque, quando era appena stata data alle stampe la Critica della ragion pratica, Reinhold riceve una lettera in cui Kant asserisce:«ho scoperto un tipo di principi a priori nuovo rispetto ai precedenti. Le facoltà dell’animo sono infatti tre : 1) facoltà conoscitiva, 2) sentimento di piacere e dispiacere, 3) facoltà di desiderare. Ho trovato principi a priori per la prima nella Critica della ragion pura (teoretica) e per la terza nella Critica della ragion pratica. Si tratta di trovare un principio a priori anche per la seconda facoltà, il sentimento di piacere e dispiacere, e sebbene prima ritenessi impossibile trovarne, sono stato messo su questa strada dalla sistematicità che l’analisi delle facoltà prima nominate mi ha fatto scoprire nell’animo umano». Proviamo ad analizzare in sintesi il contenuto di questa lettera.
Ci sono principi a priori sia per la ragione pura sia per quella pratica, ma tra le due Kant individua un terzo elemento apparentemente privo di tali principi, o almeno: fino alla redazione della Critica della ragion pratica Kant pensava che lo fosse. Uno dei classici luoghi comuni su Kant è che fosse ossessionato dallo strutturare il suo pensiero in una maniera architettonica e sistematica estrinseca, forzatamente ricondotta al modello di razionalità elaborata nella Critica della ragion pura. Kant in questa lettera invece afferma che se c’è un motivo per cui è arrivato a concepire che ci siano principi a priori anche per il sentimento di piacere e dispiacere, questo è stato dettato proprio dalla struttura architettonica scoperta nelle due facoltà precedenti.
Anche se non lo troviamo enunciato esplicitamente in questa lettera, potremmo forase anticipare che la scoperta di Kant è nel fatto che la sensazione piacevole non coincide con il sentimento di piacere e dispiacere; la sensazione infatti non si potrebbe dotare di principi a priori che ce ne spieghino la piacevolezza o meno, in quanto il giudizio sull’oggetto del senso si può ricondurre a qualità riscontrate nell’oggetto, ma non pretendere negli altri. La sensazione in questo senso è sempre vera, in quanto non si può confutare la verità di una sensazione soggettiva. Kant tuttavia capisce che il sentimento di cui si parla, quando si cerca di definire per esempio il bello, non è questo, ma è una facoltà della mente.
Continua poi Kant nella lettera a Reinhold : «cosicché ora riconosco tre parti della filosofia, ognuna delle quali ha i propri principi a priori che vi si può enumerare. Grazie ad essi è determinabile l’ambito della conoscenza in tal modo possibile : filosofia teoretica, teleologia e filosofia pratica. L’intermedia è certamente la più povera di fondamenti di determinazione a priori». Che cosa significa la parola «teleologia»? Essa è lo studio filosofico del principio della finalità, dal greco télos (che significa «bersaglio», ciò a cui si mira). Mentre la ragion pura e la ragion pratica capiscono fin da subito quali sono i principi a priori e cercano di dedurli (con tutte le difficoltà annesse a questa difficile operazione, e i relativi limiti), la teleologia non gode di principi analoghi; nel sentimento del piacere e dispiacere ci troviamo dunque di fronte al paradosso di un principio a priori che non si giustifica con una categoria o più in generale con struttura trascendentale solida (per esempio la legge morale, per la Critica della ragion pratica)come avveniva negli altri due casi. Il che significa: manca una categoria certa e universalmente condivisa a priori di finalità, tale che tutti possono condividerla; le regole sono date dalla nostra mente ma non sono date una volta per sempre; ciò ha a che fare, come vedremo, con il fatto che bello è ciò che di volta in volta piace. (Dunque, diciamo fin d’ora la prestazione richiesta al giudizio di gusto non potrà essere una prestazione determinante come quella che fonda sinteticamente a priori la validità del giudizio conoscitivo).
Conclude infine Kant nella lettera a Reinhold: «spero di aver pronto verso pasqua con il titolo di “Critica del gusto” il manoscritto quand’anche non l’opera stampata». È noto invece che il libro sarebbe uscito nel 1790 e con il titolo di Critica del giudizio, suddivisa al suo interno in Critica del giudizio estetico e Critica del giudizio teleologico, due parti a prima vista eterogenee: una si occupa infatti del bello e del sublime, l’altra della finalità nella natura e innanzitutto dell’organizzazione propria degli esseri viventi. Nella Critica del giudizio teleologico Kant voleva infatti fondare una filosofia a priori che corrisponda all’operazione che egli stesso aveva fatto con la fisica di Newton nella Critica del ragion pura; se quest’ultima era stata la fondazione della fisica di Newton, la Critica del giudizio teleologico voleva essere fra l’altro la fondazione filosofica di una scienza della vita.

Qual è dunque il legame della bellezza con le questioni filosofiche circa la differenza fra il vivente e ciò che non lo è? A ben vedere, si tratta del problema che aveva caratterizzato la filosofia da Cartesio in poi. Cartesio diceva infatti che l’essere umano era caratterizzato dalla compresenza di res extensa (materia, corpo) e res cogitans (mente), mentre gli animali erano da lui considerati privi di quest’ultima; Leibniz a sua volta, sia pure in una prospettiva decisamente più complessa, riconosce la stessa cosa, considerando gli animali alla stregua di macchine perfette. Kant contesta questo principio: da una pate cioè si rifà alla fisica di Newton, dall’altra però si rende conto che essa non è sufficiente per spiegare scientificamente la differenza costituita dalla vita, ossia in altri termini non offre principi sufficienti a distinguere i fondamenti a priori della fisica da quelli della biologia (Kant dice che deve ancora nascere un «Newton del filo d’erba» che sappia spiegare come nasce la vita nel modo in cui Newton ha spiegato meccanicisticamente la legge di gravitazione universale).
Ora, la nozione di bellezza e di vita stanno insieme proprio sulla base del principio trascendentale di questo terzo aspetto della filosofia che si colloca tra conoscere e desiderare (che è poi il problema della coesistenza nel mondo di necessità e libertà). In breve: il problema del bello è accomunato al problema della finalità e nella fattispecie del vivente grazie al concetto di finalità.
Ernst Cassirer, uno dei padri del neokantismo, nel suo studio Vita e dottrina di Kant ci offre una chiave di accesso a questo difficile nesso concettuale, quando afferma: «Nel diciottesimo secolo la parola finalità non significa deliberazione intenzionale. Non è cioè consequenzialismo di mezzi e scopi, ma è libero concordare delle parti di un molteplice in una unità dotata di senso e di armonia». Un oggetto è dotato di finalità insomma quando ci appare composto di parti che sono fra loro in accordo, in maniera tale che questo accordo suscita in noi l’idea di un’armonia.
La definizione di Cassìrer  della finalità è importante per sgombrare il campo da un equivoco, liquidando l’idea che essa significhi innanzitutto l’obbiettivo che qualcuno si propone per raggiungere un determinato scopo, un certo fine utile: va quindi superata l’ordinaria concezione strumentale del concetto di «fine» o «scopo».
Per capire che cosa intendesse Kant per finalità, facciamo un salto indietro nella storia della filosofia, e ricordiamo quanto afferma Aristotele in Metafisica (A, 3) e in Fisica (B, 198 a 240), ove egli elabora la cosiddetta teoria delle cause. L’incipit famosissimo della Metafisica dice che «sapienza è conoscenza di cause»: quindi lo studio delle cause è l’unico che può condurre a dare un interpretazione dell’essere. Ora, secondo Aristotele queste cause sono fondamentalmente quattro: 1)      materiale; 2) formale; 3) efficiente; 4) finale. L’esempio aristotelico è anche abbastanza celebre. Pensiamo a una casa: la sua causa materiale sarà la materia prima con cui è costruita, quella formale il progetto dell’architetto, quella efficiente chi effettivamente la costruisce (l’operaio, il muratore ecc.) e quella finale il fatto essere abitata; per Aristotele quindi abbiamo conoscenza di che cosa sia un ente, nella fattispecie una casa, se ne riconosciamo le quattro cause.
Cerchiamo dunque di tradurre in termini aristotelici la definizione di finalità data da Cassirer. Nel secondo libro della Fisica (cit.) troviamo una frase importante per chiarire l’interpretazione di finalità in Kant: Dice Aristotele: «in effetti il “che cos’è” [causa formale] e il “ciò in vista di cui” [causa finale], sono una cosa sola». Aristotele in questo passo sta probabilmente riferendosi alla peculiarità degli esseri viventi: se nel caso della casa causa formale e causa finale coincidono solo in senso molto lato, negli enti dotati di vita questi due aspetti sono identici, o meglio sono due modi diversi di considerare la stessa realtà.
Su questa base possiamo allora dire: la nozione che tiene insieme giudizio estetico e giudizio teleologico è quella di forma, ma in quella accezione per cui appunto la forma, come si legge in Aristotele, fa tutt’uno con la nozione di fine. Un essere vivente (dotato di anima e di capacità di muoversi) come si differenzia da un automa che magari lo riproduce perfettamente? La differenza per Kant è proprio nel fatto che, nel caso dell’essere vivente, causa formale e causa finale coincidono, nel senso che è l’unico essere dotato della capacità di darsi la propria forma come fine. Ciò significa che l’essere vivente è dotato di metabolismo (ancorché Kant non adoperi direttamente questo termine, esso ci sembra rendere l’idea della cosa in questione), ossia della capacità di prendere della materia dall’esterno, e di trasformarla al suo interno (nutrirsi, riprodursi) conservando così la propria forma. A un primo livello la materia esterna viene metabolizzata e trasformata secondo un disegno corrispondente alla propria forma (conservazione); a un secondo livello la forma è fine nell’essere vivente in quanto questo è l’unico tipo di essere capace di riprodursi generando un essere simile a sé, ossia prendendo della materia e riproducendola in una forma simile alla propria.
Tornando alla definizione di Cassirer: possiamo spiegarci in questo modo come il conservare la propria forma in ragione della finalità stessa non corrisponda a una deliberazione intenzionale: il fatto che risultato dell’intero processo sia il mantenimento della forma significa che la forma è la manifestazione morfologica di un’armonia che rende possibile questa stessa riproduzione di sé, questo (parafrasando Kant) incremento delle forze vitali.
Interpretando in questo modo la finalità, Kant può liberarsi dai numerosi problemi che il concetto di fine si portava appresso, ancora in relazione alla Critica della ragion pura; in quanto quest’ultima aveva come scopo anche quello eliminare la metafisica dogmatica che finiva nel provvidenzialismo, ovvero la metafisica scolastica di Leibniz e dei suoi discepoli, secondo la quale tutto ciò che è, in quanto dotato di dignità ontologica, è bene – per cui ogni cosa, anche la più terribile, potrebbe corrispondere a un disegno divino, come avrebbe ironicamente sottolineato Voltaire nel Candide.
Importante è dunque capire che quando usa la categoria di finalità nella Critica del giudizio Kant non vuole in alcun modo riproporre un’idea di provvidenzialismo: già per questo motivo si era del resto rifiutato, nella Critica della ragion pura,di inserire la nozione di finalità nella tavola delle categorie: perché se la finalità costituisse un principio del nostro giudizio determinante, tutti gli oggetti della natura sarebbero in qualche modo finalizzati, e Dio sarebbe l’essere perfetto che ha creato il mondo nel modo migliore possibile: anche disastri tremendi come il terremoto di Lisbona, che sconvolse nel 1755 la coscienza degli intellettuali europei, sarebbero ottimisticamente giustificati.

 

8. Giudizio determinante e giudizio riflettente.

Quindi Kant ha bisogno per così dire di “ripulire” epistemologicamente la nozione di finalità, e per questo non la fa corrispondere affatto al disegno divino, quanto piuttosto all’idea della forma degli esseri viventi, e della libera manifestazione estetica dei fenomeni. Si tratta di capire in quale modo si potrà dunque parlare in filosofia di finalità senza trasgredire i limiti sanciti dalla Critica della ragion pura; il problema diventa cioè quello di elaborare un nuovo strumento teorico che permetta un ricorso non dogmatico alla nozione di finalità. Tale strumento diventa, in Kant, la distinzione tra giudizio determinante e giudizio riflettente.
Nella Critica della ragion pura, a proposito del giudizio, appare fra l’altro questa definizione: «Pensare è giudicare». Che cosa significa questa affermazione?
Secondo Kant, ogni volta che pensiamo qualcosa, è come se la nostra mente, consapevolmente o meno, elaborasse una proposizione (o un insieme di proposizioni connesse fra loro) del tipo

«S è P»

- vale a dire: a un certo soggetto (S) spetta un certo predicato (P). Dire o pensare che «un foglio è bianco» è appunto l’unione di un soggetto con un predicato. Quindi tutti i nostri contenuti mentali sono ritenuti da Kant, più o meno direttamente, riconducibili a questo tipo di giudizio; più ancora, ogni pensiero è sempre un giudizio. Tale giudizio, poi, può avere contenuti  sensati (dire appunto che «il foglio è bianco», se si è in presenza di un foglio di quel colore) o insensati (dire, per esempio assurdo, che «il foglio è un elefante»); la Critica della ragion pura stabiliva appunto i limiti entro i quali i giudizi si potevano formulare correttamente; laddove poi la Critica della ragion pratica spiegava in che senso per esempio ci siano ambiti, come la morale, in cui pensare e conoscere non coincidano, e tuttavia si possano formulare proposizioni coerenti che non trovano corrispettivo nell’esperienza, ma che non per questo possono dirsi semplicemente sbagliate o insensate. Per Kant, la proposizioni relative alla morale non sono in alcun modo ampliative del sapere, ma non sono contraddittorie con i dettami della Critica della ragion pura. Se parliamo di Dio da un punto di vista della ragione pura teoretica finiamo per affermare cose non dimostrabili; ma se ne parliamo correttamente dal punto di vista della ragione pratica possiamo dire cose molto sensate e rilevanti, in riferimento alla legge morale.
Riepilogando potremmo dire dunque che per KaNT:

  • Giudicare è pensare, ma non sempre pensare è conoscere;
  • Ogni pensiero è riconducibile a uno o più giudizi, del tipo: «S è P» (unione di un soggetto a un predicato);
  • Il fatto che  pensare sia giudicare non significa che i pensieri siano sempre veri e sensati, giacché si possono formulare anche giudizi falsi;
  • Non tutti i pensieri sono dimostrabili (non tutti sono conoscenza secondo i criteri della Critica della ragion pura), ma non tutto ciò che non è dimostrabile è di per sé fasullo o irrilevante;
  • Dunque, per Kant ci sono pensieri che aspirano alla validità scientifica, altri che non ne sono dotati affatto, alcuni dei quali falsi (per esempio dire che «il foglio è un elefante»), altri invece sono pensabili secondo criteri di una razionalità che non si può definire conoscenza ma che comunque ha senso in un determinato ambito (si pensi alla legge morale e ai suoi postulati, quali si trovano nella Critica della ragion pratica).

Nella Critica del giudizio Kant afferma dunque, in apertura, che il giudizio può essere di due nature: determinante o riflettente.
Quando si formula un giudizio, si collega un soggetto particolare (secondo il solito esempio: «il foglio») a un predicato universale (il concetto di «bianco») che non si applica solo a quel soggetto (bianca può essere infatti anche la parete, una scatola ecc.). Ebbene: il giudizio determinante è appunto quel tipo di giudizio di conoscenza di cui Kant aveva parlato nella Critica della ragion pura. Il giudizio è nell’un caso «determinante» perché gli oggetti non li percepiamo come cose in sé ma come fenomeni, e la conoscenza dei fenomeni è consentita (appunto, «determinata») dalle strutture trascendentali della mente (spazio, tempo, categorie, idee della ragione). Non è possibile dire come siano fatte le cose in sé; per avere una conoscenza scientifica si deve ricorrere alla nozione di «trascendentale», ossia (in estrema sintesi) aver chiare quelle conoscenze formali che mettiamo noi, in quanto soggetti conoscenti, nei fenomeni: tali costanti sono appunto le strutture trascendentali della nostra mente. In una celebre lettera, il poeta Heinrich von Kleist avrebbe efficacemente detto con un’iperbole che nella prospettiva kantiana, in un certo senso, è come se vedessimo tutte le cose tramite degli occhiali verdi: il fatto che tutte le cose ci appaiano verdi non vuole dire che lo siano «in sé», bensì dipende dalla natura degli occhiali che indossiamo (qui metafora delle strutture trascendentali della nostra mente).
Il giudizio si chiama determinante, dunque, quando riguarda l’applicazione di strutture trascendentali date a priori, che determinano il presentarsi dei fenomeni. I fenomeni si presentano a noi solo in quanto sono determinati dalle nostra strutture mentali: come sono le «cose in sé» non lo sapremo mai.
Esiste però un altro modo per unificare «S è P»: appunto il giudizio riflettente. Questo giudizio non ha la pretesa di determinare come le cose siano fatte, bensì esprime il riflettersi un nostro stato d’animo nel momento in cui un certo fenomeno si presenta a noi. Dunque, una proposizione come

«la rosa è rossa»

sarà un giudizio determinante; la proposizione invece

«la rosa è bella»

– che ha a che fare evidentemente con la dimensione estetica – sarà un giudizio riflettente.
Il concetto di «bello», infatti, non esprime una determinazione del fenomeno, non è una qualità oggettiva dell’oggetto, bensì è uno stato d’animo che la rappresentazione dell’oggetto suscita in chi lo osserva.
Nell’introduzione alla Critica del giudizio, Kant spiega la distinzione tra giudizio determinante e riflettente in questo modo: «il giudizio in genere è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale. Se è dato universale, la regola, il principio, la legge, il giudizio che opera la sussunzione è determinante. Se invece è dato soltanto il particolare e il giudizio deve trovare l’universale, il giudizio è semplicemente riflettente».
Da un punto di vista formale quindi nel giudizio determinante l’universale è dato (cioè lo abbiamo già), nel giudizio riflettente è trovato (va dunque cercato di volta in volta).
Per esempio il concetto di un colore ce lo abbiamo, ma il concetto di bello no, per il motivo che non è un concetto universale; non abbiamo una nozione di bellezza o di finalità che sia uguale in tutte le menti di tutti gli uomini. In altre parole: per quanto riguarda la conoscenza, la scienza può secondo Kant aspirare a fornire dei concetti certi; ma nell’ambito del giudicare estetico ciò non si verifica, perché il mettere insieme la nozione di bellezza a una esperienza particolare non li accomuna semplicemente, ma deve spiegare di volta in volta cosa sia questo universale chiamato in causa, il «bello». Insomma: esprimendo un giudizio estetico non ci si può avvalere secondo Kant di una legge già data, ed è come se, ogni volta, si dovesse rendere conto dall’inizio del proprio criterio.
Come vedremo, non solo in riferimento alla bellezza, ma per parlare della finalità in generale (di cui la bellezza è un caso) abbiamo bisogno di ricorrere, nella prospettiva kantiana, al giudizio riflettente.

Tra parentesi, qualcuno potrebbe domandare a questo punto: il giudizio morale in Kant, dato che non ha pretese scientifiche né ampliative del sapere, è un giudizio riflettente?
La risposta a questa domanda è no: da un punto di vista formale il giudizio etico non si può configurare in maniera diversa da un giudizio determinante (anche se non riguarda la conoscenza), dato che l’universale (nella fattispecie, la legge morale) è dato, è presente di per sé alla ragione umana finita; in caso contrario, il «buono» sarebbe considerato come un universale da cercare, sicché la morale ne risulterebbe relativizzata, mentre per Kant la legge morale è un fatto dato a priori.

 

9. Il giudizio di gusto in Kant.

Si potrebbe dire che, in Kant, l’idea del giudizio di gusto è una sostanziale smentita del proverbio secondo il quale del gusto non si deve né può discutere; del gusto invece secondo il filosofo di Königsberg si può (e si deve) quasi solo discutere, non se ne può fare a meno, in quanto è un giudizio che formuliamo sentendoci in dovere di accogliere le argomentazioni degli altri, ma di dire anche la nostra. Nel corso del Novecento moltissimi filosofi si sono fra l’altro ispirati proprio alla Critica del giudizio per ipotizzare un modo di pensare dialogico e non dogmatico, quindi (in qualche modo) anti-metafisico; Hannah Harent per esempio ha scritto una Teoria del giudizio politico, pubblicata postuma negli anni ottanta, in cui la filosofa si rifà all’idea kantiana del giudizio riflettente per elaborare una filosofia politica orientata sulla base delle categorie di gusto e dialogo intersoggettivo, nonché di una universalità non dogmatica.
Come spiega Kant il giudizio di gusto? Incominciamo dalla Prefazione della Critica del giudizio, e precisamente dal secondo capoverso: «Era dunque veramente l’intelletto, che ha il suo proprio dominio nella facoltà di conoscere, in quanto esso contiene a priori i principi costitutivi della conoscenza, che doveva essere messo dalla critica designata in generale col nome di critica della ragione pura nel suo sicuro possesso contro tutti gli altri competitori»: compito della Critica della ragion pura era dunque garantire la validità del giudizio determinante, ossia il corretto uso delle categorie dell’intelletto, dimostrando la validità dei principi costitutivi a priori della conoscenza (spazio, tempo, categorie…); e, prosegue Kant, «allo stesso modo che alla ragione, la quale non contiene a priori principi costitutivi se non soltanto relativi alla facoltà di desiderare, è stato assicurato il suo possesso nella critica della ragion pratica». Per Kant esiste cioè anche un altro ambito, quello della morale, che ha a che fare con la ragion pratica e che ha pure dovuto avere la sua dimostrazione di validità (nella seconda Critica di Kant). In certo modo troviamo nella prefazione quindi un riepilogo di quanto si era letto nella lettera a Reinhold. Infatti Kant prosegue: «Ora, se il giudizio, che nell’ordine delle nostre facoltà di conoscere fa come da termine medio fra l’intelletto e la ragione, abbia anche per sé stesso principi a priori, e se questi principi siano costitutivi o semplicemente regolativi, e se il giudizio dia a priori la regola, il sentimento di piacere o dispiacere come il termine medio tra la facoltà di conoscere e la facoltà di desiderare, ecco ciò di cui si occupa la presente critica del giudizio». Kant quindi individua tra l’intelletto e la ragione la facoltà intermedia del giudizio, in corrispondenza di quell’elemento intermedio che nella lettere a Reinhold veniva definito come sentimento del piacere e del dispiacere. Il filosofo individua cioè tre ambiti della filosofia, due ormai assodati, e un terzo che ha la particolarità di servirsi di un modo di giudicare chiamato giudizio riflettente. La difficoltà della teleologia (espressione che ricorreva nell’epistola) consiste proprio nel fondarsi su un principio che ha bisogno di verificazione di volta in volta.
Buttiamo ora una rapida occhiata d’insieme all’«Indice» della Critica del giudizio. Essa è composta in questto modo:

- Prefazione
- Introduzione
- Parte I: Critica del giudizio estetico
(che ha per oggetti      a) il Bello – libero o aderente
b) il Sublime – matematico o dinamico)
- Parte II: Critica del giudizio teleologico
(che studia la finalità interna della natura).

Parliamo dunque brevemente dell’Introduzione. Va detto che quella premessa al testo nel 1790 non è l’Introduzione originaria, bensì quella che viene definita dagli studiosi Seconda introduzione alla critica del giudizio. Esiste infatti un testo che Kant non ha mai voluto dare alle stampe, abitualmente definito Prima introduzione alla critica del giudizio. Essa non ha avuto diffusione non tanto per argioni di lunghezza eccessiva, come sembra voler giustificare Kant, quanto piuttosto (come ha osservato Vittorio Mathieu) perché Kant si rende conto che nel testo della Prima introduzione c’è un elemento in qualche modo pericoloso per l’impianto complessivo della sua filosofia critica.
Dagli scambi epistolari scopriamo che un corrispondente aveva chiesto a Kant uno scritto nel quale trovare riassunte le complesse prospettive del pensiero kantiano. Kant, in risposta, dice che gli avrebbe mandato un testo nel quale sarebbe contenuto esattamente il nucleo del suo pensiero: noi sappiamo che quel testo è appunto la Prima introduzione alla Critica del giudizio. Dunque Kant la riteneva importante. Eppure l’aspetto insidioso del testo, che lo rende prudente nel diffonderlo, è la nozione di «tecnica della natura». Resosi conto che ci sono elementi della varietà della natura che non sono riconducibili perfettamente alla struttura trascendentale presente nella Critica della ragion pura, comprende anche che tale struttura risulta non già inadeguata, bensì insufficiente. La Critica della ragion pura considera infatti la natura da un punto di vista formale (formaliter); ma la natura è ricca anche di leggi particolari, ossia di un «materiale» che dà luogo a fenomeni concreti come le leggi della biologia, della chimica, ecc. (e non solo della fisica newtoniana). Fenomeni che sono spiegabili solo sulla base di una spontanea attività organizzatrice e produttiva (appunto una «tecnica») insita nella natura stessa.
Se le cose stanno così, però, Kant si rende ben presto conto che la sua filosofia finisce per prestare nuovamente il fianco all’obiezione di Hume: se le singole scienze speciali e le loro «leggi particolari» non possono essere spiegate solo con lo “scheletro” di strutture trascendentali del conoscere fornito dalla Critica della ragion pura, giacché esso necessita di essere in qualche modo riempito – ma non semplicemente dall’esperienza, in quanto essa è falsificabile e particolare. Il tarlo dello scetticismo ricompare quindi, proprio perché da un punto di vista «materiale» la Critica della ragion pura appare carente; il riempitivo materiale dell’esperienza mette nuovamente in gioco la purezza trascendentale che doveva essere la fondazione di ogni scientificità possibile. Per questo nella Prima introduzione della Critica del giudizio viene elaborata l’ambigua nozione di tecnica della natura, secondo la quale la natura possiede una forza capace di darsi delle forme. E infatti, tale nozione sarebbe davvero utilissima per spiegare egregiamente (ancora una volta) la differenza tra un essere vivente e un automa; il quid mancante a un essere non vivente (quella qualità identificata nelle scorse lezioni come il metabolismo, nella sua duplice funzione) verrebbe infatti per così dire supplito da questa tecnica agita dalla natura stessa.
Tuttavia, a ben guardare, accettare semplicemente questa nozione vorrebbe dire accettare un principio razionale che plasma delle forme, ma che non è la ragione. La tecnica della natura rischia cioè di diventare una sorta di razionalità esterna alla ragione umana, che viene ammessa come esistente nella natura stessa per spiegare quel tanto che la ragione umana stessa non riesce a spiegare (appunto, per esempio, la differenza tra un organismo e un meccanismo). Ammettere tutto ciò metterebbe dunque in crisi la cosiddetta «rivoluzione copernicana» che sta alla base della Critica della ragion pura,secondo la quale noi non conosciamo né possiamo aspirare a conoscere come sono fatte le cose in sé, ma dei fenomeni conosciamo a priori solo quello che noi stessi mettiamo per contribuire al sorgere delle rappresentazioni.
La prospettiva di una libera e autonoma «tecnica della natura» piaceva ad alcuni lettori di Kant, tra cui J. Wolfgang Goethe, che negli stessi anni andava elaborando un sistema della natura che cercava di spiegare le origini (lo Urphänomen, il «fenomeno originario») di quella forza vivente che è la natura stessa. Goethe trovava infatti nella Critica del giudizio una filosofia meno astratta di quanto non trovasse nella Critica della ragion pura.
Kant aveva quindi ottime ragioni per togliere questa introduzione dalla circolazione; ma ci sono altresì ottime ragioni per inviarla a chi gli chiedesse in amicizia un compendio dello spirito del suo filosofare. Infatti Kant si rende conto ormai che ogni pretesa costruttivistica, da parte della filosofia trascendentale, di ridurre la conoscenza della natura a una struttura dettata dalla ragione deve scontrarsi con qualcosa di esterno che non è mai deducibile a priori: con una forza viva che viene da fuori, e che tuttavia mette in pericolo la stessa scientificità del pensiero, che aspira alle caratteristiche di universalità e necessità.

Kant ritirò dunque la Prima introduzione con la scusa di un’eccessiva lunghezza (non che quella pubblicata sia poi particolarmente breve); mentre nella seconda e definitiva Introduzione viene inserita per la prima volta con chiarezza la distinzione tra giudizi determinanti e giudizi riflettenti che abbiamo visto sopra. Viene cercato e trovato un escamotage, cioè, per sottrarsi alle problematiche appena accennate proprio attraverso il tentativo di chiarificare quale sia il valore epistemologico dei giudizi riflettenti. La soluzione consiste nell’affermare che il giudizio riflettente non ha valore costitutivo, bensì regolativo.
Il termine costitutivo, in questo contesto, ha un valore simile all’attributo «determinante» predicato del medesimo giudizio conoscitivo; un giudizio ha valore costitutivo cioè quando costituisce gli oggetti dell’esperienza, ovvero: gli oggetti dell’esperienza non possono presentarsi se non attraverso quel giudizio (che è giudizio determinante, appunto).
Kant nega dunque che la teleologia e il corrispondente principio a priori della facoltà intermedia tra intelletto e ragione (la finalità) mettano capo a un principio costitutivo, in quanto se la finalità lo fosse, tutti gli oggetti (come si è detto) ci sembrerebbero in qualche modo finalizzati, addirittura cioè necessari e voluti da una provvidenza: tutte le cose sembrerebbero cioè buone; forse, addirittura, non si potrebbe distinguere fra oggetti inanimati e animati. Se il principio della finalità fosse costitutivo tutti gli esseri apparirebbero cioè viventi, nel senso che sarebbero tutti parte del grande organismo vivente che è il mondo: mentre Kant invece insiste nella distinzione il vivente e il non vivente, per distinguersi fra l’altro da Leibniz, il quale aveva ipotizzato che la sostanza o monade (il principio metafisico dell’universo) altro non contenga in sé se non l’intero mondo totalmente animato e vivente, rispetto al quale ci sarebbero tuttavia gradi di vita consapevoli e altri dormienti. Per Leibniz, dunque, la differenza tra un meccanismo e un organismo non è ontologica ma di consapevolezza: solo l’essere umano, dotato di appercezione, ha consapevolezza del proprio essere vivente; ma la sua sostanza è in perfetta continuità con gli esseri che non lo sembrano, essendo monadi dormienti. Ancora una volta riscontriamo che l’ontologia leibniziano-scolastica è dunque una filosofia della continuità, mentre il criticismo di Kant è un pensiero della discontinuità: ricordiamo che anche sensibilità e intelletto per Kant sono separati, infatti è indispensabile il termine medio dell’immaginazione per spiegarne la «radice comune».
Che significa invece valore regolativo?
Per spiegare il motivo per il quale il giudizio riflettente ha valore regolativo, Kant ricorre all’espressione «come se». Per esempio, per illustrare la differenza tra un cane vivente e un automa meccanico che ne riproduce perfettamente le fattezze, non basta il meccanicismo di Newton. Il vivente va spiegato sulla base del principio della finalità, la quale tuttavia non è una qualità oggettiva della cosa né un principio determinante del fenomeno, bensì – dice Kant – va considerata da noi «come se» appartenesse a quel fenomeno come sua legge. Kant definisce tutto ciò un principio euristico, ovvero un modo che la mente ha per spiegare la differenza, un’ipotesi di lavoro efficace per rendere coto di alcuni fenomeni naturali, che tuttavia non si può dire «costituisca» quel fenomeno stesso.
La ripresa kantiana del problema della finalità è dunque svolta all’insegna della prudenza, onde non ricadere in una metafisica dogmatica. Questa prudenza si chiama principio regolativo e non costitutivo: esso non mette capo a un giudizio determinante, ma a un uso riflettente della facoltà di giudicare. Adottare un principio regolativo vuol dire per esempio che quando la nostra mente deve spiegare per ragioni epistemologiche la differenza il vivente il meccanicismo deve formulare un giudizio di questo tipo: «l’essere vivente è come se fosse finalizzato»; ossia la finalità è il modo in cui noi regoliamo il nostro modo di considerare un dato oggetto per spiegarne certe proprietà ricorrenti nell’esperienza, senza che tuttavia pretendiamo di stabilire che tale oggetto è dotato in sé di finalità (non possiamo saperlo). Un principio euristico è dunque un’ipotesi intepretativa di ciò che appare alla nostra rappresentazione, non può essere una tesi forte.
Per tornare dunque all’indice generale della Critica del giudizio: che cosa accomuna il giudizio estetico al giudizio teleologico? Secondo Kant, ad accomunarli è proprio il fatto che ambedue, pur occupandosi di ambiti apparentemente diversi (il bello e il sublime da una parte; la finalità interna e i fenomeni viventi dall’altra) funzionano in maniera simile, in quanto ipotizzano regolativamente («come se») la presenza nell’oggetto di una certa armonia. Tanto il bello quanto il vivente non sono cioè spiegabili se non attraverso la presenza di una certa armonia che non può essere una qualità intrinseca del fenomeno ma può essere giustificata solo come sentimento suscitato riflessivamente in chi osserva l’oggetto stesso.

Facciamo un ulteriore passo avanti. Sono due le parole che Kant adopera per definire i diversi tipi di universalità che caratterizzano rispettivamente il giudizio determinante e il giudizio riflettente. Il giudizio riflettente anzi, lo si è visto, si muove all’interno del paradosso, per cui esige il consenso (ed è questo il motivo per cui si disputa), ma allo stesso tempo è consapevole dell’impossibilità che questo consenso sfoci in una concordanza determinata da un criterio assoluto (un principio a priori dato una volta per tutte e applicabile al caso presentato dall’esperienza). Kant dunque per distinguere la validità di un giudizio determinante come «la rosa è rossa» da quella di un giudizio riflettente, come «la rosa è bella», usa (invero non sempre con indiscutibile coerenza), due parole differenti:
- Allgemeinheit = «universalità», l’universalità del rosso, o meglio ancora della nozione di causa (intesa come categoria pura dell’intelletto, secondo la deduzione offerta dalla Critica della ragion pura): l’universalità vincolante per il retto uso del giudizio determinante;
- Gemeingültigkeit = «validità comune», l’esigenza di una condivisione universale propria del giudizio riflettente estetico.
La distinzione è peraltro etimologicamente abbastanza arbitraria: le due parole hanno la stessa radice etimologica (gemein = «comune»).
Dunque, quando esprimo un giudizio riflettente su qualcosa (ad esempio «la rosa è bella»), esprimo un giudizio che quasi attribuisce il predicato al soggetto con un condizionale: «è come se la rosa fosse bella per me». È una soluzione adottata per venir fuori da una difficoltà linguistica, serve a ricordare il fatto che la bellezza non è una qualità attribuita all’oggetto, ma è una qualità riflessa. In altri termini, si è detto, è un’ipotesi euristica: il bello non è una qualità propria della rosa, ma esprime quello che io provo quando vedo quella rosa: è il riflesso del mio sentire, e devo ipotizzare, seppur non ne possa avere conoscenza, che la rosa sia bella, è come se fosse bella, non riesco a non vederla tale.
Questa soggettività è ancora più evidente nel caso di un’opera d’arte, laddove è nello spazio del «come se» che si apre la discussione sul suo valore estetico, perché la bellezza e la bruttezza non sono qualità della cosa bensì modi di sentire.
Qualcuno potrebbe ora legittimamente domandare: che necessità c’è di questo ulteriore come se del giudizio riflettente, se è vero – come è vero – che già tutta la filosofia kantiana si fonda sulla cosiddetta «rivoluzione copernicana», ossia sul fatto che tutto ciò che noi diciamo non è conoscenza delle cose in sé ma si deve al nostro modo di conoscere i fenomeni?
Va detto, per rispondere alla questione: il giudizio riflettente non è alternativo al giudizio determinante, ma semmai è un grado ulteriore di esercizio della facoltà di giudicare. Ovvero: l’oggetto di un giudizio riflettente («la rosa è bella»), è in precedenza già determinato dall’intelletto, giacché in caso contrario non ne avremmo affatto rappresentazione (la rosa oltre ad essere bella, è anche «una» rosa, è «rossa», ovvero è per esempio «per terra»). Cioè il giudizio riflettente aggiunge qualcosa rispetto a ciò che è dato dal solo giudizio determinante: in questo caso aggiunge il sentire estetico.

 

10. I quattro «titoli» della bellezza.

Nei primi 22 paragrafi della Critica del Giudizio, Kant presenta l’«Analitica del giudizio estetico» e fornisce la cosiddetta «quadruplice definizione del bello»: quattro definizioni diverse della parola “bello”, essenziali per comprendere che cosa sia il giudizio di gusto secondo Kant. In generale, la migliore definizione di analitica è quella ricavabile dall’etimologia: «analisi» proviene dal greco analyein («sciogliere», scomporre negli elementi fondamentali).
Abbiamo visto nelle lezioni scorse: l’estetica moderna nasce dopo la metà del Settecento, ma nasce subito per così dire con un equivoco: nasce con una accezione principale, in Baumgarten , che Kant nella Critica del giudizio ignora, per riprendere piuttosto una definizione dell’estetica che in Baumgarten era subordinata a quella gnoseologica. Ora, vogliamo cercare di capire in che senso in Kant la nozione di bello si connetta con la nozione di gusto e come, per la nascita dell’estetica moderna, sia fondamentale vedere in che modo Kant trasformi la nozione di gusto.Tematica la cui importanza era stata sottolineata da Gadamer, che in Verità e metodo parlava (si ricorderà) della nozione di gusto nata nel cuore della modernità, insieme con la rivendicazione del ruolo politico da parte del terzo stato nell’età dell’assolutismo. Si può qui brevemente ricordare che anche un altro filosofo contemporaneo ha insistito su questo versante: si tratta del francese Luc Ferry, il quale nel 1990 ha pubblicato Homo aestheticus. L’invenzione del gusto nell’età della democrazia. L’idea di Ferry non è lontanissima da quella gadameriana: la nascita del gusto avviene in concomitanza a precise condizioni storico-politiche (anche se poco rigoroso risulta qui l’uso della nozione di «democrazia» presente nel sottotitolo.
Nell’«Analitica del bello» Kant dà dunque quattro definizioni, articolate su quattro modi diversi di affrontare la questione che, a ben vedere, sono i medesimi titoli sotto i quali Kant eredita e interpreta già nella Critica della ragion pura la teoria del giudizio di Aristotele: quantità, qualità, relazione e modalità. Per Kant, sono questi i modi con cui la nostra mente giudica: ossia i quattro tipi di operare l’unione di un soggetto e un predicato.
Che significa in concreto questa quadripartizione? Prendiamo il solito esempio:

«la rosa è rossa».

Ebbene: quando dico la rosa è rossa, è come se questo giudizio del tipo «S è P» ne contenesse secondo Kant di fatto quattro:
1) giudizio di quantità: Quante rose ci sono? Una
2) giudizio di qualità: Com’è? Rossa (fra l’altro)
3) giudizio di relazione: (anche se non appare dalla formulazione del giudizio, la rosa sta in un contesto): qual è il rapporto fra la rosa e gli altri fenomeni circostanti? (per esempio è «per terra», o «sul tavolo», «punge» ecc.)
4) giudizio di modalità: riguarda la natura della copula: quell’ «è» che congiunge soggetto e predicato indica un’esistenza reale (una rosa presente), una semplice possibilità, ovvero una necessità?
Insomma: quando formulo un giudizio del tipo «S è P», sto, di fatto, formulando quattro giudizi e non uno solo; la proposizione «la rosa è rossa» sottintende cioè una quadruplice attività di sintesi del giudizio: c’è una rosa; questa rosa ha certe qualità (il rosso); intrattiene certi rapporti con gli altri fenomeni circostanti; c’è – ma potrebbe anche non esserci, così come ci sono giudizi che invece indicano una necessità («la somma degli angoli interni di un triangolo è = 180°»). Con la modalità, non è in questione soltanto la rosa («S»), ma anche quel verbo essere («è»), la copula.
Per questa ragione, nella Critica della ragion pura le categorie dell’intelletto (q prima ancora le forme del giudizio) sono distribuite sotto i quattro titoli di quantità, qualità, relazione, modalità. La stessa cosa vale anche per il giudizio estetico, nella cui trattazione tuttavia Kant non comincia dalla quantità, ma dalla qualità. Secondo Kant infatti, poiché il giudizio estetico è fondamentalmente disinteressato alla presenza della cosa, esso esprime un sentimento che vorrebbe essere una qualità dell’oggetto: ci sono insomma buone ragioni per cominciare dalla qualità.
Più volte è stato detto, e lo abbiamo anche ricordato, che Kant è sembrato ad alcuni ossessionato dalla rigidità delle ripartizioni della ragione, e più in generale dall’idea di un’architettonicità del pensiero (la quadripartizione compare fra l’altro anche nella Critica della ragion pratica). Ma per non farci ingannare, dobbiamo dare a questa struttura un valore euristico: lo stesso Kant scrive nella lettera a Reinhold che la simmetria architettonica delle sue opere non è una smania estrinseca, un’ossessione calata dall’alto su una materia invece varia, bensì un mezzo applicando il quale si ottiene una trattazione esauriente.

 

11. Il primo momento del giudizio di gusto: la qualità.

Affrontiamo adesso la prima sezione della Critica del giudizio estetico, l’«Analitica del bello», in riferimento alla qualità.
La definizione del gusto, messa qui a fondamento, è la seguente: esso è la facoltà di giudicare del bello
Definizione: «Il gusto è la facoltà di giudicare del bello». Citazioni da cui partiamo:
I momenti, cui ha riguardo questa facoltà del giudizio nella sua riflessione, ho cercato di giudicarli sulla scorta delle funzioni logiche (perché nel giudizio di gusto è pur sempre contenuta qualche relazione con l’intelletto).
I momenti in cui è ripartita questa analitica sono gli stessi delle funzioni logiche, cioè delle categorie. Il giudizio estetico (la rosa è bella) è pur sempre simile a quello logico (la rosa è rossa), la struttura che unisce soggetto e predicato è la stessa.
Ho cominciato dal momento della qualità, perché il giudizio estetico del bello ha riguardo ad esso in primo luogo.
Il giudizio estetico del bello ha a che fare in primo luogo con la qualità.

§ 1. Il giudizio di gusto è estetico
Per discernere se una cosa è bella o no, noi non riferiamo la rappresentazione dell’oggetto mediante l’intelletto, in vista della conoscenza; ma, mediante l’immaginazione (forse congiunta con l’intelletto), la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere. Il giudizio di gusto non è dunque un giudizio di conoscenza cioè logico, ma è estetico; il che significa che il suo fondamento non può essere se non soggettivo.
L’intelletto non serve al giudizio estetico, poiché si tratta di un giudizio riflettente e non determinante (ovvero nell’unione di un particolare S con un universale P: l’universale non è dato da sempre).
Ci serviamo di un’altra facoltà, che Kant chiama «immaginazione», in tedesco Einbildungskraft        (= facoltà di costruire delle immagini, di cui l’italiano immaginazione, da imago, costituisce quasi una traduzione-calco). L’immaginazione deve esercitare nel giudizio estetico un lavoro di supplenza rispetto a quello che l’intelletto non fa, lavoro che viene comunque compiuto con la presenza nascosta, non conclamata dell’intelletto. Nella frase l’immaginazione (forse congiunta con l’intelletto) il forse non esprime l’incertezza della presenza ma la particolarità della congiunzione, un modo particolare in cui lavorano insieme: «l’immaginazione in qualche modo congiunta con l’intelletto». In altri termini l’immaginazione deve inventare un’immagine che sostituisca quell’immagine universale che garantisce la validità del giudizio determinante, per cui il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza, è estetico e non logico.
La conseguenza, chiaramente espressa da Kant, è che il suo fondamento non può essere se non soggettivo, certo di una soggettività particolare, ma privo della garanzia di quell’oggettività “blindata” che è propria del giudizio di conoscenza.
Kant fa quindi subito un esempio (ritorna l’immagine aristotelica dell’edificio):
Il rappresentarsi con la facoltà conoscitiva (in una rappresentazione chiara o confusa) un edifizio regolare ed appropriato al suo scopo, è una cosa del tutto diversa dall’esser cosciente  di questa rappresentazione col sentimento di piacere.
Quando noi con la facoltà della conoscenza, ci rappresentiamo qualcosa come ad esempio un edificio, diciamo qualcosa di diverso dall’essere coscienti di questa rappresentazione col sentimento di piacere, in altri termini quando abbiamo chiarezza della rappresentazione di una casa non necessariamente questa casa ci piace anche dal punto di vista estetico.
Nella parentesi Kant cita i criteri dell’estetica di Baumgarten (rappresentazione chiara o confusa) e contesta quella dimensione di continuità fra estetico e logico, che considera invece indipendenti: un giudizio estetico (la casa è bella): quest’ultimo non ha niente a che vedere con la perfezione conoscitiva di quella rappresentazione.
Per spiegare che cosa sia la bellezza, dal punto di vista dei segni caratteristici della sua manifestazione, Kant continua:
La rappresentazione è riferita interamente al soggetto, e, veramente al suo senso vitale, sotto il nome di piacere o dispiacere.
Nel percepire il bello viene accresciuto il senso vitale, si stabilisce tra questo oggetto e la soggettività che lo conosce un’armonia; ma questo piacere, determinato dalla presenza di quella rappresentazione, non dipende dal fatto che si  conosca come questo oggetto debba essere. Qui in realtà si tratta di un problema complesso, che come vedremo ritornerà nel § 17, laddove Kant procederà ad una distinzione tra bellezza libera e bellezza aderente, e ritornerà proprio sull’esempio della casa,  forse l’esempio più difficile per definire che cosa sia la bellezza pura.
Nel §1 Kant perviene dunque alla prima acquisizione: il giudizio di gusto è ateoretico, non ha niente a che fare con la conoscenza, bensì ha a che fare col piacere.
§2. Il piacere che determina il giudizio di gusto è scevro di ogni interesse
Nel §2 esamina invece la differenza del giudizio di gusto dalle altre forme di piacere. Secondo Kant cioè il giudizio di gusto ha a che fare con il piacere, ma è un piacere privo di ogni interesse, un piacere puro. (Si tratterà poi, ovviamente, di vedere se esista un piacere puro, e addirittura se Kant riesca mai a definire qualcosa come tale,  liberandolo di tutta l’empiricità.)
È detto interesse il piacere, che noi congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Questo piacere perciò ha sempre relazione con la facoltà di desiderare.
Il piacere interessato nasce nei confronti di un oggetto, quando questo non è solo rappresentato ma è presente, ed è possibile desiderarlo, consumarlo, usarlo. È quel piacere che può nascere soltanto dalla presenza dell’oggetto che lo suscita, che la impone. La facoltà con la quale giudichiamo l’oggetto del piacere interessato nella nostra mente non è il sentimento di piacere o dispiacere (quella facoltà che sta a metà tra la ragione conoscitiva e la ragione pratica), ma è la ragione pratica, è il desiderio, è la facoltà di desiderare. Il piacere puro, invece, è quello non compromesso dalla presenza dell’oggetto, di cui  solo la rappresentazione è necessaria.
Kant termina il  § 2 affermando:
Ognuno deve riconoscere che quel giudizio sulla bellezza, nel quale si mescola il minimo interesse, è molto parziale  e non è un puro giudizio di gusto.
Il giudizio di gusto, per essere davvero tale, non si deve mescolare al minimo interesse, non si deve mescolare al desiderio di consumare l’oggetto, di usarlo con la sua rappresentazione.
Non bisogna essere menomamente preoccupato dell’esistenza della cosa, ma del tutto indifferente sotto questo riguardo, per essere giudice in fatto di gusto.

In questo paragrafo della Critica del giudizio, Kant procedesempre per dicotomie, apre sempre nuove alternative ed  elimina progressivamente uno dei due corni della questione. Possiamo abbozzare uno schema:

                          


conoscenza
piacevole  §3
Giudizio
di gusto                             interessato
utile
piacere                               buono  §4
santo    (termine peraltro non usato da Kant)
§1              puro

§2

 

 

 

 

 


Nella prima coppia di paragrafi Kant anticipa già le ragioni per cui, anche in ambito estetico, egli non potrà concordare né con Baumgarten né con Hume.
Per Baumgarten il piacere estetico nasce sullo stesso cammino che fa nascere la conoscenza; il che è proprio quanto Kant contesta nel §1: indipendentemente dalla chiarezza o non chiarezza di una rappresentazione sensibile posso provare il piacere estetico.
Nel § 2 il riferimento è Hume e la sua visione del bello connessa all’utile, il suo campo di grano trovato bello (secondo un celebre, abusato esempio) perché se ne potrà ricavare farina e quindi pane: questo giudizio è compromesso dall’interesse (inter-esse = stare in mezzo, essere coinvolti dall’esistenza di qualcosa), dall’essere coinvolto fisicamente dalla presenza della cosa. In altri termini, perché esista il giudizio sul bello non ci deve essere la minima preoccupazione dell’esistenza della cosa.

Nei paragrafi successivi Kant si dilunga quindi a spiegare le varie forme di questo interesse, per quanto abbia chiarito che non si tratti di piacere estetico; egli tuttavia vuole fare i conti con tutte quelle posizioni dell’estetica che l’avevano preceduto e che avevano confuso il bello con varie altre forme di giudizio sulla cosa. È consapevole che molti prima di lui avevano confuso il giudizio estetico con il giudizio sensuale (piacevole, §3) o con il giudizio morale (buono, §4). Secondo il § 3, Piacevole è ciò che piace ai sensi della sensazione . Se il piacevole dipende dalla sensazione  e quindi dalla presenza della cosa, è ovviamente altro dal piacere del bello, disinteressato, basato sulla pura rappresentazione. Secondo il § 4, invece, Buono è ciò che, mediante la ragione, piace puramente pel suo concetto. Chiamiamo qualche cosa buona (utile) quando essa ci piace soltanto come mezzo; un’altra invece, che ci piace per se stessa, la diciamo buona in sé. In entrambe è sempre contenuto il concetto di uno scopo, il rapporto della ragione con la volontà (almeno possibile), e per conseguenza un piacere legato all’esistenza di un oggetto o di un’azione, vale a dire un interesse.
Che il buono dell’utile non sia il piacere disinteressato è evidente: definisco una cosa buona in quanto, come mezzo, mi permette di raggiungere un certo fine (è buono per/ utile per… i due aggettivi diventano qui sinonimi). Ecco perché questa bontà non potrà essere confusa col giudizio di gusto: essa è inficiata all’origine dall’interesse  per l’utilizzo della cosa, dalla piossibilità di farne uso.
Nel testo kantiano, nei capoversi successivi si susseguono degli esempi e compaiono perfino i paradigmi di quello che potremmo chiamare il suo gusto personale:
I fiori, i disegni liberi, quelle linee intrecciate senza scopo che vanno sotto il nome di fogliami non significano niente, non dipendono da alcun concetto determinato e tuttavia piacciono.
Questi esempi presentano alcune difficoltà. In primo luogo, dal punto di vista estetico si afferma che gli oggetti decorativi hanno più valore degli oggetti utili: riprendendo l’esempio della casa, secondo il precetto kantiano, per giudicare una casa non dovremmo giudicarne l’utilità in alcuno modo. E ancora, le cose esteticamente più vicine alla sua idea di piacere disinteressato sono gli ornamenti, quell’eccesso di elemento estetico che non risponde a nessuna finalità se non a sé stessa.
D’altra parte, anche il buono in sé, che abbiamo definito “santo”, in quanto conforme alla legge morale, non è in qualche modo disinteressato, perché l’intervento di un istanza superiore (in questo caso il «Sommo Bene») mette in crisi ancora una volta la purezza del giudizio di gusto.

Ricapitolando: abbiamo affrontato la distinzione tra il bello e l’utile e successivamente quella tra il bello e il buono. Il bello è un sentimento di piacere disinteressato, si definisce interessata quel tipo di relazione che esige la presenza dell’oggetto, il suo utilizzo, che ce se ne possa appropriare; mentre il piacere estetico è il piacere che si accontenta della rappresentazione
Si potrà discutere sull’esistenza di un’esperienza di piacere davvero disinteressato, o meglio, se Kant sia riuscito veramente a formulare un’estetica che sia indipendente dalla fisiologia e dalla psicologia. Il tentativo di Kant è di fondare, anche per l’estetica, così come per la teoria della conoscenza e per la morale, una filosofia trascendentale, un pensiero che non si occupi delle cose, ma dei modi della nostra relazione alle cose.
Trovare un approccio trascendentale al problema della bellezza significa distinguere l’estetica tanto dalla psicologia quanto dalla fisiologia, affermare che il bello non è il piacevole significa dire che il bello non è né il piacere che ci è dettato dall’esperienza, dalla fruizione dei sensi (fisiologia) né che è quel piacere sottile, che è suscitato in noi da un procedimento psicologico. Il discorso di Kant si vuole arrestare a un livello  trascendentale, cioè che precede tutto ciò che poi si rapporta con l’oggetto concreto.
Molti, nei secoli successivi,  l’hanno considerato un progetto costitutivamente fallimentare, ritenendo che nessun piacere sia disinteressato: Friedrich Nietzsche credeva che tutti i piaceri nascondessero un interesse, magari da decostruire per comprenderne la provenienza. Gadamer parlava della nozione di giudizio di gusto nata fra Seicento e Settecento come baluardo ideologico del terzo stato, di una classe sociale in ascesa. Gianni Carchia propone una lettura del piacere disinteressato in Kant interessante e attuale da un punto di vista teorico: immaginare una relazione con l’oggetto, di cui non è importante la presenza materiale, significa elaborare uno spazio perché l’oggetto appaia nella sua verità. Finché la relazione con l’oggetto è condizionata da interessi di qualsiasi tipo (ad esempio il piacere che ne posso ricavarne o la bontà), l’oggetto non appare mai autenticamente per quello che è, ma sempre in funzione del modo di relazionarvisi, in funzione di una sua utilizzabilità di qualche tipo. Carchia sostiene che il grande tentativo kantiano, di liberare il giudizio di gusto dall’interesse, consista proprio in un intento di restituire all’oggetto l’assoluta libertà della sua apparenza. L’oggetto appare perché appare. E soltanto in questa assoluta libertà della sua apparenza si dà, secondo Carchia interprete di Kant, anche la sua verità, perché soltanto nella prospettiva in cui l’oggetto non è subordinato all’interesse di chi lo guarda ma si dà autonomamente, allora è pensabile che sia davvero libero, non condizionato o manipolato.

Cerchiamo ora di capire ulteriormente perché il bello non possa essere assimilato al buono. In generale, la nozione di «bontà» si può definire sotto due aspetti: l’utile, che è il modello classico dell’utilizzabilità e quindi dell’interesse, in cui la presenza dell’oggetto è fondamentale per l’utilizzo, e il buono, anch’esso non assimilabile al bello. Per comprenderne il motivo dobbiamo rifarci alla questione della legge morale, al centro della questione trattata nella Critica della ragion pratica. Kant scrive:
buono è ciò che [l’uomo] apprezza, approva, vale a dire ciò cui dà un valore oggettivo
non c’è possibilità di confondere il buono con il bello, per la stessa ragione per cui i giudizi dell’etica sono più simili ai giudizi determinanti che a quelli riflettenti: perché la qualità che attribuiamo, il buono, è un universale dato, c’è già, è oggettivo. L’uomo ha l’accesso oggettivo alla legge morale, a che cosa sia il buono; anche se, chiaramente, quella della morale non è la stessa pretesa di oggettività per esempio della categoria di causa.
Sappiamo inoltre anche che il giudizio di gusto è propriamente quel luogo del nostro modo di pensare nel quale il giudizio è riflettente e non determinante o, in altri termini, nel quale l’intelletto non riesce ad andare fino in fondo nel suo compito, ma ha bisogno della funzione supplente dell’immaginazione: qui l’universale non è dato ma deve essere ricercato. Il buono ha un valore oggettivo, garantito dall’accesso dell’umanità, in ogni singolo individuo, alla legge morale. Per cui
si può dire che di questi tre modi del piacere [il piacevole, il bello, il buono], unico e solo quello del gusto del bello è un piacere disinteressato e libero.
Una citazione  che va in direzione della spiegazione di Carchia: qui disinteressato diventa sinonimo di libero, non  condizionato da qualcosa di eteronomo (= che ha la legge fuori di sé). La bellezza è il luogo dell’autonomia, è il luogo in cui la cosa risponde soltanto della sua apparenza
perché in esso [giudizio del bello] l’approvazione non è imposta da alcun interesse, né dai sensi, né dalla ragione
non c’è alcun interesse né dei sensi (piacevole) né della ragione (buono).
Poco sopra, parlando del buono, Kant scrive
questo punto, del resto, potrà esser interamente chiarito e giustificato solo in seguito
Più avanti nella Critica del giudizio il filosofo tornerà su questo punto, sul rapporto tra bello e buono. Qui basti dire che nella prospettiva di Kant bello e buono non sono la stessa cosa, al massimo, il bello può essere simbolo del buono, simbolo del bene. La relazione tra bellezza e bontà non è una relazione di identità: nell’affermare questo Kant vuole prendere le distanze da un’altra grande tradizione filosofica, quella dell’estetica medievale, che aveva elaborato la teoria dei trascendentali, ovvero delle note comuni e generalissime dell’essere, attributi di Dio al massimo grado: unità, verità, bontà (unum, verum, bonum), caratteri ai quali in certi filosofi si aggiunge anche la bellezza (pulchrum). Nell’essere assoluto questi caratteri sono presenti al massimo grado.
Per Kant, come ormai sappiamo, «trascendentale» significa una struttura della mente e non una qualità dell’essere, e rifiuta l’idea che bene e bello siano due facce della stessa medaglia, non c’è un’immediata convertibilità, mentre se li consideriamo attributi di Dio non sarebbero altro che due modi in cui guardiamo le proprietà ontologiche assolute dell’essere sommo.
Alla conclusione del primo momento, quello qualitativo, troviamo infine la definizione:
Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di un piacere simile si dice bello.
Da sottolineare come l’oggetto e la sua rappresentazione abbiano qui (e solo  qui) la stessa funzione. Quando la relazione è disinteressata, l’oggetto di questo piacere (o dispiacere) prende il nome di bello. Questa è la prima definizione che dà Kant del giudizio sul bello, una relazione che unifica la nozione di bellezza con quella di gusto.
(Fra parentesi. La bellezza disinteressata, incarnata nella metafora della rosa, metafora che percorre tutta l’opera, presente soprattutto nel secondo momento, non è un concetto nuovo e originale, ma si inserisce in una tradizione più ampia. La bellezza della rosa è un classico della letteratura filosofica e non solo. Nelle postille al romanzo Il nome della rosa Umberto Eco spiega il titolo scelto proprio con la quantità delle suggestioni contenute nell’immagine della rosa, simbolo della bellezza per eccellenza, della bellezza gratuita. Come non citare L’usignolo e la rosa del racconto di Oscar Wilde, ma ancor prima il lavoro del mistico tedesco del Seicento, sicuramente conosciuto da Kant, Angelus Silesius, autore del Il pellegrino cherubico (1675)? Si tratta di una delle più importanti opere della letteratura mistica, scritta in versi, fra i quali il celebre «die Rose ist ohne Warum», «la rosa è senza perché», l’idea che questo fiore ci pone di fronte alla pura manifestazione di qualcosa la cui bellezza non corrisponde a nessuno scopo se non la sua pura presenza. Per arrivare ad un altro grande poeta del Novecento, Paul Celan, che ha scritto Die Niemandsrose, «La rosa di nessuno».)

 

12. Il secondo momento del giudizio di gusto: la quantità.

Il secondo momento del giudizio di gusto, si inserisce, all’interno della quadripartizione, nel momento della quantità. Partiamo dalla definizione finale:
È bello ciò che piace universalmente senza concetto
La quantità è espressa nell’avverbio «universalmente»: la questione è cioè sempre relativa al grado di validità del giudizio di bello, che è appunto universale, ma aconcettuale. Si tratta dunque qui di occuparsi del bello dal punto di vista quantitativo, vedere quale sia l’estendibilità del giudizio del bello. Quanti sono coloro che possono formulare questo giudizio? Tutti. Il giudizio sul bello è quel giudizio che ha valore universale, ma la sua particolarità è di essere aconcettuale. Come è possibile questo apparente paradosso?
Entra di nuovo in campo la distinzione tra i giudizi determinanti e i giudizi riflettenti: il giudizio determinante è quello che dispone dell’universale come concetto, il giudizio riflettente non dispone dell’universale ma deve andarlo a cercare. Essere senza concetto significa dover formulare un giudizio riflettente, o in  altri termini: se esistesse il concetto di bello tutti dovrebbero trovare belle le stesse cose. Invece il bello è quel particolare risultato del sentimento di piacere che nasce implicando un’esigenza di universalità, una pretesa che valga per tutti, che però non si può fondare su una categoria, su un’applicazione indiscriminata di un’universale a un particolare.
Come si ribadisce nel § 6, Il bello è ciò che è rappresentato, senza concetti, come l’oggetto di un piacere universale. Questo piacere deve insomma essere universale ma questa universalità non si può fondare sulla presenza di un universale già dato
Questa definizione del bello può essere dedotta dalla precedente[quella relativa alla qualità], per la quale esso è l’oggetto di un piacere senza alcun interesse. Difatti colui che ha coscienza di essere disinteressato nel piacere che prova di qualche cosa, non può giudicare la cosa medesima se non come contenente un motivo di piacere, che sia valevole per ognuno.
In realtà, a ben vedere, la seconda definizione e la prima sono in fondo equivalenti, perché è proprio il fatto che manchi interesse il fondamento dell’universalità. Se avessimo un punto di vista coincidente con quello dei sensisti, se pensassimo cioè che il piacere del bello e il piacere del piacevole sono la stessa cosa, non ci renderemmo ragione da una parte del fatto banale ma importante che c’è anche chi non è d’accordo con noi. Dall’altra, se rimando al senso, rimando a qualcosa che è costitutivamente soggettivo e non universale, e se intrattengo con l’oggetto una relazione interessata, sarà molto difficile immaginare che quel tipo di interesse possa essere esteso a tutti, perché ognuno avrà il proprio interesse, il proprio modo di rapportarsi all’oggetto, servendosene come oggetto di desiderio e di piacere. È necessario escludere questo legame alla radice, il piacere estetico non ha niente a che fare col piacevole, soltanto sul rapporto disinteressato è possibile fondare l’universalità, proprio perché questo tipo di fruizione possa valere per tutti.
Si tratta dunque del fondamentale passaggio logico dalla prima alla seconda definizione: è soltanto la mancanza di interesse che porta all’universalità. Soltanto il fatto che nessuno confonda il suo piacere particolare con il valore universale della cosa può attirare l’universalità.
L’universalità in questione, l’universalità del bello, è allora l’universalità del funzionamento della nostra mente: il bello non è un concetto universale.
Pensiamo, tra parentesi, al dialogo di Platone intitolato Teeteto (151 d 55), frai cui protagonisti c’è il sofista Protagora: qui compare la “sua” famosa definizione di che cosa sia l’uomo: «l’uomo è misura di tutte le cose». Platone si vuole confrontare proprio con il relativismo sensistico, il suo grande nemico, accettando il quale dovremmo ammettere che ognuno ha il suo modo assolutamente soggettivo di percepire. Ebbene: anche Kant rifiuta questa strada, cerca un modo per conservare un margine di “oggettività”. La sua strategia qui è però quella di dividere il bello dal piacevole, e giungere ad una oggettività di tirpo particolare, giacché essa non sta nell’oggetto, bensì nel nostro modo di giudicarlo. Il giudizio riflettente porta all’oggettività delle nostre modalità di ricerca del bello, ma questo bello è chiaramente soggettivo. Dunque siamo di fronte a qualcosa come un universale (dobbiamo pensare nello stesso modo) che tuttavia è soggettivo (possiamo arrivare a una conclusione diversa). Nella conoscenza e nella morale ciò non è possibile, cioè possiamo certamente arrivare a conclusioni diverse, ma esiste un’unica soluzione corretta; nell’estetica kantiana, invece, non si può dire che un giudizio «è sbagliato» puramente e semplicemente: un giudizio di gusto può essere meno convincente, condizionato com’è magari da un certo modo di vedere, ma non gli si può rimproverare la mancanza di oggettività. Eppure, nel formulare un giudizio estetico ci sembra comunque strano che qualcuno che dovrebbe ragionare esattamente come noi giunga ad un’altra soluzione.
In realtà potremmo spingerci a dire: nella prospettiva kantiana, questo è il modo di giudicare più libero: è un modo di giudicare che avviene in nome soltanto della libera apparenza dell’oggetto,  giudicato in una maniera priva di interesse. Nell’intenzione di Kant  il giudizio estetico lascia essere la cosa, lascia che la cosa sia lì, la contempla nella sua totale autonomia. In qualche senso è un modo totalmente «democratico» (vedi, questa volta ben a proposito, il sottotitolo dell’opera sopra citata di Luc Ferry, o l’interpertazione di Carchia) anche nei confronti degli altri giudicanti, perché tutti hanno lo stesso diritto di pronunciare il loro giudizio.


Kant, Critica del giudizio, Roma-Bari,  Laterza, 1997, p. 71

Ivi, pp. 71-73

Ivi, p. 73

Ivi, pp. 73-75

Ivi, pp.  75-79.

Ivi, pp. 79-83.

Ivi, pp. 83-87.

ivi p.105

 

Anche nella Critica della ragion pura si afferma che tutti gli uomini ragionano nello stesso modo, eppure là sono le categorie della mente umana a essere uguali per tutti; nel giudizio estetico il modo di ragionare è libero, stimola le facoltà mentali che devono interagire in tutti i soggetti allo stesso modo, ma che non saranno mai obbligate a giungere lo stesso risultato: colui che giudica – dice Kant – si sente completamente libero rispetto al piacere che dedica all’oggetto.
La libertà è reciproca non è soltanto la libertà dell’oggetto: è dunque anche la libertà del soggetto, che non ha bisogno materialmente dell’oggetto che giudica, per cui il suo giudicare è totalmente gratuito proprio come gratuita è la bellezza:
egli non potrà trovare alcuna condizione particolare, esclusiva del suo soggetto, come fondamento del piacere e dovrà quindi considerarlo  come fondato su qualcosa, che si possa presupporre anche in ogni altro
Dunque, la esigenza di «validità comune» del giudizio di gusto si basa sul fatto che il modo di pensare degli altri si fonda sulle stesse facoltà su cui si fonda il mio:
egli parlerà così del bello come se la bellezza fosse una qualità dell’oggetto, e il suo giudizio fosse logico […] sebbene sia soltanto estetico
il risultato di questo giudizio estetico è che emette un giudizio che nella sua struttura è come un giudizio logico, sembra un giudizio determinante, ma questa somiglianza si fonda soltanto sulla pretesa di universalità del giudizio riflettente, non sulla sua oggettiva universalità. Quando formuliamo un giudizio «x è bello» ci sembra formalmente identico a «x è rosso», o ancora meglio a «x è causa di y» (è sempre un giudizio della forma «S è P», e quel “bello” sembra un universale come «rosso»); ma questa è solo una somiglianza di forma, poiché in realtà i due tipi di giudizi sono diversi:
qui è innanzitutto da notare che una universalità, che non abbia fondamento nei concetti dell’oggetto (quand’anche soltanto empirici),  non è punto logica, ma estetica, cioè non include una quantità oggettiva del giudizio, sibbene soltanto una quantità soggettiva; per la quale io adopero l’espressione di validità comune (Gemeingültigkeit) .
Kant si sofferma sulla differenza fra il giudizio logico e il giudizio estetico dal punto di vista formale, insomma, proprio perché è consapevole che un possibile equivoco è costituito dall’identità formale delle due proposizioni, ma: nel primo caso è un’oggettività data una volta per sempre, nel secondo c’è una pretesa di oggettività.
ora qui è da notare che nel giudizio di gusto non viene postulato altro che tale voce universale,  riguardo al piacere senza mediazione di concetti, e quindi  la possibilità di un giudizio estetico
Il giudizio estetico ricerca non la necessità ma la possibilità: quando qualche cosa è detto bello e si ha la pretesa che tutti lo dicano tale, è necessario che tutti lo possano fare, non è un dovere assoluto, ma un dover-potere.
È interessante notare anche che l’espressione «voce universale» (in tedesco allgemeine Stimme), richiama un’altra parola molto utilizzata nella Critica del giudizio per indicare l’universalità propria del bello: Einstimmung (che significa «accordo»). La metafora è sempre quella della voce: nel giudizio estetico è come se tutti fossero chiamati a dire la loro, in vista di un possibile e auspicabile accordo; è come se ogni volta che formuliamo un giudizio estetico si udisse la domanda «E tu cosa ne pensi? Sei d’accordo anche tu? Sei disposto a riconoscere insieme a me un tipo di universalità in quell’oggetto?». Dato che il gusto alla fine, non dimentichiamolo, è un modo di pensare comune a un’epoca, nella quale tutte le voci possano accordarsi su qualcosa, ma non sono obbligate a farlo.

Nel § 9 si assiste a un altro modo di concepire la differenza che c’è tra il bello e il piacevole,  aggiungendo tuttavia qualcosa di più. Il titolo del paragrafo recita:
 Esame della questione, se nel giudizio di  gusto il sentimento di piacere precede il giudizio sull’oggetto o viceversa.
Quando dico che una cosa è bella, il piacere che provo precede la formulazione della frase o in realtà provo piacere esprimendo il giudizio? Quale delle due circostanze è condizione dell’altra? A precedere è la presenza del piacere oppure il giudizio di gusto? La risposta di Kant è questa:
Se ci fosse prima il piacere per l’oggetto dato, e al giudizio di gusto spettasse solo il compito di attribuire alla rappresentazione dell’oggetto la comunicabilità universale di quel piacere, si avrebbe un procedimento intimamente contraddittorio.
Se prima venisse il piacere dell’oggetto e il giudizio di gusto fosse successivo, nello stabilirne la comunicabilità universale saremmo di fronte ad una contraddizione.
Perché allora quel piacere non sarebbe che il semplice piacevole della sensazione, e, quindi, per sua natura, potrebbe avere soltanto una validità particolare perché dipenderebbe immediatamente dalla rappresentazione, con la quale l’oggetto è dato
Pensiamo per converso al piacere che ci viene dal mangiare una fetta di torta: prima la mangio, trovo che è buona, poi comunico (formulo un giudizio del tipo: «la torta è saporita»);  prima viene il piacevole, poi il relativo giudizio di gusto; ma con questo ho escluso fin dall’inizio ogni pretesa di universalità, perché in questo caso il piacevole è assolutamente individuale. Il problema è quindi che l’oggetto qui deve essere dato, ci deve essere, deve essere lì, e questo nostro consumarlo non è comunicabile universalmente.
Ora se deve essere pensato come puramente soggettivo il fondamento del giudizio su questa comunicabilità universale della rappresentazione, cioè senza un concetto dell’oggetto, essa non può essere altro che lo stato d’animo che risulta dal rapporto delle facoltà rappresentative tra loro, in quanto queste riferiscono una rappresentazione data alla conoscenza in generale
Se dunque il piacere del piacevole è un piacere che precede il giudizio, il piacere del bello segue il giudizio. Al centro del § 9, potremmo dire, c’è una radicalizzazione del metodo trascendentale, quel metodo (ricordiamo) che non si occupa di come sono fatti gli oggetti, ma del nostro modo di conoscerli. Kant dimostra come il bello sia suscitato da un gioco tutto interno al soggetto, ossia nasca dal modo in cui le facoltà della mente entrano in relazione tra loro.Quando attribuisco l’aggettivo bello ad un certo oggetto, lo attribuisco perché il piacere che mi suscita la sua presenza, o la sua rappresentazione, ha prima generato in me qualcosa. Questo piacere, insomma, è frutto di un moto che si è azionato nel mio animo, e non dell’effetto meccanico esercitato dalla cosa su di me. Il bello nasce per una particolare relazione tra le facoltà che costituiscono la nostra mente.
Per spiegarlo Kant ricorre ad un’interpretazione del modo in cui le facoltà dell’immaginazione e dell’intelletto entrano in gioco nel giudizio estetico: modo del tutto particolare e diverso da quello per la formulazione di un giudizio determinante.
Proviamo a costruire uno schema:

 

Giudizio determinante

Facoltà

Giudizio riflettente

         schematismo

superiore (intelletto)

intermedia (immaginazione)

inferiore (sensibilità)

1) Nel giudizio determinante l’universale è dato ed è applicato al particolare: vale a dire, l’universale che sta nell’intelletto viene applicato ad un oggetto dei sensi (peraltro, c’è sempre bisogno del molteplice dell’esperienza altrimenti la forma conoscitiva dell’intelletto, ossia la categoria, rimane vuota). L’intelletto possiede, funziona per categorie, che permettono di ordinare il mondo; senza di esse avremmo solo flussi di percezioni.
La priorità kantiana è quella di rispondere alla critica scettica della conoscenza, è necessario stabilire che le relazioni tra le cose siano rispondenti a leggi universali, ma sappiamo che non è possibile che la conoscenza sia determinata meramente dalla dimensione empirica, giacché questa non ne garantisce la scientificità (non permette di garantire nessi universali e necessari, essendo sempre falsificabile).
Ma, date le categorie, in quale modo una certa categoria si applica all’esperienza? Ovvero: in quali casi l’intelletto è legislativo rispetto alla sensibilità? Nella Critica della ragion pura l’immaginazione viene chiamata in causa proprio per spiegare in che modo si applichi una certa categoria al molteplice dell’esperienza.
Ad esempio, dati due fenomeni successivi, come distinguere tra un nesso causale e una mera contiguità temporale? Se due eventi si svolgono rispettivamente nei momenti T1 e T2, ci deve essere un modo ragionevole per immaginare che in alcuni casi siano connessi causalmente (E1 causa di E2), propter hoc, ed in altri casi non ci sia un nesso vincolante, ma una semplice successione temporale, post hoc (per usare una terminologia humiana). Questo delicatissimo compito, nel capitolo Schematismo dei concetti puri dell’intelletto contenuto nella Critica della ragion pura, è affidato all’immaginazione. L’immaginazione è qui il modo in cui la sensibilità è strutturata, e costituisce una sorta di interfaccia tra l’intelletto e l’esperienza. Nel processo conoscitivo il dato sensibile viene «schematizzato», ovverosia incanalato dall’immaginazione che predispone il dato a essere categorizzato in un certo modo. L’immaginazione, facoltà notoriamente riproduttiva di immagini, nella genesi delle rappresentazioni ha anche una funzione produttiva: aiuta, cioè, a produrre l’esperienza, dà una sorta di imprinting allo spazio e al tempo, in maniera tale che i dati che provengono dall’esperienza siano indirizzati adeguatamente verso l’universale.
Quando però l’immaginazione ha questa funzione di incanalamento dei dati dell’esperienza verso l’intelletto, allora la sua funzione è rigida, non può fare altro, se non consentire questo scambio sempre nello stesso modo.

2) Nel giudizio riflettente invece, come sappiamo, non possediamo un universale ma partiamo da un’esperienza, un dato, e ricerchiamo un universale, che non sarà necessariamente uguale per tutti (la linea dello schema non può avere la stessa perentorietà di quella del giudizio determinante, e per questo è stata convenzionalmente tratteggiata); tutti quanti, però, avremo la possibilità di provare un certo piacere. Esso è dovuto al fatto che, mentre nel giudizio determinante il rapporto tra le tre facoltà è rigido, e dunque non può che avvenire in un certo modo, nel caso del giudizio riflettente il rapporto è libero, assistiamo – dice Kant – a un «libero gioco delle facoltà».
Ed è proprio questo libero gioco delle facoltà, nel momento in cui crea un accordo armonico e spontaneo, a generare il giudizio di gusto, il quale antecede così il piacere. La vera causa del bello non è dunque l’oggetto, ma il giudizio di gusto stesso.
Ora se deve essere pensato come puramente soggettivo il fondamento del giudizio su questa comunicabilità universale della rappresentazione,
(…se dobbiamo cioè pensare che l’universalità del giudizio di gusto, non sia come quella del giudizio determinante, ma piuttosto come una validità comune, cioè a metà strada tra la sua inaggirabile soggettività e la pretesa di una valore comune, senza un concetto di bello…)
cioè senza un concetto dell’oggetto, essa non può essere altro che lo stato d’animo che risulta dal rapporto delle facoltà rappresentative fra loro, in quanto queste riferiscono una rappresentazione data alla conoscenza in generale
(…dunque la causa del provare piacere è il rapporto tra le facoltà rappresentative); mentre
le facoltà conoscitive, messe in gioco da questa rappresentazione, son qui in gioco libero, perché nessun concetto determinato le costringe ad una particolare regola di conoscenza
– il che significa: le facoltà non danno luogo a una schematizzazione della sensibilità, come nella Critica della ragion pura, ma la relazione tra intelletto e immaginazione è qui completamente libera.
Sicché lo stato d’animo in questa rappresentazione deve essere quello che è costituito dal sentimento del libero gioco delle facoltà rappresentative in una rappresentazione data, rispetto a una conoscenza in generale. Ora ad una rappresentazione con cui è dato un oggetto, affinché ne nasca in generale una conoscenza, appartengono l’immaginazione, per l’unione del molteplice dell’intuizione e, l’intelletto, per l’unità del concetto che unisce le rappresentazioni. Questo stato di libero giuoco delle facoltà conoscitive in una rappresentazione con cui è dato un oggetto, deve poter essere universalmente comunicato; perché la conoscenza, come determinazione dell’oggetto, con cui date rappresentazioni (in qualunque soggetto) debbono accordarsi, è l’unica specie di rappresentazione che valga per ognuno.
Nel giudizio riflettente immaginazione e giudizio riflettente sono in libero gioco, e questo stato di libero giuoco deve poter essere universalmente comunicato.  La traduzione italiana affianca curiosamente i verbi «dovere» e «potere». Riflettiamo su questi termini: è necessario che gli uomini possano provare il sentimento di piacere estetico, ma che ciò accada non è dovuto, è solo possibile che lo provino tutti di fronte alle stesse rappresentazioni. In altri termini, le menti degli uomini sono fatte tutte allo stesso modo, tutti possiedono cioè un’immaginazione e un intelletto, ma mentre tutti quelli che ragionano in maniera sensata non possono non concordare nel giudizio determinante (in cui le facoltà non sono libere), nel caso del giudizio riflettente tutti devono-poter provare il bello, ma non sono obbligati a provarlo, poiché si tratta in questo caso di un sentimento di piacere che scaturisce di un libero gioco.
Da questa asserzione si può dunque evincere che:

  • La presenza di una rosa nella nostra esperienza può interagire con le facoltà rappresentative in due modi diversi: da un lato dal punto di vista del giudizio determinante, poiché se non applicassi per esempio la categoria di unità al molteplice, non avrei neanche una rosa, bensì un semplice flusso di rappresentazioni; mentre d’altro lato il giudizio riflettente, quando è formulato (c’è ma potrebbe anche non esserci), aggiunge qualcosa d’altro, e di qui sorge il piacere prodotto dalla relazione armonica tra intelletto e immaginazione (come se questa rappresentazione combaciasse con la mia «idea» della bellezza di una rosa, che però in questo caso non rimanda a un universale).

Analizzando la storia dell’estetica, il filosofo polacco Wladislaw Tatarkiewicz (importante storico della disciplina) ha notato che in tutta la cultura occidentale il bello si presenta in vari modi, ma in questa vicenda c’è un filo conduttore principale, ed ha così formulato la cosiddetta «Grande Teoria» del bello: in quasi tutti i tempi le diverse culture occidentali hanno concepito il bello come armonia, ovvero a partire da Pitagora si è affermata l’idea che il bello si potesse ricondurre a rapporti numerici di proporzione matematizzabile, di ordine fra le parti (c’è una grande eccezione a questa teoria: Plotino e il neoplatonismo, sulla scorta di alcuni dialoghi di Platone). Osserviamo che l’idea del «libero gioco armonico delle facoltà» inserisce dunque anche Kant in questa tradizione: anche per lui infatti la bellezza nasce dall’armonia, ma quasi a radicalizzare la sua impostazione trascendentale e propriamente moderna, in Kant non si tratta di un’armonia fra le parti dell’oggetto, ma tra le facoltà rappresentative del soggetto.
2) L’apertura al giudizio riflettente è una grande novità, all’interno del sistema kantiano. È evidente infatti che il giudizio riflettente mette in gioco fortemente la storicità del soggetto (il fatto che viva in una certa epoca, condivida con i suoi contemporanei certe convinzioni e non altre); nella ricerca dell’universale, della Gemeingültigkeit, la formulazione del giudizio di gusto non è legata quindi soltanto alle facoltà rappresentative del soggetto, ma si riempie per così dire di contenuti, che non sono indifferenti alla stessa nozione ricercata. Il gusto può essere considerato come il fatto che una certa comunità può condividere un certo modo di giudicare; sarà molto difficile, in altre parole, che due comunità magari lontane nel tempo concepiscano belle le stesse cose. La differenza è dovuta alla mobilità di questo tipo di giudizi, che stanno all’interno di un gusto condiviso. La ricerca dell’universale è condotta sulla base degli esempi concreti offerti dalla storicità (anche per noi: sarebbe possibile elaborare una teoria del bello senza sapere minimamente che cos’è una statua greca o un quadro astratto?). Il nostro modo di cercare l’universale è intriso della nostra esperienza, il nostro gusto è intriso della nostra storia: insomma all’estetica non è applicabile il modo di pensare, l’orthos logos (per dirla ancora con Aristotele) della Critica della ragion pura.
Se la rappresentazione data, che provoca il giudizio di gusto, fosse un concetto che unisse l’intelletto e l’immaginazione nel giudizio dell’oggetto allo scopo di conoscerlo, la coscienza di questo rapporto sarebbe intellettuale (come nello schematismo oggettivo della facoltà di giudizio, di cui tratta la Critica). Ma allora il giudizio non sarebbe dato relativamente al piacere o al dispiacere, e perciò non sarebbe un giudizio di gusto.

 

13. Il terzo momento del giudizio di gusto: la relazione.

Anche per il terzo momento, quello relativo alla relazione, prendiamo le mosse dalla definizione conclusiva:
La bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione d’uno scopo.
Tutte le definizioni del bello, fin qui espresse, contengono dei paradossi. Ricapitoliamo: si è parlato finora di 1) un piacere senza interesse; 2) un universale senza concetto. Ora si parla di 3) una forma della finalità (Zweckmäβigkeit) senza rappresentazione dello scopo (Zweck): una paradossalità quasi all’estremo, quasi in termini di contraddizione linguistica.
Che cosa significa essere «finalità senza fine»? Per comprendere il senso di questa domanda, rintracciamo all’inizio del terzo momento la definizione di scopo:
Se si vuol definire che cosa sia uno scopo secondo le sue determinazioni trascendentali (senza presupporre niente di empirico, come sarebbe il sentimento di piacere), esso è l’oggetto di un concetto, in quanto questo è considerato come la causa di quello (il fondamento reale della sua possibilità); e la causalità di un concetto rispetto al suo oggetto è la finalità (forma finalis)
Stiamo cercando di definire che cosa sia uno scopo, secondo le sue determinazioni trascendentali e non secondo le determinazioni empiriche, e cercando anche di capire quale sia il fine di una cosa, avendo, però, ormai lo sappiamo, eliminato la nozione di utile. Ebbene, dice Kant, in una definizione di questo tipo lo scopo è l’oggetto di un concetto, in quanto questo è considerato come la causa di quello. Il concetto definisce l’oggetto, e lo scopo si riferisce ad un certo tipo di oggetti, che il concetto non si limita a definire, ma ne costituisce addirittura la causa. Si tratta di un problema arduo a capirsi: in che modo e in che senso il concetto, che ha una dimensione propriamente logica (astratta), può essere causa dell’oggetto, che ha una dimensione propriamente ontologica (concreta)?
Kant intende dire che la causalità è il fondamento della possibilità di quell’oggetto, lo scopo di un oggetto è il concetto di quell’oggetto, in quanto ne è il fondamento della possibilità, cioè, quell’oggetto non ci sarebbe, se non ci fosse anche quel concetto che lo rende possibile.
La causalità di un concetto rispetto al suo oggetto è la finalità: quando un concetto esercita una causalità sull’oggetto, questa si definisce finalità, ovvero forma finalis (espressione proveniente dalla tradizione scolastica).
Abbiamo già accennato al termine forma finalis quando ci siamo interrogati sulla struttura della Critica del Giudizio, chiedendoci come vi potessero coesistere la Critica del giudizio estetico e quella del giudizio teleologico; nonché, ripetutamente, a proposito della lettera a Reinhold, del dicembre 1787. Più ancora: per spiegare il significato della teleologia, abbiamo dovuto fare riferimento alla Fisica di Aristotele, in particolare alla teoria aristotelica delle quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale). Nell’espressione forma finalis notiamo dunque che sono accostati i nomi di due delle quattro cause. Per comprendere che cosa sia la finalità di un organismo, diceva Aristotele, dobbiamo appunto mettere insieme causa formale e causa finale: il che cos’è e il ciò in vista di cui sono una cosa sola (Fisica, II, 198 a 24 ).
Dunque, nel contesto che ora ci interessa: lo scopo è quella forma di un oggetto che oltre a essere forma è anche fine, ed è quel fine che per essere stabilito ha bisogno di essere anche forma.
Pensiamo nuovamente al caso dell’essere vivente, che è in grado di riprodurre se stesso, a due livelli: mantenendosi in vita e generando un essere simile a sé. Ebbene:
1) L’essere vivente è quell’essere che è in grado di riprodursi, secondo il modello

A            B

laddove A e B possono essere per esempio padre e figlio, o lo stesso soggetto in due momenti diversi, della sua esistenza. Però attenzione: nel caso del vivente, la particolarità di questo rapporto causale è di essere preceduto logicamente da un altro rapporto causale: anche A ha una causa, che chiameremo RB (rappresentazione di B):

 

RB

A           B

Se A e B si riferiscono allo stesso essere in due momenti diversi, è stato possibile il passaggio da A a B solo perché A conteneva già in sé la forma di B, ossia la possibilità di informare la materia secondo una certa legge. Le due causalità non stanno esattamene sullo stesso piano (infatti sono su due livelli diversi nello schema): RB è una realtà rappresentativa, è un principio di informazione, non un essere vivente appartenente alla serie cui appartengono A e B stessi.
Rileggiamo la definizione dello scopo alla luce di questo schema
Lo scopo è l’oggetto di un concetto, in quanto questo (il concetto) è considerato come la causa di quello (l’oggetto), e la causalità di un concetto rispetto al suo oggetto è la finalità.
Il «concetto» RB è considerato come causa dell’oggetto A: il concetto RB è la finalità di A, tanto è vero che A produce B, ma B è possibile perché prima di essere B è RB, rappresentazione di B, dato informativo, che informa anche A. Per cui
La rappresentazione dell’effetto è allora il principio che ne determina la causa, e la precede.
RB
 


A             B

RB è allora il principio che determina il fatto che A sia causale e preceda logicamente questa causalità stessa. Non potremmo concepire logicamente la relazione tra A e B se non ipotizzassimo la causa di A già come RB, cioè se non avessimo il concetto dell’oggetto come determinazione del suo scopo, come causa dell’oggetto stesso. In questo senso un concetto può essere una causa di un oggetto: quando cioè questo oggetto è già da sempre informato secondo quel concetto.
La finalità dunque può essere senza scopo, quando non possiamo porre in una volontà la causa di quella forma, e tuttavia non possiamo concepire la spiegazione della sua possibilità se non derivandola da una volontà.
Che vuol dire Kant con questa affermazione? Bisogna essere molto prudenti nell’interpretarla. Tuttavia, è «come se» (ipotesi meramente euristica e di valore regolativo!) ci fosse una «volontà» che ha inventato tutto questo. A noi non è dato di immaginare questa volontà come «esistente», ma è anche vero che senza immaginarla, senza ipotizzare un pensiero di questo RB, non riusciamo nemmeno a immaginare A come causa di B.

Si è detto che l’espressione usata da Kant nel paragrafo 9, libero gioco delle facoltà, ovvero la relazione di accordo spontaneo che si crea tra intelletto e immaginazione nel giudizio di gusto, assume una rilevanza significativa alla luce della cosiddetta Grande teoria» individuata da Tatarkiewicz. La quale, si è anche ricordato, conosce importanti eccezioni in certi dialoghi platonici (Simposio, Fedro)e soprattutto nella lettura e sistemazione che di essi fece Plotino, nelle sue Enneadi (particolarmente I, 6, «Sul bello intelligibile»).PerKant, tuttavia, l’armonia non è una qualità inerente all’oggetto giudicato bello, bensì è il carattere del rapporto tra le facoltà umane impegnate nel giudizio di gusto.
In alcuni punti però, come nel paragrafo 14, che tratta le Obiezioni sulla purezza del giudizio di gusto, emergono peraltro elementi più prossimi al modello in senso lato platonico. Per comprendere meglio questa vicinanza, si deve considerare che per Plotino la bellezza sinonimo di armonia escluderebbe la possibilità stessa che certi fenomeni appaiano belli in virtà della loro semplicità: è il caso per esempio di una stella, la cui bellezza è comprensibile non con l’idea di armonia tra le parti ma con lo splendore della sua luce che rimanda all’Uno, principio metafisico ed assolutamente libero grazie alla cui sovrabbondanza il mondo nasce per emanazione, e rispetto al quale subisce distanziamento e corruzione nel suo compromettersi con la materia. L’estetica plotiniana, in stretta connessione con la metafisica, afferma quindi che la luminosità di una stella richiama l’assoluta libertà dell’Uno e non l’armonia tra molti.
Ora, proprio il paragrafo 14 affronta possibili obiezioni circa la purezza del giudizio di gusto sancita dalla definizione del primo momento, relativo alla qualità del giudizi stesso: Kant fa qui un esempio significativo citando la semplicità di esperienze estetiche come «il verde di un prato» o «la purezza di un suono»: elementi che sembrano avere a che fare solo la sensazione nella sua materialità, e che invece a suo dire meritano comunque l’attributo di «belle». Non riusciamo però a capire la possibilità che entri in gioco qui l’armonia tra le facoltà, essendo noi in presenza soltanto di una sensazione nella sua assolutezza: è in questo punto che trapela la prospettiva di Plotino, cioè l’esistenza di forme di esperienza che nella loro assolutezza sensibile sembrino non richiamare un modello di bellezza riconducibile all’armonia.
A questo problema Kant dà una spiegazione, per quanto coerente con il suo pensiero, che però non resterà senza conseguenze e pare in certo modo configurarsi come una sorta di eccezione: in casi come questi, a suo dire, il piacere estetico del giudizio di gusto non riguarda ciò che ci piace in senso empirico ma la purezza dell’esperienza in sé: riguarda cioè la forma e non la materia dell’oggetto in questione, la purezza come aspetto formale – che del resto costituisce l’unico carattere che si possa con certezza comunicare; giacché, se il bello  riguardasse anzitutto la materia, si avrebbe a che fare con il piacevole, mentre sappiamo che la sensazione del singolo è per natura soggettiva, non universalizzabile.
Questo pensiero appare interessante per le implicazioni sulla storia delle arti figurative: più avanti, nello stesso paragrafo, Kant oscilla infatti tra la posizione assunta e l’insoddisfazione da essa derivante, come nella consapevolezza di aver toccato un punto molto delicato. Kant sostiene che, in tutte le arti figurative (tra le quali nel Settecento veniva incluso il giardinaggio), il disegno è l’essenziale, mentre […] il colore pertiene all’attrattiva. Quest’affermazione rappresenta quasi una presa di distanza dal punto di vista problematico affrontato prima riguardo alla purezza del colore, qui relegato all’attrattiva, cioè al piacere interessato proprio di qualcosa che ci attrae. In questo passaggio, inoltre, si sente il segno, l’eredità della disputa sulla priorità, in pittura, del contorno o del colore animata nel Settecento in particolar modo da Johann J. Winckelmann e dal pittore Anton R. Mengs. All’interno di questo dibattito dell’estetica settecentesca, dunque, Kant prende le parti dei sostenitori del disegno. Ma dall’intera questione possiamo concludere che il fondamento della sua teoria estetica, basato sostanzialmente sull’armonia, conosce anche oscillazioni quando si tratta di esperienze ambigue tra bello e piacevole.

 

14. Il «parergon». Bellezza libera e bellezza aderente.

Un altro tema caro a Kant occupa il penultimo capoverso del paragrafo 14: la natura del piacere estetico dei fregi, accessori esteriori. La collocazione marginale di questo argomento parrebbe indicare che in questione ci sia solo un’appendice del discorso: ad esempio il dubbio se le cornici dei quadri debbano a loro volta essere oggetti artistici o il più sobrie possibili per rimandare al loro contenuto. Ancora una volta però il tema apparentemente marginale (come tutto il paragrafo) risulta particolarmente insidioso. Una lettura superficiale, elementare, parrebbe suggerire che, dal momento che il fregio consiste come nell’installazione di un elemento estetico secondario su quello principale, preponderante, è importante che esso non trapassi in ornamento, ossia che non risulti eccessivamente ridondante. A uno sguardo più attento però, alla luce di questo passo, la domanda da porsi è piuttosto, di nuovo, quella già brevemente ricordata nelle lezioni precedenti: a quali opere d’arte Kant ha finora concretamente pensato, scrivendo la sua Critica del giudizio?
Sembra legittimo rispondere che il modello dell’estetica kantiana sia prevalentemente naturalistico, o almeno, che per Kant la bellezza artistica sia tale quando sa riprodurre la bellezza naturale e il genio artistico sia colui che sa produrre con la stessa naturalezza con cui crea la natura. Tuttavia sarebbe difficile trovare opere d’arte che si adattino al giudizio di gusto puro. Dal paragrafo 1, si è visto, emerge l’esempio di un palazzo: ma se lo prendessimo troppo sul serio, dovremmo eliminare ogni elemento di utilità dal giudizio della sua bellezza. È quindi difficile capire quali esperienza artistiche siano così pure, e viene da chiedersi se Kant non sia troppo esigente rispetto al giudizio estetico, perché (per ritornare al nostro esempio) non parrebbe possibile giudicare la bellezza di un’opera d’arte architettonica indipendentemente magari, fra l’altro, anche dall’utilità funzionale dei suoi spazi ecc.
Il modello kantiano, così rigido, a questo punto sembrerebbe allora quasi rovesciare paradossalmente l’idea che esperienze secondarie come il fregio, il parergon, abbiano solo una funzione di accompagnamento all’esperienza estetica principale, giacché paradossalmente il fregio costituisce forse l’unico prodotto artistico che rispetta davvero l’ideale di purezza kantiana. A questo proposito, un saggio di Jacques Derrida dedicato appunto a questa pagina di Kant, Il parergon, contenuto nell’opera La verità in pittura (1977), afferma che questo elemento di apparente marginalità forse incarna il vero modello kantiano di bellezza, poiché il paradigma di bellezza assoluta si applica meglio a ciò che è inutile per definizione. Come presentendo possibili obiezioni, nei paragrafi successivi, in particolar modo nel paragrafo 16 Kant elabora allora una distinzione fondamentale tra bellezza libera e bellezza aderente.
La bellezza libera, definita anche per se stante, vaga, non è vincolata a nulla ed è stata l’oggetto esclusivo, finora, del discorso, essendo quella che permette il libero gioco delle facoltà umane e quella che secondo la quantità non presuppone alcun concetto; la bellezza aderente a un concetto, invece, è condizionata, e sembra contraddire in toto quanto affermato, perché con la sua definizione rientrano due nozioni finora aborrite nella concezione del bello, cioè concetto e scopo (ovvero l’utilità).
Questa bellezza, in altri termini, sembra contraddire la nozione stessa di bellezza, perché in essa ritorna tutto ciò che minava alla base la possibilità di un giudizio di gusto puro; ma è comprensibile che Kant la teorizzi, perché si trova a dover render conto delle difficoltà emerse finora, soprattutto del fatto che se si formula un giudizio di gusto puro, non compromesso con l’interesse per l’oggetto o la presenzialità di esso nelle dinamiche del desiderio, l’unica conclusione che ne possiamo trarre è che esso si applichi perfettamente a oggetti artistici come i fregi: cioè sembreremmo incentrare l’analisi estetica solo su aspetti marginali dell’oggetto artistico. Si tratta dunque di raffinare in qualche modo la teoria elaborata finora, perché non è possibile che una teoria dell’arte o un sistema delle arti perdano di vista la grande arte.
Accanto alla bellezza libera di cui ha trattato finora, Kant dice dunque che ne esiste un secondo tipo, in cui ritorna la nozione di concetto, anche se in un’accezione diversa rispetto a quella in cui appariva nella definizione del II momento, dove il concetto rappresentava l’universale di bellezza che non può essere dato una volta per tutte nella formulazione del giudizio di gusto, perché riflettente. Qui il concetto è infatti quello della cosa in questione: il concetto dell’oggetto. Per comprender questo punto dobbiamo ritornare all’esempio della fine del paragrafo 1, cioè il palazzo: se si vuole conoscere un palazzo se ne deve possedere il concetto, sapere che cosa sia, altrimenti, con una immagine (piuttosto infelice) dello stesso Kant, saremmo come «l’irochese» che a confronto con le opere d’arte preferisce una bettola. (A proposito dell’infelicità di questa immagine, si potrà notare che l’illuminismo, il quale pure rappresenta un momento di svolta nella storia della razionalità occidentale, propugni spesso il modello di una ragione astratta che non concepisce chi non vi si conforma, a cui può al massimo “concedere” la propria tolleranza: gesto che però implica la certezza della propria posizione di superiorità).
Il concetto così inteso è dunque un elemento nuovo e fondamentale nel giudizio di gusto relativo alla bellezza aderente. Per definire la bellezza stessa di una cosa non si può fare a meno di possedere il concetto della cosa che giudichiamo: nel caso del palazzo, se non ne introducessimo il concetto sarebbe difficile anche solo comprendere la possibilità di un giudizio di gusto. Per giudicare la bellezza di un palazzo, infatti, la possibile obiezione di un architetto che dicesse indispensabile includere anche altri aspetti di esso, come la funzionalità dei suoi spazi, l’utilità che lo faccia rispondere alla propria funzione, sarebbe fondata: ciò non significherebbe contraddire il piacere puro del bello o comprometterlo con l’interesse del voler godere «esteticamente» di quel palazzo, ma soltanto ammettere ragionevolmente che tra le sue caratteristiche ci debba figurare anche la funzionalità. In conclusione, quindi, capiamo che esistono opere d’arte, in generale oggetti estetici, che si devono comprendere facendo loro interagire il concetto di ciò che devono essere, cioè confrontando l’esperienza che di essi abbiamo in quanto oggetti con il loro concetto, pena la mancata formulazione di un giudizio di gusto completo: in questo sta la definizione della bellezza aderente.
Passando in rassegna gli altri esempi addotti dallo stesso Kant, vediamo quindi come egli inserisca i fiori (si è già visto: la rosa) tra i modelli di una bellezza naturale, libera, e lo faccia senza includere nel proprio giudizio conoscenze particolari, tecniche, a livello di botanica. Per altro verso, tuttavia, fra gli esempi di bellezza che presuppongono il concetto di ciò che la cosa giudicata bella debba essere si cita anche il cavallo: e qui sorge un’ulteriore difficoltà. Viene da chiedersi cioè quale sia il criterio della scelta kantiana; ovvero, in altre parole, in che cosa consista la differenza tra un fiore e un cavallo, se tale differenza riposi in ultima analisi (ma contraddittoriamente!) sul fatto che il cavallo risponde a certi criteri di utilità (un «bel» cavallo è quello, per esempio, che corre veloce, o che traina con forza), o piuttosto sul concetto di questo animale costruito sulla base di certe esperienze, che hanno costituito i vari e diversi scopi per i quali nel corso dei secoli un cavallo è stato giudicato un ottimo esemplare o meno. Vedremo più avanti che un’accusa di sottile antropocentrismo è stata mossa alla nozione di bellezza aderente ancora da Derrida.
Da questo punto contrastato emerge chiaramente come Kant pensi «dialetticamente», cioè come la sua riflessione sia alimentata da quella che Hegel definiva «l’inquietudine» del pensiero, che nel muoversi trascina tutto con sé. Vale a dire: se prima sembrava che tutta la bellezza dovesse essere libera, adesso siamo costretti forse addirittura a ridurre la bellezza libera a un puro ideale, mentre tutto ciò che concretamente rimane sarebbero bellezze aderenti, ossia possibilità di bellezza accompagnate dal concetto di ciò che la cosa dovrebbe essere. Luigi Pareyson, nel suo saggio L’estetica di Kant (1968), di quest’incoerenza cerca di dare una spiegazione secondo cui questo passaggio, e in particolare gli esempi addotti da Kant, mettono in questione l’intero rapporto arte-natura. Infatti se per gli esempi tratti dall’arte è evidente la ragione della preferenza per la bellezza aderente, ci si deve domandare come mai essa possa riguardare anche fenomeni naturali. Sappiamo che Kant, nella Critica del giudizio teleologico, se non un architetto che progetti il concetto delle cose (ossia che concepisca le cose sulla base di un disegno orientato verso il loro scopo) individua nella natura però almeno una finalità negli organismi viventi. Ora, anche per ciò che riguarda propriamente il giudizio estetico, cioè la considerazione limitata al problema del rapporto arte-natura, Pareyson dice: «negli oggetti di natura c’è sempre uno scopo, una finalità interna, fermarsi a questa è formulare un giudizio teleologico, prescinderne è formulare un giudizio estetico». In altre parole, per la natura, riguardo a una cosa naturale, giudizio estetico e teleologico in ultima analisi coincidono: a livello estetico, la natura stessa pare così divenire paradigma di bellezza aderente e la bellezza libera scomparire dall’orizzonte della nostra considerazione; è come se la bellezza libera fosse rinvenuta cioè solo nei casi in cui non si ha competenza rispetto all’oggetto del giudizio.
Ciò rappresenta l’ennesimo rovesciamento inaspettato all’interno del discorso kantiano. In particolar modo, l’estetica kantiana, che si era inaugurata all’insegna della purezza del giudizio di gusto, sembra ora venire messa nuovamente in questione riguardo al contenuto dei paragrafi 1 e 4, poiché l’introduzione della nozione di concetto della cosa richiama in causa la distinzione fra il bello e il buono (in quanto una cosa che risponde appieno al suo concetto può essere definita buona in sé) e anche la distinzione tra bellezza e conoscenza.
A partire dal quarto capoverso del paragrafo 16, infatti, Kant afferma che allo stesso modo che l’unione del piacevole (della sensazione), con la bellezza […] impediva la purezza del giudizio di gusto, la purezza stessa è alterata dall’unione del buono (cioè di ciò per cui il molteplice è buono rispetto all’oggetto, secondo il suo fine) con la bellezza;e continua più oltre sostenendo che il piacere che si prova per il molteplice in una cosa, in relazione con lo scopo interno che determina la possibilità della cosa stessa, è un piacere fondato sopra un concetto.Quando cioè nella purezza della definizione del bello rientra la nozione di buono, si compromette anche la purezza del giudizio di gusto e la sua indipendenza dal buono. Una conseguenza importante di tutto ciò è che il gusto, da quest’unione del piacere estetico con il piacere intellettuale, guadagna questo, che viene fissato e se non diventa universale, gli possono però essere prescritte regole.
In causa, quindi, si ripropone la difficoltà di relazione di Kant con la posizione scolastica e in particolare il suo rapporto con Baumgarten, che fondava l’estetica nelle sue due accezioni (gnoseologia inferiore e scienza del bello) unificate – si ricorderà – sulla base di una sostanziale continuità tra sensibilità e intelletto. Il programma di Kant di conciliare, di far interagire, questa prospettiva scolastica con quella empirista di matrice britannica, cioè, non esclude la possibilità che qui ritorni in gioco l’idea di bellezza di Baumgarten fondata sulla progressione dal confuso al chiaro: anche se non c’è un ritorno a questa posizione, l’espulsione del concettuale messa in atto dal paragrafo 1 non impedisce che una nuova accezione di concetto si ripresenti nel paragrafo 16, in cui il concetto dell’oggetto è l’unico modo per stabilire regole pragmatiche anche se non di gusto. L’eredità razionalistica in Kant, dunque, è più pesante e più problematica di quanto non sembri a prima vista.
L’altro problema da porsi, sulla scia di quanto sostenuto da Derrida sempre nel saggio Il parergon, è quali siano i criteri per definire un prodotto della natura, ad esempio un cavallo. La possibile risposta, che un cavallo debba incarnare quello che noi immaginiamo sia il suo concetto, ovvero rispondere a quelli che noi immaginiamo essere gli scopi per cui esiste, spinge Derrida a suggerire che Kant si trovi vicino al pericolo di sancire  come criterio del giudizio estetico, nonostante le distinzioni argomentate in precedenza tra bello e utile, proprio un criterio antropocentrico e dunque di fatto subordinato all’utile; in pratica, finiremmo per considerare il cavallo sulla base delle caratteristiche che di esso a noi servono, stabilite almeno in base al retaggio di tutta la storia della nostra cultura, che è (fra l’altro) una cultura del dominio del’uomo sulla natura. Con ciò, è evidente che dietro l’apparente neutralità del giudizio di gusto, si è ad un passo dal ritorno della centralità dell’utile, anche se il ritorno alla funzione non è una scelta individualistica ma una riproposizione di un concetto superiore, un’utilità delle specie e non del singolo.
L’introduzione tra gli esempi di bellezza aderente della bellezza umana non deve peraltro stupire: la concezione di Kant dell’uomo come fine in sé, capace di determinare la bellezza di tutte le cose in virtù della loro utilità, è una eredità propriamente umanistica: la posizione intermedia ed equidistante dell’uomo tra animale e divinità ne garantisce la posizione peculiare e l’eccellenza nella natura.
La conseguenza che Kant trae da questa introduzione inaspettata del concetto  nel giudizio di gusto è che il gusto stesso dall’intelletto guadagna la possibilità che gli siano prescritte regole, anche se non di gusto: nel paragrafo 17 si avverte tutta la preoccupazione kantiana, per così dire, di “limitare i danni”, con la riaffermazione dell’idea che non si stabilisca un’estetica normativa. Qui Kant ribadisce che il bello non è un concetto, ma l’oggetto di un giudizio estetico in cui si ha a che fare con una dimensione soggettiva a diversi livelli, anche se l’argomento principale del paragrafo, esposto subito dopo, è il problema, la necessità di capire la relazione tra la pretesa di universalità propria del giudizio estetico e la storicità del giudizio estetico stesso, ciò che Kant chiama l’accordo, per quanto possibile, di tutti i tempi e di tutti i popoli riguardo a questo sentimento nella rappresentazione di certi oggetti.
In  altre parole, se esiste il bello – che non è un concetto ma un’esigenza – si tratta di capire quale sia la relazione che esso intrattiene con la storia in cui si realizza in canoni, in criteri differenti. Ciò che Kant ha in precedenza illustrato sulla bellezza aderente, attraverso la nozione di idea normale estetica, qui introdotta e distinta subito dall’idea razionale, spiega perché in epoche diverse si fissino gusti particolari, perché in epoche diverse cioè si considerino esemplari alcuni prodotti oggetti del giudizio di gusto. Per stabilire la bellezza aderente, la bellezza che dipende dal concetto, ad esempio di un cavallo, noi possediamo un concetto empirico (nozione già presente nella Critica della ragion pura) di cavallo ricavabile dall’esperienza; un passo ulteriore rispetto ad esso, in dimensione intersoggettiva, è l’idea normale estetica, cioè un’immagine scaturita dalla sovrapposizione ideale di tutti gli esemplari. Astrarre un concetto empirico è il dunque il presupposto per ottenere l’idea normale estetica come criterio elementare, primo elemento per giudicare l’oggetto, ovvero un prototipo di gusto.
Per illustrare questo punto complicato del suo discorso, Kant fa allora un’esemplificazione storica, riguardo alla bellezza umana: anche per l’uomo l’operazione di sovrapposizione ideale di tutte le immagini è avvenuta e si è concretizzata nel canone di Policleto per la scultura, che stabilisce rapporti armonici ideali tra le parti del corpo umano, ed è divenuto la norma della scultura classica sulla scorta di un’operazione che esemplarizza per così dire l’idea normale estetica. Proprio la possibilità di concretizzare le idee normali estetiche fa sì che esse diventino il canone di un gusto, di un’epoca. Del resto, quando si giudica la bellezza umana è difficile se non impossibile confrontarsi in qualche modo (fosse pure in negativo) con il canone di Policleto, e ancora di più lo era al tempo di Kant, in un clima ed un’epoca (ricordiamolo) di ritorno al classicismo, che aveva ripreso vigore dalla pubblicazione di quello che è universalmente considerato il manifesto del neoclassicismo, i Pensieri sull’imitazione dell’arte greca (1755) di Winckelmann.
Quest’affermazione che anche Kant sembra dunque condividere, secondo cui la bellezza sarebbe una media ragionevole dei rapporti tra le parti di un corpo rientrerebbe in una visione armonica della bellezza stessa;a proposito dell’ideale della bellezza costituito dall’uomo, però, va detto che il testo è subito messo in discussione in una nota, dove si afferma, nella considerazione della bellezza umana, la presenza di un elemento ulteriore. Ancora una volta, cioè, Kant costruisce un sistema e subito mina alla base il canone di bellezza stabilito e sottoscritto come idea di proporzione tra le parti, perché si rende conto che la matematizzazione della bellezza non è sufficiente: se la bellezza umana esprimesse solo proporzioni desumibili attraverso una media, il volto perfettamente regolare di un modello sarebbe necessariamente bello, ma invece non sempre si può dire tale se non ha nulla di caratteristico. Questo termine, inserito per la prima volta in una trattazione filosofica da Giuseppe Spalletti, è la segnalazione dei limiti del classicismo e dell’idea di Winckelmann, secondo cui le opere greche sono nate in un mondo ideale e sono espressione di una bellezza ideale valida per i moderni come oggetto di imitazione. Per Spalletti nella costruzione del bello manca qualcosa che si aggiunga a quest’ideale astratto, e questo qualcosa si identifica nel caratteristico. Kant dà di questo termine un’interpretazione conforme all’inclinazione etica generale del suo pensiaro: se il canone di Policleto è ottimo per un trattato di anatomia, esprime il canone della specie, esso tuttavia non esprime il tratto fondamentale della bellezza individuale, il carattere, che però non dev’essere prevalente e pregiudicare l’idea normale per non degenerare in caricatura. Questo altro termine introdotto, nuovo per l’estetica, avrà fortuna sulla nozione di bello quando sarà entrato in crisi il sistema hegeliano, che vuole il bello come massima espressione sensibile dell’Idea: gli allievi dello stesso Hegel rivendicheranno per il caratteristico lo statuto di categoria estetica di pari dignità del bello (quando Karl Rosenkranz scriverà addirittura una Estetica del brutto).
Per tornare a Kant, egli è già consapevole che volti perfettamente regolari esprimono uomini aridi se manca loro un tratto espressivo, caratteristico, che ne esprima il carattere etico: quest’affermazione è importante perché implica la possibilità che il genio abbia una sua manifestazione sensibile, in cui la natura esula dalle proporzioni, e quest’idea rappresenta il filo diretto con una disciplina pseudo-scientifica che ritiene di poter desumere dalla forma del corpo di un uomo la sua attitudine morale, la fisiognomica, e che avrà grande successo nell’Ottocento.                       
In conclusione, nella nota di Kant, la nozione di caratteristico, che in seguito avrà fortuna ma che all’epoca era ancora poco diffusa, rappresenta una rivincita sulla normalizzazione.

 

15. Il quarto momento del giudizio di gusto: la «modalità».

Proseguendo nella lettura della Critica del giudizio, il passaggio successivo da cui partire per proseguire nell’analisi è la lettura del Quarto momento del giudizio di gusto, una definizione di esso che parte dalla modalità ma che non sembra nuova, anzi pare ancora una volta un modo diverso di guardare allo stesso problema della definizione, vista in precedenza, del Secondo momento: il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario. La conclusione del Quarto momento dice cioè che, dal punto di vista modale, una frase «x è bello» ha una pretesa di necessità. Questo termine può trarre in inganno perché Kant finora, si ricorderà, aveva usato l’espressione «deve potere», mentre qui sostiene che la necessità accompagna il giudizio di gusto. Tuttavia qui non si parla della necessità di condivisione di un sentimento, perché esso pertiene alla sfera soggettiva: la necessità riguarda l’esistenza stessa, la possibilità, del giudizio di gusto, ed è quindi comprensibile perché quest’affermazione sia l’altra faccia dell’universalità senza concetto, della pretesa universalità propria del bello come oggetto del giudizio di gusto.
Per comprendere meglio questo punto, tuttavia, è necessaria la lettura dei paragrafi precedenti; in particolare, nel paragrafo 20 compare una nozione emersa a tempo debito a proposito del De anima di Aristotele, nella cui opera si parlava di senso comune (koiné aisthesis). In Kant «senso comune» ha un nuovo significato, non incarna più una facoltà dell’animo umano, ma una caratteristica della nostra società: il necessario termine di mediazione tra il pensiero di Aristotele e quello di Kant è rappresentato da una scuola filosofica (la Scuola scozzese del senso comune) di ampia influenza proprio su quei filosofi britannici che hanno posto le premesse per il successo della nozione di gusto nel Settecento, fra cui Hume e Burke.
Il senso comune è inteso ora come il modo di giudicare condiviso da una società, e in quest’accezione è chiaro tanto il suo legame con il gusto come condivisione di valori estetici e morali, quanto il fatto che anche Kant usi quest’espressione in senso “sociale”; è anche questo passaggio di significato dalla accezione individuale a quella collettiva di «senso comune», come necessità del fatto che la società possa condividere dei valori, che segna, aiutandone a comprendere il senso, la nascita dell’estetica moderna.
Il paragrafo 18, l’esordio del quarto momento del giudizio di gusto, è in proposito significativo; qui Kant inizia col passare in rassegna le tre categorie della modalità: possibilità (Di ogni rappresentazione posso dire che almeno è possibile che essa (in quanto conoscenza) sia congiunta con un piacere),realtà (Ciò che chiamo piacevole, dico che mi produce realmente piacere)e necessità (Ma del bello si pensa che abbia una relazione necessaria col piacere). Il bello cioè produce necessariamente un piacere, ma questa necessità è particolare, non è una necessità teoretica oggettiva, cioè non dipende da una categoria, e non è nemmeno una necessità pratica, dipendente cioè dalla legge morale: essa è una necessità esemplare.
Ogni epoca storica individua insomma degli esempi del proprio gusto, proprio come era stato per l’antichità con il canone di Policleto; questi esempi rappresentano un orientamento a cui tutti i membri della società sentono la necessità di aderire, tuttavia in certi casi può non succedere, perché del gusto non si può addurre una regola: della regola non si ha formulazione, se ne hanno solo realizzazioni, esempi storicamente esistenti come le opere d’arte, che dettano il gusto di un’epoca, intorno a cui una società costruisce se stessa proprio riconoscendo in esse il proprio gusto. Una possibilità di dissenso resta però, come si è visto, aperta, perchè di un gusto, anche se dominante, si ha sempre e comunque non la regola ma esempi che di essa sono soltanto una mera approssimazione.
Quest’ultima conclusione in particolare va ribadita come formulazione di pensiero straordinaria in Kant, perché, all’epoca, Winckelmann aveva imposto un modello di gusto classicistico, poi invalso anche in campo filosofico. La pubblicazione dei Pensieri sull’imitazione dell’arte greca di Winckelmann nel 1755, del resto, aveva già in precedenza provocato la reazione di Johann G. Herder, la cui idea forse era nota anche a Kant: se da una parte egli concordava con Winckelmann nel sostenere che le opere greche fossero la realizzazione massima della bellezza e il frutto di condizioni naturali e storiche uniche e irripetibili (per cui l’arte greca costituiva il massimo canone di bellezza), Herder negava tuttavia che l’unica possibilità lasciata ai moderni fosse l’imitazione di un tale modello irraggiungibile; questo rifiuto del principio di imitazione si sviluppava poi nell’idea che i moderni dovessero creare un’arte originale e corrispondente alle proprie condizioni storiche, naturali e sociali. A tal proposito, egli contrapponeva a Sofocle, modello poetico di Winckelmann, Shakespeare, la cui opera rappresenta una rivoluzione dirompente nella storia del genere tragico, che va contro alla teoria pseudo-aristotelica (interpretazione dogmatica e normativa della Poetica) delle tre unità di luogo, tempo e azione.
Tornando a Kant: per completare questa visione è necessario integrarla con la già affrontata nozione di «senso comune» incontrata nel paragrafo 20, dove è definita come principio soggettivo, che solo mediante il sentimento e non mediante concetti, ma universalmente, determini ciò che piace e dispiace: cioè non come buon senso, ma come condivisione di un giudizio estetico, il necessario presupposto che tutti siano capaci di giudicare che fonda la pretesa di universalità del giudizio di gusto.

 

14. Il problema del gusto da Kant al Novecento: una panoramica.

à [Si veda la voce «Gusto» allegata agli appunti]

 


Ivi, p. 95.

Ivi, pp. 99-105.

Ivi, p. 101.

Ivi, p. 139.

Ivi, p. 107.

 

Fonte: Fonte: http://fenzi.dssg.unifi.it/dip/materiali/1294/Appunti_mod1_GUSTO.doc

Autori degli appunti :

Viviana Arena
Valeria Manco
Davide Cancila
Chiara Fortezzi
Elisa Foschini

                                                                                                                          

 

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