Idealismo tedesco

 

 

 

Idealismo tedesco

 

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L’idealismo

L’ idealismo è un orientamento filosofico che si sviluppa in Germania fra la fine del settecento ed i primi decenni dell’ottocento, dal dibattito sul criticismo kantiano, di cui rifiuta il dualismo: fenomeno- noumeno; senza l’individuazione di un principio unico a cui riferirsi non è possibile alcuna conoscenza rigorosa della realtà e dell’uomo. Solo un principio primo può stare alla base di una filosofia che si proponga il raggiungimento della verità. Le caratteristiche fondamentali dell’idealismo sono:


a) la sistematicità, determinata dal principio fondamentale che dà certezza ad ogni proposizione direttamente o indirettamente ricavata da esso;

b) l’ identità fra uomo e natura, il vero senso dell’esistenza umana che si manifesta nel divenire della storia;                       
c) l’unità fra attività teoretica e pratica necessaria alla definizione del concetto rigoroso d’uomo. I massimi rappresentanti dell’idealismo sono: Johan Gottlieb Fichte (1762-1814), Friedrich Wilhelm Schelling (1775-1845) e Georg Friedrich Hegel (1770- 1831). L’idealismo in questo contesto assume il significato di Filosofia dell’Assoluto: realtà e pensiero sono manifestazioni diverse dello stesso principio fondamentale ed hanno l’identica struttura del principio di cui sono espressione… L’INFINITO. “L’ idealismo della filosofia consiste solo nel non riconoscere il finito come il vero essere” (Hegel). Il primo uso del termine è di Gottfried Leibiniz (1646-1714) il quale oppone Idealismo a materialismo e qualifica idealista la filosofia di Platone, in quanto il filosofo greco ha sostenuto l’esistenza di due mondi, il mondo sensibile ed il mondo delle idee, nonchè il primato ontologico (cioè dal punto di vista dell’essere) del secondo.
Ma è Kant [1724- 1804] a precisare il significato del termine. Egli distingue due idealismi, uno materiale (perché si riferisce alla materia) ed uno formale e trascendentale (perché si riferisce alla sola forma del conoscere); il primo si distingue a sua volta in problematico e dogmatico.
“L’ idealismo (materiale) è la teoria, che dichiara l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di noi o semplicemente dubbia ed indimostrabile, o falsa ed impossibile; il primo è l’idealismo di Cartesio, che dichiara indubitabile solo un’affermazione empirica, cioè: IO SONO; il secondo è quello dogmatico di Berkeley, che considera lo spazio come qualcosa in se stesso impossibile e dichiara anche le cose nello spazio, semplici immaginazioni.” (critica della ragion pura, confutazione dell’idealismo). Kant definisce idealismo formale la sua teoria, in quanto egli ritiene che solo la forma della conoscenza, ossia spazio, tempo e categorie, siano ideali, cioè propri del soggetto pensante; il suo idealismo quindi si combina con il realismo empirico, in quanto, la materia della conoscenza proviene dall’esterno, grazie alle sensazioni. Da Kant che tuttavia non è idealista, per via della distinzione fermamente mantenuta fra cosa in sé e soggetto conoscente, prende le mosse l’idealismo moderno; eliminata la kantiana COSA IN SE , il fenomeno non è più qualcosa di soggettivo, ma è la realtà in se stessa. Tutta la realtà si risolve nel pensato, è questa la proposizione base dell’idealismo classico tedesco. Il pensiero non è più qualcosa di rappresentativo di una realtà, che sta al di fuori, ma è l’essere stesso; al di là del contenuto del pensiero, non c’è nulla, il pensiero non è quello dell’individuo, ma quello dell’umanità tutta intera, non di un soggetto singolo, ma di uno SPIRITO ASSOLUTO. Entro questo quadro, l’idealismo di Fichte è detto soggettivo, perché considera il fondamento di tutto un Soggetto o Io, che crea la natura, ed etico, perché impone ad ogni individuo il dovere di tendere verso l’incondizionatezza dell’Io, che è assoluta libertà; Fichte quindi pone nel soggetto pensante assoluto il centro di ogni attività, non solo pensante, ma anche creatrice. L’idealismo di Schelling è invece detto oggettivo, perché considera il fondamento come Identità di Io e Natura, ed estetico, perché l’Assoluto può essere colto solo tramite l’intuizione estetica; invece, l’idealismo di hegel è detto assoluto, perché vi è una realizzazione del finito nell’infinito. All’idealismo tedesco, si sono ispirati due altri indirizzi, sviluppatesi tra Ottocento e Novecento, il neoidealismo anglo-americano, che ha avuto come massimi esponenti l’inglese F. H.  Bradley (1846-1924) e l’americano J. Royce (1855-1916), ed il neoidealismo italiano di B. Croce (1866-1952) e di G. Gentile (1875-1944). Croce ha definito il suo idealismo storicismo assoluto, in quanto per lui “la realtà è storia e nient’altro che storia”, in altre parole, ripete con Hegel che la storia è la manifestazione dell’Assoluto e come tale, assoluta razionalità; rispetto al filosofo tedesco, però, non sovrappone la filosofia alla storia, ma include la filosofia nella storia, come metodologia di questa ultima. Gentile che si ispira più a Fichte che ad Hegel, definisce la sua filosofia attualismo, in quanto sostiene che la vita dello Spirito è attività, che il vero principio di tutto non è un qualcosa di pensato, ma appunto l’attività che lo pensa.

Bibliografia:
C. Cotroneo, Idealismo, in La Filosofia, diretta da Paolo Rossi, Torino, Utet, 1995, volume IV. 
Paolo Rossi, Idealismo, Dizionario di Filosofia, Firenze, La Nuova Italia, 2000.

Autore : Cordi’ Luciana 82664
Lettere moderne.

fonte: http://mondoailati.unical.it/corsi/a_ftl/archivi/dispense/Idealismo%20di%20Cordi%27%20Luciana%2082664.doc

 

 


 

Idealismo tedesco

La filosofia Idealista

1. La società tedesca di fine Settecento.
La cultura tedesca, nel cinquantennio che va dal 1780 al 1830, è la storia della conquista di un primato culturale, concorrenziale con la diffusione della cultura francese e con la grande crescita industriale inglese. La stagione culturale tedesca fu intensa e destinata a lasciare tracce molto profonde; la polemica anti-illuministica del Romanticismo e la rinascita dello spirito nazionale, sono gli originali frutti di questo periodo. L’adesione tedesca all’ideologia e al razionalismo Illuministico francese rimase un fatto ristretto a piccole minoranze intellettuali e non mise quasi mai in questione l’ossequio alle forme statali esistenti. Certo, è possibile trovare dei circoli illuminati e aperti alle idee francesi, tuttavia tali idee, anche quando riuscivano a varcare il Reno, non andavano oltre l’accoglimento puramente intellettuale da parte di ristrette élites. Questo è certamente dovuto all’influenza notevole di orientamenti, della cultura tedesca tradizionale, antitetici  allo spirito dei “lumi” (= l’eredità protestante, il pietismo e l’irrazionalismo).e dal fatto che dominante, economicamente e socialmente, in Germania è ancora l’aristocrazia oscurantista e reazionaria. La Rivoluzione francese suscita, presso gli intellettuali tedeschi, grandi entusiasmi; lo abbiamo già notato a proposito di Kant e dei Romantici, come Hoelderlin o Goete, ed entusiasti della medesima saranno gli idealisti, almeno agli inizi; ma, di fronte al “disordine” ed al terrore della democrazia in Francia, gli entusiasmi si placheranno e se ne concluderà che essa, come modello politico, non è proponibile e non è realizzabile fino a quando un lungo processo di educazione non avrà fatto fare un sensibile progresso alla coscienza morale degli uomini. Non dimentichiamo, inoltre, che la Germania di questo periodo è caratterizzata da una miriade di stati, ancora aderenti al Sacro Romano Impero e che con Federico Guglielmo  si troverà coinvolta nel ciclone dell’invasione napoleonica. Ciò di cui bisogna tener conto e che non bisogna perdere di vista è la condizione specifica dell’intellettuale e della vita culturale negli stati tedeschi negli ultimi due decenni del ‘700 e all'inizio dell’800. La Germania, che non conosce ancora la rivoluzione industriale inglese, nelle sue permanenti strutture feudali e nel suo frazionamento statuale, non ha visto l’emergere di una classe intermedia borghese come protagonista del cambiamento. Manca quindi al ceto intellettuale, concentrato essenzialmente nelle Università dello stato, il suo naturale punto di riferimento sociale e quindi anche la possibilità che le sue idee diventino azione ed opera. Di qui un sentimento di impotenza che induce ad una sostanziale adesione alle convinzioni politiche autoritarie e conservatrici.

 

2. Da Kant all’Idealismo.
2. 1. L’eredità kantiana.
Punto di partenza della filosofia ottocentesca è ancora Kant. Egli fu adorato e contestato, studiato, criticato, difeso. Servì da punto di partenza dal quale discostarsi, al quale rifarsi per una critica globale e per trarne conclusioni antitetiche o del quale approfondire alcune soluzioni e difenderne strenuamente altre. Rimase in ogni caso un caposaldo da cui i filosofi, volenti o nolenti, non poterono prescindere, sia per quanto riguarda la speculazione pura che per quanto riguarda i suoi scritti sulla morale, sulla religione o sulla storia. L’atmosfera culturale con cui si apre il nuovo secolo, a partire dal movimento tedesco dello Sturm und Drang , è quella del Romanticismo, i cui caratteri generali abbiamo esposto nel capitolo ad esso dedicato. Le posizioni che maggiormente contribuiscono a creare il sentire romantico sono quelle dell’Idealismo tedesco che approfondì alcuni temi lanciati sul tavolo del pensiero dallo stesso Kant, con la pubblicazione delle sue Critiche. Il kantismo dunque stimolò anche in Germania il dibattito su alcuni temi dell’Illuminismo, temi connessi all’uomo, alla religione, alla politica, alla natura ed alla storia. Sul finire del secolo XVIII, la filosofia tedesca si concentrò in particolare 1) sulla questione della cosa in sé, che Kant aveva lasciato in eredità ai suoi indagatori, (e che si richiamava alla vecchia questione, sottolineata dall’empirismo inglese, in particolare da Berkeley, circa l’esistenza oggettiva del mondo esterno) e 2) sul tema, ad essa correlato, della libertà dell’uomo all’interno di una natura retta da leggi necessarie (che Kant aveva scoperto essere poste “a priori” dalla stessa mente umana). Come spiegare l’innesto dell’azione libera e spontanea dell’uomo (della sua ragione morale) sulla catena deterministicamente fissata degli eventi naturali? Se i mondi sono due (quello della necessità naturale e quello della libertà morale umana) come spiegare la libertà all’interno della natura (che è necessità)?

2. 2. Il dibattito sulla cosa in sé,da Jacobi ai “seguaci” di Kant.
Dopo la pubblicazione della Critica della Ragion Pura di Kant emerse un problema che accese un vivace dibattito intellettuale intorno ad una vecchia questione, presente già in Cartesio ed in Berkeley: il problema costituito dall’esistenza “oggettiva” delle cose al di fuori del soggetto che le conosce. Ricordiamo che Kant aveva sostenuto che la Cosa-in-sé è in-conoscibile, ma non si era mai permesso di affermare che non esistesse, ossia che non sussistesse una realtà al-di-là dei fenomeni per quanto inarrivabile con la ragione umana. Egli non ha mai negato l’esistenza di oggetti “nello spazio fuori di me”, i quali sono l’inevitabile presuppostodella mia conoscenza. Essi sono pensabili ma non conoscibili e costituiscono il Noumeno. Solo gli “oggetti per me”, che costituiscono il Fenomeno, sono conoscibili. Kant aveva, così, dato per scontato che, oltre i limiti del sensibile, esista la realtà dei corpi, la “cosa-in sé”, la quale, incontrando la nostra sensibilità e le nostre “categorie” (= i nostri schemi mentali), determina in noi l’insorgere delle “rappresentazioni fenomeniche”. Involontariamente, in questo modo, Kant, sollevava una difficoltà che non sfuggì ai suoi più immediati critici ed ammiratori. La questione in sostanza era questa: “Come posso affermare come certa, come presupposta, l’esistenza di un sub-strato oggettivo dei fenomeni (= la cosa in sé) quando poi ne riconosco l’inconoscibilità totale? Restando coerenti ai principi ed ai metodi della filosofia kantiana, quali prove si possono addurre per dimostrare la cosa in sé, se questa è e resta in-conoscibile?

  •  Il filosofo Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) nel saggio intitolato Sull’Idealismo Trascendentale (1787) rileva le difficoltà in cui, a suo parere, viene a trovarsi il filosofo della Critica con l’affermazione dell’esistenza ed al contempo della inconoscibilità della Cosa-in-sé (= ossia la vera natura delle cose al ci là dell’apparenza fenomenica). Egli rimproverò a Kant di aver utilizzato la cosa-in-sé come “causa” dell’insorgere in noi dei fenomeni (cosa che aveva fatto in fondo la filosofia da Talete in poi). In questo modo Kant si sarebbe contraddetto perché avrebbe applicato, ad un ambito estraneo ai fenomeni (l’ambito del noumeno), una ca-te-go-ria (quella di “causa”) valida, a suo stesso dire, soloed esclusivamente per i fenomeni stessi.
  •  Lo stesso genere di critiche fu mosso a Kant anche da Gottlob Ernst Shulze (1761-1833), secondo il quale il maestro, postulando la cosa in sé, sarebbe inciampato nello stesso dogmatismo che voleva combattere. Kant, infatti, esprimendo la necessità di supporre (pensare esistente) il noumeno (la cosa in sé), avrebbe fatto derivare l’esistenza di un oggetto dalla sua pensabilità, sarebbe incorso, in altre parole, nella stessa rete dogmatica in cui erano incappati i filosofi che intendevano far derivare l’esistenza di Dio dalla sua stessa definizione, saltando dal piano della possibilità logica a quello della realtà ontologica.
  •  Karl Leonard Reinhold, nel 1787, il primo interprete della dottrina kantiana, nell’intento di salvaguardare il kantismo, propose di sanarela frattura kantiana tra fenomeno e noumeno interpretandoli non come due termini contrapposti, ma, al contrario, come elementi originati dalla stessa attività unificante del soggetto che chiama il “Principio di coscienza”.

Secondo Reinhold, la cosa-in-sé non è da ritenersi qualcosa di esterno al soggetto, ma è da intendersi quale puro concetto-limite appartenente  alla stessa sfera rappresentativa del soggetto, la quale consta contemporaneamente sia di attività che di recettività (= la passività delle recezioni sensoriali).

  •  Tra gli altri, Salomon Maimon (un ebreo tedesco d’origine Lituana) fu tra coloro che cercarono di dare maggior rigore al criticismo esprimendo l’esigenza di attenersi a ciò che è contenuto nella coscienza, senza andare alla ricerca di fittizie cause esterne; Maimon ritiene il noumeno ammissibile soltanto come simbolo di un operazione “impossibile”e fu da lui paragonato a un numero immaginario (= ad es. √ - a).

I filosofi post-kantiani, in questo modo, giudicando fi-lo-so-fi-ca-men-te  inammissibile (= non fondato, dal punto di vista della coerenza filosofica che contraddistingue Kant) il concetto di Cosa-in-sé, hanno contribuito alla disgregazione stessa di questo concetto aprendo la strada all’eliminazione di quel dualismo (fenomeno/noumeno) che era proprio anche della filosofia di Kant, quindi aprendo la strada
all’Idealismo.

3. L’IdealismoTedesco.
3. 1. La Svolta.
Nonostante le specifiche differenze tra i singoli pensatori, gli immediati successori di Kant si muovono ancora in un orizzonte prevalentemente gnoseologico, non ancora sistematicamente incentrato su di un’alternativa metafisica al criticismo. Questa alternativa si avrà con l’Idealismo vero e proprio, che, in una prospettiva apertamente ontologica, farà della nozione di Io il cuore della sua speculazione.
L’Io penso trascendentaledatore di senso, unificatore dell’esperienza fenomenica, che in Kant era oggetto di ricerca scientifica, divenne per gli idealisti oggetto di ricerca metafisica. Fichte, considerato il fondatore dell’idealismo tedesco, si interrogò non sul fondamento della conoscenza umana ma sul  fondamento della realtà. La sua risposta, a questa antica questione filosofica, prenderà le mosse proprio dall’Io penso kantiano, ma lo trasformerà, lo enfatizzerà al punto da farne un Io, non più semplice legislatore ed ordinatore della natura,come era stato per Kant, ma un Io realmente Creatore e Infinito (… “Creatore”?... “Infinito”?... vediamo in che senso!).
Questo passaggio è opera di un inesorabile lavoro di sostanziazione della coscienza conoscente che prenderà il via da Fichte. Con lo “sgretolarsi” della “cosa in sé”, si disgrega completamente anche il dualismo della conoscenza (= da un lato c’è l’io e dall’altro c’è la cosa in sé; da un lato il soggetto che conosce e dall’altro l’oggetto conosciuto). Se l’uno dei due poli (= la cosa in sé, il mondo oggettivo) si dissolve, quale fondamento della conoscenza, rimane, per conseguenza, soltanto l’altro (= l’io, lo spirito, la coscienza, il soggetto) che diviene anche il fondamento della realtà.

3. 2. Cos’è l’Idealismo?
L’Idealismo, propriamente detto, è la massima incarnazione filosofica del Romanticismo che, infrangendo i limiti conoscitivi posti da Kant, inaugura una nuova metafisica.
Nota bene: L’Io, in Kant, era una “facoltà” li-mi-ta-ta, in quanto non creava la realtà, ma si limitava
ad ordinarla, secondo le proprie forme a priori. Sullo sfondo dell’ “attività unificatrice” di questo io si stagliava un dato, identificabile con il concetto di cosa in sé (= quella X ignota che il filosofo della Critica aveva ammesso, per spiegare la recettività dell’atto conoscitivo: se conosco qualcosa deve pur esserci qualcosa da conoscere). I seguaci di Kant, abbiamo visto, avevano messo in discussione la cosa in sé, ritenendola gnoseologicamente inammissibile.
L’idealismo sorge allorquando Fichte, alla luce delle difficoltà logiche generate dal kantismo, rinuncia apertamente alla nozione di un “mondo esterno” come causa logicadella conoscenza e costruisce una “ nuova teoria”, non solo gnoseologica ma anche ontologica. In altri termini Fichte spostail discorso dal piano gnoseologico (= della conoscenza ) a quello metafisico (= dell’essere) abolendo lo “spettro” della cosa in sé, ossia la nozione di qualsivoglia realtà estranea all’io, che, in tal modo, da soggetto del conoscere diventa un’Entità Creatrice (= fondamento di tutto ciò che esiste) ed Infinita(priva di limiti esterni, dunque libera). Da questo deriva la tesi dell’idealismo tedesco secondo cui “tutto è Spirito”.
Per comprendere il senso di questa affermazione “un po’ forte”, dobbiamo stabilire che con il termine Spirito, o con i suoi sinonimi “Io”, “Assoluto”, “Infinito”, Fichte intende la realtà spirituale umana, considerata come entità auto-cosciente gnoseologica e pratica, soggetto conoscente e agente.
Due domande legittime:
a) In che senso lo Spirito rappresenta la fonte creatrice e infinita di tutto ciò che esiste?
b) Cos’è, dunque, per gli idealisti la materia?
La risposta a queste domande risiede, in primo luogo, nel presupposto conoscitivo antico, ed abbracciato dagli idealisti, secondo il quale ad un principio corrisponde sempre il suo opposto. Un soggetto senza un oggetto, un’attività senza ostacolo, un io senza un non-io, sarebbero entità vuote. Di conseguenza ad uno spirito corrisponde la materia nel senso che uno spirito per essere tale “ha bisogno” di quella antitesi vivente che è la materia, la natura; Ma, mentre le filosofie naturalistiche o materialistiche hanno sempre concepito la “Natura” (o la materia), come causa dello “spirito”, asserendo che l’uomo, come soggetto pensante, è un prodotto o un effetto di essa, gli idealisti, capovolgendotale prospettiva dichiarano che è lo Spirito ad essere causa della natura, perché quest’ultima esiste solo per l’Io ed è in funzione dell’Io, essendo essa semplicemente il materiale o la scena della sua attività, il polo dialettico del suo essere.
In altri termini:
A. Lo Spirito (l’Io) crea la realtà nel senso che l’uomo (dal momento in cui si fa auto-coscienza) rappresenta la ragione d’essere dell’universo.
B. La Natura esiste solamente perché esiste lo Spirito, il quale necessita di essa come suo opposto; la natura esiste non come realtà a sé stante, ma come momento dialettico necessario nella vita dello Spirito il quale solo esiste e “crea” la natura affinché esso possa contemplarla e la “crea” nel momento stesso in cui si rende conto di essa, poiché essa è il suo opposto.
Ma se l’uomo è la ragione d’essere (la causa) e lo scopo (il fine) dell’universo, che sono gli attributi fondamentali che la filosofia occidentale ha da sempre attribuito alla divinità, questo vuol dire che esso coincide con la divinità stessa (e si spiega anche perché gli idealisti scrivano i termini di Assoluto, Io, Spirito sempre con la lettera maiuscola). Con l’idealismo ci troviamo per la prima volta nella storia del pensiero di fronte ad un panteismo spiritualistico (= Dio è lo Spirito che è nell’uomo e che opera nel mondo) a differenza di quello rinascimentale e spinoziano che era un panteismo naturalistico.

Idealismo: breve Analisi del Termine
A. In senso comune, è idealista colui che, in nome di ideali etici, religiosi, politici, è disposto a sacrificare per essi la propria famiglia, la propria libertà o la propria vita.
B. In senso filosofico, il termine comprende quelle filosofie che, come il platonismo, fanno dell’idea (= il pensiero o il soggetto) il principio primo da cui nasce e si deduce la realtà concreta (l’essere o l’oggetto: Distinguiamo:

  • L’ Idealismo gnoseologico. La posizione di quelle filosofie che riducono l’oggetto della conoscenza a pura Rappresentazione dell’io (Cartesio con il Cogito, Berkeley, con il suo esse est percipi, Kant, con  il suo idealismo trascendentale, il quale scriverà una confutazione dell’Idealismo di Cartesio e Berkeley, fino a Schopenhauer, per il quale il mondo è rappresentazione umana).
  • L’Idealismo Assoluto. La corrente filosofica post kantiana che si origina in Germania nel periodo romantico, quella che in questa sede ci apprestiamo ad analizzare. Intento filosofico di questa corrente è quello di eliminareildualismo fenomeno-noumeno, che Kant ha lasciato in eredità.

È questo un idealismo “Assoluto”, perché la tesi di fondo è l’affermazione che l’Io (= lo Spirito) è il principio Unico, sia del soggetto che conosce che dell’oggetto conosciuto, e che fuori da esso non c’è nulla. Al contempo è “Soggettivo”, perché questo tipo di idealismo si distingue da quello, ad esempio, di Spinoza il quale aveva sì eliminato il dualismo e ridotto la realtà ad un principio unico, la “sostanza”, ma questa sostanza era intesa in termini di oggetto (= la natura) e non di soggetto(Io).

Fichte
Johann Gottlieb Fichte nacque a Ramneau in Sassonia nel 1762. Nel corso della sua vita egli confermò il principio fondamentale della sua dottrina che può essere espresso nella seguente affermazione, non esistono insuperabili limiti oggettivi alla libertà dell’uomo; ogni individuo,  purché lo desideri con l’adeguata intensità, può superare qualsiasi ostacolo e realizzare pienamente se stesso.
Di umilissime origini, da bambino conobbe la miseria e fu costretto a fare il guardiano di oche per aiutare la famiglia. Per la sua grande intelligenza si fece notare da un nobile del luogo che gli permise di intraprendere gli studi di teologia all’università di Jena. Qui, dopo una lettura entusiastica della Critica della Ragion Pura di Kant, pubblicò uno scritto anonimo dal titolo, Critica di ogni rivelazione che fu accolto entusiasticamente negli ambienti accademici credendolo uno scritto di Kant. Intervenuto lo stesso Kant a chiarire l’equivoco, Fichte divenne celebre e gli fu offerta una cattedra all’università. Questi furono anni fecondi nei quali concepì e pubblicò le sue opere più famose quali: Fondamenti dell’intera dottrina della scienza (1794) (cui seguirono una  Prima introduzione alla dottrina della scienza (1797) ed una  Seconda introduzione alla dottrina della scienza); i Fondamenti di diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza (1794); e Lezioni sulla missione del dotto(1794). La pubblicazione di queste opere gli valse maggior fama e purtroppo anche l’invidia dei colleghi, tanto che, in occasione di una polemica sull’ateismo nella quale intervenne in difesa delle posizioni di un suo allievo accusato di sostenere opinioni atee, fu espulso dall’università di Jena. Si recò a Berlino dove entrò in contatto con il circolo romantico dei fratelli Shlegel. Qui visse lavorando come precettore. A Koenisberg, in occasione di una visita a Kant, incontrò le truppe napoleoniche e questo gli fornì lo spunto per i suoi Discorsi alla Nazione Tedesca (1808), dove affermava il primato morale del popolo germanico. Nominato, in seguito al successo derivatogli dalla pubblicazione di questi Discorsi, professore all’università di Berlino e quindi Rettore, morì a soli 52 anni per un’infezione virale, contratta dalla moglie che assisteva, come infermiera, i soldati feriti nella guerra contro Napoleone.

I. 1. La filosofia dell’Infinito.
Fichte si considera un prosecutore dell’opera filosofica di Kant. Con la sua opera principale, Fondamenti della Dottrina della scienza, pur rimanendo nell’ambito del criticismo kantiano, Fichte si propone di superare le contraddizione logica costituita dal dualismo fenomeno/noumenoe. Là dove Kant ha costruito una filosofia “del limite”, Fichte intende costruire una filosofia dell’Illimitato, completamente incentrata sull’Io.


Kant aveva sostenuto che tutta la filosofia precedente a lui era viziata dal dogmatismo in quanto, essa, aveva assunto come dato-di-fatto la presupposizione dell’esistenza di leggi all’interno della Natura, là dove invece egli sostiene che è l’io il legislatore della natura, dato che le leggi sono applicate alla natura dalla nostra mente. Fichte, fa ricadere nel dogmatismo lo stesso Kant quando sostiene, infatti, che tutta la filosofia precedente, Kant compreso, sia dogmatica, in quanto ha creduto nel dogma dell’esistenza di una cosa-in-sé, ossia di un mondo, di una realtà di per sé stante, indipendentedal soggetto umano. La filosofia precedente alla fondazione dell’idealismo ha pensato che venisse prima l’oggetto, prima il mondo, prima la realtà materiale, e poi il soggetto. Invece le cose per Fichte stanno esattamente all’opposto.

Il punto di partenza della filosofia di Fichte è sempre la domanda circa il principio fondamentale della conoscenza. Kant aveva riconosciuto questo principio nell’ “io penso”. L’io penso (o Appercezione trascendentale) era, per Kant, un’entità auto-cosciente preposta all’interpretazione categoriale del mondo, mondo che forniva il “materiale sensibile” all’io-conoscente e che si stagliava contro l’io come qualcosa-di-altro. (= un atto di autodeterminazione esistenziale che presuppone come già data l’esistenza, sia dell’io stesso sia del mondo sensibile). Con Reinhold nasce il problema dell’origine di questo materiale sensibile. Shulze, Maimon e Beck tentano di dimostrare l’impossibilità logicadi dedurre (= “derivare logicamente”) questo materiale dalla Cosa in sé, alla luce delle stesse ragioni della Critica Trascendentale, se non a rischio di una grave contraddizione della Critica con se stessa. Essi dichiarando “chimerica” (impossibile, da un punto di vista logico rigoroso) la stessa cosa in sé,come qualcosa di esterno alla coscienza, avevano già prima di Fichte tentato di risolvere nell’Io l’intero mondo della conoscenza. Fichte, portando alle estreme conseguenze queste premesse,  sosterrà che se l’Io è l’unico principio rimasto, occorrerà attribuire ad esso la produzione stessa del materiale sensibile. A questo punto, dunque, se l’Io è il principio, non solo formale ma anche materiale, del conoscere esso sarà anche Infinito.
 
I. 2. La “Dottrina della scienza”.
Noi dobbiamo ricercare il principio primo, assolutamente in-con-di-zio-na-to di tutto l’umano sapere. Dovendo essere un principio assolutamente primo esso non si può determinare né dimostrare…
Esso deve esprimere quell’atto che non si presenta tra le determinazioni empiriche (= i contenuti) della nostra coscienza, ma sta piuttosto alla base (delle determinazioni) di ogni coscienza, e solo la rende possibile.

Fichte cerca, kantianamente, il principio primo, all’origine della conoscenza e sempre Kantianamente, lo trova nella coscienza di sé o Appercezione, che egli chiama “Intuizione Intellettuale”. Tale autocoscienza non è un fatto (come per Cartesio), né una facoltà (come per Kant) ma è un Atto, un’attività. Esso è ciò che sta alla base di ogni coscienza. Tale atto è assolutamente in-con-di-zio-na-to, perché se fosse condizionato da altro non sarebbe il principio primo. È un fondamento, perché nient’altro lo pone se non se stesso ed è un azione, un’atto, perché il suo essere è essenzialmente un porsi: è dunque al contempo un conoscersi e un agire. È attività teoretica e pratica = è Pensiero ed Azione.


L’intero sistema del sapere umano (= della conoscenza che l’uomo ha del mondo) si fonda su di un Atto: “Spontaneo”, “Intuitivo” e “incondizionato”; se veramente fondamentale questo principio non potrà essere dimostrato per via logica ma solo accettato, come gli assiomi fondamentali della matematica. Tale principio supremo, in altri termini, per essere il primo non deve fondarsi su di altro ma solo su se stesso.

Per stabilire la natura di quest’Atto fondante, Fichte stabilisce i tremomenti” della dottrina della scienza.

  1. Il primo Momento è  la Tesi,

► “L’Io pone se stesso, Assolutamente”.
Con tale affermazione Fichte stabilisce in che modo l’Io s’identifichi con un’Attività auto-creatrice ed infinita. L’Io pone sé stesso : è oggetto e soggetto di sé stesso contemporaneamente.
Ciascuno ammette la proposizione A è A (altrettanto che A = ad A) poiché questo è il significato della copula logica), senza minimamente pensarci su []. Con la proposizione A=A si giudica [= si formula un pensiero]. Ma ogni giudizio è secondo la coscienza empirica un Atto dello spirito umano [] Ora, a fondamento di quell’atto sta qualcosa che non è fondato su nulla di superiore. Perciò questo qualcosa è il fondamento assolutamente posto e fondato su se stesso, fondamento di ogni agire  dello spirito umano e quindi il suo puro carattere, il puro carattere dell’attività in sé []

 Nella filosofia aristotelica ed in quella moderna, compresa quella kantiana, il principio fondante della scienza è il “principio di identità”: A = A (A è uguale ad A): “il gatto è il gatto”, “il triangolo è triangolo”, dal quale deriva necessariamente il secondo, il “principio di non contraddizione”: A ≠ non A (“A è diverso da non A”). La legge di identità, A = A, secondo Fichte, non rappresenta il “primo” principio della scienza, perché essa implica un principio ulteriore in grado di giudicare (= pensare) tale principio di identità. E cos’è in grado di giudicare di tale principio di identità se non l’Io stesso?? Ma l’Io non può porre quel rapporto identitario se non Pone ( = Stabilisce) prima se stesso, ossia se non si pone “esistente”.
Quell’essere, la cui essenza consiste puramente in questo, che esso pone se stesso come esistente, è l’Io come assoluto soggetto. La proposizione Io sono Io vale assolutamente ed incondizionatamente; vale non solo quanto alla forma, ma anche quanto al contenuto […]. In quanto esso si pone è, ed in quanto è, si pone, e l’io perciò è assolutamente e necessariamente per [causato da] l’io. Ciò che non esiste per se stesso non è io. Si domanderà certo: che cosa ero io dunque prima che giungessi all’autocoscienza? La risposta naturale a questa domanda è: io non ero affatto, perché io non ero io. Non si può pensare assolutamente a nulla, senza pensare in pari tempo il proprio io, come cosciente di se stesso; non si può mai astrarre dalla propria autocoscienza.

L’io dunque non può affermare nulla, neppure il principio di identità, senza affermare contemporaneamente la propria esistenza (Io sono). Di conseguenza, il primo principio del sapere (anche di quello scientifico) non è il principio di Identità, ma è dunque l’Io stesso che viene ad essere  in quanto si auto-pone: l’essenza dell’Io consiste proprio nell’essere “Autocoscienza” (Io = Io; io sono io) . Questi non è posto da altri ma da sé medesimo. Questa auto-posizione è la sua auto-creazione che coincidono con l’Intuizione intellettuale che l’Io ha di se stesso. Ecco come L’autocoscienza del soggetto è dunque il principio fondamentale, non solo della “conoscenza” ma anche dell’ “essere”. Il concetto di Io corrisponde al momento in cui pensante e pensato sono presenti al pensiero come la medesima realtà. Pertanto soggetto e oggetto vengono a coincidere e non hanno più una connotazione che li differenzia: l’unione di soggetto e oggetto è il punto di partenza di Fichte ed è anche l’essenza dell’Idealismo.
In altre parole: noi possiamo affermare che qualcosa esiste, solo rapportandolo alla nostra coscienza, ossia facendone, Kantianamente, un essere-per-noi (l’oggetto fenomenico). Tale oggetto è possibile (= esiste) soltanto a patto che diventi oggetto della coscienza del soggetto. A sua volta la coscienza è possibile, come elemento di conoscenza, solo a patto che sia Auto-coscienza (= quando noi siamo consapevoli di essere coscienti). Quindi → Se la coscienza è il fondamento dell’essere e l’autocoscienza è fondamento della coscienza = allora l’autocoscienza sarà anche il fondamento dell’essere.

La metafisica classica sosteneva che  operari sequitur esse(= l’azione è conseguenzadell’esistenza, ossia nessuno può agire se prima non esiste), la nuova metafisica idealistica, ca-po-vol-gen-do l’antico assioma, afferma che esse sequitur operari, in quanto l’essere dell’Io è il frutto della sua azione, il risultato della sua at-ti-vi-tà libera. L’io pertanto viene ad essere  in quanto si autopone: l’essenza dell’io consiste proprio nell’essere attività  auto-cosciente. Questa prerogativa dell’Io viene detta da Fichte, Tathandlung con la quale Fichte intende significare che l’Io è al contempo Tat = attività agente e Handlung = prodotto dell’attività stessa.
Dai suoi contemporanei Romantici Fichte fu detto il filosofo dell’infinità dell’Io. A molti, invece, questa teoria parve soltanto portare alle estreme conseguenze la dottrina del cogito cartesiano e tradurre in termini logico-metafisici, la  visione rinascimentale e moderna dell’uomo “artefice di se stesso”, ossia l’essere che costruisce o inventa se medesimo in base alla propria libertà.. La vera novità della dottrina di Fichte, in realtà, sta nel definire il Soggetto non più in termini di Essere (e in un certo qual modo di esistenza), come in tutta la tradizione filosofica precedente, ma in termini di Attività (in senso dinamico). Infatti, l’affermazione l’“Io pone se stesso” implica di necessità che qualunque soggetto pensante sia inevitabilmente e costantemente impegnato in un’opera di de-fi-ni-zio-ne di ; di “ciò che egli è”, distinto e separato da “ciò che egli non-è”.
Questo ci conduce al secondo momento della Dottrina.

2. Il secondo momento è l’Antitesi.
► “L’Io Assoluto oppone a se stesso un non-Io Assoluto”, ovvero L’Io pone il non-io.
Il “momento dell’Io”, non basta da solo a spiegare la coscienza. Questa si costituisce come tale soltanto in rapporto ad oggetti di cui è, appunto, coscienza. In tal modo Fichte giunge alla seconda definizione del principio che è l’Antitesi, secondo la formula omnis determinatio est negatio. Se l’Io è “attività che pone” questo implica necessariamente la posizione di “qualcos’altro”.
Non vi è nulla di posto originariamente, tranne l’io; e questo soltanto è posto assolutamente. Perciò un’opposizione assoluta non può aversi se non ponendo qualcosa di opposto all’io. Ma ciò che è opposto all’io è non-io. All’io è opposto assolutamente un non-io.
Ogni conoscenza deve essere conoscenza di qualcosa, dunque nel momento stesso in cui l’io pone se stesso, pone, contemporaneamente, anche il non-io. L’ “io che pensa sé stesso” è soggetto di coscienza ma anche oggetto di conoscenza, dato che è auto-cosciente.  Nel momento in cui l’Io pensa è soggetto ma nel momento in cui è pensato, ossia contemporaneamente, è oggetto di conoscenza! Che l’oggetto debba essere posto dall’Io dipende dal fatto che esso non si può giustificare da sé, come già avevano mostrato tutte le polemiche post-kantiane sulla cosa in sé: non si può infatti pensare ad un oggetto se non per un soggetto. 
Entrambi i momenti, è bene sottolineare subito, non sono consequenziali temporalmente, lo sono logicamente. Essi sono compresenti e necessari alla coscienza, che assume così una natura contraddittoria e dicotomica. Ciò che chiamiamo “pensiero”, infatti, è, al contempo, sia autocoscienza del soggetto pensante, sia coscienza dell’oggetto pensato. L’auto-determinazione dell’io, in altre parole implica la determinazione di un opposto, in quanto, come già anticipato nella sezione introduttiva, non può esistere un principio senza che esista anche il suo opposto. Ogni affermazione implica una negazione, ogni tesi, un’antitesi; ogni soggetto, un oggetto. In altri termini, l’Io, non solo pone se stesso, ma contemporaneamente oppone a se stesso qualcosa che è un non-Io, in quanto gli è opposto (è l’oggetto, il mondo, la Natura). Essendo posto dall’Io tuttavia il non- Io è nell’Io.


Nota. Non-Io = con non-io Fichte intende per esclusione immediata tutto ciò che l’Io distingue da se stesso: gli oggetti, il mondo e la natura nel suo complesso, gli altri esseri (umani e non). Anche il corpo del soggetto, quale auto-coscienza, fa parte del non-Io.

 
Tale non- Io, immediatamente riconosciuto come altro da sé dall’Io, è dunque posto dall’Io che deve riempire la coscienza di un qualcosa che le si opponga per poter essere coscienza di qualcosa. Nel momento stesso in cui il soggetto si accorge di vedere, di udire e di pensare, si accorge che sta vedendo, udendo, pensando quindi ponendo qualcosa. Questo qualcosa è il non-Io.

3. Il terzo “momento” della deduzione fichtiana è la Sintesi. Essa ci mostra come l’Io, avendo posto il non-Io, si trovi ad essere limitato da esso, esattamente come quest’ultimo risulta limitato dall’Io. Essi si limitano reciprocamente.
► “L’Io oppone nell’Io all’Io divisibile un non-io divisibile”.
Fichte usa qui l’aggettivo divisibile per denominare il molteplice ed il finito. Se all’Io si contrappone il non-io, l’io non è più l’io iniziale assoluto, ma diventa qualche cosa di diverso, in quanto viene limitato, non è più l’io assoluto (assoluto significaab-solutus, cioè sciolto da vincoli), assolutamente libero.
Il non-io, solo in tanto può essere posto, in quanto nell’io, nell’identica coscienza a se stessa, è posto un io al quale il non-io può essere opposto. Ora, il non-io deve essere posto, nella coscienza, identico a se stesso, ed in questa medesima coscienza deve essere posto anche l’io [l’io empirico] in quanto opposto al non-io.
Con il terzo principio perveniamo alla situazione concreta del mondo, nel quale si hanno una molteplicità di io finiti i quali hanno di fronte a sé una molteplicità di oggetti a loro volta finiti.


Nota: Per comprendere realmente la complicata dottrina di Fichte, occorre sottolineare che le prime due tappe dell’Io: la creazione di sé da parte di se medesimo e la contemporanea delimitazione del non-Io che gli è opposto, avvengono sotto la soglia della consapevolezza cosciente del soggetto, il terzo momento considera i rapporti tra Io e non-Io così come appaiono alla percezione. consapevole della realtà. Qui Io e non-Io si rivelano come Dati oggettivi e distinti.
  • Sia ben chiaro, questi tre momenti non vogliono essere una teoria cosmogonica che dia una spiegazione di come è nato l’universo. Questa non è una cosmogonia. Fichte non vuole affermare che “In principio” dei tempi vi era un Io creatore che ha posto il non-io e quindi la schiatta dei vari io empirici. Questi tre momenti sono solo la definizione, particolareggiata ma simultanea, di un principio unico, il quale a sua volta è chiamato in causa per rispondere all’esigenza logica della ragione di scoprire il proprio fondamento. Questo principio è chiamato con tre nomi diversi a seconda dei tre suoi momenti logici. Con questo Io, Fichte ritiene di aver descritto le condizioni originarie del rapporto soggetto-oggetto che sono alla base, tanto della conoscenza, quanto della stessa esistenza: dato che se non c’è conoscenza non può esservi certezza dell’esistenza!!!.

 

Di là delle rigide formule metafisiche della Dottrina della scienza, quello di Fichte è un “messaggio”: compito dell’uomo è l’umanizzazione della natura, che tende a dare origine da un lato ad una natura plasmata secondo i nostri scopi e dall’altro ad una società di esseri liberi e razionali.
Questa missione ovviamente non potrà essere portata a termine poiché se l’Io riuscisse ad annullare tutti i suoi ostacoli, cesserebbe di esistere, perché esso esiste solo in quanto incessante attività, senza la quale subentrerebbe la stasi. Al concetto Statico di “Perfezione”, proprio della filosofia classica con il quale essa individuava il concetto di “divinità”, Fichte oppone il concetto dinamico di “auto-perfezionamento”, di Sforzo (= Streben) di perfezionarsi.

Distinguiamo l’Io assoluto di Fichte dall’Io penso di Kant e dall’’Io cogito cartesiano.
Quest’ultimo è l’attestazione dell’esistenza dell’io, mentre l’io penso di Kant una pura funzione, priva di sostanzialità: è la facoltà di unificare a priori (= di sottoporre all’unità) il molteplice delle rappresentazioni date. Quindi una facoltà ordinatrice di una realtà preesistente. L’Io assoluto di Fichte invece è una Attività (come quella di Kant) creatrice e non più solo ordinatrice.

I. 3. La Triade.
La filosofia di Fichte, abbiamo notato, si presenta con una struttura triadica. Essa si articola nei tre momenti, dell’auto-posizione dell’Io (tesi), dell’opposizione del non-io (anti-tesi) e della determinazione reciproca dell’Io e del non-io (sintesi). Questa formula sarà destinata ad avere grande fortuna nella storia del pensiero (passando per Hegel, per arrivare a Marx fino a Freud). Essa è incentrata sul concetto nolano (= riferito al pensiero di Giordano Bruno, originario di Nola) di “sintesi degli opposti”. Se la consideriamo alla luce esclusiva delle formule teoretiche, la filosofia di Fichte è ostica, riducibile ad un vano gioco di concetti vuoti; ma, analizzata alla luce della esperienza quotidiana di ciascuno di noi, essa coglie l’intima essenza della vita spirituale.
“Provatevi a pensare ad un qualunque atto mentale, senza opposizione, senza critica, senza riflessione su se stesso. Esso è destinato ad esaurirsi e disperdersi. La natura del nostro spirito è tale che ogni dire esige un contraddire, ogni tesi suscita un’antitesi, non come punto d’arresto o come un disfare quel che è fatto, ma come limite fecondo che fa fermentare gli elementi vivi della tesi, permeandoli di sé”. In questo modo la sintesi che deriva da questo lavoro di posizione e di critica della tesi iniziale, non è la pura e semplice ripetizione della tesi, ma è la riaffermazione di essa arricchita e rafforzata dal superamento dell’antitesi. Questo non vale soltanto per l’attività del pensiero teoretico ma anche per l’attività morale, estetica o religiosa o qualsivoglia altra attività dello spirito umano. Ovunque lo spirito si attua esso vive di opposizione e di lotta e le sue affermazioni per trovare conferma finale debbono passare attraverso le forche caudine della controprova. Lo schema triadico non fa che simboleggiare questo processo vitale, è la magra formula con cui questo processo viene riassunto. “Rivestendolo” della sua valenza psicologica possiamo tradurlo e re-interpretarlo alla luce del più complesso linguaggio dello spirito. Potremo così leggere nella “Tesi”, l’esordio, spontaneo, della ricerca teoretica o dell’intuizione artistica o dell’atto volontario, nell’“Antitesi”, il dubbio, l’obiezione, in altri termini il travaglio della riflessione e della critica, nella “Sintesi”, infine, la riconquista, la sicurezza, soprattutto la certezza di aver raggiunto un’opinione ponderata, non quella certa e inconfutabile, ma quella maturata soprattutto grazie al lavoro interiore.
Esempio: Poniamo l’idea di mollare tutto e partire per la Costarica ad aprire un bar. È la nostra tesi. Da qui il dubbio, ma-che-sto-facendo? Ma-dove-vado? E i genitori: “Sei impazzito!?!” E il nonno: “Splendido! Ho qualcosa da parte, se mi prendi con te è tuo”. Questa è L’antitesi. Finché, alla luce di un lungo travaglio prendo la mia decisione, nel nostro caso faccio una scelta. Sbagliata? Giusta? Questa è la sintesi che si è arricchita di tutti gli elementi che mi hanno portato a prendere la decisione.
Ed una volta raggiunta la sintesi non creda lo spirito di aver conquistato per sempre la quiete dopo la travagliata decisione finale. Ogni sintesi segna una pausa di meritato riposo, ma questo non è che una tregua che prelude ad un nuovo slancio, uno stato di equilibrio instabile in vista di un nuovo squilibrio che da vita ad un nuova “sfida”.

I. 4. Idealismo o dogmatismo?
Fichte nel suo saggio“Prima introduzione alla dottrina della scienza” cerca di dimostrare come la filosofia non sia, dunque, una costruzione astratta, ma una riflessione sull’esperienza. Un momento d’interpretazione dell’esperienza umana che ha come scopo la messa in luce del fondamento dell’esperienza stessa.
Fare filosofia è appannaggio di tutti. Ciascuno di noi si costruisce il suo complesso di credenze, di valori, di priorità. Nel momento in cui si trova ad esaminarli, ne discute, li espone, sta facendo della filosofia; non sistematica, certo, magari limitata ad un ambito di conversazione tra amici e non espressa in “coerenti pagine consequenziali di tesi motivate da convinzioni profonde o poggianti su solide basi storico-filosofiche”, non c’è dubbio, nondimeno sta lo stesso facendo filosofia.
Fare filosofia, significa anche studiarla, condividerla o rifiutarla. Così è andata avanti per secoli (questo non lo dice Fichte, lo dico io per introdurre meglio il concetto che vado ad esporre).
Ora, Fichte riduce a due i modi di fare Filosofia, e in campo teoretico, in campo gnoseologico ed in campo etico, due sistemi di base, contrapposti l’uno all’altro. Nessuno dei due sistemi riuscirà mai a confutare direttamente l’altro, poiché nessuno dei due può fare a meno di ritenere “fondamentale” il proprio principio di partenza, che, essendo un assunto, un assioma, è di per sé indimostrabile.

  1. Il primo modo è quello “dogmatico”, il sistema che punta sull’oggetto o che fa del dato oggettivo il punto di partenza.
  2. Il secondo è quello “idealistico” opposto al primo che parte dall’Io o soggetto, “l’intelligenza”, come punto di partenza.

Cosa è mai allora ciò che induce un uomo che voglia fare filosofia a scegliere l’un sistema piuttosto che l’altro? La scelta tra questi due “massimi sistemi” del mondo deriva da una differenza di inclinazione personale, da una presa di posizione preliminare in campo etico (dal carattere insomma).

  • Il dogmatismo si configura, in gnoseologia, come realismo (= esiste prima il mondo, ossia prima la cosa da conoscere) e in metafisica come materialismo(= il mondo è retto da principi oggettivi meccanici e determinati). Questa posizione,va da sé, rende problematico parlare della libertà in campo metafisico.
  • Al contrario l’idealismo, che si propone come una filosofia che ha come principio di base l’Io (= fa dell’Io un’attività auto-creatrice, in funzione della quale esistono gli oggetti), finisce per strutturarsi come una dottrina della libertà.

Queste due filosofie hanno come corrispettivo esistenziale due tipi d’umanità.

  • Da un lato, infatti, esistono individui che non sono in grado (per carattere, per indole o per indolenza) di “elevarsi”, afferma Fichte, al sentimento ed alla convinzione della propria libertà assoluta e che riconoscono se stessi solo nel mondo, negli altri (in quello che gli altri fanno di norma). Essi sono istintivamente attratti dal dogmatismo e dal naturalismo (= dal determinismo e dalla servitù spirituale ai comportamenti più rassicuranti perché comunemente accettati, “in voga”, “condivisi dai più”).
  • Dall’altro vi sono individui che hanno il senso profondo della propria libertà ed indipendenza dalle cose (= dalle mode e dai modi di pensare accettati dai “pari”). Questi sono portati a simpatizzare per l’Idealismo. Soltanto questa filosofia insegna che l’essere uomini significa sforzo (Streben) e conquista e che il mondo esiste non per essere contemplato ma soltanto per essere forgiato dallo Spirito.

La scelta sostanziale di cui parla Fichte, e che lo porta all’idealismo, è, in realtà, motivata e ben fondata anche teoreticamente, poiché tutta la sua dottrina della scienza è volta a mostrare che soltanto partendo dall’Io si riescono a spiegare sia l’Io che le cose.
L’Io è dunque la realtà originaria e assoluta che può spiegare sia se stessa, sia le cose, sia il rapporto tra se stessa e le cose. Dall’azione reciproca dell’io ( = minuscolo, gli io singoli) e del non-io (= le cose, il mondo) nascono sia la conoscenza che l’azione morale.

I. 5. Dottrina della conoscenza
L’ affermazione che l’Io produce il non-io appare a prima vista un’affermazione quantomeno strana, soprattutto esponendola nella sua forma riflessiva: il non-io è un prodotto dell’Io.
Tale dottrina genera un duplice problema non irrilevante:

  • Se il non-io (la natura) è un effetto dell’Io, perché esso appare alla coscienza comune come qualcosa di sussistente di per sé, anteriore ed indipendente dall’io stesso?
  • Eliminando la consistenza autonoma del non-io, questo non rischia di ridursi a una pura parvenza, a un sogno o a un’illusione?

► Al primo problema Fichte risponde con la teoria dell’Immaginazione produttiva (di cui aveva parlato anche Kant) che è l’attività, o l’atto, attraverso cui l’Io pone (= crea) il non-io. Tale Immaginazione fornisce all’Io il materiale della conoscenza, nel momento stesso in cui l’Io si separa, si scinde e crea se stesso creando al contempo anche il non-io. Questo atto di immaginazione polarizzata  avviene al di sotto della soglia della coscienza. “Il non-io è dunque immagine prodotta, non realtà esistente in sé. L’immaginazione produttiva è proprio l’attività dell’Io che pone l’oggetto come immagine di sé. Ma il soggetto empirico, che costituisce il punto di vista finito attraverso cui l’Io conosce, percepisce il non-io come realtà del tutto oggettiva, e non ha coscienza della sua affinità con sé: non ha coscienza che entrambi sono il dispiegarsi dell’Attività infinita, in due opposte determinazioni, dell’unico principio”. Soltanto con la prospettiva idealistica, afferma Fichte, l’uomo  ha preso coscienza della vera natura di sé e del mondo. L’Io non è consapevole di aver prodotto il materiale della conoscenza (= il non-io), non lo riconosce come auto-prodotto e dunque lo ritiene esistente di per sé (Fichte non lo dice proprio in questo modo, io preferisco esporlo così per rendere più masticabile il concetto).


Di “Immaginazione produttiva” aveva parlato Kant, nella CRP (analitica trascendentale), come di quella facoltà che dà origine a quelle rappresentazioni intermedie che egli chiama “schemi trascendentali”, ad ognuno dei quali corrispondeva una categoria o un gruppo di categorie.

► Al secondo problema Fichte  risponde con l’enunciato stesso del suo sistema che conferisce realtà al non io in quanto lo considera reale quanto l’io che lo produce. È insomma una nuova prospettiva di osservazione del mondo, un modo di considerare le cose da un nuovo punto di vista.
La natura, ossia la materia della conoscenza (= il regno dei fenomeni), è interpretata da Fichte come il prodotto dell’Attività infinita dell’Io puro che, nel suo infinito tendere verso la conoscenza, si scinde in un soggetto conoscente ed in un oggetto conoscibile.
In quest’ottica, il non-io è soltanto lo specchio, l’immagine riflessa dello stesso Io puro, ed in quanto immagine oggettivata, la natura non ha per Fichte alcun’autonomia, alcuna legge o forza propria. L’ordine su di essa è posto, kantianamente, dall’attività conoscente del soggetto mediante l’applicazione delle forme a priori, solo che, sollevando il velo del fenomeno Fichte non scorge alcuna kantiana cosa-in-se ma, come il discepolo di Sais, vede l’Io stesso.

II. 1. La Dottrina Morale
La filosofia per Fichte, per essere tale, deve anche tentare di offrire una spiegazione del mondo nel suo complesso, rispondendo alla fondamentale domanda del perché esso esista.
Per Fichte l’Io (infinito) pone il non-io, realizzandosi come io-conoscente-finito.
Ma perché? Perché “l’Io pone il non-io”, a che scopo? In altre parole, perché esistiamo?
La domanda, lapidaria, è quella che si pone chiunque voglia vederci chiaro in questa vita che gli è capitata da vivere. Quale è il motivo dell’esistenza?
Il motivo dell’esistenza, risponde Fichte, è di natura pratica.
L’Io pone il non-io, ed esiste come io-conoscente, solo per poter agire. Noi esistiamo perché conosciamo (lo disse Cartesio), ma conosciamo solo perché siamo destinati ad agire.
L’io pratico costituisce la ragione stessa dell’io teoretico. In questo consiste, per Fichte, il primato, enunciato da Kant, della ragion pratica sulla ragion teoretica. Noi esistiamo solo per a-gi-re e il mondo esiste solo come teatro della mia azione e per null’altro.
Ma cosa significa, per Fichte, agire?
Agire per Fichte significa imporre al non-io la legge morale dell’io, ossia forgiare noi stessi ed il mondo alla luce di progetti “liberi e razionali”.
L’idealismo di Fichte si identifica così con un Idealismo Etico più che teoretico.
Il carattere morale dell’azione consiste nel fatto che l’azione stessa assume la forma di un Imperativo volto a far trionfare lo spirito sulla materia, mediante la sottomissione dei nostri impulsi egoistici alla nostra ragione e mediante l’estensione della nostra volontà razionale al mondo esterno, che esiste per essere plasmato dalla nostra azione morale. Questa è la spiegazione definitiva del perché l’Io abbia necessità del non-io: l’Io, che è costituzionalmente Libertà, per realizzare se stesso deve agire, ed agire moralmente, in ottemperanza di un dovere.
Come Kant aveva insegnato, “non c’è moralità là dove non c’è libertà”, Fichte prosegue “non c’è moralità dove non c’è Sforzo, ossia un ostacolo da rimuovere” Questo ostacolo è costituito dalla materia, dall’impulso sensibile, dal non-io. La posizione del non-io è quindi la indispensabile condizione affinché l’Io si realizzi nel suo scopo, che è morale. Realizzarsi come attività morale significa “trionfare sul limite”, costituito dal non-io, tramite un processo di auto-liberazione, di liberazione dell’Io dai propri ostacoli. Questo processo di auto-liberazione è la tensione dell’io verso l’infinito, infinito che l’io non potrà raggiungere, come abbiamo già visto, ma al quale per sua natura deve tendere. L’Io è dunque Infinito poiché si rende tale svincolandosi dagli oggetti che esso stesso pone,e pone tali oggetti perché senza di essi non potrebbe realizzarsi come attività e come libertà. Lo scopo della vita dell’umanità sulla Terra è quello di conformarsi liberamente alla ragione in tutte le sue relazioni.

II. 2. La missione morale del dotto.
Da questo deriva la missione sociale dell’uomo ed, in particolare, dell’uomo dotto. Per Fichte, infatti, il dovere morale è realizzabile dall’io finito soltanto insieme con gli altri io finiti. Nel Sistema della dottrina morale (1798) egli arriva a “dedurre” filosoficamente l’esistenza degli altri io basandosi sul principio per il quale la sollecitazione al dovere può venirmi soltanto da esseri al di fuori di me che siano però, come me, nature intelligenti. In altre parole, se ammetto l’esistenza d’altri esseri come me, io sono obbligato a riconoscere ad essi la stessa prerogativa che mi appartiene, cioè la libertà. In base a questo principio, ogni io finito risulta costretto a porre dei limiti alla propria libertà e soprattutto ad agire affinché l’umanità nel suo complesso risulti sempre più libera. Farsi liberi e rendere liberi gli altri ecco il senso dello Streben (lo sforzo) sociale dell’io. E per realizzare pienamente questo scopo si richiede la mobilitazione di chi ne possiede la maggior consapevolezza teorica, cioè, dei “dotti”. Fichte sostiene nelle Lezioni sulla missione del dotto (1794) che gli intellettuali non devono rimanere isolati nelle loro torri della scienza, ma devono essere “persone pubbliche” con precise responsabilità sociali e morali. Essi, anzi, esistono in funzione della società e devono adoperarsi per migliorarla. Il dotto deve essere l’uomo migliore del suo tempo, deve farsi maestro e educatore del genere umano perché se il fine supremo di ogni uomo è il perfezionamento di sé, quello dell’uomo dotto è il perfezionamento morale di tutto il genere umano.

II. 3. La Filosofia politica.
Il pensiero politico di Fichte passa attraverso fasi diverse, influenzate inevitabilmente dagli eventi storici a lui contemporanei, dalla rivoluzione francese all’invasione napoleonica della Germania. All’inizio del suo percorso politico Fichte parte da concetti socialmente “spinti” e mostra di condividere una visione contrattulistica, ancora Rousseauiana, dello stato soprattutto in chiave antidispotica e libertaria. Simpatizzando con gli eventi della rivoluzione francese, Fichte afferma che scopo dello Stato è l’educazione alla libertà di cui è corollario inevitabile il diritto alla rivoluzione. Nel caso in cui lo stato non permetta l’educazione alla libertà, infatti, ciascuno è legittimato a rompere il contratto sociale (anche attraverso la rivoluzione) e di firmarne un altro che sia in grado di fornire migliori garanzie civili (= formare un nuovo assetto politico). Il sistema politico auspicato da Fichte, nella fase giovanile del suo pensiero, è un sistema in cui la proprietà deve essere il frutto del lavoro produttivo, un sistema nel quale chi non lavora non deve mangiare. Un atteggiamento ponderatamente “rivoluzionario” che contempla una forma di comunismo dei beni prodotti.
Inoltre, nella parte dedicata alla politica delle Lezioni sulla missione del dotto, Fichte scorge il fine ultimo della vita comunitaria in una “società perfetta”, un insieme di esseri ragionevoli e liberi e considera lo stato come semplice mezzo in funzione di essa, finalizzato al proprio annientamento, in quanto lo scopo di ogni governo dovrebbe essere quello di rendere superfluo il governo. Ovviamente Fichte ritiene questa proposizione anarchica, una situazione-limite, fondamentale però in termini di prospettiva morale.
Nei Fondamenti del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza (1794), Fichte si esprime in altri termini e si sofferma sull’importanza dello stato, che deve farsi garante dei tre diritti originari e naturali dell’individuo la libertà, la proprietà e la conservazione di sé che possono essere assicurati soltanto da una forza superiore all’individuo, ossia dalla collettività degli individui che costituisce l’organismo statale. Lo stato, in questa nuova prospettiva, lungi dall’eliminare il diritto naturale, serve a garantirlo e a realizzarlo.
Questo punto di vista è corretto e completato nello Stato commerciale chiuso (1800) dove il filosofo afferma che lo stato deve, non solo farsi garante dei diritti originari, ma anche rendere impossibile la povertà, garantendo a tutti i cittadini lavoro e benessere. Polemizzando contro il liberismo ed il mercantilismo, Fichte, propone una sorta di statalismo socialista ed autarchico, autosufficiente sul piano economico. Per svolgere i suoi compiti in tutta libertà ed efficienza, regolando secondo giustizia la distribuzione dei redditi e dei prodotti, lo stato deve organizzarsi come un tutto chiuso, senza contatti con l’estero (eccezion fatta per gli intellettuali che devono muoversi per motivi di studio), sostituendo in tal modo all’economia liberale del mercato ed al commercio di scambio mondiale un’economia statale pianificata e l’isolamento economico totale degli stati. Tale chiusura commerciale, continua Fichte, è possibile però solo a patto che lo Stato abbia all’interno dei suoi confini tutto ciò che gli occorre per la fabbricazione dei prodotti necessari e là dove questo manchi lo stato può avocare a sé il commercio estero e farne un monopolio. Questa autarchia economica e sociale ha il vantaggio di evitare gli scontri tra gli stati, che nascono sempre dal contrapporsi degli interessi commerciali.
L’opera di Fichte sul piano politico, un ibrido di teorie libertarie, individualiste e stataliste, esprime la sovrapposizione di due concezioni dello stato, quella liberale classica e quella socialista e, sebbene risulti un’irrealizzabile congerie di utopie, esprime un esigenza storica reale, consistente nella necessità di un intervento attivo dello stato moderno nella vita sociale, volto ad evitare le ingiustizie, la povertà e la disoccupazione.
 L’occupazione napoleonica della Prussia costituisce l’occasione dell’evoluzione definitiva della filosofia politica di Fichte, in senso nazionalistico. Nei celebri Discorsi alla Nazione tedesca (1808), una delle opere più singolari che siano mai apparse sulla scena filosofica, Fichte vela le sue intenzioni polemiche sotto il pretesto del tema educativo. La complessità del mondo moderno, afferma l’autore, richiede da parte dello stato una “nuova” azione pedagogica capace di trasformare radicalmente, in chiave etica, la stessa struttura psicologica dei cittadini. In virtù del suo carattere peculiare, che egli identifica nella lingua nazionale, soltanto il popolo tedesco è in grado di promuovere la “nuova educazione”. Soltanto il popolo tedesco ha mantenuto integra ed incontaminata la propria lingua, scevra da influenze straniere, non come gli spagnoli, gli italiani e i francesi che possiedono lingue ibride, lingue neolatine mescolatesi con quelle degli innumerevoli popoli che hanno abitato sulle loro terre. In conseguenza di ciò i tedeschi sono anche gli unici ad avere una patria nel senso più alto del termine e a costituire un’unità organica nella quale i singoli si riconoscono. Coniugando il discorso patriottico con quello nazionalistico Fichte proclama che soltanto la Germania, sede della grande riforma di Lutero, patria di Leibniz e di Kant, epicentro della nuova arte romantica e della nuova filosofia idealistica, risulta la nazione “eletta” tra le altre a divenire per gli altri popoli ciò che il filosofo vero è per gli altri uomini: una forza trainante, una “guida” ed un “faro” per l’intera umanità. Tale “missione”, da parte della Germania, risulta essere così importante che se essa fallisse l’intera umanità pe-ri-reb-be. (Urca!) Non vi sono vie d’uscita: Se voi cadete, l’umanità intera cade con voi, senza speranza di riscatto futuro.
Tali espressioni non devono trarre in inganno il lettore attento. Noi dobbiamo abituarci a contestualizzare i nostri autori.
Fichte scrive con talento enfatico e con impeto oratorio, per i nostri gusti un po’ troppo retorico, ma dobbiamo ricordarci la situazione in cui furono scritti questi discorsi. Il nuovo spirito romantico, che spingeva alle irrefrenabili esplosioni sentimentali, l’insofferenza per l’invasione napoleonica (Napoleone, oltre ad essere l’invasore, aveva tradito le aspettative di molti giovani intellettuali tedeschi che avevano accolto con favore ed entusiasmo la Rivoluzione Francese) e la guerra che ne derivò, il carattere personale, generoso ed impulsivo del nostro filosofo, sono alcuni degli elementi che possono aiutarci a ridimensionare l’impulso ribellistico nei confronti di simili affermazioni.
In oltre è bene fare subito qualche osservazione.

  • Il “primato” che Fichte assegna al popolo germanico non è di tipo politico, né militare; quando parla di primato, lo intende soltanto in senso culturale e spirituale. Ed il ruolo che la Germania deve giocare è quello dell’esempio.
  • L’interesse che il popolo tedesco deve aver a cuore è non quello privato, ma quello dell’umanità nella sua interezza.
  • Il fine educativo della “Germania maestra” deve consistere nella promozione di valori quali la ragione e la libertà.

Queste osservazioni, doverose, dovrebbero servire a scagionare Fichte dalle accuse mossegli in seguito ad un’interpretazione (testualmente scorretta) dei Discorsi che è stata fatta in senso pangermanista o razzista. Ciò non toglie che, tali discorsi, abbiano esercitato la loro maggiore influenza storica proprio in questo senso. È proprio in senso, non soltanto patriottico, ma apertamente razzista ed aggressivo che il contesto dei Discorsi e parole come “missione”, “primato del popolo integro”, sono divenute parole-chiave dello sciovinismo tedesco, portato ben presto a trasformare la “supremazia” spirituale della nazione tedesca di Fichte in una “supremazia” razziale e di potenza destinata a sfociare nel nazismo del Terzo Reich.
[ Riflessione: possiamo ritenere Fichte colpevole di questo uso improprio che è stato fatto del suo testo?
Il 16 luglio del 1945, nel deserto del New Mexico (USA) presso la località di Alamogordo, il fisico Julius Robert Oppenheimer, coordinatore dei laboratori atomici statunitensi nei quali fisici e chimici studiavano la fissione nucleare, diede il placet alla prima  esplosione atomica. L’effetto, pari allo scoppio di un milione di tonnellate di tritolo, si espresse con un’onda d'urto violentissima, generata dalla liberazione immediata di gas, con un’elevata emissione di calore e una ricaduta di pulviscolo radioattivo (fall-out). In un’intervista rilasciata nel 1962 Oppenheimer, ricordando il momento dello scoppio nel deserto, disse di aver provato un senso di vertigine e di sgomento e di aver ricordato spontaneamente un passo del Mahabharata , il poema epico indiano, in cui Vishnu, apparso in armi, afferma “Ecco. Ora sono un compagno della morte, un distruttore di mondi”.
Il primo impiego a fini bellici della bomba atomica (da non confondere con la bomba H) avvenne a Hiroshima il 6 agosto del 1945. Quattro giorni più tardi, un secondo ordigno fu lanciato sulla città di Nagasaki.
Posiamo ritenere Oppenheimer colpevole del disastro verificatosi?
Lo studioso, scienziato o filosofo, può ritenersi assolto dall’impiego effettivo delle sue produzioni, materiali o teoriche?
La scienza è per sua natura neutrale? Chi non sapeva come sarebbe stata effettivamente usata la sua affermazione o la sua creazione può ritenersi assolto dagli effetti scaturiti? O deve ritenersi colpevole di non aver calcolato i rischi di un impiego aberrante della sua teoria (scoperta o invenzione)? Se diamo risposta, affermativa o negativa, a questa domanda, possiamo non tener conto del fatto che la scienza, così come la filosofia, debbano essere libere di proseguire in nome della ricerca e della libertà, di pensiero e di progresso?
Le due figure, il pensatore tedesco, promotore di una riscossa etica, e d il fisico americano, impegnato in una ricerca scientifica a fini chiaramente bellici, sono storicamente ed ideologicamente distanti. All’una figura è stata accostata in questa sede volutamente l’altra, perché secondo voi? ]
Diciamo che in questa fase politica del suo pensiero, Fichte tende ad accentuare la missione educatrice dello stato, ed in  particolare dello stato tedesco ed a risolvere l’io empirico nel Noi spirituale della Nazione.
III. 1. La Crisi del sistema
A partire dal 1801, con la nuova edizione della Dottrina della scienza,Fichte prende a rielaborare la sua filosofia in varie stesure, allontanandosi, gradualmente ma inesorabilmente, dalle sue primitive affermazioni.
Evidentemente i principi stessi del suo sistema presentavano un problema che egli cercò negli ultimi tempi di risolvere. Tale problema consiste proprio nel rapporto tra finito ed infinito. Con il riconoscimento di un Io infinito nell’uomo, Fichte aveva posto la divinità nell’uomo stesso, escludendo lo stesso concetto di Dio dalla sua filosofia. Col passare del tempo gli interessi filosofici di Fichte si complicano di quegli stessi interessi teologici, da cui è partito in giovane età ed il problema della divinità riaffiora. Se l’uomo, dice, è in qualche misura partecipe della divinità, ciò non significa che la divinità si esaurisca nell’uomo e viva in lui solamente. Questa è una teoria che Fichte elabora negli anni.
Nella prima fase, la sua filosofia era una dottrina dell’infinito nell’uomo; nella seconda fase diviene dottrina dell’infinito fuori dell’uomo. Nella prima fase l’infinito è identificato con l’uomo; nella seconda fase l’infinito è identificato con Dio.
Nella stesura della Dottrina del 1801, egli contrappone l’Assoluto (= l’infinito), come adesso lo chiama, al sapere umano ed al mondo, ai quali tende a toglier gradualmente valore. Tale orientamento mistico si accentua nella Dottrina della scienza del 1804 edizione in cui l’Assoluto è addirittura indicato come il principio di distruzione di ogni sapere e quindi si può cogliere solo misticamente nell’annullamento del sapere stesso, e quindi della coscienza individuale, al cospetto della luce divina.
Nell’elaborazione del 1810 della sua Dottrina, intitolata La dottrina della scienza nel suo disegno generale, l’essere è identificato con Dio, in quanto è uno, immutabile e indivisibile. L’autocoscienza invece è solo un pallido riflesso della divinità. Siamo molto lontani dalla tesi della prima Dottrina della scienza secondo la quale l’autocoscienza era il principio di ogni realtà.
Negli scritti successivi, di carattere più divulgativo, i temi religiosi si fanno più marcati. Nell’Introduzione alla vita beata, Fichte tratta della beatitudine intesa come comunione con Dio, ma rileva che anche in quest’unione Dio non diviene il nostro essere, ma rimane fuori di noi che ne possiamo cogliere soltanto l’Immagine. L’unione con Dio, però, non è mistica contemplazione della pochezza del mondo rispetto all’infinità dell’assoluto, ma è religione come intimo spirito che purifica il pensiero e l’azione: è quindi moralità operante nel mondo. Il pensiero può raggiungere la ri-ve-la-zio-ne di Dio, la possibilità della sua esistenza o la sua immagine; il vero essere di Lui rimane però al di là. In altre parole, l’esistenza di Dio si identifica con l’autocoscienza dell’uomo; ma il modo in cui essa deriva dall’Essere di Dio è e rimane un mistero inavvicinabile.

III. 2. La filosofia della Storia.
Le idee sulla Storia di Fichte esposte in uno scritto del 1806 dal titolo Tratti fondamentali dell’epoca presente. Esse riprendono, come avremo modo di confrontare, quelle del filosofo allievo Shelling esposte nel Sistema dell’Idealismo trascendentale (1800). Fichte sostiene che nella storia dell’umanità si distinguono due stadi fondamentali: uno, lo stadio primordiale, è quello in cui la ragione è ancora incosciente (= l’età dell’innocenza storica), l’altro è quello in cui la ragione emerge e domina liberamente (= l’età della giustificazione e della santificazione). L’intero sviluppo della storia si muove tra queste due epoche ed è il prodotto dello sforzo di passare dalla determinazione dell’istinto alla piena libertà.

III. 3. Fichte nella Storia della filosofia.
Fichte, fu accolto dai contemporanei con entusiasmo. I suoi più fervidi ammiratori furono i Romantici. Shlegel lo indicò quale scopritore del concetto romantico di Infinito e quindi come ispiratore dello stesso movimento letterario. Jacobi affermerà che se Kant è stato il Giovanbattista della nuova età della cultura Fichte ne è certamente il Messia e Hoelderlin scrive all’amico Hegel che Fichte è un Titano nella lotta per l’umanità. I Romantici trarranno da Fichte alcune delle loro più significative convinzioni, il principio dell’infinito e della creatività dello spirito, la dottrina della libertà dell’io, la tesi dell’oggetto come immagine prodotta dal soggetto, il titanismo e la concezione della vita come streben, come continuo sforzo.
La fortuna di Fichte presso i membri del circolo durò poco. Altri idoli erano lì pronti soppiantare Fichte. Goethe, Shelling Hegel lo detronizzarono ben presto. Tuttavia Fichte, fondatore del nuovo movimento idealista, influenzò profondamente i suoi successori dai quali è stato sì identificato come l’antesignano ma anche bollato come il pensatore della “soggettività”, incapace di attingere l’oggetto e la natura (Shelling) oppure la Storia e l’Assoluto (Hegel). In funzione di quest’ultimo Fichte finirà per essere considerato da larga parte della critica. In realtà alcuni temi del primo Fichte, la concezione dello Spirito come attività autocreatrice ed intrinseca eticità torneranno nel neoidealismo di Giovanni Gentile. Ma di là dalle dirette influenze sulla storia del pensiero successivo la vera e profonda influenza del nostro pensatore va ricercata soprattutto nella sua visione attivistica ed etica dell’esistenza, che fa di lui il rappresentante tipico della concezione moderna dell’uomo. L’uomo che interpreta la vita come impegno, missione, dover essere, libertà e movimento, tipica dell’Occidente moderno.

 

 

Schelling

Friedrich W. J. Shelling (1775 – 1854) fu amico di Hoelderlin e di Hegel, con i quali studiò teologia nello Stift (il seminario protestante) di Tubinga, fu amico di Goethe grazie al cui appoggio entrò a Jena come successore di Fichte, dopo le dimissioni di lui. Studiò matematica e scienze a Lipsia. A 24 anni era professore universitario ed a 25 pubblicava l’Idealismo trascendentale (1800), la sua opera più importante. Inizialmente entusiasta del sistema fichtiano, cercò ben presto di piegarlo ai suoi interessi naturalistici ed estetici. Schelling incarnò perfettamente la figura del “genio” romantico; affascinante, di spirito inquieto e dal carattere ombroso, entrò in urto con il suo maestro, Fichte e in polemica anche con l’amico Hegel, suo primo seguace destinato a diventare il suo critico più severo. La brama di assoluto, la scoperta di una provvidenza nella storia dell’uomo sono temi che connotano la sua come una filosofia tipicamente romantica, ma soprattutto Schelling è ricordato per essere il filosofo della natura.
Un discorso su questo autore può essere impostato dividendo la sua filosofia in tre momenti: la Filosofia della Natura, la Filosofia dell’Assoluto, la Filosofia dell’Identità.

La Filosofia della Natura

 La natura è il tema fondamentale della filosofia di Schelling e prende spunto da suggestioni diverse:
1) La cultura filosofica rinascimentale (da Bruno a Spinoza),
2) La teoria dei fini contenuta nella Critica del Giudizio di Kant,
3) La Dottrina della Scienzadi Fichte,
4) Le ricerche scientifiche dell’epoca, sull’elettricità e il magnetismo.
Alla base della sua concezione filosofica della natura, esposta in varie opere, sta il rifiuto dei due tradizionali modelli esplicativi della natura: quello meccanicistico scientifico e quello finalistico teologico.

  • Il meccanicismo è una teoria volta a spiegare l’universo sulla base di leggi meccaniche, impostata sul ferreo determinismo, quale era venuto delineandosi in seguito soprattutto alle scoperte scientifiche del XVII secolo.
  • Il finalismo teologico è al contrario la teoria che intende spiegare l’universo come un atto libero e fuori dal tempo da parte di un creatore (Dio), il quale, per uno scopo che a noi sfugge, ha voluto creare il mondo e le sue leggi.

 
Il primo è incapace, per Schelling, di spiegare la provenienza degli esseri viventi dalla materia inerte, il secondo è inadatto a giustificare l’autonomia dei processi naturali. In conformità a questo doppio rifiuto, Schelling perviene ad una costruzione propria che possiamo riassumere in alcuni punti fondamentali.

1) La natura ha un valore in sé, non è semplice non-Io.
Nonostante parta dalla dottrina di Fichte, Schelling rifiuta, di essa, la concezione della natura come semplice teatro dell’azione morale umana, un semplice non-io. La Natura, afferma, ha la stessa realtà che Fichte aveva conferito all’Io, dunque ha vita e valore essa stessa perché deriva dal medesimo principio che spiega il mondo della ragione e dell’Io (Schelling parla indifferentemente di Io, di ragione e di spirito).

2) Esiste un principio Assoluto, che è il fondamento sia della natura che dello spirito.
Spinoza aveva riconosciuto il fondamento dell’universo nella Sostanza, la Natura, che era il principio oggettivo dell’Universo. Fichte aveva riconosciuto il principio supremo della conoscenza e della realtà materiale dell’Universo nell’Io, un principio puramente soggettivo. Schelling non è convinto da nessuna delle due posizioni, poiché una pura attività soggettiva (l’Io di Fichte) non può spiegare la nascita del mondo naturale, così come un principio puramente oggettivo (la Sostanza di Spinoza) non riesce a spiegare l’origine dello Spirito. Quindi Schelling unisce i due principi (oggettivo e soggettivo) dell’universo, nel concetto di Assoluto. LAssoluto è il fondamento d’entrambi i principi, è qualcosa che può spiegarne sia l’esistenza sia l’essenza ed è, con-tem-po-ra-ne-a-men-te, oggetto e soggetto, natura e ragione.

3) La Natura è spirito e lo Spirito è natura.
Nella loro assoluta identità, o Indifferenza, lo Spirito (intelligenza) e la Natura (materia) sono i due volti del medesimo processo, quindi se la Naturaè spirito visibile, lo Spirito è natura invisibile. In altre parole, la natura è una forma di intelligenza concreta, tangibile, mentre l’intelligenza è una forma di materia spirituale, impalpabile.

4) La natura non lo sa, ma è intelligente.
Contrariamente a quanto affermato da Cartesio (che aveva distinto una res cogitans da una res extensa), la materia non può essere definita in opposizione allo spirito perché essa stessa è intelligente, anche se in maniera non consapevole. Tant’è che la tecnologia umana non riesce, neppure lontanamente, ad imitare i più semplici meccanismi della natura, la cui complessità razionale supera qualsivoglia scienza umana. “Si osservi la regolarità di tutti i movimenti della natura, per esempio, la sublime geometria messa in atto dai corpi celesti […] e nel regno animale, prodotto di cieche forze naturali, osserviamo il sorgere di atti che per regolarità sono paragonabili a quelli compiuti coscientemente […]. Tutto ciò viene spiegato con l’esistenza di una produttività inconscia, ma originariamente affine a quella conscia, di cui noi scorgiamo nella natura il riflesso.”

5) La natura ha un fine, che si evince dalla sua perfetta organizzazione, e questo fine è immanente.
Il doppio rifiuto del “meccanicismo scientifico”, di stampo galileiano, e del “finalismo teologico” cristiano, cui abbiamo accennato, porta Schelling a formulare la propria teoria della natura in senso organicistico, finalistico e immanentistico. La natura, in altre parole, è leggibile, per Schelling, secondo uno schema nel quale ogni parte ha senso soltanto in relazione col tutto (= Organicismo) ; un “tutto” (un universo) che non è dovuto all’incontro casuale di atomi, perché in esso, al di là del meccanismo perfetto delle sue forze, si manifesta una finalità superiore (= Finalismo). Tale finalità tuttavia, non deriva per Schelling neppure da un intervento esterno, da una divinità superiore, ma è interna alla Natura stessa (= Immanentismo). “La natura è un organismo che si organizza da se stesso”.

6) Il principio organizzatore della natura è Immanente, Spiritualee Inconscio.
Parlare in termini di “finalità” della natura significa attribuirle uno scopo (una “programmazione intelligente”). Parlare di “programmazione intelligente” significa presupporre che nella natura agisca un’Intelligenza, la quale è immanente nella natura stessa e agisce, però, in maniera totalmente inconsapevole. Questa entità “inconscia” è la “forza” organizzatrice di cui parlavano già gli antichi, esprimendola in termini di anima mundi. Essendo Spirito, sia pure inconscio, la natura presenta gli stessi caratteri dell’Io di Fichte; essa è un’attività spontanea e creatrice che si esplica in una serie infinita di creature ed agisce attraverso la lotta di forze contrapposte. E, come l’Io fichtiano non poteva realizzarsi se non a patto di dualizzarsi in soggetto e oggetto, così la Natura di Schelling non può fare a meno di polarizzarsi in due fenomeni di base: l’attrazione e la repulsione.

7) La materia è “vita che dorme”. 
Nella natura si manifesta ciò che Fichte ha riconosciuto nell’Io: una tendenza all’espansioneche si arresta di fronte ad un limite. L’arresto è solo momentaneo in quanto la forza espansiva, proprio dal limite che le si oppone, trae la forza per espandersi nuovamente, fino a che non incontra un nuovo limite, e così via.
Nella formulazione del suo modello, Schelling articola la storia del nostro universo in tre diversi “livelli di sviluppo”, che chiama anche “potenze”, rilevando come in ognuno di questi livelli operino le tre forze universali della natura, nelle quali si concretizza la polarità di attrazione-repulsione, che sono il magnetismo, l’elettricità ed il chimismo, cui corrispondono, nel mondo organico, la sensibilità, le reattività e la riproduzione.
Tralasciando la complessa teoria delle “potenze”, complessivamente osservata la natura si presenta come uno spirito inconscio in moto verso la coscienza, un processo di progressiva sma-te-ria-liz-za-zio-ne della materia e di progressivo emergere dello spirito. Questo processo culmina con l’uomo (l’auto-coscienza), che è l’autentico fine della natura. La natura appare a Schelling come la “preistoria dello Spirito”, il quale, attraverso un percorso che va dai minerali all’uomo, si cerca attraverso le cose, per giungere presso di sé con l’uomo. Con l’uomo si ha il più alto e completo ritorno della natura a se stessa.La materia è vita che dorme […] Essa attinge il suo più alto fine, quello di diventare interamente oggetto a se medesima, con l’ultima e più alta riflessione, che non è altro se non l’uomo, o più generalmente ciò che noi chiamiamo ragione […] in tal modo per la prima volta si ha il completo ritorno della natura a se stessa, e appare evidente che la natura è originariamente identica a ciò che in noi viene riconosciuto come principio intelligente e cosciente”. Attraverso l’uomo la materia “pensa se stessa” e raggiunge così il suo scopo.

In virtù di questa visione della natura, molto più poetica che scientifica, Shelling è stato accusato di essersi sterilmente allontanato dai progressi faticosamente conquistati da una scienza della natura che, con Copernico, Galileo e Newton, si era lasciata alle spalle le speculazioni qualitative rinascimentali per approdare a conclusioni quantitative e matematiche. Il suo “romanzo della natura”, com’è stato definito, ha avuto, però, il merito di stimolare nella gioventù tedesca l’interesse per i fenomeni naturali, specie per quelli ancora sconosciuti come l’elettricità ed il magnetismo e per quelli totalmente trascurati dalla scienza illuministica quali l’ipnotismo, la psicologia e così via.
C’è da rilevare che pur parlando di “cammino” della materia e di evoluzione di essa nel senso di una piramide, con alla base la materia inorganica e sulla cima l’uomo, Schelling non deve essere considerato un evoluzionista. I diversi “gradi” evolutivi, di cui parla, non sono gradi temporalmente successivi dell’universo, ma momenti puramente ideali e quindi simultanei dell’organizzazione dialettica della natura, i cui la materia e l’uomo non compaiono in momenti consecutivi della storia del mondo ma rappresentano due momenti ideali dell’Assoluto, di quell’unità originaria che è da sempre Natura e Spirito. La filosofia di Schelling però ha fatto da supporto metafisico per tutte le teorie evoluzionistiche del XIX secolo. Sarà sufficiente, per alcuni pensatori che incontreremo più avanti, prospettare in termini temporali ciò che in Schelling era ancora pensato in termini metafisici, per configurare un sistema teorico di stampo evoluzionistico.

La filosofia dell’Assoluto

Dopo aver mostrato il percorso della natura per giungere all’intelligenza Schelling intende ripercorrere il cammino al contrario, dall’intelligenza alla natura, scoprendo come la coscienza si renda edotta (= consapevole) del processo da cui deriva. Nel suo scritto più sistematico, l’Idealismo Trascendentale, redatto in giovanissima età (1800), egli traccia, in termini oscuri e quasi magici, la filosofia dell’Assoluto, nella quale si propone di delineare quella filosofia trascendentale che costituisce la controparte della filosofia della natura. L’essenza dell’Assoluto è individuata nella rinascimentale unità degli opposti. L’Assoluto è ribadito come Identità in-dif-fe-ren-zia-ta di Io e non-Io, di ideale e reale, di soggetto e oggetto. L’assunto fondamentale è lo stesso cui perveniva nella sua filosofia della natura: Io e Natura sono la stessa e medesima cosa.

1) Punto di partenza del “viaggio a ritroso” di Schelling (che è anche il punto d’arrivo dalla filosofia della natura) è l’auto-coscienza, ossia “il sapere” che l’Io ha di se stesso.
Anche per Schelling tale auto-coscienza, com’era per Fichte, ha la forma di un’Attività-auto-creatrice, in virtù della quale l’Io, nel momento in cui conosce se stesso, produce o istituisce se stesso (e tramite sé, tutti gli oggetti).

2) L’autocoscienza è attività che passa tre fasi di sviluppo, al cui culmine sta l’intelligenza.
Schelling intende seguire il percorso compiuto dall’Io, ossia del soggetto che arriva progressivamente a prender coscienza di sé come attività produttrice (come intelligenza che determina se stessa) e rintraccia tre “epoche” dell’Io. Queste epoche, che chiama anche “fasi”, vanno dalla sensazione(= il puro sentire o patire un limite,= un dato, davanti a sé) alla riflessione o l’accorgersi di sentire un limite (= il riflettere su di sé riconoscendosi come essere senziente e prendendo progressivamente coscienza della propria attività), fino alla conoscenza di sé che è l’intelligenza. Quest’ultima fase, è quella in cui l’Io si coglie come attività in grado di auto-determinarsi e tale auto-determinazione si ha completamente quando l’Io produce un atto volontario. L’attività conscia si manifesta nella coscienza della volontà. Questa è anche l’origine della morale.

3) La filosofia pratica (morale) inizia con il culmine dell’attività teoretica.
Nella sua fase finale, l’intelligenza si riconosce come volontà. La terza epoca, realizzandosi in una molteplicità di soggetti coscienti e volenti, che si manifestano gli uni agli altri, si concretizza così nella morale (che rivendica la libertà dell’agire) e nel diritto (che si arroga la legalità e la necessità del sottostarvi). Nel mondo umano nasce l’antitesi di libertà e necessità che richiede di essere composta in una sintesi superiore. Una prima composizione di quest’antitesi è rappresentata dalla Storia, nella quale agisce una forza superiore agli uomini, i quali s’illudono di operare liberamente, ma in realtà obbediscono ad un disegno.

4) A questo punto però la domanda sorge spontanea.
La domanda è la stessa che ci siamo posti a proposito di Fichte: “Gentili idealisti, Voi affermate che l’oggetto non sia altro che una produzione del soggetto, giusto? Allora come mai noi, poveri mortali, abbiamo l’impressione di vedere, sentire, odorare e di interagire con qualcosa di preesistente a noi o di esistente indipendentemente da noi?” La risposta di Schelling, analoga a quella di Fichte, può essere riassunta così: “voi, poveri mortali, pensate che gli  oggetti siano indipendenti soltanto perché l’Io li genera inconsciamente tramite la fichtiana “immaginazione produttiva” (che Schelling chiama “produzione inconscia”). “L’idealismo trascendentale” di Schelling è da ritenersi, insomma, una sorta di presa di coscienza di quel produrre inconscio dello spirito, in cui è da ricercarsi la radice soggettiva degli oggetti.
D’accordo, ma la pretesa idealistica che sia il soggetto a produrre l’oggetto non contraddice la premessa di Schelling di una natura come “valore-in-sé” e non come semplice non-io?. No, risponde Schelling, nessuna contraddizione dato che l’Io e la natura sono la stessa cosa, sono entrambi l’Assoluto!!! La natura ha valore quanto l’Io perché è Io-inconsapevole, è il lato inconscio dell’Io ma è vero quanto l’Io stesso.

5) L’arte è una forma di conoscenza dell’assoluto, poiché racchiude in sé natura e intelligenza, conscio e inconscio.
Il filosofo idealista si assume il compito di mostrare all’Io conoscente la perfetta identità tra l’attività inconscia, che ha prodotto l’oggetto (la Natura) e quella conscia (lo Spirito) che si manifesta nella volontà. Un esempio concreto di perfetta unità tra i due momenti è l’Arte, un’attività umana nella quale si armonizzano completamente spirito e natura, il produrre conscio e quello inconscio. L’arte per Schelling è lo strumento perfetto della filosofia.
Inserendosi nell’ambito dell’estetismo romantico, Schelling ritiene che l’arte sia “ l’organo” di rivelazione dell’Assoluto. L’opera d’arte si presenta come perfetta sintesi di un momento inconscio, spontaneo (l’ispirazione) e di un momento conscio e meditato (l’esecuzione cosciente e la tecnica). Inoltre il “genio” artistico si concretizza in produzioni “finite”, suscettibili però di una lettura ed a interpretazioni “infinite”, da parte del fruitore, della quale lui neppure l’artista è consapevole. L’opera d’arte è una “porta” attraverso la quale si apre uno spiraglio che ci consente uno sguardo sull’infinito. Il poeta è una replica umana, una personificazione materiale di quel poeta cosmico che è l’Io, che genera in modo conscio e inconscio al tempo stesso. La filosofia è la sola scienza in grado di riconoscere all’arte il valore di “sapienza dell’Assoluto”, sapienza basata sull’intuizione immediata di esso. L’arte è quel luogo privilegiato dove la filosofia potrà ritrovare la postulata identità tra produttività inconscia e quella conscia.

La Filosofia dell’Identità.

Il problema che si pone in quella fase di pensiero di Schelling che va dal 1801 al 1804, definita “filosofia dell’Identità” o filosofia dell’Indifferenza, è quello, antichissimo, di spiegare come dall’Uno, indifferenziato, discendano i molti e come dall’Eterno derivi il tempo; ossia come da un Assoluto ed identico possa provenire la molteplicità e la differenziazione delle cose del mondo. E Perché?
Le domande che il filosofo si pone in questo periodo sono fondamentalmente queste:
a) da dove proviene la possibilità ontologica del finito e del mondo?
b) da dove la possibilità ontologica del male nel mondo?
c) da dove la possibilità ontologica della libertà nel mondo?
Nonostante la lezione di Kant, la metafisica è ancora una grande tentazione!

1) Il passaggio dall’Infinito al Finito.
Nel dialogo Bruno o sul principio divino e naturale delle cose (1802) Schelling afferma che dall’infinito al finito non possa esservi passaggio, se non ammettendo che il finito si trovi già nell’infinito. Il finito è insomma in qualche modo già in Dio, solo che vi è sottoforma di un sistema di idee, sottratto ai limiti dello spazio e del tempo (una specie di mondo delle idee platonico).

2) La teoria del “dio che diviene”.
Questo però non spiega perché l’infinito sistema di idee divine si venga specificando nella molteplicità delle creature viventi e delle cose del mondo, in altri termini, la teoria ci dice che il molteplice è già presente nell’infinito (Dio) ma non ci da ragione del come e, soprattutto del perché, da Dio derivi il mondo. Abbiamo sostenuto che nel dialogo Bruno egli afferma che dall’infinito al finito, dall’Assoluto al Relativo non possa esservi alcun passaggio ma soltanto rottura, salto o “caduta”. Ma come spiegare tale salto?
Tre sono le possibilità escogitate dai filosofi, sin dagli inizi, per spiegare la possibilità ontologica del mondo.

  • Il Teismo creazionista (= la tesi di un Dio, Personale e Creatore, adottata dalla religione ebraico-cristiana).
  • L’Emanazionismo di stampo neoplatonico (= la tesi di un Dio da cui emana l’universo per gradi, propria di Plotino).
  • Il Panteismo tradizionale (= la tesi dell’identità Dio-mondo, propria del sistema di Spinoza e di tutti i sistemi che riconoscono la divinità e l’infinità dell’universo stesso, compresa la materia che lo compone).

Nessuna di queste, secondo Schelling, è in grado di spiegare il salto dalla statica perfezione divina al mondo del molteplice e dell’imperfetto, dalla pace divina al male e al dolore nel mondo e soprattutto di fornire una motivazione del perché ( un perché in grado di soddisfare la ragione).

Nello scritto Filosofia e Religione (1804) egli allora cerca di imboccare una via nuova, pervenendo in sostanza ad una nuova forma di Panteismo.
Partendo dal fatto che il concetto di un Dio Assoluto (aristotelico o cristiano, inteso come identità statica, perfetta e già realizzata nella sua perfezione) non è in grado di dare ragione di un mondo finito e del male che vi è nel mondo, non rimane altra via, alla ragione, che cambiare il concetto stesso di Assoluto, interpretando Dio non più come una realtà statica e già perfetta, ma come una realtà  dinamica e perfettibile, una realtà in divenire (= in cammino verso la perfezione). Dio, per Schelling, è la sede di una serie di opposti, contiene in sé una contrapposizione dialettica di contrari (irrazionalità/razionalità, necessità/libertà, egoismo/amore) che, nel loro opporsi reciproco, danno luogo ad un processo che si concretizza nel mondo, il quale è il teatro di un progressivo, ma inesorabile, affermarsi del positivo sul negativo, del razionale sull’irrazionale.
Come nell’uomo esiste un lato oscuro e irrazionale accanto ad un lato razionale, così in Dio vi è un fondo inconsapevole e oscuro, irrazionale che si manifesta come Desiderio di essere (che Schelling chiama “l’Abisso” o “la Natura”), accanto ad una Ragione consapevole (che Schelling chiama l’essere). Come nell’uomo la ragione, affiora dalla vittoria sull’impulso irrazionale così in Dio, l’essere emerge dalla natura irrazionale, che è il punto di partenza di Dio.

  • La natura è il primo gradino di questo processo della formazione di Dio. La Natura per Schelling è allora il sostrato, il fondamento di Dio a partire dal quale Dio si fa Dio. Il quale smette di essere il “motore immobile”, trascendente, fuori dei giochi e si configura come Dio vivente, un dio che non è (già fatto, tutto intero e perfetto), ma che diviene, tramite un processo in fieri che è la progressiva vittoria della razionalità sull’irrazionalità, della libertà sulla necessità, dell’amore sull’egoismo. Questa concezione di dio, non statica ma dinamica, spiegherebbe per Schelling l’origine del mondo ed il suo destino: La creazione (l’universo) per Schelling sgorga dal volere inconscio di Dio e dal suo oscuro “desiderio di essere” e rappresenta un momento necessario della vita divina, che non può fare se stessa se non facendo, al tempo stesso, il mondo.
  • La storia umana è il secondo gradino di questo processo di auto-formazione di Dio.

Attraverso la storia degli uomini, che è una sintesi di libertà e necessità, Dio stesso si rivela come regista di un dramma nel quale gli uomini recitano a soggetto. Collocandosi nell’orizzonte del provvidenzialismo romantico Schelling sostiene l’esistenza di un disegno che si va delineando gradualmente nel tempo. A tale disegno, anticamente, era stato assegnato il nome di destino, esso è stato poi interpretato come meccanicismo e determinismo e in età romantica si rivela esplicitamente come provvidenza, che attua il suo disegno nel mondo, mondo che è una vivente teofania (Theos-Phanos = manifestazione di dio).

  • Il fine ultimo di questo disegno è la completa realizzazione di Dio nel mondo, il definitivo compimento della razionalizzazione del mondo, della consapevolezza umana e della pace perpetua sognata da Kant.

Dopo un silenzio durato quasi quarant’anni, al quale fu portato dal successo del sistema di Hegel, Schelling tornò ad insegnare a Berlino, presso la cattedra che era stata di Hegel ed il suo ritorno suscitò tanto scalpore che alle sue lezioni interverranno ad ascoltarlo personaggi destinati a divenire ben presto celebri, come Feuerbach, Kierkegaard, Engels e Bakunin, che diverranno però anche i suoi più feroci critici. Avversato duramente da Shopenhauer e dagli scienziati, che bolleranno le sue “fantasie”, egli fu dimenticato a lungo dagli storici della filosofia e ritenuto un semplice Ponte di passaggio verso Hegel. Soltanto in questi ultimi anni la filosofia di Schelling è stata ampiamente rivalutata. Non dimentichiamo che l’idea di una finalità immanente della natura, ossia l’idea di un fine inconscio interno ai fenomeni naturali (senza che essi siano stati consapevolmente programmati in vista di uno scopo), continua ad offrire un’originale alternativa metafisica a quegli scienziati o a quei filosofi che, pur rifiutando l’ottica meccanicistica non accettano la nozione di un Dio artefice.

 

 

Glossario minimo

  • “Meccanicismo scientifico” = E’ un termine filosofico e scientifico usato per indicare una concezione del mondo che riduce i parametri esplicativi della realtà a due solamente: la materia e il movimento. Il meccanicismo, che riconosciamo già in Democrito, evidenzia la natura esclusivamente corporea di tutti gli enti, unita al loro comportamento motorio esclusivamente di tipo meccanico. La formulazione più celebre del meccanicismo è quella di Cartesio, in quanto la sua res extensa, distinta dalla spirituale res cogitans, è caratterizzata da un meccanicismo deterministico assoluto, che riguarda non solo la materia inanimata, ma anche gli animali diversi dall'uomo, visti dal filosofo come pure “macchine”. Il nesso con la matematica e il calcolo è ciò che differenzia il meccanicismo moderno da quello antico. L'universo viene considerato guidato dalle leggi della dinamica di Newton.

 

  • “Finalismo teologico cristiano” = L’orientamento insito nella religione cristiana ad attribuire al creatore l’imposizione di uno scopo alla sua creazione, di un fine ultimo all’esistenza e di una provvidenza che guida le azioni degli uomini.
  • Teismo creazionista = per Teismo s’intende la credenza in un Dio personale, trascendente, creatore e provvidente. Al termine si contrappongono il panteismo ed il deismo. Come conseguenza del teismo il mondo è inteso come libero atto di creazione da parte di dio, che si oppone all’emanatismo. L’influsso del creazionismo in ambito antropologico si esaurì intorno alla metà del XIX secolo, con l’affermazione della teoria evoluzionistica che postulava l’esistenza di cause naturali invarianti come fattori di trasformazione in campo naturalistico e socio culturale.

 

  • Emanazionismo = Teoria filosofica orientale, conosciuta anche come Emanatismo, fatta propria dal platonismo, secondo la quale gli esseri del mondo derivano da dio attraverso un processo di “emanazione”, ossia di una  irradiazione spontanea (non un libero atto volontario dunque) e continua della potenza assoluta di dio, che fa sorgere gli enti restando uno e immutabile.
  • Panteismo = (Dal greco Pan = tutto e Theos = Dio), letteralmente “Dio è tutto” e “tutto è Dio”. È la visione per cui l’ universo o la natura sono equivalenti a Dio. Definizioni più dettagliate tendono ad enfatizzare l'idea che la legge naturale, l’esistenza e l’universo stesso (la somma di tutto ciò che è e che sarà) sono identificabili con quel principio che la teologia identifica con dio. In senso lato, con “panteismo” s’intende ogni dottrina filosofica che identifichi Dio con il mondo o con il principio che lo regge. Per la precisione, il concetto, che si traduce nella formula “Dio è uno e tutto”, è interpretabile in due modi: a) visione cosmicistica, che afferma “Dio è nel Tutto” e quella acosmistica (il termine è di Hegel) che afferma “Il Tutto è in Dio”. Nel primo caso, come nello stoicismo, Dio impregna e pervade l'universo in ogni sua parte. Nel secondo caso, come nello spinozismo, l'universo in ogni sua parte rifluisce e si scioglie in Dio, quale “Uno e Tutto”.

 

  • Acosmismo = E’ il termine coniato da Hegel nella sua Enciclopedia per designare la dottrina panteistica di Spinoza, che negava l’esistenza separata del mondo, risolvendolo nell’unica sostanza divina. In senso esteso il termine è usato per indicare qualunque dottrina che neghi l’esistenza di una realtà esterna rispetto al soggetto conoscente (come ad esempio la concezione di Berkeley).
  • Deismo = E’ un movimento che si afferma verso la fine del XVII secolo, in Inghilterra, Francia e Germania e che fa riferimento ad affermazioni che furono già di Pascal le quali intendono distinguere una religione naturale o razionale da una positiva o storica. Il deismo nasce in opposizione al cristianesimo ed a tutte le altre religioni confessionali, in quanto la divinità per i deisti deve pensabile soltanto con la ragione rifiutando ogni dogma che con essa contrasti e prescindendo da qualsiasi rivelazione o presunta tale.

 

  • Teleologia = (Dal greco telos, “ scopo”) significa “la scienza dei fini” ed è la dottrina che rilevando uno scopo, una direttiva, un principio, una finalità dietro le leggi e i fenomeni naturali, postula l'esistenza di un principio organizzativo  e giustifica l'esistenza Dio, inteso come creatore ed architetto dell'universo, garante ultimo della causalità dei fenomeni.
  • Trascendente = dal latino transcendere, composto di trans (oltre) e ascendere (salire). La trascendenza è la qualità di ciò che va oltre i limiti, in opposizione ad immanente. Il termine trascendente si riferisce ad una realtà “ulteriore”, che va “al di la” rispetto a questo mondo, a partire dai Neoplatonici identificata con dio stesso.

 

  • Trascendentale = 1) Riferito alla filosofia di Kant è il sistema che intende occuparsi “del nostro modo di conoscere gli oggetti”. Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori.  In Kant il termine Trascendentale intende riferirsi al meccanismo formale della conoscenza, prescindendo dal contenuto di essa: cioè vuole spiegare non che cosa conosciamo ma come avviene la conoscenza. 2) L'idealismo con questo termine intende collegarsi all’Io penso kantiano quale principio della conoscenza trasformandolo però in un principio costitutivo, materiale, della realtà stessa. Trascendentale è dunque l'atto con cui l’Io crea il mondo. Atto che non può essere dimostrato per via razionale, ma va postulato.
  • Intuizione intellettuale idealistica = è quella forma di sapere in cui coincidono soggetto ed oggetto, intuente ed intuito per la quale l’io, conoscendo se stesso, nello stesso tempo costruisce se stesso.

 

  • Ontologia = è una delle branche fondamentali della filosofia, è lo studio dell’essere in quanto tale, nonché delle sue categorie fondamentali.

Il termine deriva dal greco ὄντος, òntos (genitivo singolare del participio presente ὤν di εἶναι, èinai, il verbo essere) e da λόγος, lògos (discorso) letteralmente “discorso sull’essere”.

 


Lo spirito coincide con l’umanità, intesa non come razza biologica particolare ma come attività razionale e autoconsapevole la quale potrebbe anche venire da Plutone ed avere due teste. N.d.R.

Abbagnano-Fornero, filosofi e filosofie nella Storia, vol. 3. Paravia, pag. 53.

Fichte era intervenuto in difesa della tesi che l’ateismo non coincide con l’immoralità e che, se l’Etica costituisce il nucleo essenziale di ogni religione (secondo anche i principi di Kant), si può allora essere religiosi, in altre parole virtuosi, anche senza credere in Dio.

 J.G. Fichte,  La  Dottrina della Scienza, (raccolta delle opere intorno alla dottrina della scienza) Laterza Bari 1971.

Guido De Ruggiero, Storia della Filosofia. “L’età del romanticismo”, Laterza, Bari 1968, vol. I, pp. 175-176.

Provando e Ri-provando diceva Galileo Galilei (dove il riprovando non sta per “provare una seconda volta”,  ma nella confutazione della prova stessa, solo così si avrebbe la certezza).

              Pancaldi, Trombino, Villani, Philosophica, 3°, Marietti, 2007. p. 50.

Ricordiamo ancora una volta che non-io è sia il mondo esterno a noi ma anche il nostro corpo, con i suoi appetiti che spesso regolano le nostre azioni.

J.G. Fichte Opere,VII, p. 7.

Ricordiamo che questa è la posizione di Platone nella Repubblica.

  J.G.Fichte, “Rivendicazione della libertà di pensiero”. Comparso anonimo nel 1793.

J.G.Fichte, “Contributo per rettificare il giudizio del pubblico sulla rivoluzione francese”. Comparso anonimo nel 1793.

Non dimentichiamoci che Fichte, pur di difendere un amico di cui condivideva le posizioni, non aveva esitato a lasciare un’importante carriera universitaria a Jena, così come non ci pensò due volte a dire a svariati padri di famiglia cosa pensasse dei loro metodi educativi nei confronti dei figli, ai quali faceva da precettore quando era a Berlino.

  Mi è stato fatto notare, da un allievo attento nel corso di una lezione, come anche per il noto fisico siracusano Archimede, potrebbe valere l’accusa di essersi reso (indiretto o diretto?) colpevole dell’impiccagione di un orafo. Sospettato quest’ultimo, da re Gerone di Siracusa, di essersi impadronito di parte dell’oro affidatogli per forgiare una corona, venne incaricato Archimede, scienziato di corte, di scoprire l’inganno. Pesare la corona era ovviamente inutile, dato che la quantità d’oro, sottratta eventualmente, poteva essere stata sostituita con metalli meno pregiati, come l’argento. Occorreva invece calcolarne la densità, oggi diremmo il peso specifico, questa sarebbe stata ben diversa - come sapeva Archimede - se si fosse trattato di una lega invece che di oro puro. Il mistero fu risolto quel famoso giorno, noto a tutti, in cui Archimede decise di recarsi alle vasche di Siracusa per farsi un bagno. Una volta immersosi nell’acqua calda, egli, particolarmente in vena scientifica quel giorno, constatò che il suo peso aveva fatto traboccare d’acqua la vasca, scoprendo la famosa legge che riguarda il volume di un corpo immerso in un liquido e così via. L’aneddoto, riportato da Vitruvio, continua regalandoci un Archimede che corre nudo per le strade di Siracusa,  urlando “Eureka”, tra lo stupore dei concittadini. L’episodio della vasca, con formulazione conseguente della legge fisica, bastò allo scienziato per decifrare il mistero della corona, la quale, in base alla misurazione della sua densità, si scoprì essere forgiata con minor quantità d’oro rispetto all’argento e, inutile dirlo, l’orafo, per volontà del sovrano fu messo a morte. Ora, nella catena degli eventi, chi si è reso colpevole dell’impiccagione dell’orafo? Archimede, che ha scoperto, per abduzione, la legge del volume dei solidi, il sovrano che ha deciso di mettere a morte l’orafo o l’inventore della vasche da bagno? Oppure l’orafo stesso che si è fregato da sé non calcolando che la sua frode ai danni di un re, una volta scoperta, non poteva che portare ad esiti per lui infausti?

  Idee par una filosofia della natura, del 1897, Dell’anima del mondo, del 1798, il dialogo Bruno, o del principio divino e naturale delle cose.

È questo un principio già presente nella teoria Politica di Aristotele, dove il tutto è lo Stato, lo vedremo meglio in Hegel.

 

Fonte e sito web da visitare : http://keynes.scuole.bo.it/~miglioli/

File : http://keynes.scuole.bo.it/~miglioli/kant/IDEALISMO%20FICHTE%20E%20SCHELLING.doc

 

Autrice : Ornella Miglioli

 

L'IDEALISMO TEDESCO

1. Romanticismo e Idealismo

                Per comprendere lo sviluppo del pensiero filosofico negli anni che seguirono la pubblicazione della grande trilogia critica kantiana, occorre considerare due elementi: la vivace discussione suscitata dalla filosofia critica di Kant e la nascita del Romanticismo, movimento culturale sorto in Germania negli ultimi decenni del Settecento, e affermatosi in tutta Europa fino alla metà del XIX secolo. E' in questo scenario che scaturì e si affermò, in ambito filosofico, l'Idealismo tedesco, che conobbe, quali suoi massimi esponenti, Fichte, Schelling e Hegel.

                L'Idealismo tedesco traduce, in ambito filosofico, importanti motivi ispiratori di quel più vasto movimento letterario, artistico e musicale che fu denominato Romanticismo e che, dall'area tedesca, ben presto trovò interpreti in tutta Europa, particolarmente in Inghilterra, in Francia e in Italia. Tali motivi ispiratori si possono compendiare nella tensione a considerare la realtà dal punto di vista dell'Infinito, del Tutto, dell'Assoluto.

Il sentimento romantico della vita consiste essenzialmente in un'aspirazione all'infinito, che si scontra tuttavia con i limiti della realtà empirica: emerge così l'esigenza di collocarsi dal punto di vista dell'infinito stesso, per attingere con immediatezza il principio che fa vivere e unifica tutta la realtà... Il pensiero dell'età romantica è unitario nel suo problema centrale: quello... di ritrovare un accesso all'assoluto, che consenta di ristabilire un rapporto immediato fra l'assoluto stesso e il finito colto nella sua immediatezza, e quello del rapporto tra l'infinito e il finito.

                L'Idealismo, oltre a ispirare o interpretare queste istanze romantiche, nasce dall'esito del dibattito suscitato in Germania dalla filosofia kantiana; in particolare, dalla discussione intorno alla cosa-in-sè. Come è noto, Kant aveva operato, in merito all'oggetto, la celebre distinzione tra fenomeno e noumeno. Il fenomeno è l'oggetto conoscibile, il noumeno è inconoscibile e tuttavia pensato come esistente. I primi seguaci e critici di Kant (Reinhold, 1758-1823; Schulze, 1761-1833; Maimon, 1753-1800; Beck, 1761-1840) notarono immediatamente, come già del resto Jacobi (1743-1819), che questa posizione dualistica era problematica. In primo luogo, come è possibile ammettere l'esistenza di un oggetto (la cosa-in-sé) inconoscibile? In secondo luogo, come può la cosa in sé essere causa delle nostre sensazioni, se il concetto di causa è applicabile ai soli fenomeni? Questa aporia condusse al tentativo di superare il dualismo kantiano e a ricercare un unico fondamento del rapporto soggetto-oggetto, fino a negare l'esistenza della cosa in sé.

                E' solo con Fichte, tuttavia, che la negazione dell'esistenza della cosa in sé superò l'orizzonte del criticismo kantiano e inaugurò la stagione dell'Idealismo.

 

2. Che cos'è l'Idealismo

                Il termine Idealismo ha assunto, nel corso della storia del pensiero, diverse accezioni. Kant, nella seconda edizione della Critica della Ragion pura, definisce l'idealismo: “quella teoria, che dichiara l'esistenza degli oggetti nello spazio fuori di noi o semplicemente dubbia e indimostrabile, o falsa e impossibile” (Critica della Ragion pura, p. 229). Nel primo caso si tratta dell' "idealismo problematico" di Cartesio, nel secondo dell' "idealismo dogmatico" di Berkeley.
Per parte sua, Kant sostiene che la sua stessa dottrina, secondo la quale tutti gli oggetti di un'esperienza a noi possibile sono semplici fenomeni, può essere chiamata "idealismo trascendentale".
Questa definizione è ripresa e accolta dal primo Idealismo tedesco e, in particolare, da Fichte, che definisce appunto la propria filosofia "Idealismo trascendentale"; ma il significato ormai non è più quello originario kantiano. Anche Fichte, come Kant, afferma che, nel rapporto tra soggetto e oggetto, è l'oggetto ad essere modellato dal soggetto e dunque ad essere conosciuto come "fenomeno"; diversamente da Kant, invece, Fichte non ammette l'esistenza della "cosa-in-sé", da lui ritenuta un residuo dogmatico, cioè una concessione indebita al realismo, non coerente con l'impianto trascendentale della filosofia kantiana.
Con il pensiero di Fichte e, immediatamente dopo, con quello di Schelling, si apre dunque la grande stagione dell'Idealismo tedesco.

 

Fonte: http://xoomer.virgilio.it/eliseo.poli/idealismo.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Idealismo

SIGNIFICATI DEL TERMINE
Si parla di idealismo a proposito di quelle visioni del mondo che privilegiano la dimensione ideale su quella materiale.
La parola è usata prevalentemente per alludere:

  1. Alle varie forme di idealismo gnoseologico, intendendo tutte le posizioni di pensiero che finiscono per ridurre l’oggetto della conoscenza ad idea o rappresentazione.
  2. All’idealismo romantico o assoluto, che costituisce la grande corrente filosofica che ha avuto numerose ramificazioni nella filosofia moderna, in cui l’Io o lo Spirito è il principio unico di tutto e fuori di esso non c’è nulla, affermazione chiave di questo idealismo.

CARATTERI GENERALI
L’idealismo sorge quando Fiche, spostando il discorso dal piano gnoseologico (conoscere) al piano metafisico (essere), abolisce la cosa in sé, che diviene un’entità creatrice.
Da ciò la tesi tipica dell’idealismo tedesco, secondo cui “tutto è Spirito”.
Dialettica: concezione secondo cui non essendoci mai, nella realtà, il positivo senza il negativo, la tesi senza l’antitesi, lo Spirito, proprio per essere tale, ha bisogno di quella antitesi vivente che è la natura.
Lo Spirito è causa della natura, che esiste solo per l’io e in sua funzione.
La chiave di spiegazione del mistero dell’universo è scoperta dal filosofo idealista e si identifica nell’uomo stesso, ovvero nello Spirito, che coincide con l’Assoluto e con l’Infinito.
Gli idealisti pensano che l’uomo sia il re del creato.
L’unico Dio possibile è lo Spirito dialetticamente inteso.
Con l’idealismo ci troviamo di fronte ad una forma di panteismo spiritualistico: Dio è lo spirito operante nel mondo, cioè l’uomo.
L’idealismo è anche una forma di monismo dialettico: esiste un’unica sostanza, lo Spirito.
Gli idealisti si differenziano fra di loro per la specifica modalità di intendere l’Infinito e i suoi rapporti con il finito.

 

Fonte: http://appuntigratis.altervista.org/filideal.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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