Africa arida geografia regionale
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Corso di Geografia Regionale:
Africa arida, ambiente e sviluppo
Prof.ssa Maria Luisa Gentileschi
Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università di Cagliari
Materiali
Elenco:
1) Appunti dalle lezioni e figure
2) Letture:
- Barbina G., Le città saheliane dell’ansa del Niger
- Barbina G., I cambiamenti del comportamento umano in un’area a rischio
- Faggi P., La desertificazione
- Marazzini P., Il “cammino” di Bamako (Mali)
- Migliorini P., Cause e concause della crisi ecologica del Sahel
Appunti dalle lezioni del Corso di Geografia regionale (Geografia dell’Africa arida)
(anno 2005-06)
(Prof.ssa M. Luisa Gentileschi)
“La fame, i diluvi e la peste sono ne’ provvedimenti della natura come la sterilità di un campo, che prepara l’abbondanza per l’anno seguente” (Ugo Foscolo)
Climi ed ecologia delle terre asciutte
L’Africa, per la sua vastità e la sua posizione geografica, presenta una notevole varietà di climi. Semplificando, il continente si può dividere in due parti, l’Africa umida, che fa parte dei Tropici umidi, e l’Africa arida, che rientra invece nelle aree tropicali poco piovose. Questa divisione è basata sui caratteri del clima, componente ambientale che costituisce una importante pre-condizione dello sviluppo delle popolazioni umane. In queste regioni la carenza d’acqua è il limite principale allo sviluppo, ma ciò non equivale a dire che una volta procurata l’acqua tutte le possibilità siano aperte.
In luogo del termine “arido” si usa talvolta la parola “asciutto”. Il primo è un termine specializzato, basato sul concetto di aridità, mentre il secondo è generico e si riferisce all’insieme delle terre dove piove poco. L’aridità è un rapporto tra la quantità di precipitazione di una regione e l’evapotraspirazione, ossia la perdità di umidità dal suolo attraverso l’evaporazione dal terreno e la traspirazione da parte delle piante. Se la temperatura è elevata, l’evapotraspirazione sarà più rapida e quindi più accentuata sarà la situazione di deficit idrico delle piante. Con la medesima quantità di precipitazione possiamo avere, nell’agricoltura di un paese temperato o freddo, una situazione di equilibrio per il fabbisogno delle piante coltivate, mentre in una regione con temperatura elevate si avrà una situazione anche fortemente squilibrata o addirittura l’impossibilità di coltivare alcunché. Ancora, conta molto il modo in cui le precipitazioni sono distribuite durante l’anno. Piogge violente e brevi – tipiche di questi climi - daranno pochi vantaggi alla vegetazione spontanea e alle colture e forse provocheranno disastri.
La classificazione dei climi distingue diversi gradi di “secchezza” del clima, di cui l’indice di aridità fornisce una misura confrontabile (I = P/ETP, dove P è la precipitazione annua, e ETP l’evapotraspirazione potenziale; si usa il termine “potenziale” in quanto si ipotizza la perdita di umidità dal suolo che si avrebbe se le riserve idriche del suolo venissero costantemente rinnovate e in presenza della vegetazione climax di quella zona; in sostanza l’EPT è l’acqua necessaria alle piante) :
- clima semiarido: si verifica una (o anche due) breve stagione umida e la vegetazione è presente, ma soffre, in una parte dell’anno, per mancanza d’acqua, cui peraltro si adatta. L’indice di aridità è compreso tra 0,20 e 0,50; la vegetazione è caratterizzata dalla steppa, dalla gariga e dalla macchia sub-tropicale; le terre semiaride possono essere utilizzate sia dall’agricoltura seccagna (cfr. in seguito) sia dall’allevamento nomade; la piovosità supera i 400-500 mm l’anno;
- clima arido, l’indice di aridità è tra 0,03 e 0,20; le piogge sono molto aleatorie ma spesso si concentrano in una breve stagione umida; la vegetazione è scarsa, quasi soltanto stagionale; vi si può praticare l’allevamento nomade ma non l’agricoltura seccagna; il limite inferiore è sui 100 mm di pioggia l’anno, quello superiore sui 400-500;
- clima iperarido: è quello dei “veri” deserti, dove possono passare annate intere senza pioggia, ma anche possono verificarsi piogge torrenziali; sono presenti solo piante effimere che spuntano dopo le piogge e cespugli lungo i corsi d’acqua; l’indice di aridità è <0,03. Per chi proviene dalle zone aride, il deserto è preceduto da una fascia di pre-deserto, che ha clima arido.
Inoltre, si distinguono i climi a inverno freddo e quelli a inverno caldo.
Un comune atlante scolastico vi mostra la distribuzione dei climi aridi sulla Terra. In Africa sono presenti diversi deserti, che si possono classificare, in base alle cause geografiche dell’aridità, nel modo seguente: deserti latitudinali, i più grandi, in corrispondenza delle fasce di subsidenza macroclimatica dei tropici, del Cancro (Sahara e Deserto Libico, insieme quasi 8 milioni di kmq ) e del Capricorno (Kalahari, 520.000 kmq), costieri (Namibia), questi ultimi legati al passaggio presso la costa di correnti marine fredde, di montagna (per esempio il versante interno, o sottovento, della catena dell’Atlante, catena che provoca una subsidenza locale), interni, ossia lontani dai mari in cui si originano le masse d’aria umida. Un’ulteriore differenza, sensibile in Africa, è quella tra le zone aride in cui piove d’inverno (la zona mediterranea, a causa del passaggio di fronti umidi in questa stagione) e quelle a inverno asciutto (fascia saheliano-sudanese), dove le piogge arrivano quando giungono le correnti umide della Zona di Convergenza Intertropicale.
In genere, i climi delle zone asciutte sono caratterizzati da una grande variabilità stagionale e interannuale, per cui brevi periodi di pioggia intensa possono alternarsi in maniera imprevedibile a periodi di maggiore siccità. Non essendo il terreno protetto dalla vegetazione, le precipitazioni hanno una forte capacità erosiva. Per lo stesso motivo, una maggiore quantità d’acqua viene assorbita e scende in profondità. La scarsità di umidità nell’aria provoca la fortissima irradiazione notturna, cui corrisponde una grande escursione termica nelle 24 ore (fino a 40°). Le massime temperature vengono quindi registrate nei deserti (+59° nel deserto di Lut, Iran). La vegetazione presenta numerosi adattamenti xerofili: ipersviluppo dell’apparato radicale, grande capacità di immagazinamento di acqua, periodo vegetativo brevissimo, spinificazione di rami e foglie.
Il carattere principale dei diversi ambienti ecologici delle terre asciutte è la scarsità di acqua, cui possono però aggiungersi i limiti alla crescita delle piante provocati da stagioni invernali fredde. Piogge improvvise danno luogo alla crescita delle piante erbacee, con produzione di pascoli per il bestiame. Ci sono anche piante utili, in Sudan, per esempio è diffuso l’hashab, una pianta dalla quale si trae la gomma arabica.
L’insediamento umano nelle zone aride
Si valuta che circa il 15% della popolazione mondiale abiti nelle zone asciutte, intorno ai 900 milioni, di cui il 72% nelle zone semiaride, il 27% nelle zone aride e solo l’1% nelle iperaride. Il massimo dell’attenzione ai problemi ecologici e dello sviluppo va quindi prestato alle fasce semiaride che per lo più si trovano prima di giungere al predeserto e poi ai deserti veri e propri (provenendo dalle zone umide) o che comunque formano ampie parti della Terra. La maggior parte di queste terre sono utilizzate a pascolo (30 milioni di kmq, su un totale di 40 milioni di kmq che formano l’insieme delle terre aride del mondo). In queste zone, le aree irrigue sono poca cosa: forse 2,5 milioni di kmq. Le steppe sono in effetti terre “utili”, mentre le terre iperaride, in totale 8 milioni di kmq, sono, praticamente, “inutili”. In realtà esse hanno spesso riserve di idrocarburi e minerali utili o posseggono falde idriche profonde, residuo di climi umidi del passato. Quindi il loro possesso e in vari casi la contesa sulla delimitazione dei confini interstatali – ereditati dal periodo coloniale - costituiscono grossi problemi geopolitici. Non ci sono spesso confini “naturali” riconoscibili e anche i confini tra le etnie, che pure esistono, sono stati trascurati.
Le oasi che costellano le zone aride ed iperaride sono aree di concentrazione della crescita demografica, in quanto costituiscono i luoghi verso i quali si dirigono i gruppi che lasciano la vita nomade e anche per la crescita demografica autoctona. Inoltre, spesso le oasi sono le basi per il lavoro dei giacimenti petroliferi, quindi attraggono forze di lavoro. La costruzione di case e di strade ha divorato il prezioso e limitato spazio agricolo delle oasi, oltre ad aver reso insufficiente la disponibilità naturale di acqua che è la ragione di vita dell’oasi, a causa dell’approfondimento delle falde e del conseguente ricorso a pompe a motore.
Molti insediamenti delle zone aride si trovano alla base di rilievi, in quanto utilizzano l’acqua che sgorga naturalmente da sorgenti poste alla loro base o drenano, mediante sistemi di muretti a secco e canali, il deflusso superficiale dei rilievi dove le piogge sono più abbondanti che nelle pianure. Tuttavia, le possibilità sono scarse, poiché per irrigare 0,5 ha in pianura è necessaria l’acqua che scola da una superficie di 10 ha (un calcolo effettuato nel deserto del Negev in Israele).
I problemi derivanti dalla crescita demografica
La crescita demografica produce un aumento del fabbisogno alimentare delle popolazioni locali e di quelle che, almeno per una parte dell’anno, gravitano sulle zone semiaride (nomadi). Essa provoca l’espansione dell’agricoltura sia seccagna sia irrigua e dell’uso pascolativo. Il modello d’uso del suolo di una popolazione in crescita comporta perciò diversi motivi d’impatto: l’ aumento del numero di bestie pascolanti su terreni dove la crescita della vegetazione spontanea non è più in equilibrio con il bestiame, la diminuzione degli spazi della fauna spontanea, l’aumento delle colture con respingimento del bestiame pascolante su terre marginali, lo sfruttamento eccessivo di terreni poveri. La crescita demografica in alcune zone è già un problema vecchio, che però si è intensificato a partire dagli anni ’50. Il degrado delle terre asciutte – in alcune parti del mondo - è antico di millenni. Mentre in passato era il pascolamento la prima causa di degrado, oggi la disponibilità tecnica e finanziaria ha diffuso forme moderne di prelievo delle acque e fatto crescere le superfici irrigue, con le forme di degrado che le accompagnano e che stanno quindi acquistando maggiore evidenza. La fragilità dell’equilibrio tra prelievo delle risorse e loro riproduzione si manifesta particolarmente nelle crisi ecologiche, come quelle attraversate dalla fascia saheliana nella seconda metà degli anni ‘60 e nei primi anni ’70. Anche gli anni ’80 e la fine degli anni ’90 hanno visto una ripresa della carenza di piogge e quindi dello squilibrio, e ciò mentre la popolazione aumentava come mai in passato.
Poiché le terre semiaride sono estesissime, il problema di una loro corretta gestione che non ne depauperi la qualità è centrale nell’economia agricola dell’umanità. J. Larmuth riferisce che, a seguito del degrado crescente degli ecosistemi aridi e semi-aridi, le superfici desertiche crescono: dal 14% della superficie emersa potenzialmente produttiva (escludendo dal computo le zone troppo fredde per la produzione primaria) nel 1872, Larmuth stima che il deserto abbia raggiunto il 35% nel 1952 e il 50% nel 1977, anno in cui egli valutava in 630 milioni gli abitanti delle zone aride nel mondo, con la previsione che, di questi, 50 milioni fossero minacciati di morte per fame. I Paesi a rischio erano stimati in 28. I motivi sono stati da lui additati nella crescita demografica, nella desertificazione - soprattutto di origine umana - e nel peso crescente della produzione agricola nelle loro economie.
L’economia pastorale
Si ipotizza che nella storia le popolazioni umane non si siano diffuse subito nelle zone con scarsità di acqua, ma piuttosto che abbiano cominciato ad occuparle, forse in via temporanea (seminomadismo), per aumentare le risorse accessibili alle popolazioni stabili, cioè come prolungamento degli spazi geo-economici di popolazioni sedentarie agricole insediate ai loro margini.
Negli anni ’50 si stimava che le terre asciutte del mondo mantenessero il 30% dei bovini del mondo, oltre il 50% delle pecore e oltre il 60% delle capre. Questa proporzione è probabilmente ancora la stessa. Anche se la numerosità del bestiame è alta, la sua produttività è però generalmente bassa: l’allevamento si svolge su spazi marginali, cioè le terre troppo povere e asciutte per l’agricoltura, dove esso resta la sola attività produttiva possibile. Per lo più nelle terre asciutte viene usato il pascolo naturale e si segue una qualche forma di nomadismo L’allevamento è esercitato da strati di popolazione in genere ai margini della società, privi di capitali e di potere contrattuale nei confronti dei governi. Pastorizia e agricoltura si combinano insieme in diversi modi e proporzioni, secondo una gradualità di passaggi che va dal solo allevamento fino ad attività integrate sia di allevamento sia di agricoltura, dove quest’ultima ha maggior peso. Accanto ai veri nomadi (i Tuaregh, sempre più rari), ormai ridotti a poca cosa, sono ben più numerosi i “parzialmente nomadi”, i quali mantengono un sistema di produzione duplice, anche attraverso il lavoro salariato nei villaggi agricoli vicini. Un po’ dappertutto, sono sempre più numerosi i pastori che praticano il seminomadismo transumante. I totalmente nomadi hanno il cammello come principale animale allevato, poiché questo si nutre anche di specie vegetali rifiutate da altri animali, mentre i seminomadi, fanno un po’ di agricoltura e allevano cammelli, ma anche pecore e capre. Queste ultime, capaci di salire sugli alberi, hanno una fonte in più di nutrimento. I cammelli possono rimanere senz’acqua per molto tempo, anche 10-15 giorni. Laddove l’agricoltura è più importante e può produrre anche cibo per il bestiame, si allevano bovini, pecore e capre.
Il pastore nomade si sposta in continuazione seguendo l’andamento delle piogge o i corsi d’acqua temporanei o perenni. La scelta delle specie animali allevati viene fatta in funzione dei pascoli disponibili, secondo una strategia che dà molta attenzione alla diversità ecologica e alla presenza di nicchie ecologiche. Il pastore minimizza il rischio anche col governare il numero delle bestie (e scegliere la specie) in relazione all’andamento dell’annata; integra i proventi della sua attività principale con altri lavori (commercio, caccia, agricoltura sul letto dei torrenti in secca, raccolta di piante spontanee). L’impoverimento ecologico lo danneggia anche su altri versanti oltre che nell’allevamento.
La valutazione della pastorizia come attività economicamente valida ha visto diverse posizioni:
- è stata giudicata un’attività compatibile con l’equilibrio ambientale, nel senso che la crescita dell’erba limita il numero dei capi allevati e quindi l’allevatore non può che mantenersi al di qua del limite; il pastore nomade si sposta continuamente e quindi consente la ripresa della vegetazione spontanea; a questa veduta aderiscono anche i difensori del modo di vita e della civiltà nomade; si consideri che i nomadi sono ormai in pochi e in diminuzione;
- un’altra interpretazione al contrario afferma che il pastore tende a sfruttare l’ambiente in maniera insostenibile, giungendo a vere crisi ambientali, poiché, spinto dalla necessità, egli mantiene un numero di capi oltre il limite sostenibile, usa le piante perenni (alberi) come fonte supplementare di foraggio e combatte tutti gli animali della fauna spontanea che sono concorrenti del bestiame allevato o che lo predano. Inoltre, l’uso di mangimi introdotti dall’esterno nei periodi di carenza alimentare provoca il mantenimento del bestiame al di sopra del carico sopportabile. A questa visione aderiscono – in genere - i pianificatori dei governi e i governanti, i quali – va aggiunto - preferiscono avere a che fare con una popolazione stabile, anche perché più facilmente controllabile.
Un aspetto controverso dell’attività pastorale è l’eccesso di bestiame che il pastore mantiene come scorte alimentari viventi e anche per una forma di prestigio sociale acquisito attraverso la dimensione di greggi e mandrie. Una scelta arcaica, che spesso porta a mantenere un gregge numeroso sì, ma malnutrito e quindi poco produttivo. Viceversa, un’altra interpretazione (più economicista che antropologica) interpreta questo comportamento come un modo di gestire il rischio. Quando la siccità è troppo lunga, si vende il bestiame in eccesso, ma ciò provoca il crollo del prezzo sul mercato. La strategia principale rimane comunque la mobilità, alla ricerca di pascoli più verdi e meno sfruttati, seguendo l’andamento delle piogge. Così si mantiene il delicato rapporto tra ecosistema e prelievo. La sedentarizzazione del pastore (o l’eccesso di carico) provoca invece la crisi. Le erbe vengono divorate prima che le piante possano disseminare, spesso strappate con le radici, il terreno è compattato dagli zoccoli degli animali, gli alberi vengono privati della loro chioma. All’arrivo delle piogge, spesso le erbe del pascolo non saranno in grado di rivegetare.
L’introduzione dell’economia monetizzata, l’attivazione di programmi di intervento sulla pastorizia, la diffusione dell’agricoltura su una parte delle terre a pascolo con conseguente espulsione dei pastori, la sedentarizzazione (anche voluta dagli stessi pastori per permettere ai figli di andare a scuola, per avere i servizi dei centri abitati e usare i mercati urbani per la vendita dei propri prodotti) e, soprattutto, l’aumento demografico, rappresentano altrettanti fattori esterni (esogeni) che hanno provocato una situazione di crisi ecologica permanente nell’uso del suolo delle zone asciutte. Questi fattori esterni si intrecciano a quelli che scaturiscono dalla società locale (endogeni) e che sono messi in atto dall’avanzare della desertificazione, per cui resta difficile scindere i fattori originari da quelli che si sono sovrapposti nel tempo. La competizione tra agricoltori e pastori si è aggravata, mentre un tempo i nomadi investivano i propri averi anche nell’acquisto di terre nei villaggi che davano a lavorare ad altri e trovavano nel villaggio il mercato degli animali allevati e dei prodotti delle altre attività (lane, tappeti, manufatti vari). La diffusione, anche nei villaggi remoti, di manufatti industriali a basso prezzo ha messo fuori mercato questi prodotti.
I pastori sono stati spinti in zone meno ospitali anche dalla diffusione dell’irrigazione su aree già pascolive in seguito alla realizzazione di grandi progetti di sbarramento delle acque fluviali (fiumi allogeni) e di messa a coltura di vasti perimetri.
Nel Sahel si è constatato che una fase di relativa maggiore umidità negli anni tra il 1944 e il 1966 ha determinato uno spostamento della frontiera agricola, per cui gli agricoltori si sono spostati più a nord e dietro la loro spinta così hanno dovuto fare anche i pastori. Nel Niger in particolare si è dovuta emanare una legge a difesa dei terreni usati dagli allevatori, terreni che venivano sempre più messi a coltura. La marginalizzazione dei pastori nelle terre peggiori ha posto le premesse per la successiva grave crisi ambientale. In altri casi l’intensificazione delle colture (due raccolti in un anno invece di uno) ha tolto ai pastori la possibilità di usare il pascolo delle stoppie. Quando si costruiscono le dighe va perduta per il pascolo una parte del fondovalle coperta dalle acque in maniera permanente e quindi scompare la possibilità di produzioni stagionali su terre libere. Peraltro, nel bilancio costi/benefici delle grandi dighe questa perdita è un’inezia. L’agricoltura di tipo moderno sottrae in vari modi al pascolo superfici crescenti. Altre terre vengono perdute per la creazione di parchi e altre aree protette, per quanto in genere il pascolo delle popolazioni locali venga permesso – in quote limitate - anche in queste aree. Con l’aumento dell’agricoltura scompare la proprietà collettiva, tipica della pastorizia, sia per le terre sia per le acque. Di conseguenza, l’attività pastorale, limitata a zone più scadenti, è quasi costretta ad usare territori rifiutati (marginalizzazione ecologica), ha maggiori difficoltà e non riesce più a mantenere gli equilibri ambientali. La perforazione di pozzi per abbeverare il bestiame, che è stata fatta in gran numero, finisce anch’essa con il peggiorare l’ambiente perché provoca una concentrazione del bestiame nelle aree più vicine ai pozzi senza dare più nutrimento, con il conseguente peggioramento della cotica erbosa. La rigenerazione del pascolo ne è impedita e aumenta l’erosione del suolo, non più protetto dalla vegetazione. Inoltre, si diffondono le piante spinose o non commestibili.
Le popolazioni che vivono in questi ambienti possono entro scarsi limiti usufruire dei vantaggi dei villaggi e delle città, dai quali sono lontani (marginalizzazione geografica) mentre soffrono di più la carenza di cibo (anche i soccorsi sono più difficili) e quindi sono soggette ad una maggiore morbilità. I governi dei Paesi interessati alla pastorizia nomade hanno cercato di sedentarizzare i nomadi: per esempio fornendo servizi a chi era disponibile a occuparsi nell’agricoltura, imponendo tasse sul bestiame e lasciando invece libere da imposte le terre coltivabili. Sradicare i nomadi comporta un loro trasferimento nelle città e villaggi, con il peggioramento dei problemi delle periferie povere. Comunque, gli abitanti nomadi del deserto e del predeserto sono diminuiti in tutto il mondo. Durante le crisi ecologiche infatti una parte dei nomadi si riversa nei villaggi e nelle città e non fa più ritorno all’allevamento. Nel deserto del Kalahari restano forse poche migliaia di Boscimani, i quali ancora si mantengono con caccia e pesca.
La salute peggiora nelle zone dell’allevamento tradizionale deteriorate dalla siccità crescente, per il maggior rischio di denutrizione che fa diminuire la resistenza alle malattie. La posizione di dominio che le popolazioni nomadi avevano in passato è ora scomparsa, anche perché si è ridotto il loro numero. Inoltre la natalità presso le famiglie nomadi è più bassa, a motivo della durezza della loro vita: il gruppo nomade è costretto a programmare strettamente le nascite (su questo dovrebbero riflettere i difensori dello stile di vita nomade!) .
I diversi Stati del mondo dove il nomadismo è presente hanno prima o poi cercato di ridurlo. Ha fatto eccezione l’Afganistan, che ha continuato a sostenere la vita nomade e che ha oggi una forte struttura tribale, spesso su posizioni opposte al governo centrale. Ciò conferma che le popolazioni nomadi diffcilmente si sottomettono al potere delle città. Il rafforzamento nelle tribù nomadi comporta quindi l’indebolimento delle strutture statali.
Gli ambiti di intervento esterno (da parte dei governi) sulla vita e le attività economiche dei nomadi sono pochi:
- il miglioramento della disponibilità di acqua: perforazione di pozzi, creazione di serbatoi;
- la fornitura di servizi veterinari;
- il destocking, o riduzione comandata del numero di capi allevati;
- il mercato degli animali: la carenza di strutture moderne permette agli intermediari di sfruttare i pastori nomadi, i quali hanno difficoltà ad organizzarsi in strutture che difendano i propri interessi; il trasporto a lunga distanza del bestiame vivo è problematico; l’aleatorietà delle forniture fa oscillare troppo l’offerta sul mercato; il bestiame passa attraverso parecchie mani prima di arrivare al consumatore;
- il soccorso durante le crisi;
- l’attività part – time (l’accoglimento dei turisti, il lavoro di manovalanza nell’edilizia, ecc.).
L’agricoltura nell’Africa arida
Nelle terre asciutte, la parte che più interessa l’economia agricola e lo sviluppo delle popolazioni è quella semiarida, sia sotto il profilo della sua estensione, sia sotto quello delle sua dinamica, cioè della sua tendenza ad espandersi. Questa è però la superficie più soggetta al rischio di peggioramento. La tendenza alla desertificazione, costituisce una minaccia reale per il futuro della popolazioni delle zone semiaride. Si calcola infatti che ogni anno nel mondo si perdano 60.000 kmq di terre produttive.
Partiamo dalla distinzione tra agricoltura seccagna (senza irrigazione, o aridocoltura) e agricoltura irrigua. Nel termine agricoltura comprendiamo sia il pascolo (il bestiame si nutre della vegetazione spontanea e di residui delle colture), sia la coltivazione (le colture possono essere finalizzate sia al nutrimento del bestiame sia al nutrimento umano). Non è detto che la seconda rappresenti sempre un progresso e un guadagno rispetto alla prima. Tutte le terre aride e semiaride hanno problemi ecologici: l’agricoltura seccagna può provocare un’erosione accelerata del suolo, poiché il terreno lavorato può essere disperso dal vento, oltre ad interferire con lo sviluppo equilibrato della vegetazione spontanea. D’altra parte, l’irrigazione può provocare problemi di salinazione del suolo, di alcalizzazione, di saturazione idrica.
La desertificazione crescente viene vista come dovuta alle variazioni climatiche in atto, che in parte sono forse causate dalle opere umane. La componente naturale è indubbia (cfr. P. Migliorini), mentre il ruolo dell’effetto - serra è ancora controverso. A prescindere dal peso che si pensa di dare al fattore naturale, resta il problema di gestione delle terre semiaride, in modo da mantenerne o ripristinarne i difficili equilibri. Soprattutto, bisogna affrontare la questione di limitare la pressione demografica sulle regioni colpite. Forse le popolazioni delle zone asciutte dovranno fare un passo indietro, abbandonando una parte dei terreni più difficili. Perlomeno, i passi in avanti, in termini di aumento di pressione sulle risorse di acqua e suolo, vanno attentamente misurati.
La diffusione dell’irrigazione nelle terre asciutte
Questo rappresenta il principale ambito d’intervento nelle regioni asciutte, fino dall’antichità. Il sistema tradizionale – che oggi chiamiamo pre-irriguo - consisteva nel coltivare, una sola volta l’anno, le terre da dove acque fluviali (o lacustri) si erano ritirate secondo il ciclo naturale (colture in decrue, cioè dopo il passaggio della piena). Da questo sistema si è passati a forme diverse di irrigazione, come processo del tutto artificiale.
L’irrigazione per sommersione è il sistema più antico e anche il più dispendioso in termini di acqua utilizzata, perché l’acqua evapora già nei canali e viene assorbita da tutto il terreno irrigato, non solo nei punti dove si trovano le piante. Più recenti sono i sistemi di irrigazione per aspersione (a pioggia) e della subirrigazione. Altri sistemi, ingegnosi ma praticabili solo su piccole superfici, sono: l’interramento di brocche d’acqua di argilla (osmosi), il posizionamento di sassi (condensazione). Le colture ad ambiente controllato (serra) possono riciclare l’acqua adoperata, ma sono costose. Più semplici e a basso costo i tunnel di plastica, che rallentano l’evaporazione dal suolo.
L’irrigazione comporta i seguenti rischi:
- dilavamento dei nutrienti nel suolo,
- saturazione,
- risalita dei sali (salinazione).
Agli effetti del più accorto uso dell’acqua, conviene irrigare laddove esiste già una certa piovosità, che va integrata, appunto, attraverso l’irrigazione. Irrigare i deserti è invece un’operazione troppo costosa e dispendiosa in termini di corretto uso dell’acqua.
Si distinguono:
- l’irrigazione su ampia scala con l’acqua dei grandi fiumi allogeni (Nilo e Niger in Africa, Amu Daria in Asia, ecc.); porta mutamenti ambientali rilevanti, soprattutto la riduzione del deflusso a valle con cambiamento della flora e della fauna; nelle zone costiere inoltre si può avere una diminuzione dell’apporto naturale del fiume, con infiltrazione di acqua salina sotterranea (cunei salini);
- l’irrigazione di villaggio (falde a piccola profondità, piccoli fiumi e laghi, pozzi scavati a mano, quanat, raccolta di acque piovane) è destinata a fallire in caso di siccità ed ha pertanto ha limiti molto evidenti;
- l’uso di acquiferi sotterranei con acque fossili, che non sono evidentemente in condizioni di equilibrio dinamico, può provocare la risalita di Sali e il disseccamento di pozzi e sorgenti attraverso la riduzione del deflusso naturale all’interno dei corpi idrici.
La salinazione è uno dei mali più comuni. Un esempio classico è nella New Valley in Egitto, dove questo problema ha portato alla perdita del 30% delle terre originariamente bonificate. La circolazione del sale consentita dall’irrigazione massiccia può portare anche all’inquinamento di falde in origine dolci. Si stima che la metà delle terre irrigue sia stata danneggiata da salinazione, alcalizzazione, saturazione. La salinazione è così comparsa in aree dove i sistemi tradizionali d’irrigazione avevano mantenuto la produttività dei suoli per secoli. La salinazione obbliga a scegliere colture meno sensibili al sale o a lasciare a riposo i terreni per periodi più lunghi. Questi problemi sono più gravi dove il terreno è piatto e dove nel tempo si sono formati suoli arricchiti da sali. Negli anni ’70 la Fao stimava che, in Africa soltanto, 80 milioni di ha ne fossero colpiti.
I grandi progetti irrigui cambiano anche l’habitat della fauna e della flora spontanee, e influiscono sul regime dell’intero sistema idrografico. Producono sensibili modifiche del clima, con cambiamenti della temperatura e dell’umidità dell’aria.
Ci sono impatti anche per la salute umana: in positivo, migliorano le condizioni igieniche e la dieta, però aumentano malattie connesse all’acqua come veicolo di agenti patogeni (colera, febbri tifoidee, dissenterie, epatiti, malaria, schistosomiasi - o bilharziosi -, filariosi, oncocercosi).
Il bilancio dei pro e dei contro dei grandi progetti irrigui pende comunque a favore delle opere: i confronti peraltro non sono facili. Se si pensa che in Egitto il reddito prodotto su un terreno irrigato nella maniera tradizionale (seminato dopo il ritiro delle acque di piena, cioè in decrue) era di un solo raccolto l’anno, va considerato che con i nuovi sistemi irrigui si fanno, sullo stesso terreno, due-tre raccolti l’anno. Ciò ha consentito l’espandersi della coltivazione anche su terreni distanti dal fiume e quindi meno fertili. Le nuove e le vecchie rese non sono immediatamente confrontabili. Va anche detto che i “nuovi” contadini sono spesso persone venute dalle zone pastorali o immigrati dall’estero, che non hanno le conoscenze tecniche e ambientali degli antichi agricoltori del luogo. Inoltre, per quanto la maggior parte dell’acqua sia destinata ai campi, resta pur sempre una disponibilità per l’approvvigionamento della popolazione locale. Pertanto le donne non devono più perdere la maggior parte del proprio tempo per andare a procurarsi l’acqua per uso domestico.
L’amministrazione delle acque dei grandi progetti sfugge al potere delle élites locali, per lo più religiose, un cambiamento quindi contrastato.
La valorizzazione della terre asciutte attraverso l’irrigazione è un campo pieno di problemi e contraddizioni, che abbisogna ancora di molto lavoro di ricerca e sperimentazione. Sono necessari studi sulle tecnologie idrauliche, ma anche sull’impatto ambientale e socio – economico del mutamento.
Una delle tecnologie poco conosciute è quella dell’uso dell’acqua salina: poche specie sopportano livelli di salinità oltre il limite di 600mg/l., ma sono specie di valore (grano, orzo e altre graminacee, cotone, la palma da dattero, l’ulivo, il melograno, il pistacchio). Il riciclaggio delle acque per uso irriguo è ancora poco praticato e poco conosciuto. Altre tecnologie si rivelano troppo costose: la dissalazione dell’acqua di mare si pratica solo nei ricchi Paesi del Golfo. La distillazione solare riguarda pochissimi insediamenti dei paesi avanzati, mentre l’inseminazione delle nubi è utile solo per alcune topografie.
Uno sbocco più concreto ha invece la tecnologia del risparmio dell’acqua, che si articola in:
- scelta delle piante da coltivare, eliminando quelle troppo esigenti,
- limitazione dell’evaporazione dal suolo, mediante l’uso di coperture (barriere frangivento, film plastici, ecc.),
- infiltrazione localizzata (goccia a goccia).
In altre aree gli interventi di grandi opere hanno avuto più o meno successo: nella zona sudanese-saheliana, il progetto “Gezira” nella repubblica del Sudan è stato considerato un modello da seguire. Il maggior progetto irriguo fu quello del Delta interno del Niger a nord di Segu. I primi passi furono compiuti sotto il potere coloniale. Una prima diga fu costruita a Sansanding nel 1946, allo scopo di creare una grande area cotoniera. I suoli non sono molto fertili e pertanto le realizzazioni non sono state così soddisfacenti.
In conclusione, per le grandi opere, la cui realizzazione richiede decenni, si creano spesso grosse aspettative, per cui se ne dà, alla fine, un giudizio spesso negativo o perlomeno critico. Si parla meno, invece, dei piccoli insuccessi e delle pratiche sbagliate di uso del suolo da parte delle popolazioni locali, di cui si potrebbero fare innumerevoli esempi.
La desertificazione
La desertificazione come processo naturale ha bisogno di una sua trattazione. Questo fenomeno è stato connesso al riscaldamento globale, una delle principali preoccupazioni ambientali degli anni ’90. Secondo il Worldwatch Institute (Rapporto 2000) la stabilizzazione del clima è, con la stabilizzazione della popolazione, un obbiettivo irrinunciabile dello sviluppo sostenibile. Stabilizzare il clima significherebbe anche evitare la diffusione dei climi aridi oltre le fasce di subsidenza tropicale, dove essi sono una ricorrenza normale. L’aumento delle temperature e la crescente irregolarità delle piogge, anche al di fuori di questa fascia, è un fenomeno planetario. Tale aumento, denominato “riscaldamento globale”, è certamente connesso ai moti minori della Terra e al mutare della sua posizione rispetto al sole, oltre che all’attività del sole. In questa sua dimensione non è certo controllabile da politiche ambientali. Esso è stato però collegato anche all’aumento dei gas di serra (per il 60% formati da anidride carbonica, un gas la cui quantità è continuamente accresciuta dall’uso dei combustibili fossili.). Il ruolo del fattore umano è comunque dibattuto e resta molto problematica la possibilità di incidere sensibilmente sul riscaldamento del pianeta con politiche ambientali. Peraltro, si dimentica di dire che il riscaldamento migliora le condizioni dell’insediamento umano nelle amplissime regioni dell’Eurasia settentrionale e del Nordamerica.
Le oscillazioni del clima della Terra tra cicli di glaciazione e fasi interglaciali hanno riguardato varie epoche della storia geologica del pianeta. Le tracce di cicli glaciali sono meglio conosciute per quanto concerne il periodo di circa 1 milione di anni a questa parte, ma sono state trovate anche per epoche anteriori. Ci troviamo ora in una fase interglaciale, forse la più lunga e stabile, che mostra al suo interno oscillazioni minori, anche di pochi decenni. Il secolo xx è stato un secolo particolarmente caldo, in confronto all’andamento delle temperature nei secoli xi-xviii, un’epoca nel corso della quale, peraltro, c’erano stati periodi più caldi e periodi più freddi. Il fatto che le temperature alla fine del xx secolo siano più alte non autorizza a pensare al riscaldamento globale come a una tendenza irreversibile, né è dimostrativo della responsabilità della combustione prodotta dalle popolazioni umane. Del resto, il riscaldamento ha conseguenze positive anche per l’umanità: superfici maggiori della fascia temperata (dove si trova la maggioranza delle terre emerse) saranno più adatte all’agricoltura; l’innalzamento del livello del mare in seguito ad un maggior scioglimento dei ghiacci porterà ad una crescita delle pianure alluvionali, delle pianure di foce, delle spiagge, nonché ad una maggior disponibilità di acqua dolce nei bacini artificiali.
Una delle previsioni catastrofiche legate all’effetto serra è la caduta della produttività agricola e la ricorrenza di carestie mondiali. Piuttosto, il riscaldamento dell’atmosfera produrrà perdenti e vincitori a seconda dei paesi e delle latitudini. Molte piante si avvantaggiano dell’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera e si prevede anche che la piovosità aumenterà. Certamente cambieranno i calendari agrari e forse anche le piante coltivate: simili cambiamenti sono già avvenuti in passato. Agli effetti della salute umana, il riscaldamento del clima può portare migliori condizioni di vita nei paesi freddi e temperati, dove la mortalità è normalmente più alta nei mesi invernali (Chi vuole leggere di più su quest’argomento, cerchi nella Biblioteca di Facoltà il libro di B. Lomborg, 2001- cit. in bibliografia – e legga le pp. 258-326).
Si calcola che in tutto il mondo la desertificazione minacci oltre 100 Stati, di cui 27 solo in Africa. Ogni anno più di 6 milioni di ha di terre fertili vanno perdute. Il paesaggio di un’area in via di desertificazione mostra chiazze con vegetazione degradata e poi via via assente, mentre lo strato superficiale del suolo, dove si trova la materia organica necessaria alla vita delle piante, viene asportato dal vento o dalle piogge rare ma violente. L’avvicendarsi di annate buone porta spesso gli agricoltori a dissodare nuove terre, spingendosi nelle aree asciutte, dalle quali poi una nuova crisi di siccità li costringe poi ad andarsene.
La desertificazione come risultato dell’eccesso di utilizzazione delle risorse naturali ha un lato socio-economico importante. Per fronteggiare il rapido incremento demografico infatti si è attuato, con tecnologie inadeguate, un forte prelievo di risorse dell’ambiente. La desertificazione delle terre asciutte si innesca nel momento in cui – dopo una crisi di siccità - cala la produzione di biomassa, i pascoli e la vegetazione spontanea si riprendono solo in parte e le aree degradate non raggiungono il livello di produttività precedente. Gli ecosistemi asciutti hanno grossi limiti ambientali per le attività agricole, di cui va tenuto conto: carenza di acqua, scarsità di componenti organiche nel suolo, piccolo spessore del suolo, scarsa copertura vegetale e fauna limitata. L’alta variabilità climatica e le condizioni pedologiche comportano dei limiti che vanno conosciuti e accettati. I sistemi tradizionali di uso del suolo tendevano a ridistribuire il rischio e a rendere flessibili le attività umane, anche attraverso la mobilità. Oggi gli investimenti in tecnologie finalizzate ad aumentare la produttività spesso producono squilibrio in quanto sono mirate ad aumentare la produttività senza prestare attenzione agli equilibri ecologici.
Accanto agli interventi prodotti con le tecnologie occidentali, i paesi colpiti dalla desertificazione hanno fatto e fanno largo impiego di tecniche tradizionali miranti a frenare l’erosione. In Etiopia, uno dei paesi più colpiti anche per motivi geotettonici, il governo ha organizzato 20.000 associazioni contadine, ciascuna composta da 500 famiglie, per scavare terrazze e costruire muri di contenimento (Asbe Teferi, presso Dire Dawa). Ha altresì fatto piantare migliaia di eucalipti e di acacie, che fissano il suolo e forniscono legname per le abitazioni e foraggio per le mandrie. In molte aree i contadini applicano tecniche di lavorazione della terra che rallentano l’azione erosiva delle piogge e piantano file di aloe per trattenere il terreno.
Gli interventi a sostegno dello sviluppo delle zone asciutte in Africa
I primi interventi negli anni ’60 e ’70 erano ispirati a logiche impositive “dall’alto” e dall’esterno” e avevano forti contenuti tecnologici. Si trattava per lo più di grandi opere isolate, dighe, progetti irrigui di grandi dimensioni, coltivazioni su scala ampia. Per riprendere una frase di A, Gheddafi, si voleva al tempo stesso “rifare la storia e disfare la geografia”. Si combattevano più i sintomi della desertificazione che i fattori di base. La “seconda generazione” degli interventi si è attuata negli anni ’80 in tipici programmi integrati in cui il miglioramento delle pratiche agricole si inquadrava nello sviluppo del villaggio e di un’economia regionale. Si può dire che si sia oggi arrivati ad una “terza generazione” di progetti di intervento, più orientati sull’interazione tra le sfere ambientale, economica, sociale, politica e storica.
La Convenzione di Parigi (1994) indica una scala di azione: interventi a base continentale (Africa), sub-regionale (regioni dell’Africa) e nazionale (singoli Stati). Pertanto la strategia dell’intervento si stratifica a vari livelli (globale, nazionale e locale) e diventa interdisciplinare Aumenta il ricorso a logiche “dal basso e dall’interno”.
L’Africa occidentale e il Ciad sono interessati dal programma del Cilss (Comitato inter-statale di lotta contro la siccità nel Sahel, vedi in seguito). La desertificazione è ormai vista come un insieme di problemi (uso dell’acqua, conservazione del suolo, regolazione dei mercati) che si inseriscono nella problematica dello sviluppo.
A partire dagli anni ’70, il rischio desertificazione diventa un problema permanente del Sahel africano, Vista dapprima come una questione locale, è stato in anni recente individuata come questione globale: dopo una prima importante conferenza sulla desertificazione tenutasi a Nairobi (1977), nella Conferenza Unced (United Nation Conference on Economic Development) di Rio de Janeiro (1992) si giunse a meglio definire il problema e si decise di passare all’azione, con la Convenzione sulla lotta alla desertificazione, firmata a Parigi nel 1994 e via via ratificata dai diversi Stati, fino ad un totale di 167 Paesi aderenti nel 2000.
La globalità dipende sia da fattori ecologici (variabilità delle precipitazioni, abbassamento delle falde, perdita di vegetazione, calo della produzione di biomassa) sia da fattori socioeconomici (che producono pratiche di uso del suolo insostenibili). Questi ultimi infatti sono solo in parte fattori interni o endogeni (di natura locale, riguardanti l’uso del suolo, le strategie di sopravvivenza, il sistema politico ed economico), mentre agiscono anche fattori esterni o esogeni (il sistema economico mondiale, le politiche internazionali, la collaborazione internazionale per lo sviluppo, le tecnologie introdotte dai paesi occidentali). Si è constatato che, storicamente, la politica agraria del colonialismo ha dato inizio al degrado ambientale. Va detto anche che parallelamente la medicina occidentale è stata introdotta in Africa, producendo un abbassamento della mortalità, mentre la natalità rimaneva invariata o addirittura saliva.
Nell’insieme dell’Africa, l’Unep (Programma ambientale delle NU) ha identificato come principale fattore di degrado del suolo il sovrappascolamento, seguito dall’agricoltura, dall’eccesso di sfruttamento e dal diboscamento. Il primo fattore è soprattutto esteso nel Nordafrica e nel Sahel.
Un aspetti socio-economico antico e nuovo: i rifugiati ambientali
Quasi tutti i paesi dell’Africa occidentale hanno generato flussi di rifugiati ambientali o li hanno ricevuti. Il senso degli spostamenti è stato generalmente dall’interno verso la costa, dal nord verso il sud. La mobilità è stata anche internazionale: coloro che fuggivano di fronte alla morte del bestiame per fame e alla mancanza di acqua dalla Mauritania interna si sono rifugiati sulla costa ma si sono diretti anche verso il Mali e il Senegal. Meno numerosi coloro che si sono diretti a nord come i gruppi spostatisi dal Niger verso l’Algeria. Nel Burkina Faso (circa 10 milioni di ab. a fine anni ’90), la crisi di siccità del 1985 ha fatto fuggire circa 200.000 persone dal nord del paese verso il centro e il sud, dei quali 22.000 sono arrivati fino nel Mali e nel Niger. Una parte di loro non è più ritornata nelle regioni di origine ma si è sistemata nelle periferie urbane delle città raggiunte. Nell’insieme, la siccità è di gran lunga la maggior causa di fuga per motivi ambientali nei paesi dell’Africa occidentale, superando le crisi dovute alle cavallette, alle malattie del bestiame, ai terremoti. Le crisi di siccità degli anni ‘70 e ‘80, cui le popolazioni dei villaggi non potevano trovare rimedio, durarono vari anni ciascuna. A seguito della crescita demografica e del peggioramento delle condizioni ambientali si prevede che il fenomeno dei rifugiati aumenterà.
Il principale fattore della fuga delle popolazioni sono certamente le crisi di siccità. Bisogna tuttavia riflettere sul fatto che una crescita demografica insostenibile crea situazioni permanentemente instabili. Il Niger, ad esempio, ha visto crescere la sua popolazione dal 1961 al 1997 da 3 a 8 milioni. La superfciie coltivabile è però rimasta quasi la stessa.
La desertificazione nel Sahel
Il Sahel fa parte della regione sudanese, ossia la fascia situata a sud del deserto del Sahara: il Sudan (Beled-es-Sudàn, in arabo, che vuol dire Paese dei Negri) è formato da una fascia più settentrionale, con clima steppico e predesertico (il Sahel) e da una più meridionale con clima detto “delle savane”, più piovoso. Più a sud, ha inizio la fascia a clima sub-equatoriale, seguita da quella equatoriale.
Nel Sahel, che si estende per una lunghezza di 5000 km e una larghezza di 300, con una piovosità limite di 200 mm a nord e 600-700 a sud, il processo di dessiccamento ha inizio intorno al 2500 a.C. Uno studio del BOSTID statunitense sostiene che il 20° secolo è stato il più secco dell’ultimo millennio. La desertificazione - ovvero la distruzione del potenziale biologico - non è quindi un fenomeno nuovo, anzi è antichissimo, ma si sta attualmente aggravando. Essa causa condizioni desertiche là dove il clima non è desertico ed è prodotta principalmente dalla pressione delle popolazioni sull’ambiente. I sostenitori di questa tesi fanno infatti rimarcare che il degrado non comincia vicino alle zone desertiche, ma in quelle troppo popolate - in relazione alle risorse - delle steppe e delle savane. Ess è prodotta da tecniche agricole improprie, da sovrappascolamento e da salinazione dei suoli per uso di acque salate.
Agli inizi del secolo gli osservatori inglesi e francesi pensarono che la causa fosse l’espandersi del deserto, quindi un fenomeno naturale (la pubblicazione di Stenbbing, The encroaching Sahara, anni ‘30, contribuì molto a diffondere questa veduta). Aubreville (1949) indicò invece le cause umane alla radice del fenomeno. Negli anni ‘70 ci fu una ripresa d’interesse per l’inaridimento, tanto che l’Onu promosse la prima conferenza sulla desertificazione a Nairobi nel 1977. Solo allora ha inizio uno studio specifico del fenomeno che si presentava ormai nella sua vastità e gravità.
Non c’è accordo, tra gli esperti, sulla velocità della desertificazione né sulla sua irreversibililità e nemmeno nel considerarla un segno del cambiamento climatico globale. Lunghi periodi asciutti sono stati storicamente un tratto ricorrente. Comunque, è certo che la popolazione deve affrontare cicli climatici con crisi di siccità ricorrenti.
Nel Rapporto Isnar (Internat. Service for National Agricultural Research e Ciba-Geigy Foundation for Cooperation with Developing Countries), si riferisce su un caso di sperimentazione nella regione di Cinzana in Mali, 1999: viene espresso un giudizio negativo sullo stato attuale del Sahel e vi si afferma che gli interventi effettuati in questi anni non hanno risolto il problema di fondo ma hanno prodotto ulteriore degrado. Perché si arrivi ad un miglioramento sostanziale, si auspica un tipo di intervento che abbia un’impostazione olistica, una prospettiva temporale lunga, si basi su azioni a scala locale e cerchi la partecipazione della popolazione e soprattutto delle donne.
Testimonianze di desertificazione (Da un testo in www.eden-foundation.org/project/desertif.html)
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La crescita demografica recente.
Nei Paesi del Sahel (contando Ciad, Senegal, Niger, Burkina Faso, Mali, Mauritania, Sudan ed Eritrea), la popolazione ha raggiunto circa 45 milioni nel 1991, con un tasso medio annuo di crescita intorno al 2,8% (1980-92), un valore superiore a quello medio dei PVS (2,1%), ma più basso di quello dell’insieme dell’Africa sub-sahariana (3,2%). R. Cassen (che aggiungeva a questo novero le Isole del Capo Verde, non includeva l’Eritrea, bensì il Gambia) prevedeva che la popolazione complessiva avrebbe raggiunto nel 2000 i 50 milioni. In effetti, la popolazione degli 8 Paesi su elencati ha raggiunto, intorno al 2005, 95 milioni. In Africa occidentale (che però è una zona più ampia del Sahel) si prevede una forte crescita urbana: nel 2020, 30 città raggiungeranno il milione di abitanti, in confronto alle 6 che oggi hanno raggiunto tale cifra. La massa demografica coinvolta nel fenomeno di desertificazione è alta, ma non raccoglie certo la totalità dei Paesi su nominati. E’ necessario individuare esattamente quali sono le zone colpite.
Per avere un’idea dei costi umani delle crisi di siccità, si pensi che negli anni ‘70 si stimava che i morti fossero stati nella regione saheliana circa 100.000. Ciò fu dovuto anche al fatto che essendo stati piovosi i precedenti 15 anni, ne risultò incoraggiata l’estensione dell’agricoltura, con la conseguenza di una crisi più grave con l’avvento di una nuova siccità. A distanza di 25 anni, si possono individuare gli interventi più efficaci.
I valori più elevati della crescita si sono registrati in Gambia e nel Niger. Tale aumento è legato al netto abbassarsi della mortalità, mentre la natalità è rimasta costante o anche si è innalzata. Il complesso di questi paesi si trova cioè nella prima fase della transizione. Il declino della mortalità è stato molto rapido, a motivo dei miglioramenti igienico-sanitari (vaccinazione, antibiotici) e degli aiuti alimentari. Più del 45% degli abitanti hanno meno di 15 anni. La densità di popolazione per contro è bassa, dal momento che poche aree sono adatte all’agricoltura. Peraltro, l’agricoltura fornisce circa un terzo del reddito. La popolazione continua a vivere nelle campagne, dove le gerarchie tradizionali e gli stili di vita non sono cambiati, nonostante la schiavitù sia stata abolita dagli inizi del secolo. Predomina la piccola coltivazione con l’aiuto degli animali, esercitata nei campi familiari.
La popolazione urbana rappresenta il 30% del totale con una punta più alta nel Senegal. Essa cresce ad un tasso che è quasi il triplo della popolazione rurale. La siccità ricorrente ha contribuito a cacciare gli abitanti dalle campagne ed estesi slums circondano oggi le città.
Ad eccezione del Senegal, gli altri paesi sono classificati tra i più poveri del mondo. Infatti, l’analfabetismo riguarda il 60-80 % degli adulti, l’aspettativa di vita è sui 46 anni, il GDP è sui 300 dollari p.c. e la mortalità infantile si aggira intorno a 120 su 1000 nuovi nati in un anno.
L’alimentazione è tuttavia migliorata. Il miglio e il sorgo sono il cibo di base e rappresentano il 70% dei campi a colture alimentari. Il riso acquista un posto sempre maggiore nella dieta comune. Cotone e arachidi sono le colture commerciali. L’allevamento è importante per almeno un quarto della popolazione.
I paesi saheliani erano autosufficienti per produzione di cibo fino agli anni ‘60. Da allora, la crescita demografica è stata più alta della crescita della produzione alimentare. Tuttora la popolazione dipende soprattutto dall’agricoltura asciutta e dal bestiame. L’agricoltura non si può fare se non ci sono almeno tre mesi piovosi nell’anno, salvo che lungo i fiumi. L’importazione di cereali è pertanto passata da 200.000 t agli inizi degli anni ‘60 a 1.300.000 t agli inizi degli anni ‘80, continuando a salire ancora. Oggigiorno, il 15-20% del cibo viene importato ogni anno, a prescindere dall’andamento dell’annata agraria. Quindi la carenza della produzione locale alimentare è diventata stabile. La donazione di cereali da parte dei paesi avanzati deprime il prezzo della produzione locale, cosicché i contadini non sono incoraggiati a produrre oltre il proprio fabbisogno. Ma, secondo i critici di questa politica degli aiuti, i governi sono contenti di ricevere i cereali in dono, perché possono rivenderli, sebbene a prezzo basso, alla popolazione, perciò guadagnandoci. Oppure possono distribuirli all’esercito o ad altri gruppi privilegiati.
Le cause della bassa produzione di alimenti sono, oltre che nel clima e nelle sue oscillazioni, nella depressione socio-economica e nel quadro politico incerto. Gli agricoltori non hanno denaro per acquistare semenze, fertilizzanti e attrezzi agricoli per le colture alimentari. Questi supporti sono invece disponibili per le colture commerciali. Solo l’1% della terra coltivata è irrigua.
Per riuscire a produrre abbastanza cibo, secondo gli autori di questo rapporto, bisogna modernizzare l’agricoltura (semi selezionati, fertilizzanti e macchine). D’altra parte, se si destinassero alla produzione di alimenti le risorse che oggi vanno ai prodotti commerciali, l’impoverimento sarebbe ancora maggiore. Non è possibile tornare all’autoconsumo e rinunciare alla valuta estera.
La crescita demografica è stata accusata di aver prodotto squilibrio. Secondo uno studio di World Bank, stante l’attuale uso del suolo, la densità di 15 ab/kmq non dovrebbe essere superata. Viceversa la densità delle aree insediate e coltivate è oggi mediamente a 20 e in talune aree a 45 (paese Mossi). La crescita demografica ha comportato una riduzione dei periodi di riposo della terra, un eccesso di pascolo e un fabbisogno di legna da ardere insostenibile. La messa a coltura di arachide di molte terre ha cacciato i pastori e li ha costretti a stabilizzarsi su pascoli insufficienti, che vanno pertanto incontro a degrado.
La desertificazione ha peggiorato la vita delle donne nel Sahel, che devono percorrere maggiori distanze per raccogliere legna e attingere acqua. Quando gli uomini sono lontani per lavoro, tutto il peso del bestiame e della famiglia ricade su di loro. Anche l’onere dei figli è salito, perché essi sopravvivono più numerosi di un tempo e perché in molti casi il numero dei figli per donna è aumentato. Questo peraltro è indice delle migliorate condizioni di salute sia delle madri sia dei bambini. Anche il lavoro dei campi è meno remunerato, se la resa è più bassa.
La lotta alla desertificazione fu basata dapprima sull’intervento statale e anche le potenze coloniali si adoperarono a questo scopo. Solo recentemente è stata condotta a livelli più decentrati. I francesi – nelle regioni poste sotto il loro controllo - si impegnarono nella protezione e ricostituzione dei boschi. Nella fase finale del periodo coloniale, le autorità cercarono di bloccare l’avanzata delle colture di arachidi sui pascoli e sui boschi, creando fasce boschive protette. Esse applicarono anche tecniche di conservazione del suolo di provenienza statunitense. Non ebbero successo perché non cercarono di coinvolgere le popolazioni locali (era l’epoca del top down approach). Coloro che usano le risorse debbono essere coinvolti attivamente anche al livello decisionale (il più moderno bottom up approach).
Nell’epoca post-coloniale si ebbe un quindicennio umido, alla cui fine si trovò che i coltivatori avevano esteso le terre coltivate a danno dei pastori. Perciò il conflitto tradizionale divenne più forte. I primi interventi furono di aiuti e di distribuzione del cibo, quindi di emergenza. Si scelse anche di intensificare le colture nelle zone umide attraverso investimenti per l’irrigazione del cotone e dell’arachide. Per il bestiame si favorì la sedentarizzazione e la commercializzazione degli animali. Nelle foreste si instaurò una politica di protezione e di reimpianto con eucalipti. Gli aiuti furono abbondanti ma i risultati scarsi. La scelta di promuovere l’irrigazione ha fatto salire molto poco il totale della superficie irrigua. Secondo alcuni esperti, sarebbe stato meglio favorire semplicemente la coltura asciutta. Più recentemente l’agrosilvicoltura ha avuto miglior successo. Si è anche scelto di usare specie forestali locali (Acacia albida).
L’amministrazione pubblica locale, in genere elefantiaca e inefficiente, ha cercato di utilizzare gli aiuti in opere concernenti forniture elettriche, colture da esportazione, miniere, salute e trasporti. Un eventuale taglio negli aiuti mette rapidamente in crisi paesi che vi si affidano eccessivamente, com’è accaduto nel Niger.
Politiche anti-desertificazione
Il ripetersi di carestie dovute a siccità è ineluttabile, nella fascia saheliana. Già negli anni 1998-2000 la siccità ha di nuovo colpito i paesi del Corno d’Africa, mettendo a rischio le risorse di 16 milioni di persone. Si stima che sia morto il 90% del bestiame. E stato messo in atto un sistema di aiuti internazionali che faceva affluire nell’area giornalmente 3.000 t di aiuti (cereali, preparati alimentari, integratori), attraverso il porto di Gibuti. Accanto ad un sistema locale di interventi, organismi internazionali hanno fatto affluire risorse. Unicef, per es., ha reso disponibili sul posto 2.000 “sistemi idrici completi” e realizzato vari interventi concernenti l’approvvigionamento d’acqua. Non è però solo la mancanza d’acqua che può scatenare una mortalità pari a quella della carestia della metà anni ‘80 (la più grave, 1 milione di morti solo in quest’area). Le malattie fanno la loro parte. Essendo il 95% dell’agricoltura di tipo seccagno, l’irregolarità delle precipitazioni annulla i raccolti di cereali e la crescita dell’erba per il bestiame, riducendo le due risorse fondamentali della popolazione.
Data la gravità del problema, l’intervento di protezione delle popolazioni esposte deve essere prioritario. La monetizzazione dell’allevamento anche in queste zone è all’origine del problema, perché fa crescere la pressione umana su un ecosistema già fragile. I pastori cercano di allevare quanto più bestie è possibile, per poi venderle nelle zone meridionali, dove la presenza della mosca tse-tse impedisce di allevare bestiame. La nascita di insediamenti e lo scavo di pozzi aggrava la situazione, poiché aumenta la pressione del bestiame e la concentra in aree ristrette. Il ricupero ambientale delle zone degradate richiede tempi che vanno da dieci a cento anni. Il deserto non è prodotto tanto dalla mancanza di acqua, quanto dall’accumulazione di sali a livello delle radici delle piante, a causa del cattivo drenaggio e dell’evaporazione in bacini chiusi.
Nella lotta alla desertificazione si possono individuare diverse strategie, animate da differenti filosofie:
1. Nell’emergenza, si creano punti di soccorso, dove portare gli aiuti al momento della necessità. Ciò non risolve il problema di fondo, crea baraccopoli e accentua la desertificazione della zona circostante.
2. Gli aiuti vengono distribuiti direttamente dall’aereo a bassa quota. Ciò evita le concentrazioni, ma non risolve comunque il problema di fondo, trasformando gli abitanti in perenni assistiti.
3. In tempi più lunghi si attinge l’acqua da falde profonde e la si distribuisce per uso irriguo. Si corre il rischio però che l’esaurimento della risorsa, non rinnovabile, metta in crisi il sistema.
4. In tempi lunghi si riduce la presenza umana e si ritorna agli usi agricoli tradizionali. Questa misura però prevede una riduzione della popolazione, che non può altrimenti vivere in una situazione di scarsa produzione.
6) . Nei tempi lunghi, i governi dei paesi aridi tendono a spostare nelle zone fertili gli abitanti delle zone a rischio e il loro bestiame. Si allontana cioè la popolazione a rischio ricollocandola in zone più umide. Questi progetti servono a sedentarizzare in zone più adatte le popolazioni e a sistemare i rifugiati ambientali, ma si rinuncia così ad utilizzare le zone aride.
La scelta dell’allontanamento di una parte degli abitanti è appoggiata da J. Larmuth, che è un sostenitore del ricorso alle tecniche tradizionali di uso del suolo. Egli propone i seguenti rimedi:
1. Esaminare il rapporto ottimale tra popolazione, animali domestici e vegetazione e mantenere il pascolo nei limiti della capacità di rigenerazione delle piante.
2. Coltivare, senza irrigare, specie di foraggio resistenti alla siccità.
3. Tenere greggi diversificati, con animali che mangiano diverse specie di piante. Ridurre il numero delle capre, specie distruttiva.
4. Sostituire l’allevamento con colture irrigue, come la palma da dattero, è un errore, perché la palma ha bisogno di un volume d’acqua mille volte superiore a quello necessario al bestiame. Semmai si potrebbe produrre una piccola quantità di foraggio per aiutare il bestiame a superare la stagione secca.
5. Effettuare microlavorazioni del suolo che aiutano l’assorbimento dell’acqua di pioggia.
Gli aiuti internazionali: aspetti organizzativi, tipi di intervento
L’aiuto straniero nei paesi saheliani è stato notevole: tra il 1975 e il 1982 questi paesi hanno ricevuto aiuti per un totale di 11 miliardi di $, una media annua di 44$ p.c; negli ultimi anni, il contributo pro capite è stato di 63 $ l’anno. Negli anni di carestia, l’aiuto arriva anche sotto forma di cibo, che arrivava a rappresentare circa il 6 % della disponibilità totale di cereali negli anni ‘70 e ‘80. Per condurre il Sahel fuori dall’attuale stagnazione, R. Cassen stimava però che l’ammontare degli aiuti dovesse ancora crescere.. Ogni anno, dal 1970 al 1995 circa, l’aiuto è cresciuto mediamente di 4,6% l’anno. Negli anni ‘90 questa percentuale si è però abbassata.
Le priorità assegnate alla destinazione dei fondi sono l’autosufficienza alimentare attraverso l’agricoltura asciutta, la forestazione e il potenziamento delle forniture d’acqua.
FEWS: Sahel Vulnerability Assessment
Tra le realizzazioni più interessanti c’è il FEWS (Famine Early Warning System), un sistema di osservazione che è stato sviluppato con l’aiuto degli USA e dovrebbe allertare i governi locali per un rapido intervento all’inizio della carestia. Un modo di intervenire è di evitare un eccesso di salita del prezzo dei cereali, immettendone una certa quantità sul mercato a prezzo politico.
Nell’anno 1996-7, FEWS ha così valutato l’esposizione al rischio della popolazione saheliana (in senso stretto stimata allora in 35 milioni):
1. 70.000 estremamente vulnerabili
2. 1,7 milioni molto vulnerabili
3. 2,7 milioni alquanto vulnerabili.
La graduazione di esposizione dipende dalla capacità della popolazione di assorbire lo shock degli scarsi raccolti. Quindi dalle scorte accumulate, dalle risorse non colpite dalla siccità, dalle condizioni economiche delle famiglie.
Le cause immediate di rischio sono la bassa produzione di cereali dovuta alle condizioni meteorologiche, le inondazioni oppure l’insufficiente acqua per le risaie, le invasioni di cavallette, uccelli, altri predatori e parassiti.
Nel medio periodo, va detto che la crescita demografica ha provocato la messa a coltura di spazi prima incolti, dove si pascolava il bestiame e si raccoglieva la legna da ardere, cosicché non ci sono più spazi per questi usi. Inoltre sono stati ridotti i periodi di riposo della terra, che così è diventata meno produttiva. In alcuni paesi le condizioni di insicurezza nelle campagne, la svalutazione della moneta e la disoccupazione aggravano la situazione.
Compito del FEWS è di valutare le quantità di popolazione esposta, per circoscrizione amministrativa, di cartografare le aree interessate, di informare i governi e di proporre piani di intervento in seguito alle carestie conseguenti a raccolti scarsi (www.info.usaid.gov/fews/). La valutazione include ovviamente l’andamento meteorologico, ma si estende anche alle condizioni di sicurezza delle campagne, alla presenza di rifugiati, a fatti bellici, all’impatto del cibo distribuito con i soccorsi. L’osservazione riguarda anche le aree urbane, per seguire l’effetto dell’inurbamento e della dinamica dei prezzi.
Il CILSS
I governi saheliani hanno organizzato, nel 1973, un comitato permanente per il controllo della siccità (CILSS), che ha lo scopo di investire nella ricerca della sicurezza alimentare e nella lotta contro gli effetti della siccità e della desertificazione, per raggiungere un nuovo equilibrio ecologico nel Sahel. Esso è coordinato da diverse istituzioni (Conferenze dei capi di Stato, Consiglio dei Ministri, Comitato regionale di Programmazione, Consiglio di Direzione) che nei diversi Paesi raccolgono l’informazione sull’andamento meteorologico, sulla conservazione del suolo e sui raccolti, mettendo in atto misure di ridistribuzione dei cereali dalle aree con surplus a quelle in deficit e predisponendo interventi per il controllo delle carestie e per affrontare le emergenze. Il segretariato esecutivo si trova ad Uagadugu. L’organizzazione collabora con vari Paesi avanzati: Germania, Canada, Francia, paesi Bassi, Usa, Danimarca, Giappone, Italia e Svizzera.
L’opera delle ONG, Organizzazioni Non Governative
Nel Sahel ce ne sono molte, sia nazionali sia internazionali. Solo dagli USA, nelle siccità recenti, ne sono venute a centinaia. Sono utili perché usano un bottom up approach, ascoltano la gente cercando di usare il sapere tradizionale e sono meno burocratizzate delle autorità ufficiali e pertanto più flessibili. Vengono però accusate di scarsa professionalità. Le Ong hanno un sistema di finanziamento complesso e si reggono in parte sul contributo del loro membri, quindi possono essere poco durevoli. La loro azione non può cambiare il quadro strutturale (proprietà e gestione dei mezzi di produzione), ma può essere utile nell’emergenza e nel modificare i comportamenti delle popolazioni al livello locale. In spazi così vasti come quelli dell’Africa arida, la loro azione tende a disperdersi e a diventare meno incisiva L’ideale sarebbe di avere progetti cui partecipino i privati, le Ong e il settore pubblico. .
Le Ong italiane riconosciute dal Ministero degli Esteri sono 160, riunite in tre federazioni: Cocis, Focsiv (cattolica), e Cipsi. Le Ong italiane partecipano a progetti di cooperazione finanziati dall’Italia o dall’UE nell’area saheliana e sahariana. Per esempio, negli otto paesi dell’Africa saheliana, Focsiv era presente, nel 1996, in otto diversi progetti, per lo più in Mali.
All’interno delle Ong si è sviluppata la categoria delle Ongs (Ong di sviluppo), la quale tende a dare uno statuto comune alle organizzazioni che, situate in un paese dell’UE, operano nel Sud del Mondo (Carta delle Ongs, 1997). Esse operano nel campo dello sviluppo e dell’aiuto umanitario. Costituiscono una categoria estremamente eterogenea, che si differenzia al suo interno in base ad area geografica di intervento, tipo di attività, organizzazione laica/non laica, di partito, ecc. Poche raggiungono un livello elevato di specializzazione.
Una parte delle Ongs collabora alle iniziative di governo e all’elaborazione delle politiche oltre che dei progetti. Altre invece si muovono nell’ottica di mantenere una netta separazione tra gruppi d’interesse - tra i quali esse si inseriscono- e i governi.
I problemi dell’attuazione degli interventi
Il sistema di interventi va valutato sotto il profilo dell’efficienza (efficiency) e dell’efficacia (effectiveness). L’efficienza degli aiuti è spesso indebolita dalla cattiva organizzazione della pubblica amministrazione locale. Più che l’ammontare dell’aiuto conta la possibilità del paese di gestirlo in maniera efficiente. Le strettoie sono di due tipi: a) i progetti finanziati vengono esaminati dai paesi donatori con lentezza e avviati con molti impedimenti burocratici, b) i progetti sono spesso mal orientati, mal gestiti e inefficaci. E’ un errore premere per maggiori aiuti prima di aver assorbito gli aiuti precedenti.
L’efficacia dipende molto dai settori in cui si concentrano gli aiuti, se si vuole che il loro impiego migliori veramente la situazione socio-economica e ambientale. Gli ambiti più importanti restano tuttavia quelli della salute della popolazione, quindi programmi di vaccinazione e altri supporti sanitari e, soprattutto la disponibilità di acqua igienicamente sicura .
Per quanto riguarda lo stato dei suoli e dei sistemi agricoli, un tipo di intervento poco invasivo consiste nell’aiutare la resilienza naturale: progetti di agro-forestazione, microlavorazione del suolo, microdighe. Il paese Mossi, nel Burkina Faso, è un esempio di micro-progetti: diguettes in pietra, agro-silvicoltura, arature e sistemazioni del suolo secondo le isoipse. Sono messi in atto attraverso ONG (Oxfam, GTZ, German Development Aid). Si tratta di interventi poco costosi, basati sul buon senso e sul recupero – spesso – di conoscenze della tradizione agricola locale.
La ricerca di colture più produttive e resistenti alla siccità (sperimentazione dell’ ICRISAT, International Crops Research Institute for the Semiarid Tropics, che ha aperto un laboratorio presso Niamey) costituisce un ambito di intervento importante quanto innovativo. Sono state create nuove varietà di miglio e sorgo. Sono più produttive, però richiedono più acqua e fertilizzanti.
Il resettlementinfine consiste nella ricollocazione della popolazione in aree più fertili, meglio dotate di acqua e più raggiungibili per l’erogazione di servizi ordinari e di emergenza.Nel Burkina Faso si sono ricollocate migliaia di contadini dal nord del paese nel sud, dopo aver sradicato con interventi massicci negli anni ’80, la malattia della “cecità dei fiumi” in quell’area (ad opera dell’AVV, Authorité des Aménagements des Vallées du Volta). Questa risistemazione ha avuto per ora un successo modesto. Ci vogliono decenni prima che il rapporto popolazione/territorio si ricostituisca ed è molto difficile trovare terre che non siano già parte del patrimonio delle popolazioni locali.
In genere, la mobilità della popolazione è molto cresciuta. Sul ruolo della popolazione nelle crisi di carestia, le interpretazioni sono divise: secondo alcuni (Mike Mortimer) ce ne vorrebbe di più, per tutti i lavori da fare per migliorare l’ambiente, secondo altri, c’è già un sovrappopolamento. Nella stagione in cui i lavori agricoli rallentano, i giovani maschi vanno a lavorare lungo la costa. Alcuni agricoltori si spostano di propria scelta nelle terre meridionali più piovose.
Nel lungo periodo, il rimedio alle periodiche crisi ambientali dipenderà dal grado di integrazione dell’economia saheliana con quella delle coste e con l’economia internazionale. Conterà moltissimo il clima politico che dovrebbe facilitare una risposta creativa della popolazione alle difficoltà ambientali.
Alcune aree sensibili:
a) Il caso del Mali
Nel 2003 la popolazione del Mali è stimata in circa 11 milioni di ab., la metà dei quali sotto i 20 anni. Il tasso di crescita è stato, negli ultimi 8 anni, intorno al 3,1%, il doppio di quello medio mondiale. La composizione etnica conta un 32% di bambara (sudanesi) e percentuali minori di songhai e altri popoli, con tre lingue principali (mande, arabo e berbero, oltre al francese). I nomadi (Tuaregh) erano poco meno di mezzo milione. L’eterogeneità etnica è fonte di problemi. La popolazione attiva lavora in agricoltura per il 78%. Solo il 30% abita nelle aree urbane, una cifra peraltro in continuo aumento, soprattutto durante le crisi di siccità. L’aspettativa di vita è di soli 38 anni e tutti i parametri dello stato di salute sono cattivi. Il livello dell’istruzione elementare è basso (il 69% delle persone in età scolare sono analfabeti) e, quel che è peggio, stazionario da molti anni.
Negli anni ‘60 il Mali aveva stabilito stretti legami con i paesi comunisti, specialmente con la Cina. Nel 1964 circa 400 consiglieri agronomici cinesi operavano nel paese. Si cercò allora di applicare schemi collettivisti ispirati ai modelli sovietici e cinesi, con risultati disastrosi. La collettivizzazione non risultò adattabile ai sistemi agricoli locali (R. Vezeau). Dagli inizi degli anni ‘90 il Mali ha una nuova Costituzione che ha sostituito un regime democratico alla dittatura.
Oggi l’80% della popolazione attiva lavora nell’agricoltura: il prodotto agricolo equivale ai ¾ delle esportazioni e alla metà del PIB. Tra le colture alimentari di sussistenza, il miglio e il sorgo sono coltivati nell’ovest del paese, il mais, che necessita di più acqua, nel sud, e il riso, il prodotto più importante, nel delta interno del fiume Niger. Dalla fine degli anni ’80 il governo ha messo maggiore impegno per l’incremento di questa coltura, anche favorendo la privatizzazione delle terre. Il cotone, le arachidi e la canna da zucchero forniscono invece prodotti per l’esportazione. Quindi, le grandi opere di sistemazione e di irrigazione delle terre alluvionali del medio Niger, iniziate nel periodo coloniale, stanno dando finalmente dei risultati
Il sistema di aiuti al Mali è stato negli ultimi anni così strutturato:
- aiuti multilaterali: World Bank e European Development Fund;
- bilaterali: Francia e Germania;
Parte di questi aiuti arriva direttamente ai governi, parte attraverso circa 50 ONG straniere. Negli ultimi anni la cifra totale è stata di circa 26$ p.c. In questo modo aumenta però il debito estero del paese. Una parte degli aiuti arriva per la formazione, un’altra parte sotto forma di alimenti, che sono diventati una fornitura a carattere continuo e di cui vengono richieste quantità crescenti. Un quarto di tutti gli aiuti vanno allo sviluppo rurale, specialmente per l’agricoltura asciutta. Le priorità sono oggi il cibo e l’acqua ma in prospettiva la riforestazione, la protezione dei raccolti e la formazione sono importanti. Il Mali effettua una pianificazione quinquennale orientata verso il raggiungimento dell’autosufficienza in un ambiente stabile. Meno del 40% dei pozzi aperti negli ultimi dieci anni è ancora in funzione. Non tutte le risorse locali sono utilizzate in maniera completa. La pesca fluviale solo ora viene fatta oggetto dell’attenzione che merita. Bisogna poi valutare l’equilibrio tra colture commerciali e colture di sussistenza. In un sistema duale, l’agricoltura di sussistenza, asciutta, dovrebbe ricevere più investimenti. Per il bestiame, si dovrebbe attuare una miglior distribuzione della pressione sul pascolo, nonché migliorare le specie allevate e le strutture di mercato. Per quanto riguarda l’energia, il 90% dell’uso si appoggia ancora al legno. Bisognerebeb gestire meglio le aree silvo-pastorali e distribuire stufe più efficienti alla popolazione.
Anche alcuni ambienti sono sottoutilizzati, per motivi di storia del popolamento e culturali. Tra questi, l’area umida del delta interno del Niger. Qui i progetti di irrigazione sono iniziati nel 1919 sotto l’amministrazione francese, quando fu costruita una diga a Sansanding per dirottare parte delle acque verso canali di distribuzione e vennero assegnati lotti ai contadini per la coltivazione del cotone, destinato all’industria tessile francese. A fronte di un progetto per 1 milione di ha, solo 40.000 sono stati messi a coltura. I suoli non sono molto fertili e i coloni europei – in passato - non se ne sono interessati.
Nell’insieme, la situazione è migliorata e il Mali ha potuto affrontare annate siccitose senza che avvenissero disastri. Il Mali oggi coltiva 250.000 ha a cotone, che costituisce l’esportazione principale (in alcune annate è il primo paese africano per l’export del cotone, che equivale alla metà del valore dell’export da questo Paese), seguito da arachidi e bestiame. Il cotone resta molto dipendente dall’andamento climatico. A fronte di 11 milioni di ab., il Mali ha 5,5 milioni di bovini, altrettanti ovini e 7 milioni di caprini, oltre ad altro bestiame. I cereali principali per l’alimentazione locale sono il mais, il sorgo e il riso. Quindi, la maggior parte delle piante alimentari (mais, riso, batata, patata, fagioli, manioca) e commerciali (cotone, arachide) oggi sono di origine esterna. Il riso è diventato il cereale principale per l’alimentazione umana, ma la sua produzione è limitata alle zone irrigue. Tutto ciò evidenzia i grandi cambiamenti che si sono prodotti nelle campagne di questo Paese, dove la popolazione è diventata molto più dipendente dall’estero per la sua alimentazione.
b) I problemi della repubblica del Sudan
Il più vasto degli stati africani, il Sudan include ampie aree a clima assai diverso: dal deserto al predeserto, alla steppa. Nella parte meridionale le precipitazioni sono più abbondanti e diversi importanti fiumi (il Nilo Azzurro, l’Atbara e il Nilo Bianco) forniscono un complemento di irrigazione ai vasti campi di cotone. Il territorio dello Stato si può dire corrisponda al bacino medio del Nilo.
Alla varietà ambientale si aggiunge la diversità delle popolazioni e delle attività economiche: nomadi del deserto a nord, seminomadi nelle steppe, pastori agricoltori più a sud e infine agricoltori sedentari nella parte più meridionale.
Questo paese è caratterizzato da una forte differenza di densità di abitanti nelle sue diverse parti, in ciò ricordando l’Egitto. Al 1993 il Sudan contava 25 milioni di ab., di cui 2.192.000 nomadi, il cui numero è peraltro aumentato. Oggi il paese è diventato una federazione di stati. Quello più densamente abitato ospita la capitale federale, Khartum. I meno abitati sono il Kordofan e il Northern, con 8-9 ab/kmq. Il tasso di incremento annuo della popolazione è di circa 1,6%, inferiore alla media mondiale. L’inurbamento non è ancora molto marcato, tanto che gli abitanti delle città non superano il 26% del totale. Essenzialmente agricolo, il Sudan esporta soprattutto cotone e la manodopera agricola è ricercata, cosicché questo paese ha seguito una politica di accoglienza dei rifugiati, ambientali e non, in progetti di sviluppo delle aree coltivate.
Il paese ha ospitato molti rifugiati provenienti dall’Eritrea, fuggiti per problemi politici, ma anche per le gravi crisi ambientali. Si ricordi che l’Etiopia includeva l’Eritrea fino al 1993. I rifugiati sono stati sistemati in tre tipi di insediamento: villaggi di agricoltori, basati sull’autosussistenza di coltivatori diretti cui sono stati assegnati piccoli poderi, villaggi di salariati che lavorano nelle grandi aziende agricole, soprattutto alla raccolta del cotone, e villaggi periurbani, dove la gente lavora nelle vicine città oppure nelle aziende agricole, sempre conservando il proprio status di rifugiati. Il Sudan è unico in Africa in questo sforzo di integrare nella sua economia i rifugiati, considerandoli una fonte di manodopera e cercando di evitare che diano luogo ad insediamenti spontanei (baraccopoli). I rifugiati non constituiscono un problema, poiché il paese ha abbondanza di terre coltivabili. Sono stati sviluppate sia le colture irrigue, con grandi progetti, sia quelle non irrigue, altamente meccanizzate. Tuttavia, la popolazione sudanese teme che i rifugiati diventino troppo numerosi e sottraggano lavoro ai locali, oppure squilibrino il rapporto domanda/offerta a motivo dei bassi salari di cui si contentano. D’altra parte, così i sudanesi si spostano verso lavori meglio pagati nei vicini paesi del petrolio (Rogge, 1985).
Nel corso del 2000-01, circa 160.000 eritrei fuggiti in Sudan e 45.000 etiopici che avevano lasciato il proprio paese durante la dittatura di Menghistu e trovato rifugio qui, potranno scegliere se ritornare in patria o rimanere nei campi profughi del Sudan.
Dal 1983 una guerra interna divide la popolazione nera prevalentemente animista e cristiana delle regioni meridionali (i Nilotici) dalla popolazione arabo-islamica del centro nord, che ha le redini del potere. La contesa ha anche una dimensione ambientale, a causa della competizione per le terre a pascolo del Darfur, dove la popolazione araba, dedita all’allevamento, contende le terre ai sedentari neri, dediti all’agricoltura. La crisi di siccità in atto in anni recenti ha fatto salire a 2,6 milioni il numero degli abitanti a rischio. Si contano oggi 800.000 profughi, a causa delle operazioni di “pulizia etnica”.
c) Il bacino del Ciad
La depressione del Ciad si trova nel Sudan centrale (la regione geografica, non lo Stato) e costituisce un’area endoreica, cioè senza sbocco al mare. La regolazione del lago dipende dall’evaporazione. Sui circa 6 milioni di ab. del Ciad, si stimava nel 1996 che 300.000 fossero a rischio di fame e altri 450.000 in condizioni incerte. Durante il periodo siccitoso del 1995 in alcune prefetture il governo è intervenuto con vendite di grano sovvenzionate.
I problemi delle emergenze siccitose si riflettono sul lago omonimo, che presenta una grande variabilità di estensione, passando a volte da 10.000 a 25.000 kmq. Le sue rive sono incerte e mutevoli. Esso è tuttavia pescoso e ricco di specie ittiche. I pescatori, sia dello Stato del Ciad, sia del Niger, sono quindi molto numerosi. Nel corso delle crisi di siccità il lago è arrivato a ridursi moltissimo, separandosi in tremila piccoli bacini. Gli effetti sulle risorse ittiche sono stati catastrofici, tuttavia gli esperti non pensano che esso possa scomparire a breve scadenza. Fino al 1960 le risorse ittiche erano poco sfruttate, ma da allora la pesca si è fatta sempre più intensiva, pregiudicando la durabilità della risorsa. Proprio il sovrasfruttamento attuale mette in pericolo la biodiversità e in generale la risorsa ittica.
Un altro motivo di turbamento degli equilibri del complesso lacustre è nella costruzione di invasi artificiali per l’irrigazione o per la produzione di energia elettrica. Pertanto, anche in questo caso sono le esigenze della popolazione che mettono l’ambiente a rischio, più delle variazioni climatiche, almeno secondo una scuola di pensiero. Va detto tuttavia che a nord del lago si trovano bacini anch’essi un tempo lacustri, i quali si sono in tempi lontani prosciugati. Anche il lago Ciad potrebbe prosciugarsi naturalmente. Esso esiste solo perché vi si riversano le acque di fiumi che provengono da sud, cioè da aree piovose, di cui il principale è lo Chari. La variazione di superficie è sempre stata una costante del lago, sul quale si affacciano il Camerun, la Nigeria, il Ciad, il Niger e la Repubblica Centroafricana. Per tutti questi Paesi il lago rappresenta una risorsa importante.
Il lago Ciad, a seguito delle siccità ricorrenti dagli anni ’70, aveva lasciato allo scoperto grandi superfici sulle quali erano stati costruiti nuovi villaggi e messe a coltura le terre Da 6000 anni almeno il lago era comunque in ritiro e gli abitanti hanno via via occupato le isole di sabbia che emergevano. Le cause del ritiro del lago sono però da vedersi oggigiorno anche nell’attingimento eccessivo di acqua dai fiumi immissari da parte dei Paesi rivieraschi. Sul versante nigeriano in particolare è stato realizzato un complesso irriguo che usa le acque di varie dighe: di Tiga, sul fiume Kano, costruita per irrigare un complesso di 18.000 ha, di Bakolori, per irrigare la piane del fiume Sokoto, poi la diga di Maga e altre costruite a partire dagli anni ‘70. Nel caso della diga di Maga, costruita sull’affluente Logone (1979) per realizzare un’area risicola, la riduzione dell’acqua nella piana causò il collasso della pesca e dell’allevamento, oltre ad un calo della fauna selvatica. Molti abitanti si sono quindi spostati altrove. Nel 1994 si è dato il via a un programma di recupero della piana del Logone, piana che è stata in parte di nuovo inondata (quindi, un ritorno al passato, un passo indietro). Anche le aspettative insoddisfatte provocano reazioni sbagliate. I contadini, delusi dal mancato funzionamento del progetto irriguo SCIP, si sono spinti negli spazi lasciati liberi dal lago, colonizzandoli spontaneamente.
Nel 1989 il geografo A. T. Grove (cfr. bibl.) si domandava cosa sarebbe accaduto se il lago Ciad avesse ripreso le superfici un tempo inondate. La risposta è arrivata nel 1998, a seguito dell’aumento delle piogge, allorché il livello delle acque è nuovamente salito, costringendo gli abitanti ad andarsene, mentre i pescatori riprendevano possesso dello spazio di nuovo coperto dalle acque. Gli immigrati arrivati dalla Nigeria e da altri paesi si trovano ora a competere per la terra e la pesca.
e) L’impatto delle grandi opere nella regione saheliana: la Strada Transahariana Tangeri-Lagos
Percorso: Tangeri - Rabat - Agadir - Tan Tan - Semara - Guelta Zemmur - Nouakchott - Dakar - Abidjan - Lagos. Il tratto che si svolge nel deserto è tra Agadir e Nouakchott, dove la strada corre al confine tra Western Sahara e Mauritania. La strada rientra tra i maggiori progetti di sviluppo dell’Africa.
Lunga 6.000 km, interesserà 15 Stati africani. La presidenza dei lavori è stata data al Marocco. Ad ogni Stato attraversato spetterà la manutenzione del proprio tratto. Il Marocco (il quale realizza il 50% dell’export e il 30% dell’import con l’UE) e la Spagna faranno in modo da raccordarla alla rete europea.
Nella parte transahariana, numerosi villaggi si sono formati lungo il percorso di vecchie carovaniere. A motivo della siccità crescente, i nomadi si sono sedentarizzati, lungo la costa e le strade, oltre che nei centri costieri. A Laayoune, che è diventata una città di quasi 100.000 ab., nuovi quartieri di edilizia pubblica accolgono le famiglie saharawi, venute dall’interno. In particolare a Nouakchott, costruita per ospitare 50.000 persone, vivono oggi in 400.000. Una strada W-E raccorda la costa al Mali.
La strada percorre il deserto per 2000 km. Atar, antico centro carovaniero che ha sostituito nel tempo quelli più interni di Timbuctù e di Oulata, diventerà più importante, come punto obbligato di transito dei prodotti delle industrie e dell’artigianato marocchini diretti verso sud. La chiusura delle frontiere tra Marocco e Mauritania ha bloccato il traffico. All’incrocio delle tre frontiere, nello Zemmour, la guerriglia tra marocchini e Saharawi è ancora in atto. In un tratto di 350 km, la sicurezza non è garantita. A Semara, un nuovo abitato moderno è nato ad opera del governo marocchino, che ha anche costruito centinaia di km di strade. Un grosso impegno è nella ricerca d’acqua, attraverso scavo di pozzi e costruzione di serbatoi. Pur se ancora incompleta, la strada è già veicolo di importanti cambiamenti.
La rete stradale è alla base di tutti i piani di sviluppo abitativo, agricolo (con piantagioni di palme, eucalipti, albicocchi) e industriale. Le risorse del tratto di deserto attraversato sono: gas, gomma arabica, sale, datteri. I minerali di ferro sono estratti in superficie (la Mauritania è all’ottavo posto tra gli esportatori mondiali di ferro, che rappresenta un terzo delle entrate dello stato. L’Italia è il primo acquirente).
Nei pressi di Semara è stato localizzato un giacimento di ferro. Sempre nel Western Sahara si trovano giacimenti di petrolio le cui riserve sono stimate in 10 miliardi di t. Un altro settore che il governo marocchino cerca di sviluppare è la pesca: a Tan Tan sono stati costruiti depositi frigoriferi. Grandi giacimenti di fosfati saranno la base di uno sviluppo attestato lungo la costa e la nuova strada. I porti di Tarfaya e di Sidi Ifni saranno modernizzati. L’opzione ferroviaria non è comunque stata abbandonata: una ferrovia collegherà Marrakech a Laayoune. E’ chiaro che la strada avrà l’effetto di richiamare abitanti e attività produttive lungo il suo percorso e nei punti nodali, da un lato sfavorendo l’interno e le località remote, ma dall’altro mettendo le popolazioni servite in condizioni di vantaggio e maggiore sicurezza anche in tempi di crisi. E’ possibile che popolazioni interne oggi collocate in spazi marginali e in quanto tali fonte di maggior degrado ambientale, si spostino verso questa struttura viaria. Come tutte le “grandi opere”, anche questa strada non mancherà di produrre effetti dannosi all’ambiente e agli insediamenti tradizionali, ma avrà anche l’effetto positivo di aprire ai traffici moderni nuove regioni, avvicinandole ai mercati.
Tab. 1. Dati demografici sugli stati saheliani (fonte Cal. De Agostini, 2005)
Stati |
Sup. |
Popolazione |
Densità |
Pop. urbana |
ab. <15 anni |
Burkina Faso |
274 |
12.552 |
46 |
16,9 |
46 |
Ciad |
1.284 |
8.971 |
7 |
24,2 |
47,9 |
Eritrea |
121 |
4.130 |
34 |
19,1 |
44,7 |
Mali |
1.249 |
11.370 |
9 |
32,3 |
47,2 |
Mauritania |
1.031 |
2.746 |
3 |
40 |
45,8 |
Niger |
1.186 |
11.395 |
10 |
22,2 |
47,6 |
Senegal |
197 |
10.510 |
53 |
49,6 |
43,7 |
Sudan |
2.504 |
33.610 |
13 |
38,9 |
43,9 |
Tab. 2 – Principali indicatori demografici degli stati saheliani (fonte Cal. De Agostini, 2005)
Stati |
Crescita annua |
natalità |
fecondità |
Mortalità generale |
Mortalità infantile 1° anno |
M per 100 F |
Burkina Faso |
2,8 |
45,1 |
6,4 |
18,7 |
100,9 |
97,1 |
Ciad |
3,4 |
47,6 |
6,5 |
16,4 |
96,7 |
94,9 |
Eritrea |
3,4 |
42,2 |
5,8 |
11,8 |
47 |
99 |
Mali |
3,1 |
48,3 |
6,7 |
19,3 |
120,4 |
96 |
Mauritania |
2,5 |
42,5 |
6,2 |
13,3 |
75,3 |
98 |
Niger |
2,8 |
50,2 |
7 |
21,9 |
124,6 |
99,7 |
Senegal |
2,6 |
36,8 |
5 |
11 |
58,6 |
96,4 |
Sudan |
2,9 |
37,2 |
5,2 |
9,8 |
64 |
102,5 |
Tab. 2 - Percentuale della popolazione urbana in Africa
1950 |
14.9 |
1955 |
16.6 |
1960 |
18.6 |
1965 |
20.9 |
1970 |
23.2 |
1975 |
25.3 |
1980 |
27.5 |
1985 |
29.6 |
1990 |
31.9 |
1995 |
34.6 |
2000 |
37.1 |
2005 |
39.7 |
2010 |
42.4 |
2015 |
45.1 |
2020 |
47.8 |
2025 |
50.7 |
2030 |
53.5 |
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Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università di Cagliari
Fonte: http://spol.unica.it/didattica/gentileschi/Geografia%20regionale/Appunti%20lezioni%2005-06.doc
Autore: Prof.ssa Maria Luisa Gentileschi
a.a. 2005/06
Africa arida geografia regionale
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