Giustizia amministrativa
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Giustizia amministrativa
2. Gli istituti della giustizia amministrativa
Con l’espressione “giustizia amministrativa” sono designati alcuni istituti diretti ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione. Nel nostro ordinamento questi istituti sono stati elaborati per la tutela del cittadino che abbia subito una lesione da un’attività amministrativa. L’intervento del cittadino nel procedimento amministrativo si colloca in una logica differente rispetto agli istituti di giustizia amministrativa. Gli strumenti di partecipazione al procedimento amministrativo sono diretti ad assicurare uno svolgimento corretto ed equilibrato della funzione amministrativa e non a rimediare ai vizi e alle manchevolezze di una funzione già svolta.
Una parte della dottrina, nel porre in evidenza gli elementi caratteristici della giustizia amministrativa, ha preso in esame il rapporto tra istituti di giustizia amministrativa e controlli sull’attività amministrativa. Anche i controlli sugli atti sono previsti per assicurare la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa e in genere riguardano un’attività amministrativa già conclusa. Si incentrano, in genere, sulla verifica della legittimità dell’atto amministrativo; più raramente sulla verifica della sua opportunità (c.d. controlli di merito). Un criterio distintivo fra i controlli e gli istituti tipici della giustizia amministrativa sarebbe identificabile nel fatto che i controlli attuerebbero un interesse oggettivo (ossia l’interesse alla conformità dell’operato dell’amministrazione al diritto, o a regole tecniche, o a criteri di efficienza), mentre gli istituti di giustizia amministrativa assicurerebbero in modo specifico l’interesse del cittadino, tanto che tale interesse, non solo determina l’avvio del procedimento, ma ne condiziona anche lo svolgimento e il risultato.
Gli istituti di giustizia amministrativa non si esauriscono negli strumenti per la tutela “giurisdizionale” dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione: di conseguenza la distinzione tra i controlli e gli istituti di giustizia amministrativa non può essere ricercata nei caratteri specifici della funzione giurisdizionale.
Fra gli istituti di giustizia amministrativa sono compresi anche i ricorsi amministrativi: con essi la contestazione del cittadino è proposta ad un organo amministrativo e la decisione è assunta con un atto amministrativo, senza alcun esercizio di funzione giurisdizionale. La controversia si svolge ed è risolta nell’ambito dell’attività amministrativa. Ma, non si ha, neppure per i ricorsi amministrativi, l’esercizio di un’attività assimilabile a quella di controllo: nei ricorsi, il potere di annullamento è esercitato in seguito all’iniziativa di un cittadino che fa valere un suo proprio interesse e tale interesse rappresenta la ragione e identifica il limite dei poteri conferiti all’autorità decidente.
3. Le ragioni di un sistema di giustizia amministrativa
Nel nostro ordinamento, ed in generale, nei Paesi dell’Europa continentale gli istituti di giustizia amministrativa si caratterizzano per la loro separatezza rispetto agli strumenti ordinari di tutela del cittadino. La giustizia amministrativa in questi Paesi si contrappone così alla giustizia “comune”, che tutela i cittadini nei loro rapporti con soggetti equiordinati. Sulla giustizia comune domina il ruolo dell’autorità giurisdizionale ordinaria, che appartiene ad un ordine autonomo, qualificata da imparzialità e indipendenza.
Gli istituti di giustizia amministrativa sono strettamente dipendenti dall’evoluzione nei rapporti fra cittadino, Amministrazione e autorità giurisdizionale (ordinaria), ma in varia misura sono stati puntualmente condizionati dalle vicende particolari dei singoli Paesi. Uno dei modelli più significativi è quello francese. In Francia è radicato un sistema di contenzioso amministrativo nel quale le controversie tra il cittadino e la l’Amministrazione sono sottratte al giudice e devolute ad un giudice speciale ( in origine il Consiglio di Stato e poi anche i Tribunali amministrativi di primo grado e d’appello). Si tratta di un giudice inquadrato nel Potere esecutivo, la cui giurisdizione è pienamente separata da quella ordinaria, con la conseguenza che non si può ricorrere al giudice ordinario contro la decisione del giudice speciale, né viceversa.
Un modello profondamente diverso è quello accolto originariamente in Belgio: la costituzione del 1831 stabilì che anche nei confronti della Pubblica amministrazione il sindacato giurisdizionale fosse riservato al giudice ordinario ( regola superata nel secondo dopoguerra, con l’introduzione di un giudice speciale).
In Germania, invece, dopo la riforma del 1960, la giurisdizione amministrativa è intesa come giurisdizione su diritti e si esercita nelle vertenze concernenti il diritto pubblico: i giudici amministrativi sono ormai pienamente autonomi dal potere amministrativo e ricevono una collocazione piuttosto nell’ambito dell’ordine giudiziario.
In Italia si è passati da un sistema di contenzioso amministrativo, modellato su quello francese, ad un sistema di giurisdizione unica (1865) e poi ad un sistema articolato in una giurisdizione del giudice ordinario e una giurisdizione del giudice amministrativo (1889); negli ultimi anni si è manifestata la spinta ad una maggiore omogeneità fra giudici ordinari e giudici amministrativi, con una serie di problemi nuovi, che hanno tratto argomento anche dal testo della Costituzione ( art.103, 1°comma Cost.).
Due motivi diversi costituiscono i problemi nodali affrontati da ogni sistema di giustizia amministrativa: le ragioni di specificità dell’Amministrazione e l’esigenza di una tutela effettiva del cittadino anche nei confronti dell’Amministrazione-autorità. Il primo motivo suggerisce strumenti di tutela diversi da quelli ordinari e addirittura forme di tutela diverse da quelle giurisdizionali, il secondo ha indotto spesso a considerare come modello la giustizia “comune”, nella quale alla parità di posizioni delle parti corrisponde l’elaborazione delle tecniche più raffinate di tutela del singolo.
L’Amministrazione però, non si presenta sempre necessariamente come autorità; nel nostro ordinamento è testimoniata anzi da una vivace tendenza a favore del ricorso a strumenti di diritto privato, anche quando l’Amministrazione persegua una finalità pubblica. In alcuni casi, l’Amministrazione opera come soggetto equiordinato agli altri, rispetto al quale valgono le medesime regole che valgono nei rapporti privati.
4. Le origini della giustizia amministrativa: cenni al sistema francese
La concezione dell’Amministrazione come soggetto tipicamente diverso dagli altri si affermò nelle prime fasi dello Stato liberale, nel contesto del principio di separazione dei poteri. Nella Francia degli ultimi decenni del XVIII sec. e degli anni della Rivoluzione, con questo principio si intendeva che il Potere esecutivo dovesse essere un potere distinto dagli altri; l’Esecutivo non poteva arrogarsi poteri del giudice ordinario ma i suoi atti non dovevano essere soggetti al sindacato dei giudici. In Francia, le origini di questa immunità riflettevano un contrasto secolare fra il Governo e i Parlamenti. I Parlamenti erano giudici superiori d’appello e rivendicavano una competenza anche nelle vertenze contro gli atti dell’Amministrazione, entrando spesso in conflitto con le autorità amministrative. La fine dell’Ancien régime travolse anche i Parlamenti e nel 1789-1790 prima l’Assemblea nazionale e poi l’Assemblea costituente sancirono che gli organi giurisdizionali non avrebbero potuto intervenire sull’Amministrazione.
Nella Rivoluzione francese si affermò il principio della “responsabilità” dell’Amministrazione nei confronti dell’Assemblea legislativa: erano previste forme di controllo a garanzia della legalità degli atti amministrativi, che trovavano fondamento e svolgimento anche nell’ordinamento gerarchico. In particolare a favore del cittadino era previsto un rimedio specifico: il ricorso gerarchico. Questo ricorso era diretto all’organo gerarchicamente sovraordinato a quello che aveva emanato l’atto lesivo e comportava, da parte di tale organo, la verifica della legalità dell’atto impugnato. Per rendere più serio l’esame del ricorso gerarchico, l’ordinamento francese prevedeva che i ricorsi venissero decisi dalle autorità competenti, dopo aver acquisito il parere di alcuni organi consultivi. Fra questi il più importante fu il Consiglio di Stato. Con la Costituzione del 1848 e con una legge del 24 maggio 1872, al Consiglio di Stato fu riconosciuta anche la competenza a decidere il ricorso, senza sanzione del Capo dello Stato ( come avveniva precedentemente). La riforma del 1872 attribuì al Consiglio di Stato i caratteri di organo giurisdizionale. Risultava istituito un giudice capace di sindacare la legittimità degli atti dell’Amministrazione, senza però deroghe o attenuazioni rispetto al principio della separazione dei poteri, perché competente a sindacare gli atti dell’Amministrazione era il Consiglio di Stato, autorità ben distinta dai giudici ordinari.
5. Modelli monistici e modelli dualistici.
La distinzione tra modelli monistici e modelli dualistici è stata proposta per classificare i diversi sistemi di tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione. In base a tale distinzione, nei modelli monistici, la tutela giurisdizionale del cittadino, nei confronti della Pubblica amministrazione, viene attribuita prevalentemente ad un solo giudice; nei modelli dualistici, invece, la giurisdizione nei confronti della Pubblica amministrazione, è assegnata al giudice ordinario e al giudice speciale su un piano di parità. A questo modello (dualistico) sarebbe riferibile oggi il sistema italiano, caratterizzato dalla distribuzione delle competenze fra giudice ordinario (civile) e giudice speciale (T.a.r. e Consiglio di Stato), in relazione alle posizioni soggettive coinvolte. Questa classificazione, però, non ha un valore assoluto. In Francia, ad esempio, determinate controversie con l’Amministrazione vengono demandate al giudice ordinario, o perché relative a rapporti in cui l’Amministrazione compare come soggetto di diritto comune, o perché riguardano posizioni di libertà o particolari diritti del cittadino.
Neppure il modello italiano segue, in modo pieno, questa classificazione, perché in alcuni ambiti, la competenza del giudice amministrativo non dipende dalla configurabilità di una posizione soggettiva come interesse legittimo, ma dipende dall’inerenza della controversia a una certa materia (c.d. giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo). Inoltre, nei casi in cui si discuta se la giurisdizione sulla controversia spetti al giudice ordinario o al giudice speciale, dal 1877 è demandato alla Cassazione decidere il conflitto. Spetta, dunque, ad un giudice ordinario definire i limiti della giurisdizione del giudice speciale.
Capitolo 2
“LE ORIGINI DEL NOSTRO SISTEMA DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA”
- La giustizia amministrativa nel Regno di Sardegna
Il modello del contenzioso amministrativo francese fu accolto anche in Italia nell’epoca napoleonica, dove ricevette applicazioni. Tale modello fu soppresso quasi ovunque in Italia con la Restaurazione, ma non cessò per questo di rappresentare un modello significativo. Tant’è vero che già prima della prima guerra d’indipendenza, quasi tutti gli Stati italiani avevano introdotto ordinamenti coerenti con questo modello.
Nel Regno di Sardegna con editto 18 agosto 1831 Carlo Alberto costituì un Consiglio di Stato, con funzioni consultive, articolato in tre sezioni: sezione dell’Interno, sezione di Giustizia, Grazia ed affari ecclesiastici, sezione di Finanza. Lo stesso editto stabiliva che il parere del Consiglio di Stato dovesse essere acquisito obbligatoriamente, prima dell’adozione di certi atti (atti con forza di legge, regolamenti, conflitti, conflitti fra “giurisdizione giudiziaria” e amministrazione, bilancio generale dello Stato, liquidazioni del debito pubblico). Al Consiglio di Stato l’editto assegnava, infine, alcuni particolari competenze contenziose (art.29 ss.).
Con le regie patenti del 1842, ben presto modificate con un regio editto del 29 ottobre 1847, fu istituito un vero e proprio sistema di contenzioso amministrativo. Il sistema si fondava, innanzi tutto, sulla distinzione fra controversie riservate all’Amministrazione e controversie di <<amministrazione contenziosa>>. Alcune controversie erano riservate alla giurisdizione del giudice ordinario (giurisdizione giudiziaria) e fra esse un significato particolare rivestivano le questioni inerenti al diritto di proprietà (art.4).
Al Consiglio di intendenza e alla Camera dei conti la giurisprudenza civile riconobbe carattere di organi giurisdizionali. Il ruolo di questi giudici speciali fu oggetto di polemiche, soprattutto dopo che lo Statuto albertino (art.68 ss.) enunciò come regola la riserva della funzione giurisdizionale al giudice ordinario.
Una serie di decreti reali del 30 ottobre 1859, ispirati dal Rattizzi, accolsero e confermarono il sistema del contenzioso amministrativo, articolato ora in Consigli di governo, organi di primo grado, designati anche come <<giudici ordinari del contenzioso amministrativo>> e Consiglio di Stato, organo principalmente di secondo grado.
Si delineava il seguente quadro:
a) Era esclusa da qualsiasi tipo di sindacato giurisdizionale la c.d. amministrazione economica ( attività amministrativa non disciplinata da norme di legge e rimessa a valutazioni dell’Amministrazione).
b) In alcune materie, la tutela dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione era demandata ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo, ossia al sistema articolato nei Consigli di Governo e nel Consiglio di Stato. In particolare ad essi spettavano le controversie sui contratti d’appalto delle Pubbliche amministrazioni , per imposte dirette e tasse, quelle sul trattamento economico del personale dipendente dagli enti locali.
c) In altre materie la tutela dei cittadini era demandata a giudici speciali del contenzioso amministrativo. Questo era il caso delle controversie in materia di contabilità pubblica, demandate alla Corte dei Conti e delle controversie in materia di pensioni, demandate al Consiglio di Stato.
Negli altri casi la competenza spettava al giudice ordinario, ossia ai giudici civili.
Un sistema del genere lasciava ampio spazio alla possibilità di conflitti positivi o negativi, fra amministrazione e giudici, fra giudici del contenzioso amministrativo e giudici ordinari.
La disciplina per la loro risoluzione fu introdotta con la legge 20 novembre 1859. In base a questa legge il conflitto poteva essere sollevato anche dal rappresentante locale del potere esecutivo (allora il Governatore, in seguito il Prefetto). La decisione dei conflitti era assunta con decreto reale, previo parere del Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’Interno, sentito il Consiglio dei Ministri. Era però evidente che la decisione effettiva spettava al Ministro dell’Interno, che formulava la proposta del decreto. Il sistema sanciva, in questo modo, una prevalenza dell’autorità amministrativa su quella giurisdizionale. Ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo non erano conferiti poteri di annullamento rispetto agli atti amministrativi dedotti in giudizio.
Il giudice ordinario del contenzioso amministrativo, inoltre, riteneva di poter esercitare un potere d’interpretazione degli atti amministrativi e ciò significava che l’atto dell’Amministrazione non costituiva di per sé un limite ai suoi poteri.
In ogni caso, se l’atto amministrativo risultava in contrasto con la legge, il giudice prescindeva da esso ai fini della decisione.
- Il declino dei tribunali del contenzioso amministrativo.
Le discussioni, sul tema in atto, non furono superate dalla riforma del 1859. Ne è prova il fatto che quasi subito dopo furono sottratte, alla giurisdizione dei giudici ordinari del contenzioso amministrativo, alcune vertenze precedentemente di loro competenza. In particolare fu sottratto ad essi il contenzioso fiscale.
A sostegno del sistema del contenzioso amministrativo risultavano invocati tre ordini di considerazioni:
- la tutela dell’interesse pubblico. Era considerato essenziale che l’attuazione dell’interesse pubblico non fosse ostacolata da un intervento del giudice; attraverso un sistema di contenzioso amministrativo sembrava che questa esigenza fosse meglio garantita.
- l’esclusione delle garanzie di inamovibilità ed imparzialità previste per i giudici ordinari, che avrebbe consentito di far valere, in modo più efficace, la responsabilità dei giudici del contenzioso amministrativo.
- la specialità del diritto dell’Amministrazione. Le controversie riguardavano istituti diversi da quelli del diritto comune; per questo era opportuno che fossero demandate ad un giudice diverso da quello ordinario.
Questi argomenti erano vivamente criticati dagli oppositori dei modelli di contenzioso amministrativo.
Essi sostenevano l’esigenza che anche le controversie fra l’Amministrazione ed il cittadino fossero assegnate al giudice ordinario, estraneo all’Amministrazione e dotato di tutte le garanzie previste per i giudici ordinari. In ogni giurisdizione speciale sembrava annidarsi, invece, il privilegio dell’Amministrazione.
- La legge 20 marzo 1865 n.2248
Da un lato si afferma l’esigenza di un giudice speciale, che abbia un’esperienza specifica in un settore del diritto diverso da quello comune; dall’altro si teme che l’introduzione di un giudice speciale si risolva in un regime processuale privilegiato per l’Amministrazione, incompatibile con l’ideologia dello Stato liberale.
Il dibattito raggiunse il suo culmine nelle discussioni alla Camera sull’assetto della giustizia amministrativa, subito dopo l’Unità. Le discussioni condussero all’approvazione di una legge che aboliva i giudici ordinari del contenzioso amministrativo: la legge 20 marzo 1865, n.2248, allegato E (c.d.legge di abolizione del contenzioso amministrativo).
Tale legge attuò, in alcuni settori nodali, l’unificazione dell’ordinamento amministrativo italiano, abrogando le discipline degli Stati preunitari. Era costituita da sei testi normativi, designati come “allegati” alla legge stessa. Dei temi della giustizia amministrativa si interessano l’allegato D e soprattutto l’allegato E.
- L’allegato D disciplinava l’assetto del Consiglio di Stato. Non erano previste particolari garanzie di indipendenza né per quanto riguarda la nomina dei suoi componenti, né per quanto riguarda la loro inamovibilità; la continuità con l’Amministrazione era sottolineata dalla possibilità per i Ministri di intervenire alle sedute direttamente o attraverso delegati (art.20).
Fu confermata l’articolazione in tre sezioni, che in alcuni casi operavano collegialmente in adunanza generale (art.12 ss.). Il Presidente del Consiglio di Stato poteva formare, per l’esame di questioni particolari, Commissioni speciali, designando i consiglieri che ne avrebbero fatto parte (art.21).
Al Consiglio di Stato erano assegnate competenze consultive (art.7 ss.) ed in alcuni casi il parere del Consiglio di Stato era obbligatorio: proposte di regolamenti generali di Pubblica amministrazione e ricorsi fatti dal Re contro la legittimità di provvedimenti amministrativi. Si faceva riferimento al ricorso al Re, designato come “ricorso straordinario” perché poteva essere proposto solo dopo l’esaurimento dei rimedi ordinari, ossia dei ricorsi gerarchici.
In alcune ipotesi tassative, il Consiglio di Stato esercitava funzioni giurisdizionali, come giudice speciale (art.10). Dall’allegato D, furono assegnate al Consiglio di Stato, come giudice speciale competenze minori, per controversie in materia di debito pubblico e di sequestri di beni ecclesiastici. In questi casi il procedimento aveva carattere contenzioso e la decisione poteva comportare l’annullamento dell’atto amministrativo. Al Consiglio di Stato, come giudice speciale, fu conferita una competenza di particolare rilevanza: la risoluzione dei conflitti fra l’Amministrazione e autorità giurisdizionale (art10, n.1).
- L’allegato E viene designato come “legge di abolizione del contenzioso amministrativo”, perché all’art.1 disponeva la soppressione dei c.d. giudici ordinari del contenzioso amministrativo.
Nell’ allegato E fu delineato il seguente assetto della giustizia amministrativa:
a)<< tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materia nelle quali si faccia questione di un diritto civile e politico>> furono assegnate al giudice ordinario (art.2). La legge precisava che la competenza del giudice ordinario non poteva subire eccezioni per il fatto che parte in giudizio fosse un’Amministrazione o fossero coinvolti i suoi interessi.
b) << gli affari non compresi>> nell’ipotesi precedente furono riservati alla autorità amministrative (art.3, 1°comma).
In questo ambito erano introdotte alcune garanzie per i cittadini, segno che il legislatore aveva percepito la delicatezza della loro posizione, in un ambito escluso dalla tutela giurisdizionale. Era previsto che le autorità amministrative avrebbero provveduto con <<decreti motivati>>, con l’osservanza del contraddittorio con <<le parti interessate>> e previa acquisizione del parere degli organi consultivi.
Nei confronti dei <<decreti>> assunti dall’Amministrazione, fu consentito il ricorso in via gerarchica: a questo ricorso amministrativo fu riconosciuta un’operatività molto ampia, tanto da farne, a lungo, uno degli strumenti fondamentali per la tutela del cittadino.
Le disposizioni appena richiamate, definivano così,il quadro dei c.d. “limiti esterni” della giurisdizione civile nei confronti dell’Amministrazione. Tali limiti rispecchiavano la distinzione fra le <<materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico>> e gli altri <<affari>>.
Fondamentale era la considerazione secondo cui l’espressione <<diritti civili e politici>> non fosse onnicomprensiva. Successivamente fu, infatti, equiparata alla nozione di <<diritti soggettivi>>, percependo in modo chiaro che vi erano anche posizioni soggettive di altro genere, che risultavano non protette dalla giurisdizione ordinaria.
c) Nelle controversie di competenza del giudice ordinario, le ragioni della specialità dell’Amministrazione trovavano riscontro nei “limiti interni” della giurisdizione civile (art.4). L’equilibrio tra garanzia della tutela giurisdizionale e separazione dei poteri, era ricercato ammettendo un sindacato del giudice ordinario solo sulla legittimità dell’atto amministrativo e non sulla opportunità, che invece, poteva essere valutata esclusivamente dall’Amministrazione stessa. Era riconosciuta al giudice ordinario la competenza di sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, ma non annullarlo, revocarlo o modificarlo. L’art. 5 della legge introduceva, inoltre, l’istituto della “disapplicazione “dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario.
d) L’amministrazione non era sottratta agli effetti della sentenza, essa era tenuta a <<conformarsi>> al provvedimento del giudice. Questa prescrizione fondamentale, di ottemperanza al giudicato, sanciva la prevalenza del potere giurisdizionale rispetto al potere amministrativo.
- Il bilancio dell’allegato E nei primi anni successivi al 1865
La riforma del 1865 intendeva realizzare il passaggio da un sistema di tutela nei confronti dell’Amministrazione (modello del contenzioso amministrativo), ad un altro imperniato sul giudice ordinario. Il sistema delineato nell’allegato E era rimasto inapplicato e l’istituto dei ricorsi gerarchici risultò screditato dalla tendenza dell’Amministrazione a lasciarsi condizionare dai suoi particolari interessi.
Dopo l’entrata in vigore della legge del 1865, l’autorità governativa sollevò, con grande frequenza, dei conflitti. Il Consiglio di Stato propose, di conseguenza, una lettura molto restrittiva dei limiti esterni della giurisdizione del giudice ordinario. Molti giuristi liberali sottolinearono che, invece dell’eguaglianza dei cittadini e dell’Amministrazione davanti alla legge, si realizzava un sistema che limitava gli spazi per la tutela del cittadino. Mantellini identificò nella giurisprudenza del Consiglio di Stato sui conflitti, la causa del fallimento della riforma del 1865.
Si notava, nelle decisioni del Consiglio di Stato, la tendenza ad escludere la competenza del giudice civile, quando la vertenza riguardasse provvedimenti dell’autorità amministrativa. La competenza del giudice civile veniva ammessa solo in presenza di atti dell’Amministrazione emanati a tutela di un interesse personale o patrimoniale dell’Amministrazione stessa ( e non già a tutela di un interesse pubblico generale). La soppressione dei tribunali del contenzioso amministrativo aveva ridotto la tutela del cittadino e non aveva esteso la giurisdizione civile agli ambiti occupati dai giudici soppressi.
L’insuccesso della riforma era addebitato, principalmente, al Consiglio di Stato che, quale giudice dei conflitti, poteva decidere o meno circa le controversie fra il cittadino e l’Amministrazione.
- La legge sui conflitti del 1877
Queste considerazioni furono all’origine di un nuovo intervento in materia di conflitti, la legge 31 marzo 1877, n.3761. Si attribuiva alla Corte di Cassazione di Roma la decisione sui conflitti insorti tra Amministrazione ed autorità giudiziaria, ovvero tra giudici ordinari e giudici speciali. Alla Cassazione fu attribuito, inoltre, il potere di decidere i ricorsi proposti contro le sentenze dei giudici speciali, impugnate per <<incompetenza ed eccesso di potere>>.
La legge non produsse l’effetto auspicato e la Cassazione proseguì nell’indirizzo già prospettato del Consiglio di Stato.
Capitolo 3
“ L’AFFERMAZIONE DI UNA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA”.
1. L’istituzione della Quarta sezione
I risultati della riforma del 1865 apparvero ben presto insoddisfacenti: la tutela del cittadino, nei confronti dell’Amministrazione era tutt’altro che assicurata. Dell’esigenza di una revisione si fecero portatori sia uomini politici, sia studiosi e giuristi. L’argomento presentava due profili fondamentali : a) l’attuazione di una più ampia tutela del cittadino b) l’individuazione dell’organo cui affidare la tutela.
La giurisprudenza affermava una tendenziale incompatibilità fra il diritto soggettivo e il provvedimento amministrativo: il diritto soggettivo del cittadino era riconosciuto e garantito nei confronti dell’Amministrazione solo quando essa agiva <<iure privatorum>> e in altre poche ipotesi; là dove interveniva un provvedimento amministrativo, di regola, vi erano solo interessi.
Si delineava una contrapposizione tra i diritti di abolizione del contenzioso amministrativo e gli interessi diversi dai diritti soggettivi, che erano privi di tutela giurisdizionale, anche quando erano di grande importanza per il cittadino. Sorgeva l’esigenza di introdurre uno strumento di tutela per questi interessi. A tale esigenza diede riscontro la legge 31 marzo 1889, n.5992. La tutela degli <<interessi>> fu demandata al Consiglio di Stato, con la precisazione che questa funzione era assegnata ad una nuova sezione: la Quarta sezione. La competenza di tale Quarta sezione era definita nell’art.3 che stabiliva che alla 4 Sezione del Consiglio di stato spetta di decidere i ricorsi per incompetenza,eccesso di potere o violazione di legge contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interessi di individui o di enti morali e giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione o alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali.Il ricorso non è ammesso se trattasi di atti e provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio di un potere politico.Alla Quarta sezione era demandata la tutela di interessi designati come <<interessi d’individui o di enti morali giuridici>>. La tutela di questi <<interessi>> si realizzava con <<ricorsi contro atti e provvedimenti di un’Autorità amministrativa>> e, quindi, nelle forme dell’impugnazione del provvedimento amministrativo. La tutela del cittadino si configurava come tutela contro il provvedimento amministrativo. I ricorsi alla Quarta sezione erano mezzi di impugnazione del provvedimento e producevano l’annullamento del provvedimento impugnato (art.17).
Il ricorso poteva essere proposto dal cittadino, per impugnare un provvedimento affetto da vizi tassativamente indicati dalla legge:<<incompetenza, eccesso de potere e violazione di legge>> . “Incompetenza” intesa come vizio degli elementi soggettivi dell’atto amministrativo; “eccesso di potere” inteso come uso gravemente scorretto del potere discrezionale da parte dell’Amministrazione; “violazione di legge” come vizio specifico rappresentato dal contrasto fra un elemento del provvedimento o del suo procedimento e una disposizione contenuta nella legge o in un’altra fonte del diritto.
Nei confronti dell’ amministrazione economica, la tutela davanti alla Quarta sezione risultò limitata agli ambiti dell’ eccesso di potere. Per gli ambiti definiti come merito dell’atto amministrativo, il sindacato sulla discrezionalità rimaneva riservato all’autorità amministrativa e ai ricorsi gerarchici. La tutela del cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione fu ricondotta ad uno schema incentrato sulla distinzione tra figure soggettive. Ai diritti soggettivi si contrapponevano gli <<interessi>> propri dei cittadini, la cui tutela sarebbe stata demandata alla Quarta sezione.
La legge del 1889 introduceva, inoltre, un rapporto preciso fra il ricorso alla Quarta sezione e il ricorso gerarchico (art.7), perché il ricorso alla Quarta sezione era ammesso solo contro un provvedimento <<definitivo>>.
Dalla tutela imperniata sulla Quarta sezione erano esclusi gli atti <<emanati dal governo nell’esercizio del potere politico>>. Questa categoria, dei c.d. atti politici, non aveva confini chiari.
La competenza della Quarta sezione si incentrava nel sindacato di legittimità sull’atto amministrativo. In questi casi, la Quarta sezione, nel caso di accoglimento del ricorso, avrebbe potuto assumere una decisione sulla pratica, in sostituzione di quella rappresentata dal provvedimento annullato (art.17).
2. La riforma del 1907.
La legge del 1889 non affrontava la questione della “natura amministrativa” o giurisdizionale della Quarta sezione. Le pronunce della Quarta sezione erano designate dalla legge come <<decisioni>> (non sentenze), termine che richiamava le “decisioni” dei ricorsi gerarchici. Alcuni autori sostennero la tesi della natura amministrativa della Quarta sezione, ma prevalse l’indirizzo che ne valorizzava il ruolo, ponendola su un piano diverso da quello degli organi amministrativi. La tesi del carattere giurisdizionale della Quarta sezione fu accolta dalla Cassazione che, dichiarando inammissibili ricorsi proposti contro le decisioni del Consiglio di Stato, riconobbe alla Quarta sezione carattere di giudice speciale e, alle sue decisioni, valore di sentenze.
La legge 7 marzo 1907 n.62 riconobbe formalmente il carattere giurisdizionale della Quarta sezione (art.1), distinguendo fra sezioni <<consultive>> del Consiglio di Stato e sezioni <<giurisdizionali>>. Contemplò, di conseguenza, il ricorso alla Corte di cassazione, <<agli effetti della legge 31 marzo 1877, n.3761>>, contro le decisioni delle sezioni giurisdizionali. Istituì, inoltre, la Quinta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali, alla quale erano demandati i ricorsi con sindacato esteso al merito (e non solo alla legittimità, come per la Quarta sezione). Il coordinamento tra le due sezioni era affidato alle Sezioni riunite ( oggi Adunanza plenaria).
Altre innovazioni di rilievo, riguardarono la disciplina dell’istruttoria nel processo amministrativo, la disciplina del procedimento amministrativo, la disciplina del procedimento avanti alla Giunte provinciali amministrative e la disciplina del ricorso straordinario al Re.
In attuazione della legge del 1907 e del relativo testo unico, fu emanato il r.d. 17 agosto 1907, n.642, con il <<regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato>>, che è tuttora in vigore.
3. La riforma del 1923 e l’istituzione della giurisdizione esclusiva
La legge del 1907 ha segnato il nostro sistema di giustizia amministrativa, orientando fortemente la distinzione fra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria, nei termini di una distinzione fra posizioni soggettive. Un sistema imperniato sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi comportava la necessità di identificare i caratteri e i contenuti delle diverse posizioni soggettive; operazione non sempre agevole.
La legge 30 dicembre 1923, n.2480, cui fece seguito il testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con r.d. 26 giugno 1924, n.1054 (t.u. Cons. Stato), cercò di porre rimedio a queste diatribe, attraverso due ordini di innovazioni:
- Al giudice amministrativo fu riconosciuta la capacità di conoscere “in via incidentale” la posizioni di diritto soggettivo, ad eccezione di quelle sullo stato e la capacità delle persone e la querela di falso, riservate al giudice ordinario.
La possibilità di una cognizione incidentale dei diritti consentiva di evitare che, la necessità di esaminare una questione inerente a diritti soggettivi comportasse sempre la sospensione del giudizio e la remissione delle parti avanti al giudice civile.
- In alcune materie particolari, fra le quali il pubblico impiego, al giudice amministrativo fu attribuita la possibilità di conoscere e di giudicare anche in tema di diritti soggettivi. In queste materie, la tutela giurisdizionale non era articolata fra tutela degli interessi legittimi ( demandata al giudice amministrativo) e tutela dei diritti soggettivi ( demandata al giudice ordinario), ma era devoluta interamente al giudice amministrativo (c.d. giurisdizione elusiva).
Dalla riforma del 1923 emergeva, in modo chiaro, che:
- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, il riparto fra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria seguiva il criterio della distinzione per materie (art.29, 1°c. e 30 1°c, t.u. Cons. Stato).
- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, nelle vertenze per diritti soggettivi, il giudice amministrativo disponeva degli stessi poteri di cognizione e di decisione che gli spettavano in caso di giurisdizione degli interessi legittimi (art.29, 2° e 3°c. t.u. Cons. Stato).
- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, la tutela era “aggiuntiva” rispetto a quella degli interessi.
- anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo poteva conoscere in via incidentale delle situazioni di diritto soggettivo, non inerenti alla materia devoluta alla giurisdizione esclusiva, che fossero però rilevanti per la decisione.
Al giudice amministrativo era preclusa la cognizione di questioni inerenti allo stato e alla capacità delle persone, o questioni di falso, che erano riservate, pertanto, al giudice ordinario.
Al giudice ordinario erano riservate le questioni attinenti a <<diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di legittimità dell’atto o del provvedimento contro cui si ricorre>> (art.30, 2°c. t.u. Cons.Stato).
I diritti patrimoniali consequenziali furono identificati con il diritto al risarcimento del danno, che assumeva rilevanza in seguito all’annullamento di un provvedimento amministrativo, che avesse inciso su un diritto soggettivo.
La riforma del 1923-24 introdusse alcune modifiche anche all’ordinamento del Consiglio di Stato; la più importante è il superamento della distinzione di competenze tra Quarta e Quinta sezione, che divenne di ordine meramente interno.
In base al testo unico del 1924 avrebbe dovuto essere emanato dal governo un nuovo regolamento, che però non fu mai emanato: rimase in vigore, e rimane tuttora in vigore, quello del 1907.
4. la Costituzione repubblicana e l’istituzione dei Tar
Dopo il testo unico 26 giugno 1924, n.1054, la disciplina della giurisdizione amministrativa rimase immutata per oltre settant’anni. Nei primi anni dell’ordinamento repubblicano le innovazioni più evidenti riguardarono l’assetto organizzativo della giurisdizione amministrativa, ma non furono condizionate dalla Costituzione. Con il d.l. 5 maggio 1948, n.642, era istituita una Sesta sezione del consiglio di Stato. Subito dopo, in attuazione dell’art.23 dello Statuto speciale per la Sicilia, con il d.lgs.6 maggio 1948, n. 654, venne istituito il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, organo equiordinato al Consiglio di Stato, con funzioni consultive e giurisdizionali: in tal modo divenne problematica la stessa unitarietà della giurisdizione amministrativa.
Solo nella seconda metà degli anni ’60, l’incidenza dei principi costituzionali fu più evidente, con riferimento alle norme sull’indipendenza del giudice (art.101, 2°c. e 108, 2°c. Cost.). la Corte costituzionale dovette dichiarare illegittima la composizione della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale. Analoga sorte ebbero le Sezioni dei Tribunali amministrativi per il contenzioso elettorale. Gli interventi della Corte costituzionale e l’avvio delle Regioni a statuto ordinario resero più urgente l’attuazione dell’art,125 della Cost., sulla istituzione, in ogni regione, di un giudice amministrativo di primo grado. Con la legge 6 dicembre 1971, n.1034 (legge TAR), furono istituiti, nei capoluoghi di ogni Regione, i Tribunali amministrativi regionali (TAR).
I TAR sono giudici amministrativi di primo grado, dotati di competenza generale per le controversie per gli interessi legittimi e per quelle su diritti soggettivi, devolute alla giurisdizione esclusiva.
L’appello contro le sentenze del TAR va proposto al Consiglio di Stato (art.28).
L’assetto generale della giustizia amministrativa sembrava completato dal d.p.r. 24 novembre 1971, n.1199, che fu emanato per la riforma del procedimento amministrativo, dettando per la prima volta una disciplina organica dei ricorsi amministrativi.
5. Le innovazioni recenti e le tendenze espresse dalla legge n.205 del 2000
Le innovazioni successive all’istituzione dei TAR furono piuttosto limitate. Tra gli interventi più significativi vi fu l’estensione della giurisdizione esclusiva alle controversie sulle concessioni edilizie, sul contributo di concessione e sulle sanzioni amministrative per abusi edilizi (art.16, legge 27 gennaio 1977, n.10).
Elementi essenziali di novità emersero, sempre più spesso, a partire dagli anni ’90. Erano introdotte discipline speciali, per accelerare la definizione del giudizio. Questa scelta rispecchiava l’importanza riconosciuta dal legislatore a certi interessi del cittadino: per rendere più efficace la loro tutela dovevano essere introdotte procedure specifiche e più veloci. La legge 7 agosto 1990, n.241 (modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n.15 e dalla legge14 maggio 2005, n.80), dopo aver previsto il diritto d’accesso ai documenti amministrativi, introdusse un giudizio speciale di competenza del giudice amministrativo, caratterizzato da procedure particolari ed accelerate.
In altri casi emergeva, invece, l’esigenza di migliorare l’efficienza dell’attività amministrativa.
Fu esteso, in molti casi, l’ambito della giurisdizione esclusiva che assunse rilievo con la riforma del pubblico impiego (avviata d.lgs. 3 febbraio 1993), n.29): si assoggettava a un regime contrattuale quasi tutte le categorie dei dipendenti pubblici, trasformando il loro rapporto con l’Amministrazione da pubblicistico in privatistico. La legge 15 marzo 1997, n.59 conferì ampia delega al Governo, per l’attuazione e per l’assegnazione al giudice ordinario, delle controversie dei dipendenti pubblici con rapporto contrattuale e una estensione della giurisdizione esclusiva. La delega fu esercitata dal Governo con il d.lgs. 31 marzo 1998, n.80. Negli artt. 33 e 34, si assegnavano, alla giurisdizione esclusiva, le vertenze in materia di pubblici servizi e di edilizia e urbanistica. Per tali materie, il giudice amministrativo era competente a pronunciarsi su <<risarcimento del danno ingiusto>>, cagionato dall’Amministrazione, con i propri atti (art.35).
L’estensione della giurisdizione esclusiva, in materia di pubblici servizi, fu ritenuta illegittima dalla Corte costituzionale (17 luglio 2000, n.292). Quasi contemporaneamente, il Parlamento approvava la legge 21 luglio 2000, n.205, che estese la giurisdizione esclusiva a nuove materie. Tale legge ha assegnato al giudice amministrativo la competenza a pronunciarsi sui diritti patrimoniali consequenziali, anche nelle materie non devolute alla sua giurisdizione; ha innovato la disciplina del processo amministrativo, introducendo strumenti specifici per la tutela dei diritti devoluti alla giurisdizione esclusiva (come i procedimenti per ingiunzione, mutuati dal c.p.c . art.8); ha arricchito i poteri del giudice, sia per la cognizione della vertenza, sia per la tutela cautelare; ha previsto un rito speciale per il giudizio sul “silenzio” dell’Amministrazione, disancorandolo dal modello dell’impugnazione di provvedimenti; ha introdotto veri e propri riti accelerati per le vertenze di maggiore rilievo.
Le nuove concezioni emerse sono state oggetto di dibattiti, culminati nella sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004, n.204. La sentenza ha portato al centro del dibattito le norme costituzionale, come criterio per definire il “ruolo” del giudice amministrativo. Con l’art.103 1°c. Cost., si assegnava, infatti, al giudice amministrativo, la funzione di tutela del cittadino nei confronti del potere amministrativo, non consentendogli un’assegnazione indiscriminata di ogni vertenza sui diritti, ancorché sia coinvolto un interesse pubblico. In base a tali criteri, la Corte ha dichiarato parzialmente illegittimi gli artt. 33 e 34 del d.lgs. n.80/1998.
Capitolo 4
L’INTERESSE LEGITTIMO
- Considerazioni introduttive
Nel nostro diritto amministrativo, le posizioni giuridicamente rilevanti del cittadino nei confronti dell’Amministrazione vengono distinte in: interessi legittimi e diritti soggettivi. L’interesse legittimo è una figura centrale nei rapporti tra cittadino e Amministrazione e rappresenta l’elemento fondante per la giurisdizione amministrativa.
Tale figura , anche se nel nostro ordinamento è assolutamente centrale, non è una nozione giuridica che sia imposta dai caratteri specifici del rapporto fra Amministrazione e cittadino. Questa nozione non ha, infatti, preceduto o rese “obbligate” le scelte del legislatore.
Di interesse legittimo, si parla, quasi esclusivamente, nel diritto italiano, mentre, negli altri Paesi, la garanzia del cittadino è si condizionata dai caratteri del rapporto con l’Amministrazione, ma non ha richiesto l’elaborazione della figura dell’interesse legittimo.E’ necessario stabilire se nei confronti dell’amministrazione il cittadino abbia un interesse legittimo o un diritto soggettivo.
La distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi può apparire agevole quando si confrontino ipotesi stereotipe di posizioni soggettive: ad es. il cittadino interessato ad un potere discrezionale dell’Amministrazione e il cittadino creditore di un’obbligazione pecuniaria nei confronti della stessa Amministrazione. Nel primo caso, si ritiene che possa essere identificato solo un interesse legittimo al cittadino l’ordinamento non garantisce neppure la pretesa a un risultato utile, perché l’esito finale del procedimento dipende da una scelta discrezionale dell’autorità amministrativa. Nel secondo caso, l’ordinamento riconosce e garantisce la pretesa a un risultato utile predeterminato e appresta tutta una serie di strumenti, per assicurare una piena realizzazione di questa pretesa. Ma la distinzione appare molto più difficile in altre ipotesi. Si pensi al caso di un’attività vincolata dell’Amministrazione: in questo caso si ammette la configurazione di posizioni di interesse legittimo, ma se l’attività è vincolata, si deve riconoscere che la legge prevede e garantisce, al cittadino, un determinato risultato e in questo modo, la distinzione, rispetto alle obbligazioni, scompare.
Anche nell’ambito del diritto privato, si tende a riconoscere la configurabilità di situazioni, rispetto alle quali, i diritti soggettivi sono caratterizzati in termini analoghi, rispetto agli interessi legittimi tradizionali. Si pensi al caso della partecipazione a un concorso privato, nella costruzione delineata dalla giurisprudenza civile, in base a riflessioni su enti pubblici economici; in questo caso, il diritto soggettivo del cittadino non si risolve nella pretesa, giuridicamente riconosciuta, ad un risultato utile ( l’assunzione), ma si presenta in termini di stretta correlazione allo svolgimento del “potere” privato. La Cassazione ha sottolineato come al cittadino debba essere assicurata l’osservanza dei principi di buona fede e di ragionevolezza ed arriva a configurare l’esistenza di un obbligo motivazionale.Nel caso del concorso pubblico si ha un interesse legittimo.
Si evidenzia, inoltre, la tendenza in alcuni Paesi ad estendere la nozione di “potere”, in senso stretto, anche alle situazioni di diritto privato, caratterizzate istituzionalmente dalla presenza di un soggetto in posizione di supremazia. Il rischio di questa tendenza è quello di assegnare all’Amministrazione un ruolo istituzionalmente “dominante”, in contrasto con il principio di legalità, perdendo di vista le ragioni della tutela nei confronti dell’Amministrazione e di indebolire così la garanzia individuale del cittadino.
Veramente irrinunciabili, in uno Stato democratico, sono la garanzia e l’ampiezza della tutela nei confronti dell’Amministrazione, e non le nozioni e le forme attraverso le quali tale tutela è stata interpretata. La ragione di un’attenzione particolare per la tutela nei confronti dell’Amministrazione è costituita proprio dal carattere pubblico del soggetto, che si pone, rispetto al cittadino, come “autorità”. In questa logica, appare contraddittorio invocare la nozione dell’interesse legittimo, per giustificare una tutela meno intensa del cittadino rispetto a quella offerta dal diritto comune. Eppure, solo da pochi anni, la Corte di Cassazione, rivendicando un proprio indirizzo, ha ammesso, anche per la lesione di interessi legittimi, il risarcimento dei danni.
- L’interesse legittimo e il “potere” dell’Amministrazione.
Anche se il dibattito sulla nozione di interesse legittimo appare ancora aperto, si riscontra un ampio consenso nell’identificare alcuni elementi come propri dell’interesse legittimo.
Un primo elemento è costituito dal carattere “relativo”(o “relazionale”) dell’interesse legittimo: l’interesse legittimo non è una posizione soggettiva di tipo “assoluto”(come i diritti reali), ma è una posizione correlata all’esercizio di un potere da parte dell’Amministrazione.L’esercizio del potere produce effetti giuridici nei confronti dei cittadini.L’Amministrazione, disponendo degli interessi che le sono devoluti dalla legge distribuisce risorse, incide sulle posizioni giuridiche dei cittadini.L’interesse legittimo può essere definito come una posizione soggettiva speculare al potere dell’Amministrazione.
In passato, il potere dell’Amministrazione è stato considerato come un “valore” che esprimeva la supremazia dello Stato e dei suoi fini rispetto al cittadino: questa logica però è radicalmente incompatibile con i principi di ordinamento democratico. Oggi sembra affermarsi una concezione opposta, che rifiuta l’argomento della supremazia istituzionale e dà rilievo piuttosto ad elementi formali, come l’assoggettamento del potere dell’Amministrazione ad una disciplina tipica, espressa in particolare nella teoria dei vizi dell’atto amministrativo(eccesso di potere). Molte riflessioni si sono concentrate sull’analisi dei casi in cui sia stata riconosciuta la presenza di un potere dell’Amministrazione. Il potere amministrativo è considerato una situazione esclusiva del diritto pubblico: di conseguenza non è configurabile un interesse legittimo, neppure in presenza di atti unilaterali dell’Amministrazione, quando essi siano riconducibili al diritto privato(rescissione o risoluzione unilaterale del contratto). Non vale però la conclusione opposta cioè l’attività unilaterale dell’amministrazione disciplinata dal diritto pubblico non si configura necessariamente come potere amministrativo;in alcune situazioni l’attività svolta dall’Amministrazione è disciplinata dal diritto pubblico, ma non ha le caratteristiche del “potere” in senso proprio. L’ambientazione dell’interesse legittimo nel diritto pubblico non risolve, quindi, tutti i problemi connessi all’identificazione di questa figura.
In passato sono stati presi in considerazione vari profili dell’attività amministrativa nel diritto pubblico, per definire il potere tipico dell’Amministrazione.
a)In alcune interpretazioni è presentato, come profilo caratteristico del “potere”, la c.d. autoritarietà o autoritatività. Di fronte ad un potere autoritativo dell’Amministrazione, il cittadino non può opporre un diritto soggettivo, perché l’Amministrazione, attraverso i propri provvedimenti, può estinguere legittimamente i diritti dei terzi.
Il nucleo del potere amministrativo sarebbe espresso dall’autoritarietà: in questo senso sembra prendere posizione anche l’art.1 della legge n.241/1990, come modificato dalla legge n.15/2005, che nel contesto di una valorizzazione degli istituti privatistici, riserva però al diritto pubblico, proprio la disciplina dell’attività autoritativa dell’amministrazione.
Il riferimento al carattere dell’autoritarietà non spiega però, quando l’Amministrazione sia titolare di un potere e in che cosa consista, nella generalità delle situazioni, tale potere.
b)In altre interpretazioni è considerata, come elemento caratteristico del “potere”, la sua funzionalità alla realizzazione dell’interesse pubblico. Di conseguenza non si ha potere quando l’attività amministrativa sia diretta istituzionalmente a soddisfare un interesse privato: è il caso, ad esempio, della determinazione dell’indennità di esproprio. Questa ipotesi non può verificarsi nel caso dell’attività discrezionale, perché tale attività, per definizione, comporta la necessità di una scelta, in considerazione dell’interesse pubblico: invece, secondo tale tesi in esame, si potrebbe verificare in alcune ipotesi di attività vincolata.
c)Altre interpretazioni assumono, come caratteristica del potere amministrativo, la sua infungibilità: mentre l’adempimento di un’obbligazione di regola è sempre fungibile, cosicché all’adempimento di un’obbligazione si può porre rimedio con una prestazione equivalente di un terzo, il “potere” dell’Amministrazione è riservato ad uno specifico apparato.
La posizione del cittadino titolare di un interesse legittimo si caratterizzerebbe per una dipendenza istituzionale dall’Amministrazione.
d)Alcune interpretazioni accolgono argomenti di ordine squisitamente formale e individuano, come elemento tipico del “potere” la produzione di effetti giuridici, in termini costitutivi: potere significa, quindi, capacità di assumere atti produttivi di effetti giuridici propri.Viene accolta la distinzione fondamentale tra procedimenti dichiarativi e procedimenti costitutivi.I procedimenti dichiarativi accertano o certificano situazioni già identificate dalla legge(d.soggettivo);i procedimenti costitutivi hanno carattere dispositivo perché sono idonei a produrre effetti giuridici propri(int.legittimo).L’identificazione del carattere costitutivo di certi provvedimenti amministrativi non è pacifica: alle incertezze generali sulla figura e sull’ambito dell’atto costitutivo si sommano quelle particolari che attengono al rapporto fra legge e atto amministrativo nella produzione di effetti giuridici. In particolare si discute se possa considerarsi propriamente costitutiva, anche l’attività amministrativa, che si limiti a verificare, per la produzione di effetti giuridici, condizioni compiutamente definite dalla legge.
Un orientamento dottrinale individua, come discriminante per la nozione di “potere” il fatto che la legge riservi all’Amministrazione una competenza esclusiva, intesa come capacità di operare effettuando valutazioni che possono essere compiute solo dall’Amministrazione e non da altri soggetti(discrezionalità tecnica ed amministrativa). Il “potere”, insomma, si caratterizza per essere riservato ad un soggetto, ma questa “riserva” attiene alle modalità, attraverso le quali, l’Amministrazione opera ed assume i suoi atti. Quando la legge riserva all’Amministrazione l’effettuazione di certe valutazioni, ai fini dell’adozione di provvedimenti, l’attività dell’Amministrazione presenta caratteristiche particolari e introduce elementi nuovi, rispetto a quelli già compiutamente determinati nella previsione normativa. Questa situazione si verifica quando l’attività amministrativa sia discrezionale. Quando l’attività è vincolata, l’Amministrazione si deve limitare ad applicare una regola già presente nell’ordinamento, senza poter introdurre da parte sua, nulla di ulteriore. Pertanto se l’attività è vincolata, la legge che disciplina l’attività amministrativa definisce già completamente ciò che spetta al cittadino in quella certa situazione: l’Amministrazione, in presenza della situazione individuata dalla legge, è tenuta ad assumere nei confronti del cittadino l’atto previsto dalla legge stessa e non può aggiungervi nulla di suo. Il cittadino è titolare perciò di un diritto soggettivo.Se l’attività è discrezionale il cittadino no n può vantare una pretesa giuridica a un determinato risultato perché ciò che gli spetta non è determinabile a priori in base alla legge.
Questa tesi non viene accolta dalla giurisprudenza prevalente: essa riconosce la presenza di interessi legittimi di fronte ad un’attività amministrativa discrezionale, ma esclude che quando l’attività sia vincolata, siano configurabili necessariamente diritti soggettivi.
Da ultimo si deve tener presente l’influsso del diritto comunitario che, nei settori di competenza dell’Unione europea, sta incidendo profondamente anche sul diritto amministrativo dei Paesi associati, introducendo elementi ed istituti comuni e promuovendo lo sviluppo dei diversi ordinamenti nazionali secondo direttrici omogenee. Il diritto comunitario impone una tutela efficace del cittadino nei confronti dell’Amministrazione; nello stesso tempo non contempla la figura dell’interesse legittimo, anche perché essa è utilizzata quasi solo nel diritto italiano. Anche il legislatore italiano ha dovuto adeguarsi all’impostazione dettata dalle norme comunitarie, col risultato che in passato si era delineata una singolare distinzione fra interessi legittimi, fondati sulla normativa comunitaria ( ai quali era assicurata una tutela risarcitoria) e interessi legittimi, fondati sulla normativa nazionale ( senza tutela risarcitoria).
In questo quadro così incerto, finisce con l’assumere rilievo determinante la casistica elaborata dalle sezioni unite della Cassazione, quale giudice della giurisdizione.
- (segue): il contributo della giurisprudenza; la questione dei diritti “perfetti”.
Ad opera della Corte di cassazione(quale giudice delle giurisdizioni) si è consolidata un’interpretazione comune sulla identificazione della maggior parte delle situazioni corrispondenti ad interessi legittimi. Per distinguere gli interessi legittimi dai diritti soggettivi, la giurisprudenza ha accolto una serie di criteri, invocati talvolta in via “cumulativa”, come se l’identificazione dell’interesse legittimo discendesse, in via definitiva, da una serie di “indici” da valutare complessivamente.
I) Tesi della distinzione fra norme d’azione e norme di relazione. L’ordinamento comprenderebbe norme d’azione, che disciplinano un potere e il suo esercizio, e norme di relazione, che disciplinano un rapporto intersoggettivo e i suoi effetti. A questa coppia di norme corrisponderebbe nel caso di violazione alla coppia di qualificazione degli atti in termini di “illegittimità-illeceità” e, quindi, sul piano delle posizioni soggettive, la coppia “interesse legittimo-diritto soggettivo”. La giurisprudenza più recente non sembra riconoscere peso decisivo alla tesi in esame.
II) Tesi della distinzione fra attività vincolata nell’interesse pubblico e attività vincolata nell’interesse privato. Uno dei problemi maggiori è rappresentato dalla valutazione delle posizioni soggettive di fronte all’attività vincolata dell’Amministrazione. L’interesse legittimo si caratterizzerebbe per il suo confronto con un interesse pubblico. Di conseguenza se il potere dell’Amministrazione è discrezionale, sarebbe sempre configurabile un interesse legittimo perché il confronto con l’interesse pubblico è immanente; se il potere è vincolato, si dovrebbe distinguere se il potere sia attribuito nell’interesse del cittadino o nell’interesse dell’Amministrazione. Nel primo caso vi sarebbe un diritto soggettivo, nel secondo un interesse legittimo. Secondo la Cassazione, in certi casi di attività vincolata, il cittadino sarebbe titolare di un diritto nei confronti dell’Amministrazione, al rilascio di un provvedimento amministrativo (es. rilascio della carta di circolazione di un veicolo); in altri casi, a fronte di provvedimenti vincolati si ammettono interessi legittimi (es. interventi repressivi di attività abusive).La funzionalità di un potere vincolato a un interesse pubblico o privato non è determinabile dalla norma giuridica.
III) Tesi della distinzione tra cattivo esercizio del potere e carenza di potere. Secondo questa tesi, accolta dalla Cassazione, non è sufficiente la considerazione della titolarità del potere da parte dell’Amministrazione, per identificare la posizione del cittadino come di interesse legittimo: la valutazione deve coinvolgere anche il vizio rispetto all’atto amministrativo. Nel caso di cattivo esercizio di potere (vizi di incompetenza, violazione, di legge ed eccesso di potere), l’illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia(finchè il provvedimento non sia annullato)ed è configurabile solo una posizione di interesse legittimo(si è in presenza di esercizio del potere dell’amministrazione); nel caso di carenza di potere (straripamento di potere o incompetenza assoluta, carenza di presupposti necessari) il vizio si riverbera sulla stessa efficacia giuridica dell’atto e la posizione soggettiva del cittadino rimane quella originaria, come individuabile in assenza dell’intervento dell’Amministrazione.L’amministrazione non esercita in modo efficace alcun potere e non è identificabile nenahce un interesse legittimo.
La Cassazione ha sostenuto che vi è carenza quando il provvedimento è previsto dall’ordinamento, ma non come esercizio di una funzione amministrativa, oppure ha sostenuto che vi è carenza quando il potere è attribuito ad un’Amministrazione di ordine diverso rispetto a quella cui fa parte l’organo che ha emesso il provvedimento, ovvero quando il provvedimento è assunto dall’Amministrazione che è in astratto titolare del potere, ma in mancanza di un presupposto concreto prescritto dalla legge. La legge 11 febbraio 2005, n.15 distingue fra ipotesi di <<annullabilità>> e ipotesi di<<nullità(provvedimento che manca degli elementi essenziali e difetto assoluto di attribuzione)>>. L’atto amministrativo nullo dovrebbe essere inefficace: di conseguenza, non costituirebbe esercizio di un potere e potrebbe coesistere con un diritto soggettivo del cittadino.
La sistematica dei vizi dell’atto amministrativo delineata dalla legge 15/2005 dovrebbe, quindi, orientare la Cassazione a superare la distinzione tra “cattivo esercizio del potere” e “carenza di potere” e a considerare, invece, la distinzione tra casi di “annullabilità” e casi di “nullità” del provvedimento.
IV) Teoria dei diritti perfetti. La giurisprudenza e la dottrina hanno proposto una selezione delle posizioni giuridiche dotate di una protezione qualitativamente maggiore e perciò non modificabili per effetto dell’esercizio di un potere amministrativo. Si tratta dei c.d. diritti personalissimi (diritto all’integrità personale, al nome etc.), sui quali l’Amministrazione non può incidere, dei diritti definiti anche in relazioni giuridiche di diritto pubblico (diritto all’indennità di esproprio[attività amministrativa sempre vincolata] etc.), e da ultimo diritti ritenuti importanti sul piano costituzionale, tanto da essere definiti “incomprimibili” (diritto alla salute, all’integrità dell’ambiente etc.).
Questa teoria trova ampio riscontro nella giurisprudenza recente della Cassazione. Resta però ancora poco chiaro il suo fondamento, specie con riferimento ai diritti costituzionali rilevanti. Appare problematica la possibilità di desumere dalla Costituzione la natura di una posizione soggettiva e non è chiaro in base a quali criteri i diritti costituzionalmente rilevanti possano a loro volta essere discriminati.Si pensi al diritto di proprietà o al diritto d’impresa che in presenza di un potere dell’amministrazione assumerebbero il carattere di interesse legittimo.
- L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e qualificata.
L’interesse legittimo identifica un interesse proprio del cittadino: per questa ragione non può essere considerato come una posizione meramente “riflessa” rispetto al potere dell’Amministrazione. L’interesse legittimo non è neppure una posizione diffusa, di cui possono essere titolari i cittadini in quanto tali, ma è una posizione soggettiva, di cui sono titolari solo determinati soggetti.
E’ stata la giurisprudenza che ha rivendicato a sé la capacità di individuare in quali situazioni sia configurabile la titolarità di un interesse legittimo (ad es. interessi in materia ambientale).
Va osservato, però, che in uno Stato di diritto la titolarità di una posizione soggettiva dovrebbe essere definita dall’ordinamento giuridico e quindi dalla legge. Di conseguenza, anche la titolarità dell’interesse legittimo deve essere stabilita in base a criteri di legge. A questo proposito vengono considerati due criteri. Il primo è quello della “differenziazione”; proprio perché l’interesse legittimo è una posizione “soggettiva”, esso presuppone in capo al titolare la sussistenza di una posizione di interesse “diversa” e “più intensa” rispetto a quella della generalità dei cittadini.(es.posizione del commerciante x l’apertura di un nuovo esercizio commerciale nelle vicinanze, in questo caso interessa lui e non la generalità dei cittadini).
Ma il criterio della “differenziazione” non viene ritenuto sufficiente da buona parte della dottrina. E’ stato perciò proposto, ad integrazione di esso, il criterio della “qualificazione”: perché si possa avere un interesse legittimo è necessario che il potere dell’Amministrazione coinvolga un soggetto che, rispetto a tale potere, sia titolare di un interesse non solo differenziato, ma anche sancito e riconosciuto dall’ordinamento. In realtà, però, non sempre, la norma che disciplina il potere identifica i soggetti direttamente interessati. La qualificazione viene, invece, ricavata dalla giurisprudenza, in base alla rilevanza attribuita a quell’interesse dall’ordinamento nel suo complesso e alla sua incidenza concreta dell’azione amministrativa su tale interesse.
5. L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale.
In passato, l’attenzione sulla figura dell’interesse legittimo si è concentrata sull’ aspetto delle modalità della tutela nel caso di un interesse legittimo. L’ordinamento sembrava risolvere la rilevanza dell’interesse legittimo nell’attribuzione al titolare dell’interesse, di un “potere di reazione”, nel caso si fosse verificata una lesione. Questo potere consisteva nella possibilità di impugnare il provvedimento lesivo e di porre in contestazione l’esercizio del potere dell’Amministrazione. Seguendo questa prospettiva si rilevava come la tutela offerta all’interesse legittimo fosse tipicamente impugnatoria: a fronte del carattere costitutivo del potere amministrativo e in particolare del provvedimento amministrativo, sembrava che la tutela dovesse avere un carattere altrettanto costitutivo, perché doveva eliminare l’effetto giuridico prodotto dall’esercizio del potere, si istituisce un parallelismo tra carattere costitutivo del potere e caratteri costitutivi della tutela offerta all’interesse legittimo. All’interesse legittimo sembrava corrispondere una tutela tipica, di tipo costitutivo, diretta ad elidere gli effetti del provvedimento lesivo. La modalità della tutela veniva assunta come un carattere fondamentale del diritto soggettivo(tutela diretta) e quindi come un elemento distintivo rispetto all’interesse legittimo(tutela indiretta).
In passato, quando il diritto positivo sembrava riconoscere uno spazio all’interesse legittimo, solo in termini di reazione ad una lesione, la rilevanza dell’interesse legittimo era risolta praticamente nella vicenda della impugnazione di un provvedimento lesivo. In questo modo era facile sostenere che l’interesse legittimo sarebbe figura di ordine squisitamente processuale(assume rilievo solo sul piano dell’azione).
Questo modo di ragionare oggi sembra abbandonato, ma non del tutto, e comunque ha condizionato profondamente la giurisprudenza. Va chiarito che le modalità della tutela non costituiscono di per sé l’elemento caratterizzante della figura dell’interesse legittimo; il ragionamento va, invece, capovolto: sono i caratteri dell’interesse legittimo che condizionano le modalità della tutela.
Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo si configura come tutela “successiva”: presuppone che sia già intervenuta una lesione dell’interesse protetto. Ciò comporta una pretesa all’annullamento dell’atto amministrativo lesivo. La lesione dell’interesse legittimo può essere determinata, però, anche dalla mancanza dell’esercizio di un potere, come nel caso del silenzio-rifiuto. In questo caso il giudizio tende a garantire l’adempimento del dovere di provvedere dell’Amministrazione. Nel nostro ordinamento, insomma, la tipicità della tutela è subordinata alla garanzia dell’interesse.
Quanto poi alla questione della natura solo processuale o anche sostanziale dell’interesse legittimo, essa può essere affrontata correttamente, solo sulla base del diritto positivo. E’ decisivo stabilire se l’interesse legittimo rilevi autonomamente, indipendentemente da una sua lesione. Un argomento importante a favore della soluzione affermativa viene tratto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241: essa ha assegnato rilevanza all’interesse legittimo, prescindendo sia dalla impugnazione di un provvedimento, sia addirittura dalla configurabilità di una lesione all’interesse del cittadino. Nella legge n.241/1990, la partecipazione al procedimento si attua su un piano di diritto sostanziale. Inoltre, alla luce di questa disciplina, l’interesse legittimo si presenta come figura “attiva”, caratterizzata da una serie di prerogative dirette a influire sull’azione amministrativa.
6.Quale “interesse” nell’interesse legittimo? L’identificazione del “bene vita”
L’interesse legittimo non sorge per effetto della sua lesione ad opera di un potere dell’Amministrazione e non assume rilevanza solo quando si verifichino i presupposti per l’impugnativa; è configurabile già nel momento in cui ha inizio il procedimento amministrativo. Perché nasca un interesse legittimo bisogna che sussistano le condizioni, in presenza delle quali, l’esercizio del potere sia doveroso. Non è importante che il cittadino, rispetto al potere dell’Amministrazione, possa derivare una posizione di vantaggio o invece di svantaggio.
La figura dell’interesse legittimo si presenta come figura del diritto sostanziale: infatti all’identificazione dei soggetti titolari di interessi legittimi, in un procedimento amministrativo, non corrisponde necessariamente l’identificazione delle parti legittimate a far valere il loro interesse. Di conseguenza la giurisprudenza esclude che quando sia impugnato un provvedimento negativo o quando si ricorra per un silenzio-rifiuto siano parti necessarie del processo altri cittadini diversi dal ricorrente, dal momento che il provvedimento negativo o il silenzio-rifiuto producono effetti giuridici solo nei confronti di questi. Una volta stabilito che l’interesse legittimo è figura del diritto sostanziale, va però chiarito che cosa sia il “bene della vita”, quale componente fondamentale di tutte le posizioni soggettive di diritto sostanziale.Bisogna capire in cosa va identificato il bene della vita alla cui realizzazione tende l’interesse legittimo
a)Il “bene della vita” non può essere identificato con un interesse alla legittimità dell’azione amministrativa. Si deve evitare di confondere la modalità della tutela di un interesse con il contenuto dell’interesse. E’ vero che la lesione di un interesse legittimo si verifica ogni qual volta l’Amministrazione esercita il suo potere senza osservare le regole che lo disciplinano. Tuttavia la legittimità dell’azione amministrativa non è essa stessa un “bene della vita”, né tanto meno può essere concepita come un “bene della vita” proprio di un soggetto determinato. La legittimità dell’azione amministrativa può essere concepita forse come l’oggetto di un interesse generico, comune a tutti i cittadini, ma non come l’oggetto di una posizione soggettiva qualificata.
b)Per soddisfare questa esigenza viene prospettata spesso, per la figura dell’interesse legittimo, una dissociazione fra due ordini d’interessi: sarebbero configurabili un interesse materiale, che è proprio del titolare dell’interesse legittimo, ma che esorbita dalla rilevanza riconosciuta dall’ordinamento all’interesse legittimo stesso, e un interesse diverso, di cui il primo costituirebbe solo un presupposto, e che sarebbe passibile di tutela.
c)E’ stata avanzata però, anche una concezione diversa, spesso respinta dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Secondo questa concezione, l’interesse c.d. materiale non va considerato come estraneo all’interesse legittimo, ma costituisce la componente essenziale di quest’ultimo, perché identifica proprio il “bene della vita” cui l’interesse legittimo è funzionale. Le modalità di tutela di un interesse sono determinate dalle caratteristiche proprie dell’interesse stesso: perciò la realizzazione del “bene della vita”, nel caso dell’interesse legittimo, si attua in relazione al potere amministrativo e in base alle regole che lo disciplinano.
7. Interessi legittimi e diritti soggettivi
Il rapporto tra interesse legittimo e diritto soggettivo è al centro delle riflessioni della dottrina e della giurisprudenza, anche in una prospettiva “dinamica”. Già nei primi anni successivi alla legge istitutiva della Quarta sezione, furono analizzati con attenzione alcuni procedimenti, come quello espropriativo, caratterizzati dall’incidenza del potere amministrativo su un diritto soggettivo (un diritto reale) del cittadino: fu osservato che, per effetto del decreto di esproprio, il diritto soggettivo si estingueva una volta emanato il decreto di esproprio (il privato non era più proprietario) , lasciando posto a un interesse legittimo (il privato lo poteva impugnare davanti al giudice amministrativo).
Lo stesso modello fu, poi, prospettato in modo simmetrico per i c.d. diritti in attesa di espansione, consistenti nelle trasformazione di un interesse legittimo in diritto soggettivo, per effetto di un determinato provvedimento amministrativo con effetti costitutivi. La degradazione in genere veniva ricondotta al carattere di autoritatività , che determinerebbe l’estinzione del diritto soggettivo e quindi la sua trasformazione in interesse legittimo.
La teoria della degradazione non è però accettabile. Nel corso di una procedura espropriativa, il proprietario del bene rimane titolare di un diritto reale fino al decreto di esproprio: tale decreto determina l’acquisto del bene in capo al soggetto espropriante e perciò l’estinzione del diritto di proprietà del cittadino. Nei confronti del potere espropriativo il proprietario è però titolare di un interesse legittimo, conformemente ai principi generali e senza immaginare alcuna degradazione. L’Amministrazione esercita un potere in senso proprio e l’interesse legittimo sorge con l’esercizio del potere e non prima del decreto di esproprio. Che non vi sia una trasformazione del diritto soggettivo in interesse legittimo è dimostrato dal fatto che coesistono insieme: l’interesse legittimo rispetto al potere espropriativo e il diritto soggettivo ad ogni altro effetto.
8.Interessi legittimi e risarcimento del danno
Nella discussione sul rapporto fra interesse legittimo e diritto soggettivo ha avuto particolare rilievo la questione del risarcimento dei danni cagionati ad interessi legittimi: si tratta di danni provocati da provvedimenti amministrativi o dal silenzio dell’Amministrazione. Nell’affermare che la lesione di un interesse legittimo fosse risarcibile, la giurisprudenza era orientata nettamente in senso negativo perché il diritto al risarcimento presuppone la lesione di un interesse sostanziale.
a)Fino alla fine degli anni ’90, la giurisprudenza dei giudici civili, ammetteva una responsabilità civile dell’Amministrazione, solo nel caso di lesione di un diritto soggettivo, sulla base di una lettura dell’art.2043 c.c. che identificava il <<danno ingiusto>> passibile di risarcimento, con il danno arrecato a diritti soggettivi. Di conseguenza, per esempio, la Cassazione negava al cittadino il risarcimento per i danni provocati da un diniego illegittimo di concessione edilizia, e ciò anche se il diniego fosse annullato dal giudice amministrativo. Solo se il provvedimento illegittimo aveva inciso su un diritto soggettivo preesistente, estinguendolo, allora la conclusione poteva essere diversa. L’annullamento del provvedimento illegittimo avrebbe ripristinato in via retroattiva il diritto soggettivo. Una volta venuto meno il provvedimento, sarebbe risultato che l’Amministrazione aveva ingiustamente conculcato il diritto soggettivo; la lesione a questo punto sarebbe stata riferibile a un diritto e avrebbe potuto essere risarcita. Applicando questo schema, il risarcimento del danno causato da provvedimenti amministrativi sarebbe stato possibile solo se la posizione del cittadino fosse stata un diritto soggettivo “fin dall’origine”. Inoltre, per il risarcimento sarebbe stato sempre necessario l’annullamento del provvedimento lesivo: solo l’annullamento poteva “ripristinare” il diritto soggettivo su cui aveva precedentemente inciso il provvedimento. Una volta verificatesi tutte queste condizioni, il risarcimento sarebbe spettato, senza la necessità di verifiche concernenti l’elemento soggettivo della condotta lesiva.
La giurisprudenza non delineava solo una disciplina del risarcimento dei danni cagionati da provvedimenti amministrativi, ma ricavava da questa disciplina anche una regola pratica sul rapporto fra le giurisdizioni. Risultava necessario prima esperire l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo; solo successivamente, si poteva esperire l’azione civile per i danni.
b)La posizione della giurisprudenza era quindi negativa rispetto alla risarcibilità degli interessi legittimi; era ammesso in genere solo per la lesione di un diritto soggettivo. Questa posizione fu abbandonata dalla Cassazione, solo con la sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio 1999, n.500. Gli argomenti invocati per il mutamento di indirizzo furono, innanzi tutto, di diritto sostanziale e riguardarono l’interpretazione complessiva della responsabilità aquiliana nell’art.2043 c.c. La Cassazione affermò che tale articolo non integrava le disposizioni sulla tutela dei diritti soggettivi, ma aveva una propria autonomia, perché assicurava la ripartizione del danno ingiustamente subito da un soggetto a causa del comportamento di un altro soggetto. Nel suo intervento la Cassazione riconosceva espressamente la natura sostanziale dell’interesse legittimo e nello stesso tempo, però, sottolineava la specificità dell’interesse legittimo, rispetto al diritto soggettivo, rilevando che per il risarcimento, non era necessaria anche una lesione <<al bene della vita>> correlato all’interesse ed inteso come “utilità finale”. In concreto l’interesse legittimo riguarda una posizione di vantaggio che il cittadino intende conservare nei confronti dell’Amministrazione che esercita il suo potere, il danno risarcibile si identifica col sacrificio della posizione di vantaggio (bene della vita) ad opera del provvedimento illegittimo. Questo è il caso dei c.d. interessi oppositivi, ossia interessi legittimi che ineriscono alla conservazione di un bene o di altra posizione di vantaggio attuale. Invece se l’interesse legittimo inerisce alla pretesa del cittadino di ottenere un provvedimento favorevole che gli attribuisca un bene o una posizione di vantaggio (c.d. interesse pretensivo), un danno risarcibile si configura solo se la pretesa del cittadino, sarebbe destinata ad ottenere un esito positivo.
In questo quadro viene meno la necessità di subordinare l’azione per i danni al previo annullamento del provvedimento amministrativo. Tale necessità si ricavava dall’esigenza di ripristinare la posizione originaria di diritto soggettivo, estinta dal provvedimento amministrativo: solo il diritto soggettivo, infatti, poteva essere risarcito. Ma nel momento in cui si riconosce la risarcibilità dell’interesse legittimo, viene meno anche la necessità dell’annullamento del provvedimento lesivo: secondo le Sezioni unite, per il risarcimento dei danni era richiesto l’accertamento della illegittimità del provvedimento, non più il suo annullamento. La Cassazione sostenne che per il risarcimento degli interessi legittimi era essenziale la dimostrazione della imputabilità dell’illecito all’Amministrazione a titolo di colpa o di dolo. La tesi precedente, che risolveva la colpa nell’illegittimità dell’atto amministrativo, si riferiva al caso di lesione di diritti soggettivi; invece, per la lesione di interessi legittimi, resterebbe ferma la regola generale del codice civile, che comporta la necessità di una verifica puntuale dell’elemento soggettivo.
Alla pronuncia della Cassazione del 1999 fecero seguito le disposizioni che estesero la giurisdizione amministrativa alle vertenze risarcitorie (art.7, legge n.205/2000). I giudici amministrativi hanno confermato in pieno il principio della risarcibilità, nello stesso tempo però, hanno espresso indirizzi diversi sul modello di responsabilità da applicare. Hanno messo in discussione le tesi della Cassazione sul rapporto fra annullamento dell’atto e tutela risarcitoria, sostenendo in genere che il risarcimento presuppone l’annullamento dell’atto lesivo.
Sulla necessità di identificare una lesione al bene della vita sono emerse posizioni nuove; alcuni giudici amministrativi hanno ammesso il risarcimento anche nel caso di ritardo nell’emanazione del provvedimento favorevole spettante al cittadino, o nel caso in cui l’illegittima esclusione del procedimento avesse pregiudicato la possibilità di un esito favorevole, probabile ma non certo. Questa conclusione è stata criticata dal Consiglio di Stato, che ha sostenuto che quando non spetta un provvedimento favorevole, non è neppure configurabile una lesione a un “bene della vita” e senza una lesione al “bene della vita” non vi sarebbe spazio per un risarcimento.
9. Interessi legittimi e interessi semplici
Dalle posizioni soggettive garantite nel nostro ordinamento, rimangono estranei i c.d. interessi semplici. Essi corrispondono agli interessi che non assurgono né al livello dei diritti soggettivi, né al livello degli interessi legittimi. Sono interessi semplici, ad esempio, gli interessi dei cittadini che non risultano “differenziati”. La loro distinzione dagli interessi legittimi, comporta l’esclusione di una loro tutela giurisdizionale. La tutela degli interessi semplici è prevista solo in casi eccezionali, da disposizioni che hanno una portata tassativa. La gravità di questo aspetto ha suscitato un dibattito molto ampio, che ha condotto ad estrapolare, dall’ambito degli interessi semplici, alcune tipologie particolari. La discussione ha riguardato gli interessi c.d. collettivi o di categoria, con riferimento alla possibilità che essi possano configurarsi come interessi legittimi delle associazioni o degli altri enti che rappresentano la collettività o la categoria. Nel caso dell’interesse di categoria l’associazione farebbe valere infatti un interesse che non sarebbe direttamente proprio, ma che sarebbe piuttosto degli associati e di riflesso coinvolgerebbe l’associazione. La giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto in capo a queste associazioni la titolarità dell’interesse di categoria, consentendo ad esse di farlo valere come un proprio interesse legittimo. La discussione più accesa ha riguardato, però, gli interessi diffusi, che corrispondono all’interesse generale dei cittadini a certi beni comuni, come l’ambiente , etc. Oggi, alcune disposizioni speciali ammettono la tutela di determinati interessi diffusi, demandandola però, non al singolo, ma a particolari associazioni. Determinate associazioni, pur non essendo titolari di un interesse legittimo, hanno ottenuto una particolare legittimazione a ricorrere, sia nel caso degli interessi collettivi che nel caso degli interessi diffusi. Nel caso degli interessi collettivi, la legittimazione è riconosciuta all’associazione ma si cumula con quella del singolo cittadino interessato, nel caso dell’interesse diffuso la legittimazione dell’associazione non è fungibile con quella del cittadino, perché l’interesse diffuso non può essere fatto valere in quanto tale in sede giurisdizionale dal singolo.
In molti casi, l’insieme dei cittadini interessati è di tale estensione che, pur essendo riconoscibile, finisce con l’identificarsi con la generalità dei cittadini ( emblematica è la disciplina della tutela dei consumatori e degli utenti, legge 30 luglio 1998, n.28).
Nel nostro ordinamento, la tutela degli interessi legittimi è assicurata, anche da disposizioni costituzionali, con riferimento ai vizi di legittimità e solo raramente è ammessa con riferimento ai vizi di merito. Nelle ipotesi in cui non sia prevista una tutela in sede giurisdizionale o in via amministrativa per i vizi di merito, non si può affermare che il cittadino, rispetto ai vizi di merito, sia carente di interesse legittimo: è titolare di un interesse legittimo che però è privo di una tutela rispetto a quei vizi.
Capitolo 5
I PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA TUTELA GIURISDIZIONALE DEL CITTADINO NEI CONFRONTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
1. Quadro generale
La tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione rappresenta un profilo nodale per definire la posizione del cittadino rispetto ai pubblici poteri. Non deve quindi stupire che questa tutela abbia ricevuto, nel nostro e in altri Paesi, una sanzione costituzionale. Nel caso della Costituzione italiana, i principi sulla tutela nei confronti dell’Amministrazione hanno inciso in profondità sulla giustizia amministrativa, perché hanno imposto trasformazioni significative. A giudizio di molti, una incidenza di pari livello dovrebbe essere riconosciuta anche alle disposizioni dei Trattamenti comunitari e delle altre norme comunitarie. I rapporti fra le Amministrazioni e i cittadini sono stati al centro di molti interventi comunitari che hanno avuto riflessi anche sulla tutela giurisdizionale.
Con riferimento agli istituti processuali, va segnalata l’esistenza di un’ampia giurisprudenza della Corte di giustizia sulle misure cautelari nei confronti degli atti amministrativi. La preoccupazione principale della Corte pare, soprattutto, quella di assicurare che le modalità di tutela giurisdizionale negli ordinamenti nazionali, siano adeguate all’esigenza di salvaguardare gli interessi della Comunità europea. Per capire quali siano i caratteri fondamentali del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione, l’attenzione principale deve essere diretta sempre alla Costituzione.
La Costituzione repubblicana intende indirizzare verso un’Amministrazione, ispirata ai principi democratici e caratterizzata dal superamento della tradizionale contrapposizione ed estraneità del cittadino, rispetto all’Amministrazione. Le principali disposizioni costituzionali, in questo ambito, possono essere distinte in disposizioni “sul giudice”, e in particolare sui giudici speciali, in “disposizioni sull’azione” e disposizioni sull’assetto della giurisdizione amministrativa.
2. I principi sul giudice
La Costituzione considera come valori essenziali: l’indipendenza, l’imparzialità e la terzietà del giudice. L’imparzialità e la terzietà del giudice sono considerate dall’art.111, 2° c., Cost. e ineriscono direttamente all’esercizio della giurisdizione. Il giudice deve decidere senza essere condizionato dalle parti (imparzialità) e restando in una situazione di indifferenza ed equidistanza, rispetto agli interessi di cui esse siano portatrici (terzietà). Si tratta di principi che costituiscono uno dei nuclei del c.d. giusto processo (art. 111 Cost.). L’imparzialità e la terzietà vanno assicurate, rispetto all’organo giurisdizionale nella sua interezza e rispetto ad ogni singolo componente dell’organo giurisdizionale, che deve essere del tutto indifferente sul piano personale, rispetto alla vertenza su cui è tenuto a pronunciarsi.
L’indipendenza del giudice, invece, inerisce alla relazione dell’organo giurisdizionale con soggetti estranei al rapporto processuale, che potrebbero influire sulle decisioni: si tratta del Governo e del potere politico in generale. L’indipendenza da questi poteri rappresenta una sorta di condizione preliminare, di rilevanza “ordinamentale”, che precede tutte le altre ed è essenziale per l’esercizio della funzione giurisdizionale.
Nella Carta costituzionale riceve particolare considerazione l’indipendenza del giudice ordinario, ma, questa caratteristica è essenziale per l’esercizio di ogni funzione giurisdizionale e vale, pertanto, anche per il giudice amministrativo e per gli altri giudici speciali. Il principio costituzionale dell’indipendenza del giudice ha avuto un ruolo fondamentale nell’assetto della giustizia amministrativa, determinando la soppressione di quasi tutte le giurisdizioni amministrative speciali, diverse dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti. La VI disposizione transitoria e finale della Costituzione prevedeva la <<revisione>> di queste giurisdizioni speciali, da effettuarsi entro cinque anni: il termine, però, fu ritenuto non perentorio, ed esse continuarono ad operare immutate. Verso la fine degli anni ’60 furono sollevate questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni su questi organi giurisdizionali, in riferimento al principio di indipendenza del giudice speciale, sancito dagli artt. 101 e 108 Cost. Furono dichiarate illegittime le disposizioni sulla composizione dei Consigli di Prefettura, della Giunta amministrativa provinciale e delle Sezioni per il contenzioso elettorale.
I giudici amministrativi non sono soggetti al Consiglio superiore della magistratura, che è organo di autogoverno dei soli magistrati ordinari. Presso il Consiglio di Stato è istituito un apposito organo di autogoverno dei giudici amministrativi, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, le cui competenze sono state definite dalla legge 27 aprile 1982, n. 186. La legge 21 luglio 2000, n. 205 ha stabilito che, del Consiglio di presidenza facciano parte, oltre al presidente del consiglio di Stato ed altri giudici amministrativi, designati dal Consiglio di Stato e dai TAR, anche alcuni cittadini scelti dalle Camere.
3. I principi sull’azione: l’art. 24, 1° e 2° comma, e l’art. 111, 2° comma, Cost.
L’art. 24, 1° comma, Cost(leggere articolo). garantisce il diritto d’azione, configurando tale diritto, sia con riferimento alla tutela di diritti soggettivi, che con riferimento alla tutela di diritti soggettivi, che con riferimento alla tutela di interessi legittimi. Questa garanzia è estesa e precisata nel 2° comma rispetto al diritto di difesa. In tal modo, la norma costituzionale ha operato un importante riconoscimento della rilevanza istituzionale della tutela degli interessi legittimi, che acquista piena dignità rispetto alla tutela “necessaria” dei diritti soggettivi. Nello stesso tempo, la norma costituzionale ha posto una serie di vincoli e di problemi. In particolare: a) è di rango costituzionale il principio secondo cui la tutela giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione è articolata in tutela dei diritti soggettivi e in tutela degli interessi legittimi; b) la collocazione dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi ha fatto sorgere la convinzione che la Costituzione sancisse una certa interpretazione dell’interesse legittimo, da intendersi come posizione qualificata di carattere sostanziale. Di conseguenza l’interesse legittimo assurgerebbe al rango di interesse individuale del cittadino, che lo fa valere. In realtà non sembra che da una posizione costituzionale, come l’art. 24, 1° c. Cost. si possano desumere argomenti specifici a favore dell’interpretazione sostanziale dell’interesse legittimo. La norma afferma il principio della completezza della tutela e non la natura dell’interesse legittimo.
L’art. 24 Cost., norma-guida per l’assetto della giustizia amministrativa, è stata la ragione par alcuni interventi significativi della Corte costituzionale, anche, su singoli atti ( della stessa giust. amm.). Tali interventi sono raggruppabili, in considerazione di alcune questioni generali, di seguito elencate:
1) rilevanza del principio di effettività della tutela giurisdizionale rispetto alla tutela cautelare. La garanzia del diritto comporta la possibilità di chiedere al giudice amministrativo misure cautelari, per evitare che la durata del giudizio produca un danno irreparabile all’interesse del ricorrente.
Nel caso del procedimento amministrativo, la Corte costituzionale ha sempre valutato con rigore gli interventi del legislatore che limitavano la possibilità di una tutela cautelare, affermando la sua netta preferenza per una interpretazione della legge, che fosse compatibile con la permanenza della tutela cautelare. Alla stregua di queste pronunce, le ragioni della tutela cautelare non possono ritenersi assorbite dalla previsione di riti accelerati per la definizione del giudizio.
Principi analoghi sono stati affermati dalla Corte costituzionale anche per il giudizio civile, quando venga impugnato un atto amministrativo. Non si deve ritenere, però, che il principio della effettività della tutela giurisdizionale comporti la necessità per il legislatore di adottare le medesime soluzioni nel processo civile e nel processo amministrativo(nel potere amministrativo non è ammessa una tutela cautelare prima del giudizio, nel processo civile si). La Corte costituzionale ha ritenuto che l’esclusione di una tutela cautelare “ante causam” non sia illegittima, perché la disciplina vigente assicura comunque, nel processo amministrativo, una tutela cautelare sufficientemente tempestiva.
2) rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale nel giudizio in materia di pubblico impiego. In questa materia la Corte costituzionale ha considerato l’esigenza di assicurare per i pubblici dipendenti una tutela equipollente a quella ammessa, in situazioni analoghe, ai dipendenti con rapporto di lavoro privato. Già negli anni ’80, la progressiva assimilazione fra i due ordini di rapporti, aveva reso poco giustificabile, la diversità di trattamento sul piano dei contenuti della tutela processuale. Di conseguenza le pronunce della Corte hanno preso in considerazione, anche l’art. 3 Cost., in riferimento al principio di eguaglianza e al principio di ragionevolezza.
3) rilevanza giuridica del principio della effettività della tutela giurisdizionale e limiti alla c.d. giurisdizione condizionata. Con il termine “giurisdizione condizionata” si intende l’accesso alla tutela giurisdizionale che risulti subordinata al previo esperimento di un ricorso in via amministrativa. In questi casi, poiché l’azione giurisdizionale è ammessa solo dopo la presentazione del ricorso amministrativo, risulta impossibile adire immediatamente il giudice. La questione della ammissibilità della giurisdizione condizionata ha, pertanto, due risvolti: il primo attiene alla subordinazione dell’azione giurisdizionale ad un adempimento estraneo al processo, come è il ricorso amministrativo, e il secondo attiene alla esclusione della immediatezza della tutela giurisdizionale.
La prima giurisprudenza della Corte affermò che la garanzia costituzionale avrebbe riguardato la “indefettibilità” dell’azione giurisdizionale e non la sua immediatezza. Inoltre, l’illegittimità era configurata solo quando l’assoggettamento del ricorso amministrativo, a termini brevi di decadenza, risultasse incompatibile con la natura del diritto vantato dal cittadino.
A partire dalla fine degli anni ’80 si è affermato un diverso indirizzo della Corte costituzionale, che ha considerato con sempre maggiore severità, le disposizioni che condizionavano l’ammissibilità della tutela giurisdizionale, al previo esperimento di un ricorso amministrativo: nelle pronunce più recenti sulla giurisdizione condizionata, la Corte sembra considerarla incompatibile con l’art.24 Cost. La Corte, inoltre, non ha ritenuto illegittime le disposizioni che richiedono l’esperimento di forme di tutela non giurisdizionale, a pena di mera improcedibilità dell’azione giurisdizionale.
Si tenga presente che, nei casi in cui sia prescritta la presentazione di un ricorso amministrativo, a pena di improcedibilità e non di ammissibilità dell’azione giurisdizionale, la necessità di presentare il ricorso amministrativo non condiziona l’esercizio del diritto di azione, perchè , il suo mancato esperimento non ne determina la perdita; tuttavia la necessità del ricorso amministrativo esclude l’immediatezza della tutela giurisdizionale.
4) rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale e subordinazione della tutela dei diritti soggettivi, al previo espletamento di un procedimento amministrativo.
Nella legislazione sulle espropriazioni per pubblica utilità era previsto che la pretesa del cittadino all’indennità potesse essere azionata in sede giudiziale, solo dopo la determinazione dell’indennità, in via amministrativa. Di conseguenza, fino al momento della determinazione dell’indennità, il proprietario espropriato, pur essendo titolare di un diritto soggettivo, non avrebbe potuto farlo valere in giudizio. La Corte costituzionale affermò che queste disposizioni erano incompatibili con l’art. 24, c. 1 Cost., sostenendo che, altrimenti, risulterebbe rimessa <<all’arbitrio della Pubblica amministrazione, l’esperibilità della tutela giurisdizionale>>.
5) illegittimità dell’arbitrato obbligatorio
Il codice di procedura civile, nel disciplinare la devoluzione ad arbitri di controversie (art. 806 ss.), non pone limitazioni particolari rispetto alle controversie con una Pubblica amministrazione.
La legge n. 205/2000, nell’estendere la giurisdizione esclusiva, ha previsto che, anche le controversie su diritti soggettivi, devolute alla giurisdizione esclusiva, possano essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto (art. 6).
Il c.p.c. prevede che la devoluzione ad arbitri di una controversia richieda un accordo fra le parti, di natura contrattuale. Alcune leggi speciali, tuttavia, hanno previsto forme di arbitrato obbligatorie(nel senso che al privato è precluso il ricorso al giudice ed ammessa una tutela solo davanti al collegio arbitrale), pur in assenza di un accordo fra le parti. La Corte costituzionale ha ritenuto illegittime queste disposizioni; l’esclusione della competenza del giudice può trovare fondamento solo in una scelta compiuta dalle parti. La previsione di arbitrato obbligatorio risulta in contrasto con l’art. 24 Cost. che garantisce l’accesso alla tutela giurisdizionale. Inoltre risulta in contrasto con l’art. 102 Cost., che riservando al giudice ordinario la funzione giurisdizionale, esclude implicitamente che con una norma possono essergli sottratte vertenze di sua propria competenza.
6) necessità di ammettere nel processo amministrativo l’istituto dell’opposizione di terzo
Nel processo civile è contemplato l’istituto dell’opposizione di terzo (ordinaria), per salvaguardare il terzo a un suo diritto in conseguenza di sentenze intervenute senza che lui fosse stato posto nelle condizioni di partecipare al processo ( art. 404 c.pc.) Un procedimento analogo non era previsto invece nel procedimento amministrativo.
La Corte, nel 1995 ha dichiarato illegittimo l’art. 36, legge TAR, nella parte in cui contempla l’opposizione di terzo fra i mezzi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato.
Nel 1999, l’art. 111 Cost., veniva modificato, con l’affermazione del principio del giusto processo. Il nuovo testo, oltre ad esigere la terzietà e l’imparzialità del giudice, afferma il principio del contraddittorio, secondo cui non può statuire sulla domanda se la parte, nei cui confronti è stata proposta, non sia stata regolarmente evocata in giudizio. In questa prospettiva, il principio del contraddittorio integra il diritto alla difesa. Di recente, la Corte costituzionale ne ha fatto applicazione a proposito del giudizio di ottemperanza. Senza dichiarare l’illegittimità della norma vigente, ha affermato però che essa deve essere applicata in coerenza con i principi costituzionali: di conseguenza, se il ricorso per l’ottemperanza non sia stato già notificato dal ricorrente alla parte resistente, il giudice amministrativo, d’ufficio, deve disporre la comunicazione, in modo che la parte resistente possa difendersi adeguatamente. Il principio del contraddittorio è stato invocato anche a favore del ricorrente, come elemento del diritto d’azione, per sostenere, che il cittadino deve essere posto nelle condizioni di conoscere con pienezza l’attività amministrativa che intende contestare in giudizio.
Nel processo amministrativo, il principio del contraddittorio è parso talvolta in conflitto con l’esigenza di rendere più spedito il giudizio. Per questo motivo, nella legislazione più recente sono stati introdotti riti speciali : essi dovrebbero consentire la decisione dei ricorsi in tempi molto stretti, anche prima che siano scaduti i termini ordinari per lo svolgimento, ad opera delle parti, delle loro attività di difesa. In particolare, se sia stata proposta un’istanza cautelare, la decisione potrebbe intervenire prima che le parti abbiano potuto svolgere attività, come la presentazione del ricorso incidentale da parte del controinteressato e la presentazione dei motivi dei motivi aggiunti da parte del ricorrente, che risultano essenziali per una difesa efficace. La Corte ha riconosciuto l’importanza della celerità nella definizione del giudizio, che oggi è sancita dall’art. 111 c. 2° Cost. n nel riferimento alla <<ragionevole durata>>.
4. I principi sull’azione: l’art.113 Cost.
L’art. 113 Cost. detta una serie di regole che attengono alla tutela del cittadino nei confronti della Pubbl.Amm. Queste regole sono espressione del principio secondo cui, che l’Amministrazione sia parte in causa non può, in alcuna modo, giustificarelimitazioni alla possibilità di tutela giurisdizionale del cittadino, escludendo qualsiasi forma di privilegio processuale, in favore dell’Amministrazione.
-L’art. 113, 1° c. Cost. definisce il rapporto fra la garanzia della tutela giurisdizionale e la posizione della Pubblica Amministrazione. La norma precisa che la garanzia della tutela giurisdizionale, contro gli atti dell’Amministrazione, vale sia per i diritti soggettivi che per gli interessi legittimi. La distribuzione della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere tale da assicurare la pienezza di tale tutela. La norma costituzionale garantisce l’indefettibilità della tutela, senza però definire i contenuti. Inoltre, fino a quando non è stata riconosciuta la possibilità di una tutela risarcitoria, la possibilità di una tutela risarcitoria per la lesione di interessi legittimi, la tutela impugnatoria non ammetteva alternative.
-L’art. 113, 2° c. Cost. impedisce di circoscrivere i margini della tutela giurisdizionale, in relazione alla tipologia degli atti amministrativi impugnati o alla tipologia dei vizi fatti valere in giudizio.
La norma ha determinato l’abrogazione delle disposizioni precedenti che limitavano il ricorso al giudice amministrativo, solo ad alcuni dei vizi di legittimità. La garanzia si estende, però, solo ai vizi di legittimità: rimangono escluse, da ogni specifica protezione costituzionale, le possibilità di sindacato per vizi di merito.
-L’art. 113, c. 3° Cost. rinvia alla <<legge>> per l’individuazione dei giudici competenti ad annullare gli atti amministrativi e dei relativi casi ed effetti. La norma esclude che nel nostro ordinamento valga una riserva costituzionale a favore del giudice amministrativo del potere di annulla mento degli atti amministrativi: non è stato “costituzionalizzato” il principio affermato dall’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, sulla preclusione per il giudice ordinario, di pronunce di annullamento. Di conseguenza non possono essere ritenute illegittime quelle disposizioni legislative che conferiscono al giudice ordinario il potere di annullare provvedimenti amministrativi. D’altra parte la norma, però, esclude implicitamente che il potere di annullamento degli atti amministrativi debba ritenersi un corollario necessario di qualsiasi potestà giurisdizionale, nei confronti dell’Amministrazione, ma non è sempre garantito che tale sindacato debba risolversi sempre in un potere di annullamento.
L’art. 21-octies della legge n. 241/1990, stabilisce che la violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, non ne comporta l’annullabilità. Stabilisce, inoltre, che il provvedimento amministrativo non è annullabile per violazione delle norme sulla comunicazione dell’avvio del procedimento.
5. I principi sull’assetto della giurisdizione amministrativa.
La Costituzione (art. 103, 1°c. ) ha sanzionato la regola del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, dopo aver richiamato il ruolo del Consiglio di Stato e di altri organi di giustizia amministrativa, quali giudici per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione, degli interessi legittimi e, in particolare materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi. L’art. 103, c. 1° , sancisce la distinzione tra giurisdizione civile e giurisdizione amministrativa e riconosce la possibilità che quest’ultima sai estesa anche a vertenze con l’amministrazione, in tema di diritti soggettivi: è la c.d. giurisdizione esclusiva, ammessa in particolari materie indicate dalla legge.
L’art. 103, 1° c. richiama, inoltre, nella giurisdizione amministrativa, la presenza di <<altri organi della giustizia amministrativa>>, richiamando, così, l’art. 125 Cost. che include un giudice amministrativo di <<primo grado>>, costituito poi nei TAR. Il riferimento all’art. 125 Cost. è all’origine della interpretazione secondo cui il doppio grado di giurisdizione, nel caso del giudice amministrativo, sarebbe costituzionalizzato.
L’interpretazione dell’art. 125 Cost. sembrò essere accolta dalla Corte cost., ma successivamente sembra essersi orientata nel senso di una interpretazione più riduttiva della norma in esame. La Corte cost., nel 1998, ha escluso che l’art. 125 Cost. imponesse il principio del doppio grado: la norma costituzionale imporrebbe solo di ammettere l’appellabilità della sentenze dei Tar.
Il raccordo tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria è assicurato nell’art. 111. c .8°, Cost., dalla previsione che contro le decisioni della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato sia ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione.
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