Lingua italiana grammatica ortografia
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Lingua italiana grammatica ortografia
Ortografia e Ortoepia
(seconda appendice al dizionario “IL PICCOLO PALAZZI” di Fernando Palazzi – edizione 1984)
L’ALFABETO
Suoni e segni grafici
Una lingua è anzitutto un fatto orale, parlato; perciò i suoi elementi fondamentali sono i suoni. Per rappresentare visivamente questi suoni nella scrittura ci serviamo di segni grafici, o lettere, che costituiscono l’alfabeto.
L’alfabeto italiano
Le lettere dell’alfabeto italiano sono ventuno.
Tuttavia, siccome spesso vien fatto (nello scrivere nomi e vocaboli stranieri) di usare altre cinque lettere, noi indicheremo anche queste, chiudendole tra parentesi, in quanto non fanno parte integrale del nostro alfabeto (v. tabella a pag. 2).
Per la loro forma, le lettere possono essere maiuscole e minuscole, tonde o corsive. Sotto a ogni lettera, mettiamo anche il nome di essa che, comunemente, è considerato di genere femminile, in quanto è sottinteso l‘appellativo «lettera».
Lettere con suoni doppi
Idealmente, a ogni suono dovrebbe corrispondere una lettera. Ma i suoni sono, in tutte le lingue, assai più delle lettere. Per i suoni che non hanno un segno corrispondente nell’alfabeto, bisogna ricorrere a qualche espediente: o combinando le varie lettere tra loro, o dando a una sola lettera il valore di più suoni. L’alfabeto italiano, a questo riguardo, è uno dei meno imperfetti, tanto che quasi tutte le lettere hanno un solo valore.
Vi sono tuttavia sei lettere: c, e, g, o, s, z, che rappresentano due suoni diversi. Le lettere e ed o hanno un suono aperto e uno chiuso; le lettere c e g hanno un suono velare e uno palatale; le lettere s e z hanno un suono sordo e uno sonoro. Perciò, mentre le lettere del nostro alfabeto sono 21, i suoni della nostra lingua sono 27.
Le maiuscole
Non c’è alcuna differenza di suono tra le lettere minuscole e maiuscole. La differenza è puramente grafica, e serve a richiamare su alcune parole l’attenzione di che legge.
La maiuscola si adopera in principio di parola, come lettera iniziale, nei casi seguenti:
- In principio di ogni periodo, dopo il punto fermo. Si usa di solito anche dopo i punti interrogativo ed esclamativo, quando questi chiudono un periodo; si può invece usare la maiuscola, anche dopo l’interrogativo e l’esclamativo, quando il periodo continua: es. Dio mio! Chi l’avrebbe immaginato? Chi l’avrebbe creduto?
- Dopo i due punti, quando si riferiscono le parole di qualcuno: es. Cesare disse: Vorrei essere il primo magistrato di questo villaggio.
- Nei nomi propri, cognomi, soprannomi che indicano persona, popoli o cose, individualmente: es. il Mincio, Dante Alighieri, Milano, gli Austriaci, i Vespri Siciliani.
- Nei nomi indicanti gli abitanti di una nazione, di una regione, di una città: es. gli Italiani, i Lombardi, un Milanese; purché essi non abbiano invece valore di aggettivo, nel qual caso vogliono l’iniziale minuscola: es. i soldati italiani, le popolazioni lombarde, uno scrittore milanese.
- Nei nomi indicanti dignità o titolo, purché non siano accompagnati da nome proprio, nel qual caso hanno valore di aggettivo e vogliono l’iniziale minuscola: es. il Re, il Ministro; ma il re Vittorio Emanuele, il ministro Cavour.
- Nei nomi di cose che si vogliono personificare: es. la Giustizia, l’Accademia, lo Stato.
- Nei sinonimi di Dio: es. l’Onnipotente, l’Altissimo, la Provvidenza. Ma la parola Dio si scrive invece con l’iniziale minuscola, quando si tratti di una divinità pagana: es. Marte, il dio della guerra.
- Nei titoli di un libro, di un giornale, o di un’opera d’arte: es. la Divina Commedia, il Barbiere di Siviglia, la Notte di Michelangelo, le Stanze di Raffaello.
- Nei nomi dei secoli Duecento (XIII), Trecento (XIV), Quattrocento (XV), Cinquecento (XVI), Seicento (XVII), Settecento (XVIII), Ottocento (XIX), Novecento (XX).
- Infine la maiuscola si adopera anche in nomi comuni, quando essi hanno diversi significati, e si vuol distinguere gli uni dagli altri; così: Stato con la maiuscola per indicare l’istituzione che rappresenta tutti i cittadini governati da uno stesso governo, e invece stato, in tutti gli altri significati; Chiesa, quando la parola è presa nel significato dell’unione di tutti i fedeli, e chiesa, quando si tratta dell’edificio del culto.
Vocali e consonanti
Le lettere rappresentano due categorie di suoni:
le vocali, che non abbisognano, per essere pronunciate, di nessun altro suono che le accompagni;
le consonanti, che da sole non hanno un suono autonomo e, per essere avvertite, si debbono accompagnare a una vocale.
I segni delle vocali cono cinque: a, e, i, o, u. Tutte le altre lettere rappresentano delle consonanti.
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Emme |
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erre |
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(ics) |
(ipsilon) |
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LE VOCALI
I suoni delle vocali
La vocale a ha sempre suono aperto; i e u sempre chiuso.
Le altre due vocali e ed o hanno ora suono aperto e ora suono chiuso. Soltanto la pratica della pronunzia toscana può insegnare quando ricorra l’uno o l’altro suono. Nel nostro vocabolario tuttavia si distingue il suono stretto con l’accento acuto, e quello largo con l’accento grave; es. struménto, pedèstre; dolóre, ristòro
Benché non si possa dare una regola semplice e senza eccezioni, indichiamo qui, a titolo esemplificativo, alcuni casi in cui la e o la o hanno suono aperto o chiuso.
Anzitutto la e e la o hanno sempre suono chiuso, quando su di esse non cada l’accento tonico.
I suoni, aperto e chiuso della vocale «e»
La e ha un suono aperto:
- in fine di un nome proprio o comune di origine straniera: es. Mosè, caffè, canapè;
- nei diminutivi in -èllo, -èlla: es. donzèlla, campanèllo;
- nei participi e aggettivi in –ènte: es. sapiènte, studènte;
- nei numerali: es. sèi, sètte, dièci, sèsto, tèrzo, ventèsimo, bimèstre, biènnio; fanno però eccezione i numerali tré, trédici, sédici, vénti, trénta, nei quali la e ha suono stretto;
- nei nomi che terminano in –ènza: es. partènza, sapiènza;
- quasi sempre nel dittongo ie: es. chièsa, barbière, pasticcière, salumière, piède.
La e ha suono chiuso:
- in fine dei nomi comuni tronchi di una sillaba sola: es. fé, ré. mé, té, sé. Si dirà invece tè la nota bevanda, perché è un nome di origine straniera;
- nei diminutivi in –étto, -étta: es. ométto, casétta, fanciullétta;
- nei nomi che terminano in –énto: es. ornaménto, torménto;
- nei nomi che terminano in –éfice: es. oréfice, pontéfice;
- nei nomi e aggettivi che terminano in –ése: es. marchése, cortése, arnése, francése;
- nei nomi che terminano in –éto, -éta, -ézza: es. fruttéto, pinéta, carézza, bellézza;
- negli aggettivi in –évole: es. caritatévole, biasimévole;
- negli avverbi che hanno la terminazione in –ménte: es. teneraménte, saldaménte.
I suoni, aperto e chiuso, della vocale «o»
La o ha suono aperto:
- nei nomi propri o comuni tronchi d’origine italiana: es. Bernabò, Angiò, rococò, falò;
- nelle terminazioni in –òrio: es. oratòrio, dormitòrio;
- nelle terminazioni in –òtto, -òtta: es. giovinòtto, grassòtta;
- nelle terminazioni in -uòlo, e in genere nel dittongo uò: es. figliuòlo, fagiuòlo, nuòvo, ruòta;
- nei numerali òtto, nòve, nòno, anche in composizione: es. trentanòve, ventesimonòno, trentòtto;
La o ha suono chiuso:
- nella terminazione in –óndo: es. cogitabóndo, tremebóndo;
- nella terminazione in -óce; es. feróce, atróce;
- nella terminazione in –azióne: es. fabbricazióne; moltiplicazióne, coltivazióne
- nella terminazione in –óre, –óra: es. signóre, signóra, confessóre, traditóre;
- nei pronomi nói, vói, lóro, colóro, costóro.
Gli omonimi
Pronunziare esattamente la e o la o, larghe e strette, secondo i casi, è cosa che ha la sua importanza, tanto più che vi sono nella nostra lingua alcuni vocaboli, detti omonimi, i quali cambiano addirittura di significato secondo che le dette vocali abbiano suono largo o stretto.
Eccone qui un elenco che, senza pretendere d’essere completo, può tuttavia dare un’idea dell’importanza che ha la pronunzia:
accétta, scure |
accètta, riceve |
affétto, affettare |
affètto, amore |
corrésse, da correre |
corrèsse, da correggere |
ésca, nutrimento |
èsca, da uscire |
légge, prescrizione |
lègge, da leggere |
mésse, sacrifici religiosi |
mèsse, biada |
pésca, atto del pescare |
pèsca, frutto |
péste, tracce |
pèste, morbo |
téma, paura |
tèma, argomento |
vénti, numerale |
vènti, soffi d’aria |
bótte, recipiente di legno |
bòtte, percosse |
cólto, coltivato, dotto |
còlto, da cogliere |
córso, da correre, via |
còrso, della Corsica |
fóro, buco |
fòro, piazza |
fósse, da essere |
fòsse, scavi |
mózzo, servo di stalla |
mòzzo, della ruota |
pósta, da porre |
pòsta, luogo fisso |
rócca, arnese per filare |
ròcca,fortezza |
tócco, da toccare |
tòcco, pezzo |
sórta, da sorgere |
sòrta, specie |
tórta, dolce |
tòrta, da torcere |
vólto, viso |
vòlto, da volgere |
vólgo,plebe |
vòlgo, da volgere |
Dittonghi e trittonghi
Le vocali i e u, quando sono precedute o seguite dalle vocali a, e, o, costituiscono alcune volte con esse un’unità: questa si chiama dittongo: es. àu-ra, ohi-bò, Eu-rò-pa, piò-ve-re, lié-ve.
Forma sempre dittongo l’unione di una a, e, o con una i, u quando siano entrambe atone (cioè senza accento) o quando l’accento cada sulla seconda vocale del gruppo: es. pio-và-no, mí-nio, fià-to, liè-to; oppure la unione di i e u, quando siano entrambe atone o quando l’accento cada sulla seconda vocale: es. gui-dà-re, piú-me.
Non si ha dittongo, ma iato, quando l’accento tonico cade su i o su u: es. ur-lío, pa-ú-ra, fú-i, flú-i-do.
L’incontro di tre vocali, pronunziate con una sola emissione di voce, si chiama trittongo: es. mièi, fi-gliuò-lo.
Il trittongo è regolato dagli stessi principi del dittongo.
Dittongo mobile
I dittonghi ou e ie si chiamano dittonghi mobili, perché, quando su di essi, nelle parole derivate, non cade piú l’accento o sono seguiti da due consonanti, si riducono alle vocali semplici o ed e: es. giuòco, giocàva; figliuòlo, figliolíno; piède, pedèstre; siède, sedèva.
Fanno eccezione i verbi vuotare e nuotare che conservano il dittongo anche nelle voci derivate in cui su quei dittonghi non cada l’accento, per distinguerle dalle voci dei verbi votàre, dare il voto, notàre, prender nota.
Un’altra eccezione simile è data dai verbi miètere e presièdere che conservano il dittongo anche nelle voci nelle quali sulla e del dittongo non cada piú accento: es. mietèva, presiedèva.
Iato
Ogni altro incontro di vocali senza le condizioni sopra indicate, non forma dittongo, ma iato, parola che significa «separazione», «distacco»; e le vocali si pronunziano allora con suoni distinti: es. boato, reale, poeta, leale, vía, ubbíe.
LE CONSONANTI
Distinzione delle consonanti
Le consonanti, secondo il punto del nostro apparato fonatore in cui si articolano (labbra, denti, gola, palato), si distinguono in:
labili: p, b, m, f, v;
dentali: t, d, s, n, z, l, r;
velari: c, g, q;
palatali: c, g.
Rispetto al suono, o modo di articolazione, si possono distinguere le consonanti in nasali (m, n) che sono articolate con la vibrazione delle fosse nasali; liquide (l, r) che presentano una vibrazione continua della lingua; fricative (f, s, v, z) perché si pronunziano con uno sfregamento prolungato dell’aria contro le pareti dell’apparato fonatore; e occlusive (tutte le altre) perché si realizzano con la brusca (momentanea) rottura di una occlusione degli organi nel punto di articolazione; infine le fricative e le occlusive si distinguono in sonore e sorde a seconda che siano o non siano accompagnate dalla vibrazione delle corde vocali.
I due suoni di «c» e «g»
Come risulta dal prospetto che precede, le consonanti c e g possono avere due suoni uno velare e uno palatale.
Hanno suono velare dinanzi alle vocali a, o, u: es. daga, cara, poco, luogo, cura, gusto.
Hanno suono palatale dinanzi alle vocali i ed e: es. ciliegia, giro, cera, gelato.
Quando debbono avere suono velare anche davanti alle vocali e ed i, si frappone, tra la consonante e la vocale un’h: es. chitarra, poche, luoghi, droghe.
Quando invece debbono avere suono palatale anche davanti alle vocali a, o, u, si frappone, tra la consonante e la vocale, una i: es. marcia, giallo, ciotola, giocattolo, ciurma, giurato.
Particolarità di altre consonanti
La consonante q ha sempre suono velare; e non si può usare se non seguita dalla vocale u e da un’altra vocale: es. quando, questo, squisito, quota.
A questo proposito va notato che però la q si adopera soltanto quando le due vocali (la u e l’altra vocale) formano un suono unico. Quando invece le due vocali si pronunziano separate, si deve usare la consonante c. La differenza appare chiara nella pronunzia di qui e cui. Perciò si scriverà cuore, taccuino, cuoco, scuola, innocuo.
Il raddoppiamento della q si ottiene facendole precedere una c: es. acquistare, acqua, acquietare, piacqui, nacqui. Unica eccezione è soqquadro.
La consonante h serve, come abbiamo visto, a indicare dopo la c e la g che due consonanti debbono avere suono velare, per quanto seguite da una i o da una e. Fuori di questo caso, in cui contribuisce a segnalare una modificazione del suono, la h non rappresenta alcun suono della lingua italiana e serve come semplice segno grafico:
- nelle quattro persone del verbo avere: ho, hai, ha, hanno, per evitare equivoco con parole di suono eguale;
- nelle esclamazioni: es. ah, ahi, ahimè, eh, ih, oh, ohi, ohimè! per mettere in evidenza che si tratta di un’esclamazione.
I due suoni di «s» «z»
Le consonanti s e z hanno due suoni: uno sonoro e uno sordo. Il nostro dizionario indica il suono sonoro con š e ž.
Di regola la s è sorda in principio di parola, o quando precede una vocale o una delle consonanti c, p, f, t, o quando è doppia, o viene dopo una consonante: sapere, scala, spada, sfera, stola, cassa, disse, borsa, balsamo ecc. Invece è sonora in mezzo a due vocali: tesoro, usura. Vi sono tuttavia molte eccezioni: è sorda in casa, cosa, raso, fuso, naso, desiderio, riso, e nei passati remoti posi, nascosi ecc.
La ž invece è di regola sonora in principio di parola: zaino, zanzara, zefiro, zeta (vi sono però alcune eccezioni, come zampa, zappa, zolla); e anche quando è doppia nelle terminazioni in –izzare, -izzazione: es. armonizzare, armonizzazione.
Le doppie
Tutte le consonanti, eccetto l’h, possono trovarsi doppie nel mezzo di una parola, purché siano precedute da vocale: es. babbo, ballo, dramma, spesso.
Le consonanti z e g non si raddoppiano mai dinanzi a ione: es. organizzazione, provvigione.
Le parole composte coi prefissi a, da, contra, sopra, sovra, su, se, come, dove, raddoppiano la consonante iniziale del secondo componente: es. contraffare, sopravveste, soprattutto, sovraccarico, suvvia, supporto, sebbene.
Gruppi di consonanti
Le consonanti possono trovarsi anche unite in gruppi di due o tre consonanti diverse. La s seguita da altra consonante si chiama s impura.
Si tenga presente tuttavia che davanti alle consonanti p e b non può mai stare la consonante n, che è in tutti i casi sostituita dalla m: es. impostare, imbucare.
Digrammi
Alcune di queste unioni di consonanti diverse sono tali solo apparentemente: in realtà rappresentano un suono unico, e allora si chiamano digrammi. I gruppi ch, gh, che abbiamo veduto sopra, formano appunto due diagrammi. Altri digrammi sono:
gl, che dinanzi alle vocali a, e, o, u, ha sempre un suono unico velare: es. glabro, gleba, gloria, glutine; e dinanzi alla vocale i ha in genere un suono unico palatale, come in moglie, figlio, giglio, famiglia, salvo in alcune eccezioni (quasi tutte parole di origine greca o latina) in cui ha suono velare come in glicine, glicerina, negligenza, anglicano, ganglio, geroglifico, glifo, glittica.
gn, che ha sempre un suono unico palatale: es. vergogna, vignetta, bagnino, ignoto. Eccezionalmente si pronunzia staccando le due lettere g e n che lo compongono, nei nomi tedeschi: es. Wagner;
sc che ha suono velare dinanzi alle vocali a, e, u, come in scatola, scolaro, scuola; e palatale dinanzi alle vocali e e i, come in scena, scirocco.
Perché il digramma sc assuma suono palatale anche davanti alle vocali a, o, u, bisogna frapporre una i fra esso e la vocale: sciame, sciocco, sciupare.
Perciò le terminazioni scio, scia perdono la i nei derivati che al posto delle due vocali a, o abbiano una e; e cosí da lascio si ha lascerai, e da fascia, fascetta. Rimane tuttavia, eccezionalmente, la i nei derivati di scienza e coscienza; e pertanto si scrive scienziato, scientifico, coscienzioso, cosciente.
Consonanti straniere
In quanto alle consonanti straniere si noti:
k (si pronunzia con suono velare) all’infuori dei nomi stranieri, si usa soltanto come abbreviazione di chilo: es. km, chilometro; kg, chilogrammo. Nei nomi italianizzati di derivazione straniera, si sostituisce con la lettera c (dinanzi alle vocali a, o, u) o col digramma ch (dinanzi alle vocali i ed e): es. karakiri, carachiri; kepi, chepí;
x (si pronunzia come cs) si usa, oltreché nei nomi stranieri o d’origine straniera (es. Bixio) nella parola ex, per indicare un titolo o una carica che uno non possiede piú: es. ex-deputato, ex-presidente; e, nel linguaggio matematico, per indicare una quantità ignota.
j si adoperava una volta come vocale invece della doppia i; ora si usa solo, come consonante, nelle parole straniere; e quando queste vengono italianizzate, si sostituisce con una g: cosí da jungla si fa giungla, da jury si fa giurí.
LE SILLABE
Definizione
La sillaba è il suono o il gruppo di suoni pronunciato con una sola emissione di voce e rappresentato graficamente da una o piú lettere, di cui una almeno sia vocale.
Formazione della sillaba
Una sillaba può essere formata in cinque modi differenti:
- da una sola vocale: es. a-varo, e-missario, i-tinerario, o-nore;
- da un solo dittongo o trittongo: es. au-rora, miei;
- da una sola vocale unita a una sola consonante, che può precedere o anche seguire la vocale: es. li-do, al-ta-re;
- da una vocale unita a piú consonanti: es. spir-to;
- da un dittongo con una o piú consonanti: es. stuo-lo.
Da ciò emerge che una parola ha tante sillabe quante sono le vocali o i dittonghi che contiene.
Divisione delle parole in sillabe
Due o piú consonanti consecutive formano sillaba, di solito, con la vocale seguente: es. e-stro, re-clu-so, o-bli-quo. Tuttavia:
- se la prima di esse è una l, m, n, r, si unisce alla vocale antecedente: es. al-zo, am-bo, an-tro, ar-ma;
- se le due consonanti sono uguali (e valgono per uguali anche c e q) la prima si unisce alla vocale antecedente, la seconda alla seguente: es. paz-zo, am-manto, ac-qua;
- se piú consonanti consecutive vengono a formare un gruppo che non possa trovarsi in principio di parola, non si potrà far cominciare con esso nemmeno la sillaba, e il gruppo dovrà dividersi, unendo una parte di esso alla sillaba antecedente: es. enigma, e-nigma; tungsteno, tung-ste-no; abnorme, ab-nor-me.
Nel dividere una parola in sillabe bisogna badare a non confondere i veri dittonghi coi dittonghi falsi, che sono:
- la i seguita da altre vocali nelle parole composte, quando essa appartiene alla prima parte della parola e le altre vocali alla seconda parte: es. ri-avere, ri-arso, ri-esco, chi-unque;
- la i seguita da altre vocali nelle parole derivate, quando la parola primitiva richiedeva l’accento sull’i, e questa non poteva dunque formare dittongo: es. vi-a-le, perché deriva da vi-a, dove l’i accentata impedisce la formazione del dittongo; similmente spi-a-re, da spi-a.
Le sillabe in fin di riga
Non è lecito rompere la sillaba, in fin di riga, mettendone una parte in una riga e l’altra in principio della seguente. La sillaba deve essere conservata intera, o tutta da una parte o tutta dall’altra.
Alcuni tuttavia fanno eccezione per le parole composte, dividendole secondo i loro componenti: es. dis-pari, dis-piacere. Ma siccome questa divisione richiederebbe una conoscenza dell’etimologia delle parole, e d’altronde la divisione di una parola in sillabe non è guidata da criteri etimologici, ma soltanto da ragioni fonetiche, essa non è consigliabile, e quindi si dividerà normalmente di-spa-ri, di-spia-ce-re.
Le parole secondo le sillabe
La parola formata da una sola sillaba si chiama monosillabo: es. re, me, ma, mai.
La parola formata da due sillabe si chiama bisillabo: es. ca-ne, spo-sa, paz-zo.
Quella formata da tre si chiama trisillabo: es. bal-sa-mo, pio-vo-so.
Quella formata da piú di tre sillabasi chiama polisillabo: es. a-bu-li-co, pre-ci-pi-to-so.
Caduta di una sillaba
Talvolta avviene, per varie ragioni, che da una parola venga a cadere una sillaba.
La caduta di una sillaba in principio di parola si chiama aferesi: es. elemosina, limosina; oscuro, scuro; estremo, stremo.
La caduta di una sillaba nel mezzo di una parola richiama sincope: es. togliere, torre; morirò, morrò; spirito, spirto.
La caduta di una sillaba in fine di parola si chiama apocope: es. fede, fe’; prode, pro’; diede, die’; caritade, carità.
L’ACCENTO
L’accento e le sue specie
Ogni parola ha una sillaba che è pronunciata con maggiore intensità rispetto alle altre, sulla quale cioè la voce si posa piú che sulle altre.
Questa posa della voce si chiama accento; e poiché essa dà il tono alla parola, si chiama anche accento tonico.
La sillaba su cui cade l’accento si chiama sillaba tonica, e le altre sillabe atone, cioè senza tono.
Dal punto di vista grafico l’accento può assumere tre diverse forme:
- accento grave, che va da sinistra a destra, e si usa sulle vocali a, e, o aperte: es. pietà, canapè, falò.
- accento acuto, che va da destra a sinistra, e si usa sulle vocali i, u, e, o chiuse: es. morí, Corfú, saldaménte, bécco, tócco, camaleónte.
- accento circonflesso, che è composto di un accento acuto e uno grave riuniti insieme ad angolo; e si usa talora per indicare una sincope avvenuta nella parola, o la contrazione di ii in i: es. tôrre, per togliere; côrre, per cogliere; studĭ per studii.
Le parole secondo l’accento
Secondo l’accento le parole si dividono in:
- tronche, e sono quelle che hanno l’accento sull’ultima sillaba: es. onestà, virtú, andò;
- piane, e sono quelle che hanno l’accento sulla penultima sillaba: es. belléz-za, onó-re, scrivà-no;
- sdrucciole, e sono quelle che hanno l’accento sulla terzultima sillaba: es. rà-pido, bellís-simo, ú-tile;
- bisdrucciole, e sono quelle che hanno l’accento sulla quartultima sillaba: es. rè-citano, partèn-dosene.
Proclitiche ed encicliche
Vi sono alcune parole monosillabe, sole o anche raggruppate insieme, che non hanno accento, ma si uniscono nella pronunzia alla parola seguente e si chiamano proclitiche; o alla parola precedente e si chiamano allora encicliche.
Le proclitiche sono gli articoli il, lo, la, i, gli, le; le particelle pronominali mi, ti, si, ci, vi, ne ecc., e la preposizione di: es. il sole, le stelle, mi dici, ti dico, vi dico, di certo.
Le encicliche sono le particelle pronominali mi, ti, si, ci, vi, lo, la, ne ecc. quando, posposte alla parola dal cui accento dipendono, si uniscono a essa: es. portami, màngialo, lèvati, ascóltaci, màndamele.
Scrittura dell’accento
Di regola, l’accento tonico in italiano non si segna. Si dovrà tuttavia scriverlo:
- nelle parole tronche che non siano monosillabe: es. bontà, virtú, rifiorí, temerò;
- in alcuni monosillabi che, per contenere un dittongo, potrebbero sembrare di due sillabe: es. ciò, può, già. Tuttavia qui e qua non si accentano mai;
- in taluni monosillabi, per distinguerli da altri di ugual forma ma di significato diverso:
ché |
perché, poiché |
che |
congiunzione e pronome relativo |
dà |
voce del verbo dare |
da |
preposizione |
dài |
voce del verbo dare |
dai |
preposizione articolata |
dí |
giorno |
di |
preposizione |
è |
voce del verbo essere |
e |
congiunzione |
là |
avverbio di luogo |
la |
articolo e pronome |
lí |
avverbio di luogo |
li |
pronome |
né |
congiunzione negativa |
ne |
particella pronominale |
sé |
pronome |
se |
congiunzione |
sí |
avverbio affermativo |
si |
particella pronominale |
Il pronome sé tuttavia non viene di norma accentato quando è seguito da stesso, medesimo al singolare (nel plurale va sempre accentato): se stesso, se medesimo; e invece sé stessi, sé medesimi.
- in alcune parole che cambiano il significato col cambiare della sillaba tonica: es. capitàno, càpitano; àncora, ancóra; súbito, subíto.
Nei casi in cui si deve scrivere l’accento è bene mettere esattamente il grave o l’acuto, secondo che la vocale su cui cade sia aperta o chiusa. Questa accentazione, che si chiama fonica, è necessaria per distinguere gli omonimi di cui si è già detto a pag. 3.
TRONCAMENTO ED ELISIONE
Incontro delle parole
Avviene talora che una parola, incontrandosi con un’altra nel discorso, debba modificare la sua fine, perché non ne risulti un suono sgradevole che, con parola greca, si dice cacofonia.
Queste modificazioni sono due: il troncamento e l’elisione.
Un tempo la scrittura accurata e corretta registrava rigorosamente questi fenomeni. Oggi, sia nel parlato sia, e soprattutto, nello scritto, l’osservanza di queste regole, ad esclusione di pochi casi, sa di pedantesco e di ricercato.
Qualche rara volta si modifica, anziché la fine della prima parola, il principio della seconda::
- con l’aferesi, a cui abbiamo già accennato: es. notte oscura, notte scura;
- con una i, che si dice eufonica, quando la prima parola finisce con consonante e la seconda comincia con s impura: es. in Spagna, in Ispagna; in sposa, in isposa.
Il troncamento
Si ha il troncamento quando in una parola che finisce in vocale, ed è posta davanti ad un’altra parola che incomincia per consonante, si toglie la vocale finale e qualche volta anche la consonante che precede questa vocale.
Si toglie la sola vocale quando la consonante che la precede è semplice: es. il popol nostro, signor mio, ben fatto.
Se la consonante è doppia, si toglie insieme con la vocale anche una delle consonanti: es. caval di battaglia, fan bene.
Regole che presiedono al troncamento
Perché il troncamento possa avvenire occorre:
- che si tratti di parola di piú sillabe, non essendo evidentemente possibile troncare un monosillabo;
- che la parola da troncare sia di numero singolare; non si potranno mai troncare pertanto signori, popoli, quelli, che sono plurali;
- che nella parola da troncare, dinanzi alla vocale finale ci sia una delle consonanti seguenti: l, n, r e raramente m: es. popo-l-o; u-n-o; signo-r-e; fare-m-o; popol, un, signor, farem;
- che non si tratti di un femminile in a; quindi non si potrà troncare cara, signora, quella;
- che la parola seguente non cominci con s impura, z, x, gn, ps, dinanzi alle quali il troncamento non è mai possibile. Quindi si dirà: quello zio, fatale scempio, gentile gnomo, uno psichiatra.
Tuttavia queste regole comportano alcune eccezioni:
- sebbene si tratti di nomi femminili in a, si possono troncare suora, ora, e i composti di ora, come allora, ancora, ognora: es. suor Teresa, or dunque, allor quando;
- si può troncare la parola sola, nella frase una sol volta;
- si troncano anche le parole frate, bello, santo e grande in fra, bel, san e gran, ma solo dinanzi a parola che cominci con consonante; mentre dinanzi a parola che cominci con vocale esse debbono subire l’elisione: es. san Giovanni, san Francesco, gran freddo, bel ragazzo, fra Giovanni, ma frat’Anselmo, bell’erede, sant’Elmo, grand’onore;
- sebbene di regola il troncamento debba avvenire soltanto davanti a parola che cominci per consonante, ha luogo talvolta anche davanti a parola che cominci per vocale, purché ricorrano tutte le altre condizioni sopra indicate: es. nobil uomo, giovin eroe, un uovo.
L’elisione
Si ha l’elisione quando, in una parola che finisce per vocale ed è posta davanti ad altra parola che cominci pure per vocale, si toglie la vocale finale, per evitare la cacofonia.
Perché l’elisione possa avvenire occorre:
- che la parola da elidere termini in vocale non accentata: es. tutt’altro, quell’anima,; invece fu ultimo, virtú amabile, bontà ammirevole;
- che per effetto dell’elisione non possa avvenire confusione; perciò l’articolo plurale femminile le non si elide mai: le età, e non l’età, che si potrebbe confondere col singolare.
Si osservi peraltro:
- che, se la parola da elidere è di numero plurale e termina per vocale diversa da quella con cui comincia la parola seguente, non si può fare l’elisione: gli eroi, buoni operai, grandi uomini e non gl’eroi, buon’operai, grand’uomini; ma gl’Italiani, grand’ingegni;
- che la preposizione da si elide solo in poche locuzioni avverbiali, come d’altronde, d’altra parte, d’ora innanzi;
- che la particella pronominale ci si elide solo davanti a parola che cominci per i o per e: es. c’insegna, c’entra; ma ci aveva, ci odia, ci umilia;
- che l’elisione è sempre obbligatoria con l’articolo lo, e con una, questo, quello, bello, buona, santo: es. l’affetto, un’orma, quest’angelo, quell’angolo, bell’uomo, buon’anima, sant’Elmo.
Nota che uno e buono davanti a parola maschile non si elidono ma si troncano: quindi un uomo, buon uomo.
Sebbene sia parola accentata, si può elidere anche che, coi suoi composti perché, benché: es. perch’io, bench’io.
L’apostrofo
Il segno dell’elisione è l’apostrofo, una specie di virgoletta che si mette in alto, al posto della vocale che si è tolta.
L’apostrofo può anche essere il segno dell’apocope, per indicare la sillaba che è caduta: es. pro’ per prode; fe’ per fede; die’ per diede; a’ per ai; da’ per dai; de’ per dei; co’ per coi; ne’ per nei; e’ per ei; vo’ per voglio; e negli imperativi: va’, fa’, sta’, da’, ve’, to’, di’, per vai, fai, stai, dai, vedi, togli, dici.
L’apostrofo non è mai il segno del troncamento. Perciò è un errore apostrofare davanti a nome, tanto maschile quanto femminile, e che cominci per vocale, gli aggettivi tal, qual, che sono troncamenti e non elisioni di tale, quale: es. tal uomo, tal anima; qual uomo, qual anima, potendo anche dire qual destino, tal rosa.
Per la stessa ragione non si apostrofano dinanzi a nome maschile, cominciante per vocale, un e buon: es. un uomo, un buon operaio, potendo anche dire un cane, un buon lavoratore. Invece si apostrofano un e buon dinanzi a nome femminile cominciante per vocale, perché qui si tratta di vera e propria elisione: es. un’anima, buon’anima; in quanto una e buona non potrebbero troncarsi, trattandosi di parole femminili che finiscono in a.
SEGNI GRAFICI E D’INTERPUNZIONE
Segni sussidiari della scrittura
Oltre alle lettere, che sono i segni ordinari della scrittura, fanno parte di essa altri segni che si chiamano sussidiari, e sono i segni ortografici e i segni d’interpunzione.
Segni ortografici
Si chiamano segni ortografici quelli che contribuiscono, quando siano bene adoperati, all’ortografia e cioè al modo corretto di scrivere. Essi sono: l’accento, l’apostrofo, la dieresi.
Dell’accento e dell’apostrofo abbiamo già parlato nei capitoli precedenti.
La dieresi si adopera, specialmente in poesia, per indicare che due vocali formanti dittongo, le quali perciò dovrebbero essere pronunziate con un’unica emissione di voce, vanno invece, eccezionalmente, pronunziate come due sillabe separate. Essa si segna con due puntini posti orizzontalmente sulla prima delle due vocali del dittongo: es. passïone.
Segni d’interpunzione
I segni d’interpunzione si adoperano per indicare le varie pause del discorso e renderlo perciò piú chiaro e colorito.
Essi sono: la virgola, il punto e virgola, i due punti, il punto fermo, il punto interrogativo, il punto esclamativo, i puntini di sospensione, le virgolette, la lineetta, la parentesi, il tratto d’unione.
La virgola
La virgola indica una pausa breve, nel corpo del periodo, per isolare le varie proposizioni che lo compongono, o i vari elementi che compongono le varie proposizioni.
Siccome assai spesso la virgola è adoperata con eccessiva parsimonia o con esagerata abbondanza, richiamiamo qui alcune regole precise che presiedono al suo uso.
La virgola si adopera:
- prima e dopo il vocativo: es. su, ragazzi, siate buoni;
- quando vi sia un’enumerazione, dinanzi a ogni termine di essa che non sia unito agli altri con congiunzione: es. venne, vide, vinse; Tizio, Caio e Sempronio; Tizio, Caio o Sempronio;
- anche quando nelle enumerazioni vi siano congiunzioni, purché siano ripetute a ogni termine: es. e corre, e si precipita, e vola; o Roma, o morte, invece: Roma o morte;
- per separare quegli elementi della proposizione o del periodo che si possono staccare dal resto senza pregiudizio del senso, come le apposizioni, gl’incisi, i complementi circostanziali e le proposizioni che ne fanno le veci: es. Garibaldi, l’eroe dei Due Mondi, fu uno dei maggiori fattori d’Italia; il sole splende, nel vespero, con minor fiamma; Cesare, conquistate che ebbe le Gallie, tornò a Roma;
- dopo alcuni avverbi: sí, no, bene, quando hanno valore di un’intera proposizione: es. sí, ho una buona speranza; no, non posso venire; bene, ce la vedremo;
- nelle proposizioni in cui non si ripeta il verbo già espresso in una proposizione precedente: es. le fortezze furono smantellate; le città, distrutte; le campagne, devastate;
- davanti a sebbene, affinché, che consecutivo, se condizionale, ma, però, anzi, e nelle proposizioni correlative: es. è buono, ma poco puntuale; sarà promosso, se studia; egli è tanto buono, quanto studioso; lavorò tanto, che si ammalò;
- prima di una proposizione relativa: es. ho visto tuo fratello, che mi ha salutato; purché il pronome relativo non sia legato al suo nome con valore determinante, in modo da formare con esso un’unica espressione, che perciò non può dividersi con una virgola: es. ho letto il libro che mi hai dato.
Non si mette invece mai la virgola:
- tra brevi frasi unite da né, e, o: es. né l’oro né gli onori possono piegarmi; si avvedevano di qualche stella e pianeta; il piacere è sempre o passato o futuro;
- quando la proposizione subordinata ha funzione di soggetto o di complemento oggetto: es. non è certo che egli parla; mi auguro che egli riesca.
Il punto e virgola, e i due punti
Il punto e virgola indica una pausa un po’ piú lunga della virgola, che si fa dentro il periodo, per separare tra loro i termini di un’enumerazione, ciascuno dei quali sia piuttosto lungo e complesso; o anche per segnare che tra due ordini di circostanze c’è una differenza o addirittura un’opposizione: es. venne per vedere che cosa succedesse; ma non riuscí a veder nulla.
I due punti indicano quella pausa speciale che facciamo prima di riferire parole o discorsi altrui, o prima di cominciare un’enumerazione, o quando il pensiero che segue è una spiegazione di quanto precede: es. Cesare disse: Venni, vidi, vinsi. Libri indispensabili allo scolaro sono: il vocabolario, la grammatica, l’antologia.
Il punto fermo e i punti interrogativo ed esclamativo
Il punto fermo indica la pausa lunga che si fa in fine d’ogni periodo, per significare che quanto è stato detto forma un senso compiuto.
Esso si adopera anche dopo un’abbreviazione, come segno di essa: es. Dott., Sign. ecc.
Il punto interrogativo chiude una frase interrogativa diretta: es. Che ore sono?
Il punto esclamativo si pone in fine di una frase esclamativa: es. Com’era bello!
Gli altri segni d’interpunzione
I puntini di sospensione servono a indicare che la frase è incompiuta, o che dopo di essa si deve fare una sospensione: es. Cominciò: Se io… ma non finí.
Dopo i puntini di sospensione la parola che segue può avere anche l’iniziale maiuscola.
Le virgolette si mettono in principio e in fine di una citazione, di un discorso riportato direttamente, o di una o piú parole a cui si voglia dare uno speciale rilievo: es. Disse: «Sono stanco». Considera che la parola «piano» può avere piú significati.
Le lineette isolano in un dialogo le parole dei vari interlocutori: es. Carlo disse: – Dove vai? – E Pietro rispose: – A casa.
Le parentesi servono a racchiudere parole che, per il loro senso, sono piú o meno staccate dal resto del discorso; e possono essere precedute o seguite anche da altri segni d’interpunzione: es. Luigi (chi se lo sarebbe immaginato?) è stato promosso senza esame.
Il tratto d’unione serve a indicare, in fine di riga, che la parola è spezzata e continua nella riga seguente; ed è adoperato anche per congiungere le due parti di alcune parole composte: es. l’alleanza franco-russa; l’accademia scientifico-letteraria; la guerra italo-turca.
Fonte: http://digilander.libero.it/Zarilla/blog/Ortografia%20e%20Ortoepia.doc
http://ilcestinodeicotoni.splinder.com
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