Imprenditori quali sono le categorie degli imprenditori

 

 

 

Imprenditori quali sono le categorie degli imprenditori

 

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Imprenditori quali sono le categorie degli imprenditori

LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI

a) IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE

1. IL RUOLO DELLA DESTINAZIONE

Il codice civile distingue, in base all’ oggetto, gli imprenditori in :

  • imprenditore commerciale, art. 2195;
  • imprenditore agricolo, art. 2135.

L’imprenditore commerciale è destinatario di un’ampia ed articolata disciplina fondata su:

  • l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, con funzione di pubblicità legale;
  • l’obbligo di tenuta delle scritture contabili;
  • l’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali.

La nozione di imprenditore agricolo ha valore essenzialmente negativo. Ha la  funzione di restringere l’ambito di applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale.
L’imprenditore agricolo è sottoposto alla disciplina prevista per l’imprenditore in generale ed è esonerato da:

  • la tenuta delle scritture contabili, art. 2214;
  • l’assoggettamento alle procedure concorsuali, art. 2221;

Originariamente l’imprenditore agricolo era esonerato anche dall’iscrizione nel registro delle imprese, tranne per le società agricole, art. 2136.
Poi, l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, è stato introdotto dalla riforma del 1993, con funzione di pubblicità notizia, art. 8 legge 580/1993 e, la recente riforma ne ha stabilito la funzione di pubblicità legale, art. 2 d.lgs. 228/2001, così come previsto per gli imprenditori commerciali.
Si discute sul fatto se si debba ammettere una terza categoria di imprese , le imprese civili. Imprese, non menzionate dal legislatore e che non possono qualificare né come commerciali, né come agricoli.  Perciò, tale imprese sarebbero da  sottoporre alla disciplina generale dell’imprenditore, ma non a quella dell’imprenditore commerciale.

2. L’IMPRENDITORE AGRICOLO è LE ATTIVITA’ AGRICOLE ESSENZIALI.

L’art. 2135 stabiliva: è imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse.
Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura.

Le attività agricole vengono distinti in due categorie:

  • attività agricole essenziali;
  • attività agricole connesse.

Questa distinzione è stata mantenuta anche dalla nuova nozione di imprenditore agricolo. L’art. 1 del d.lgs n. 228/2001 ridefinisce la nozione di imprenditore agricolo,  sostituendo l’art. 2135 del c.c. :
"E' imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.
Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.
Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità  come definite dalla legge".

2. Si considerano imprenditori agricoli le cooperative di imprenditori agricoli ed i loro consorzi quando utilizzano per lo svolgimento delle attività  di cui all'articolo 2135 del codice civile, come sostituito dal comma 1 del presente articolo, prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico”.
Coltivazione del fondo, silvicoltura ed allevamento del bestiame sono attività tipicamente e tradizionalmente agricole, ma che negli ultimi decenni hanno subito profonde trasformazioni, a causa del progresso tecnologico che ha coinvolto anche l’agricoltura e che l’ha trasformata in un’agricoltura industrializzata.
Oggi, l’attività agricola può dar luogo ad investimenti ingenti di capitali e ciò può far dubitare sulla correttezza della loro disciplina. Che l’imprenditore agricolo sia sempre e comunque esonerato dalla disciplina dell’imprenditore commerciale è una scelta legislativa che dà luogo a molti contrasti. È necessario infatti stabilire fino a che punto l’evoluzione tecnologica dell’agricoltura sia compatibile con la qualificazione agricola dell’impresa agli effetti del c.c.
Vi era, infatti, chi riteneva che impresa agricola fosse ogni impresa che produce specie vegetali o animali, cioè ogni forma di produzione fondata sullo svolgimento di un ciclo biologico naturale.
Poi, vi era chi riteneva che doveva essere dato rilievo anche al modo di produzione tipico dell’agricoltore e, quindi, che doveva essere qualificato imprenditore commerciale chi produce specie animali o vegetali in modo del tutto svincolato dal fondo agricolo o dallo sfruttamento della terra (coltivazioni artificiali e allevamenti in batteria).
La recente riforma ha però optato per la prima impostazione, al fine di contrastare l’abbandono dalle campagne e di favorire lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura, ma che non giustifica la sottrazione al fallimento dell’imprenditore agricolo medio - grande.
L’attuale nozione di imprenditore agricolo, dopo aver elencato le attività svolte dall’imprenditore agricolo, specifica che:  “Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività  dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”.
In base a questa nuova nozione si deve perciò ritenere che la produzione di specie vegetali o animali è sempre qualificabile giuridicamente come attività agricola essenziale, anche se realizzata con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti.
Quindi si possono far rientrare nella nozione di coltivazione del fondo: l’orticoltura, le coltivazioni in serra e vivai e la floricoltura. Sono coltivazioni anche le coltivazioni fuori terra di ortaggi e frutta.
Quanto alla selvicoltura, è l’attività di cura del bosco per ricavarne i relativi prodotti. Non costituisce perciò attività agricola l’estrazione di legname disgiunta dalla coltivazione del bosco.
Nell’allevamento di animali, il criterio del ciclo biologico, porta a riconoscere come  attività agricola essenziale anche la zootecnia svolta fuori dal fondo o utilizzando il fondo per allevamenti in batteria, oppure allevamenti in cui gli animali sono alimentati con mangimi naturali non ottenuti dal fondo.
Rimane attività commerciale l’acquisto di animali all’ingrosso per rivenderli.
Per allevamento di animali deve intendersi sia l’allevamento diretto ad ottenere prodotti tipicamente agricoli (carne, latte, lana), sia l’allevamento di cavalli da corsa o animali da pelliccia, l’ allevamento dei cani (attività cineteca) e l’allevamento di gatti.
La sostituzione nella nuova nozione del termine “bestiame” col termine “animali”, qualifica come impresa agricola anche l’allevamento di animali da cortile e l’apicoltura.
È attività agricola anche l’ acquacoltura (pesci e mitili).
All’imprenditore agricolo (essenziale) è equiparato l’imprenditore ittico, cioè l’imprenditore che esercita l’attività professionale diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri o dolci, nonché attività connesse.

3. L’IMPRENDITORE AGRICOLO è LE ATTIVITA’ AGRICOLE PER CONNESSIONE

La seconda categoria di attività agricole sono le attività agricole connesse.
La vecchia nozione di imprenditore agricolo le individuava:

  • in quelle dirette alla trasformazione o all’alienazione di prodotti agricoli che rientravano nell’esercizio normale dell’agricoltura;
  • in tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l’allevamento del bestiame (es. agriturismo, trebbiatura, motoaratura per conto terzi).

La nuova nozione intende per attività connesse:

  • le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale;
  • le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche.

Entrambe sono, oggettivamente, attività commerciali, ma sono considerate per legge attività agricole quando sono esercitate in connessione con una delle attività agricole essenziali.
È importante precisare quando un’attività intrinsecamente commerciale possa qualificarsi come agricola per connessione. Ci sono due condizioni necessarie:

  • è necessario che il soggetto che la esercita sia già qualificabile imprenditore agricolo in quanto svolge in forma di impresa una delle tre attività agricole tipiche e sia un’attività coerente con quella connessa, connessione soggettiva.

È imprenditore commerciale chi trasforma o commercializza prodotti agricoli altrui o il viticultore che produce formaggi (quindi un prodotto fuori dal proprio campo). Mentre è imprenditore agricolo il viticoltore che produce vino.
La qualifica di imprenditore agricolo è estesa anche alle cooperative  di imprenditori agricoli ed ai loro consorzi, quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni o servizi diretti alla cura o allo sviluppo del ciclo biologico.

  • È necessario che vi sia una connessione oggettiva fra le due attività.

Non si richiede più che le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli rientrino nell’esercizio normale dell’agricoltura, né che le attività connesse diverse da queste abbiano carattere accessorio.  Entrambi questi criteri sono stati sostituiti dal criterio della prevalenza. Necessario e sufficiente è solo che si tratti di attività aventi ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dall’esercizio dell’attività agricola essenziale, ovvero di beni o servizi forniti mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda agricola.
In breve: è sufficiente che le attività connesse non prevalgano, per rilievo economico, sull’attività  agricola essenziale.
È del tutto irrilevante che una determinata attività di trasformazione o di commercializzazione sia normale per gli agricoltori in relazione alle dimensioni dell’impresa, alla località ed al tempo in cui l’impresa opera e ai mezzi di cui si avvale.

4. L’IMPRENDITORE COMMERCIALE

Secondo l’art. 2195 c.c,.1° comma, sono imprenditori commerciali gli imprenditori che esercitano:

  • un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; darà vita ad impresa

commerciale ogni attività di impresa nel settore della produzione che sia qualificabile come “attività industriale”;

  • un'attività intermediaria nella circolazione dei beni; è impresa commerciale ogni attività di scambio che realizzi intermediazione nella circolazione di beni o servizi;
  • un'attività di trasporto per terra, o per acqua o per aria; le imprese di trasporto producendo servizi può essere considerata specificazione dell’attività produttiva di servizi, indicata nel primo punto dell’art. 2195;
  • un'attività bancaria o assicurativa; l’impresa bancaria ha per oggetto tipico la raccolta del risparmio tra il pubblico e l‘esercizio del credito;  perciò, l’attività bancaria, in sostanza, è attività di intermediazione nella circolazione del danaro; anche l’impresa di assicurazione produce servizi;
  • altre attività ausiliarie delle precedenti; in questa categoria rientrano le imprese:
  •  di agenzia (art. 1742),
  • di mediazione (art. 1754) ,
  • di deposito (art. 1787),
  • di commissione (art. 1731),
  • di spedizione (art. 1737),
  • di pubblicità commerciale,
  • di marketing.

      Tutte imprese che possono qualificarsi come imprese produttrici di servizi.

Le attività degli ultimi tre punti, costituiscono specificazione delle prime due categorie ed in queste possono essere ricomprese in quanto hanno per oggetto o la produzione di servizi o l’intermediazione nella circolazione. Perciò, gli elementi che individuano e distinguono l’impresa commerciale rispetto all’impresa agricola sono tutti racchiusi nel carattere industriale dell’attività di produzione dei beni o servizi o nel carattere intermediario dell’attività di scambio.

 

5. Il problema dell’ impresa civilE

Oltre alla categoria delle imprese commerciali e alla categoria delle imprese agricole è possibile individuare una terza categoria, la categoria delle imprese civili, anche se non prevista da alcuna norma.
L’imprenditore civile, non essendo né commerciale né agricolo, è sottoposto solo allo statuto generale dell’imprenditore, ma non a quello dell’imprenditore commerciale. Perciò non è sottoposto a fallimento.
Se si ritiene che il requisito dell’industrialità debba essere inteso nel suo significato tecnico-economico, ossia di attività che implichi l’impiego di materie prime e la loro trasformazione in nuovi beni a d opera dell’uomo, si dovrebbero considerare imprese civili e non commerciali:

  • le imprese che producono beni senza trasformare materie prime, come le imprese minerarie e le imprese di caccia e pesca;
  • le imprese che producono servizi senza trasformare materie prime e che non siano imprese produttrici ricompresse nell’art. 2195, come le imprese di pubblici spettacoli, agenzie matrimoniali, investigative;

Più in generale, sarebbero imprese civili tutte le imprese ausiliarie di attività non commerciali.
Inoltre, visto che attività di intermediazione nella circolazione presuppone sia l’acquisto sia la vendita,  sarebbe imprenditore civile chi vende beni propri dietro corrispettivo o l’imprenditore che eroga credito con mezzi propri (impresa finanziaria) e che perciò non esercita attività bancaria.
Tale teoria però non è condivisa dalla dottrina prevalente, in quanto questa parte della dottrina ritiene che il significato al requisito dell’industrialità e dell’intermediazione sia un altro. Ritengono, infatti, che il significato di “attività industriale” significhi “attività agricola” e “attività di intermediazione” significhi “attività di scambio”.
Si arriva perciò alla conclusione che l’art. 2195 va letto come se dicesse che è attività commerciale quella diretta alla produzione di beni o servizi non agricoli (n.1) e quella rivolta alla circolazione di beni non qualificabile come agricola per connessione (n.2). Quindi, è imprenditore commerciale ogni imprenditore non agricolo, dato che le altre categorie previste dall’art. 2195 sono tutte specificazioni delle prime due. Per le imprese civili non c’è spazio.
Vi è però una serie di altri indici che depone contro l’ammissibilità delle imprese civili:

  • non vi è alcuna disposizione che possa far pensare all’esistenza di imprese diverse da quelle agricole e commerciali;
  • vi sono norme che confermano che per il legislatore il binomio agricolo - commerciale esaurisce la tipologia delle imprese in base all’oggetto dell’attività;
  • vi sono norme che rendono plausibile l’interpretazione dell’aggettivo industriale nel senso di non agricolo.

Infine, ammettendo la categoria delle imprese civili si amplierebbe l’area delle attività produttive sottratte allo statuto dell’imprenditore commerciale, senza che vi sia una giustificazione sostanziale.
Queste considerazioni fanno propendere per una ricostruzione del sistema che non lasci vuoti fra l’imprenditore agricolo e quello commerciale.
In conclusione: È perciò preferibile interpretare il requisito della industrialità come sinonimo di attività non agricola, e quindi si devono qualificare come imprese commerciali anche quelle che producono beni o servizi senza dar luogo a trasformazione di materie prime.
Altresì, è preferibile interpretare il requisito della intermediazione nella circolazione dei beni come sinonimo di attività di scambio, perciò sarà impresa commerciale ogni attività che comporti circolazione di beni non inquadrabile fra quelle agricole per connessione.
Sarà commerciale ogni attività che non è agricola.

b)  PICCOLO IMPRENDITORE. IMPRESA FAMILIARE

6. IL CRITERIO DIMENSIONALE. LA PICCOLA IMPRESA

La dimensione dell’impresa è il secondo criterio di differenziazione della disciplina degli imprenditori, che individua la figura del piccolo imprenditore in contrapposizione all’imprenditore medio - grande.
Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore, invece, è esonerato, anche se esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili, art. 2214, 3° comma, e, dall’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali, art. 2221 e art. 1 legge fallimentare. Inoltre, mentre l’iscrizione era originariamente esclusa, art. 2202, ora ha funzione di pubblicità notizia, art. 8 legge n. 580 /1993.
Anche la nozione di piccolo imprenditore ha, nel codice civile, un rilievo essenzialmente negativo, ossia serve a restringere il campo di applicazione dello statuto dell’ imprenditore commerciale.
La piccola impresa o alcune figure di piccola impresa sono destinatarie di una ricca ed articolata disciplina, cioè di una legislazione speciale, ispirata dalla finalità di favorirne la sopravvivenza e lo sviluppo attraverso agevolazioni finanziarie, lavoristiche e tributarie.
Il piccolo imprenditore è definito sia dal codice civile, sia dalla legge fallimentare.

7. IL PICCOLO IMPRENDITORE NEL CODICE CIVILE

 

L'art.2083 c.c. non era la sola norma a definire il piccolo imprenditore.Anche la legge fallimentare fissava una definizione di piccolo imprenditore.Una definizione che ha costituito un vero rompicaapo per gli interpreti ed è stata due volte riformata dapprima col d.lgs. 9-1-2006 e il d.lgs.12-9-2007 n.169.Per comprendere la nuova disciplina è opportuno riepilogare le ragioni che avevano sollevato la vecchia.La versione originaria dell'art.1, comma 2°,l.fall.,nel ribadire che i piccoli imprenditori commerciali non falliscono,stabiliva:" sono considerati piccoli imprenditor, gli imprenditori esercenti un'attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile.Quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori esercenti un'attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila.La stessa norma fallimentare disponeva poi che "in nessun caso sono considerati ".
Come si vede , nella legge faallimentare il piccolo imprenditore era individuato esclusivamente in base a parametri monetari e quindi con criterio palesemente non coincidente con quello fissato dal codice civile.Da qui la necessità di trovare un coordinamento fra le due norme, per evitare di cadere nel paradosso di dovere nel contempo riconoscere e negare allo stesso soggetto la qualità di piccolo imprenditore e agli stessi effetti.Di
Per aversi piccola impresa è perciò necessario che:

  • l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa;
  • il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell’impresa prevalgano sia rispetto al lavoro altrui sia rispetto al capitale (proprio o altrui) investito nell’impresa. Quindi, non è mai piccolo imprenditore chi investe ingenti capitali nell’impresa, anche chi non si avvale di alcun collaboratore (es. gioielliere).

La prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi deve intendersi in senso qualitativo - funzionale e non come prevalenza quantitativo – aritmetica.

8. IL PICCOLO IMPRENDITORE NELLA LEGGE FALLIMENTARE

Anche la legge fallimentare fissa una definizione di piccolo imprenditore, modificata di recente dal d.lgs. n. 5 del 09/01/2006.
L’art. 1, 2° comma, della legge fallimentare, oltre a ribadire che i piccoli imprenditori non falliscono, stabilisce che “Sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila”.
La stessa norma fallimentare disponeva poi che in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali.
Nella legge fallimentare, il piccolo imprenditore era individuato esclusivamente in base a parametri monetari e quindi con criterio palesemente non coincidente con quello fissato dal codice civile (prevalenza funzionale del lavoro familiare).
Da qui la necessità di trovare un coordinamento fra le due norme, per evitare di dover nel contempo riconoscere e negare allo stesso soggetto la qualità di piccolo imprenditore e agli stessi effetti.Di dovergliela riconoscere e quindi esentarlo dal fallimento in base all'art.2083, per la chiara prevalenza nell'impresa del lavoro familiare.Di dovergliela nel contempo negare e dichiararlo fallito, perchè titolare di un reddito R.M. superiore a lire 480.000 ,o perchè aveva investito nell'azienda un capitale superiore a lire 900.000.Questo rebus, di non facile soluzione, era tuttavia venuto meno per effetto di due modifiche intervenute nel sistema normativo:

  • l’imposta di ricchezza mobile è stata soppressa a partire dal 1° gennaio 1974, sostituita dall’ IRPEF. Il criterio del reddito fissato dalla legge fallimentare non era più applicabile, per implicita abrogazione della relativa previsione normativa;
  • il criterio del capitale investito non superiore a lire novecentomila fu dichiarato incostituzionale nel 1989, in quanto non più idoneo vista la svalutazione monetaria.

Della nozione originaria data dalla legge fallimentare sopravviveva solo la parte secondo cui in nessun caso erano considerati piccoli imprenditori le società commerciali.  Ma, anche, questa parte di norma non era più salda, visto che la Corte Costituzionale aveva manifestato l’orientamento che esso non trovasse applicazione nei confronti delle società artigiane.
Se la parziale abrogazione della definizione della legge fallimentare aveva risolto alcuni problemi interpretativi il permanere in vigore della sola definizione del codice civile di piccolo imprenditore creava però non trascurabili inconvenienti pratici in sede di dichiarazione di fallimento. Accertare in concreto la prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi non è sempre agevole, con gravi conseguenze del fallimento per il fallito e per i terzi suscitava insoddisfazione.
Per queste ragioni, la riforma del diritto fallimentare del 2006,a sua volta modificata dal decreto correttivo del 2007,ha reintrodotto nell’art. 1, 2° comma, legge fallimentare, una definizione di piccolo imprenditore basata su criteri esclusivamente quantitativi e monetari. In primo luogo, la nuova disposizione fallimentare,perciò non definisce più chi è " il piccolo imprenditore", ma semplicemente individua alcuni parametri dimensionali dell'impresa, al di sotto dei quali l'imprenditore commerciale non fallisce.Si è voluto così porre (auspicabilmente ) un freno alle infinite dispute scaturite dall'esistenza di una duplice definizione di piccolo impreditore.L'intervento correttivo del 2007 ha inoltre cercato di definire meglio le soglie dimensionali rilevanti,dato che la formulazione introdotta con la riforma del 2006 aveva adito a numerose incertezze e ad un eccessivo ampliamento della categoria di imprenditori non fallibili.
In base alla attuale disciplina, dunque, non è soggetto a fallimento l'imprenditore commerciale che dimostri il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

  • di aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento( o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore), un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila.
  • di aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istenza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore),ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
  • avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila .

Tali valori possono essere aggiornati con cadenza triennale con decreto del Ministro della giustizia sulla base delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo, per adeguarli alla svaluztazione monetaria (art.1,3° comma).
Basta aver superato anche solo uno degli indicati limiti dimensionali per essere esposti a fallimento.E risolvendo un punto controverso, l'attuale disciplina pone l'onere della prova del loro rispetto a carico del debitore. A differenza che in passato, inoltre,anche le società commerciali possono essere esonerate dal fallimento, se rispettano i limiti dimensionali sopra indicati.Si pensi, ad esempio,ad una società in nome collettivo fra due modesti mediatori.
In base alla nuova formulazione della legge fallimentare si realizza dunque un migliore coordinamento con la disciplina codicistica, nel senso di escludere ogni inteferenza con la definizione dell'art.2083 c.c. sull'applicazione della legge fallimentare.Non dovrebbero sussistere più dubbi la definizione di piccolo imprenditore che da il codice civile rileva invece ai fini dell'applicazione della restante parte dello statuto dell'imprenditore commerciale (iscrizione nel registro delle imprese,obbligo di tenuta delle scritture contabili).

 

9. L’IMPRESA ARTIGIANA

La piccola impresa e, soprattutto, la piccola impresa artigiana godono di una legislazione speciale di ausilio e di sostegno. Tali leggi speciali spesso prevedono autonomi criteri di identificazione delle imprese destinatarie, non coincidenti con quelli fissati dall’art. 2083.  Essendo definizioni dettate da leggi speciali esse non pongono alcun problema di coordinamento con la nozione civilistica e fallimentare di piccolo imprenditore.  Tuttavia, resta fermo che, per stabilire se un dato imprenditore è esonerato dal fallimento in quanto piccolo imprenditore, si deve guardare solo al rispetto dei limiti dimensionali fissati dall’art. 1, 2° comma, legge fallimentare. Questo principio subiva però fino a qualche tempo fa un’eccezione per l’impresa artigiana.
La legge n. 860 del 25/07/1956 (legge sull’artigianato) affermava espressamente all’art. 1, 1° comma, che l’impresa rispondente ai requisiti fondamentali fissati nella stessa legge era da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di legge, e quindi anche agli effetti civilistici e fallimentari. La nozione speciale sostituiva perciò quella del codice e della legge fallimentare.
Il dato caratterizzante l’impresa artigiana risiedeva nella natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo. 
La qualifica artigiana era riconosciuta anche alle imprese costituite in forma di società, purché si trattasse di società cooperative o in nome collettivo ed alla condizione che la maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro e, nell’impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale, art. 3, 1° comma.
Perciò, le società artigiane dovevano considerarsi esonerate dal fallimento. 
La legge n. 860/1956 è stata abrogata dalla legge n. 443 del 08/08/1985, legge quadro sull’artigianato.
La nuova legge contiene una propria definizione dell’impresa artigiana, basata :

  • l’oggetto dell’impresa, che può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni;
  • sul ruolo dell’artigiano nell’impresa, richiedendosi che esso svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo, art. 2, 1° comma, ma non che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori produttivi.

Continuano ad essere imposti limiti per quanto riguarda i dipendenti, ma il numero massimo è più elevato rispetto alla legge del 1956. Ma, è riaffermato il principio che il personale dipendente deve essere personalmente diretto dall’artigiano ed è stabilito che l’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana, art. 3, 5° comma.
La legge del 1985 riafferma altresì la qualifica artigiana delle imprese costituite in forma di società cooperativa o in nome collettivo, a condizione che la maggioranza dei soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell’impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale, art. 3, 2° comma.
Inoltre, la qualifica di impresa artigiana è stata successivamente estesa, dapprima alla società a responsabilità limitata unipersonale ed alla società in accomandita semplice, purché il socio unico o tutti i soci accomandatari siano in possesso dei requisiti previsti per l’imprenditore artigiano e non siano nel contempo socio unico di un’altra s.r.l. o socio di un’altra s.a.s. (art. 3, 3° comma, legge n. 133/1997) e, recentemente, anche alla s.r.l. pluripersonale a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e detenga la maggioranza del capitale sociale e degli organi deliberanti della società, art. 5, 3° comma, legge n. 57/2001.
La categoria delle imprese artigiane risulta quindi notevolmente ampliata rispetto alla legge precedente. È scomparso ogni riferimento alla natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e si qualificano artigiane anche le imprese di costruzioni edili. Inoltre, l’elevazione del numero dei dipendenti consente di conservare la qualifica artigiana anche raggiungendo le dimensioni di una piccola industria di qualità.
L’impresa artigiana si caratterizza anche per il rilievo del lavoro personale dell’imprenditore nel processo produttivo e per la funzione preminente del lavoro sul capitale investito, ma da nessuna norma della legge speciale è invece consentito desumere che debba necessariamente ricorrere anche la prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul lavoro altrui e sul capitale investito. Perciò, si deve convenire che la legge quadro ha realizzato una frattura rispetto alla legge del 1956 e preclude ogni residua possibilità di ricondurre  il nuovo modello di impresa artigiana nell’alveo della definizione codicistica di piccolo imprenditore.
Lo scopo della legge quadro era quello di fissare i principi direttivi che dovrebbero essere osservati dalle regioni nell’emanazione dei provvedimenti a favore dell’artigianato, art. 1, 2° comma.
Il riconoscimento della qualifica  artigiana in base alla legge quadro non basta per sottrarre l’artigiano allo statuto dell’imprenditore commerciale. È necessario altresì che sia rispettato il criterio della prevalenza fissato dall’art. 2083, ed i limiti dimensionali fissati dall’art. 1, 2° comma, legge fallimentare. In mancanza, l’imprenditore sarà artigiano ai fini delle provvidenze regionali, ma dovrà qualificarsi imprenditore commerciale non piccolo  ai fini civilistici e/o del diritto fallimentare, quindi potrà fallire.  Non costituisce ostacolo alla dichiarazione di fallimento il riconosciuto carattere costitutivo dell’iscrizione nell’albo delle imprese artigiane, art. 5, dato che l’iscrizione non preclude all’autorità giudiziaria di accertare se effettivamente sussistano i presupposti per il riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore.

 

Secondo la giurisprudenza, l’imprenditore artigiano è soggetto a fallimento quando per l’organizzazione e l’espansione della sua azienda, egli abbia industrializzato la produzione, conferendo al suo guadagno, di regola modesto, i caratteri del profitto.
Anche l’esonero delle società artigiane al fallimento si deve ritenere cessato. Oggi infatti, non è più possibile sostenere che la legislazione speciale in tema di artigianato configura  deroga ai principi fissati dalla legge fallimentare. E ciò per due motivi
1)perché la legge del 1985 opera solo ai fini della normativa di agevolazione
2)perché la nuova disciplina fallimentare è univoca nello stabilire che ai fini della dichiarazione di fallimento rileva solo la definizione di piccolo imprenditore che essa stessa detta all’art. 1, 2° comma.
Ne consegue che una società artigiana godrà delle provvidenze di cui godono le altre imprese artigiane, ma in caso di dissesto fallirà al pari di ogni altra società che esercita attività commerciale, se supera i limiti dimensionali della piccola impresa.
Non è sostenibile che le imprese artigiane siano imprese civili e non commerciali per difetto del requisito dell’industrialità.  Oggi, come ieri, l’imprenditore artigiano non è che un piccolo industriale e quindi, giuridicamente, rientra nella categoria degli imprenditori commerciali, infatti, alcune delle attività esercitabili dall’impresa artigiana sono espressamente ricomprese nell’elenco delle attività commerciali di cui all’art. 2195 c.c.
In conclusione: Al pari di ogni altro imprenditore commerciale, l’imprenditore artigiano individuale e le società artigiane saranno esonerate dal fallimento solo se in concreto ricorrono i presupposti per poter essere qualificati piccoli imprenditori in base all’art. 1, 2° comma, legge fallimentare.

10. L’IMPRESA FAMILIARE

È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano (anche attraverso il lavoro nella famiglia) il coniuge, i parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) e gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati) dell’imprenditore: c.d. famiglia nucleare.
L’impresa familiare non va confusa con la piccola impresa. Può aversi piccola impresa senza che sia impresa familiare e viceversa.
Il legislatore ha voluto predisporre una tutela minima ed inderogabile del lavoro familiare nell’impresa, attraverso il riconoscimento per i membri della famiglia nucleare che lavorino in modo continuativo nella famiglia e nell’impresa determinati diritti patrimoniali e amministrativi.
Sul piano patrimoniale sono riconosciuti i seguenti diritti:

  • diritto al mantenimento, secondo le condizioni patrimoniali della famiglia, anche se non dovuto ad altro titolo (come per i figli maggiorenni);
  • diritto di partecipazione agli utili dell’impresa in proporzione alla quantità del lavoro prestato nell’impresa e nella famiglia;
  • diritto sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell’azienda, anche dovuti ad avviamento, sempre in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato;
  • diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda stessa.

Sul piano gestorio è previsto che le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell’impresa e su talune decisioni di particolare rilievo sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. Ciascun familiare ha diritto a un solo voto e che alle decisioni non prenda parte l’imprenditore in quanto destinatario della decisione adottata dagli altri membri della famiglia.
Le decisioni in merito alla gestione ordinaria rientrano nella competenza esclusiva dell’imprenditore e che nessun potere competa al riguarda agli altri familiari. 
La violazione da parte dell’imprenditore dei poteri gestori ex lege riconosciuti ai familiari lo esporrà al risarcimento dei danni eventuali nei loro confronti, ma non inciderà sulla validità o sull’efficacia degli atti compiuti, che saranno perciò ugualmente validi nei confronti dei terzi.
È previsto che il diritto di partecipazione:

  • è trasferibile solo a favore di altri membri della famiglia nucleare e con il consenso unanime dei familiari già partecipanti;
  • è inoltre liquidabile in danaro qualora cessi la prestazione di lavoro ed in caso di alienazione dell’azienda.

La disciplina dell’impresa familiare ha sollevato molti problemi interpretativi, sia per quanto riguarda i rapporti interni all’impresa, sia per quanto riguarda i rapporti con i terzi. Problemi condizionati dal fatto se l’impresa familiare resti un’impresa individuale o dia vita a un’impresa collettiva (società, associazione non riconosciuta, associazione in partecipazione).  Oggi prevale la tesi secondo cui la disciplina delle prestazioni lavorative dei familiari dell’imprenditore non altera la struttura individuale dell’impresa e non incide sulla titolarità dei beni aziendali, che restano di proprietà esclusiva dell’imprenditore.
Accogliendo questa tesi, i diritti patrimoniali dei partecipanti all’impresa familiare vanno concepiti come semplici diritti di credito nei confronti del familiare imprenditore. 
L’imprenditore agisce nei confronti dei terzi in proprio e non quale rappresentante dell’impresa familiare, sicché solo a lui saranno imputati gli effetti degli atti posti in essere nell’esercizio dell’impresa e solo lui sarà responsabile nei confronti dei terzi delle relative obbligazioni contratte.
Infine, se l’impresa è commerciale (e non piccola) solo l’imprenditore sarà eventualmente esposto al fallimento.

c) IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA

11. L’IMPRESA SOCIETARIA

Il terzo ed ultimo criterio di distinzione della disciplina delle imprese è dato dalla natura giuridica del soggetto titolare dell’impresa che distingue fra impresa individuale, impresa societaria ed impresa pubblica.
Le società sono le forme associative tipiche, anche se non esclusive, previste dall’ ordinamento per l’esercizio collettivo di attività di impresa. Esistono diversi tipi di società e la società semplice è utilizzabile solo per l’esercizio di attività non commerciali, mentre le altre società possono svolgere attività commerciali ed agricole. Le società diverse da quella semplice sono dette società commerciali e potranno essere imprenditori agricoli (società commerciali con oggetto agricolo) o imprenditori commerciali (società commerciali con oggetto commerciale) a seconda dell’ attività esercitata.
L’applicazione alle società commerciali degli istituti dell’imprenditore commerciale segue alcune regole:

  • Parte della disciplina propria dell’imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque sia l’attività svolta, come per l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, (art. 2136 e art. 2200), e per la tenuta delle scritture contabili. Resta invece fermo l’esonero delle società commerciali che gestiscono un’attività agricola dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali, art. 2221 e art. 1, 1° comma, legge fallimentare.

A seguito della riforma del diritto fallimentare del 2006, anche le società possono essere piccoli imprenditori, e tale società sono esonerate anch’essi dalle procedure concorsuali, art. 1, 2° comma, legge fallimentare.

  • Nelle società in nome collettivo ed in accomandita semplice parte della disciplina dell’imprenditore commerciale trova poi applicazione solo o anche nei confronti dei soci a responsabilità illimitata: tutti i soci nella società in nome collettivo, i soci accomandatari nella società in accomandita semplice.

      Trovano applicazione solo nei confronti dei soci le norme che regolano       l’esercizio di impresa commerciale da parte di un incapace.
Trova applicazione anche nei confronti dei soci la sanzione del fallimento       in quanto il fallimento della società comporta automaticamente il       fallimento dei singoli soci a responsabilità illimitata.

12. LE IMPRESE PUBBLICHE

Attività di impresa può essere svolta anche dallo Stato e dagli altri enti pubblici. Ai fini dell’applicazione della disciplina dell’impresa è tuttavia rilevante distinguere fra tre possibili forme di intervento dei pubblici poteri nel settore dell’economia.

  • Lo stato o altro ente pubblico territoriale possono svolgere direttamente attività di impresa avvalendosi di proprie strutture organizzative, prive di distinta soggettività, ma dotate di una più o meno ampia autonomia decisionale e contabile. In questi casi l’attività di impresa è per definizione secondaria ed accessoria rispetto ai fini istituzionali dell’ente pubblico. Si parla perciò di imprese – organo. Es. le aziende municipalizzate, e i monopoli di stato.

L’art. 2093, per le imprese-organo, dispone che a tali enti si applicano le disposizioni del libro Quinto del codice civile, limitatamente alle imprese da essi esercitate e nel libro Quinto è compresa la disciplina dell’impresa commerciale. Ma, sono salve le diverse disposizioni di legge. Inoltre, gli enti titolari di imprese-organo sono implicitamente esonerati dall’iscrizione nel registro delle imprese, in quanto prevista solo per gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale, art. 2201. Infine sono esonerati dalle procedure concorsuali.

  • La pubblica amministrazione può dar vita anche ad enti di diritto pubblico il cui compito istituzionale esclusivo o principale è l’esercizio di attività di impresa. Questi enti sono detti enti pubblici economici. Avevano tale veste giuridica molte banche pubbliche, enti statali ed enti a partecipazione statale. Dagli inizi degli anni ‘90 però questi enti sono stati ristrutturati e con una serie di interventi legislativi sono stati trasformati in spa a partecipazione statale (privatizzazione formale) oppure in spa senza partecipazione statale (privatizzazione sostanziale).

Gli enti pubblici economici, che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività, sono sottoposti allo statuto generale dell’imprenditore e, se l’attività è commerciale, sono sottoposti anche allo statuto proprio dell’imprenditore commerciale, con la sola eccezione dell’esonero dal fallimento e dalle procedure concorsuali minori, sostituiti dalla liquidazione coatta amministrativa o da altre procedure previste dalle leggi speciali. Secondo l’art. 2201, sono obbligati all’iscrizione al registro delle imprese.
Se ne deve desumere che gli enti pubblici economici che svolgono attività commerciale accessoria sono sottoposti allo statuto generale dell’imprenditore, nonché a tutte le restanti norme previste per gli imprenditori commerciali, anche all’obbligo di tenuta delle scritture contabili, per il quale manca un’ espressa norma di esonero. 
Ma vi è anche una parte della dottrina che ritiene che l’esonero dall’iscrizione nel registro delle imprese, per gli enti pubblici che esercitano attività commerciale in via accessoria, debba essere interpretato come espressione di un più generale principio di esonero di tali enti dalla disciplina dell’ imprenditore commerciale. Perciò, agli enti pubblici si applicherebbe solo lo statuto generale dell’imprenditore , mentre sarebbero integralmente sottratti alla disciplina dell’imprenditore commerciale, anche in assenza di norme che dispongano ciò espressamente.  Ma questa teoria non può essere condivisa:
Ø sia per il generale richiamo di tutta la disciplina di diritto privato dell’attività di impresa operato dal 2° comma dell’art. 2093 che prevede che agli enti pubblici non inquadrati nelle associazioni professionali si applicano le disposizioni del libro Quinto limitatamente alle imprese da essi esercitate;
Ø sia per il carattere eccezionale che si deve riconoscere all’art. 2201 e all’art. 2221 che sottraggono gli enti pubblici alla disciplina dell’impresa commerciale.

  • Lo stato e gli enti pubblici possono infine svolgere attività di impresa servendosi di strutture di diritto privato, in genere di società con partecipazione pubblica, totalitaria, di maggioranza o di minoranza. In questo caso, l’impresa si presenta formalmente come un’impresa societaria privata, come ogni altra società, anche se le azioni o quote appartengono allo Stato o ad altro ente pubblico. Perciò sono soggetti allo statuto dell’imprenditore come ogni altra società.

13. ATTIVITA’ COMMERCIALE DELLE ASSOCIAZIONI E DELLE FONDAZIONI

Le associazioni, le fondazioni e, in generale, tutti gli enti privati con fini ideali o altruistici possono svolgere attività commerciale qualificabile come attività di impresa. Affinché si abbia impresa, l’attività produttiva deve essere condotta con metodo economico  e tale metodo può ricorrere anche quando lo scopo perseguito sia ideale.
L’esercizio di attività commerciale da parte di tali enti, pur essendo sempre strumentale rispetto allo scopo istituzionale perseguito, può costituirne anche l’oggetto esclusivo e principale. In tal caso l’ente acquista la qualità di imprenditore commerciale e resta esposto a tutte le relative conseguenze, compresa l’esposizione al fallimento in caso di insolvenza, fatta eccezione per le associazioni qualificabili come imprese sociali.
Ma è più frequente che l’attività commerciale presenti carattere accessorio rispetto all’ attività ideale costituente l’oggetto principale dell’ente. Ma il carattere accessorio dell’attività commerciale non impedisce l’acquisto della qualità di imprenditore, non potendosi eccepire che manchi il requisito della professionalità: la professionalità non implica che l’attività di impresa sia esclusiva  o principale. Per tali enti non è dettata alcuna norma specifica per quanto concerne l’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, perciò essi acquistano la qualità di imprenditori commerciali con pienezza di effetti anche se l’attività commerciale ha carattere accessorio o secondario. Quindi saranno esposti anche al fallimento.
Una parte minoritaria della dottrina e la giurisprudenza ritengono che la disciplina delle imprese commerciali non sia applicabile agli enti di diritto privato diversi dalle società, quando l’attività di impresa abbia carattere accessorio. Ritengono che si debba applicare lo stesso regime  dettato per gli enti pubblici titolari di imprese – organo.
Si ritiene che l’art. 2201 sia un principio generale valido per tutte le imprese collettive non societarie. Quindi, le associazioni e le fondazioni, che esercitano attività commerciale in via accessoria sarebbero esonerate dall’intero statuto dell’ imprenditore commerciale. Cioè sarebbero imprenditori, ma non imprenditori commerciali.  Ma questa tesi non può essere condivisa per due motivi:

  • l’art. 2201 è una norma eccezionale che trova fondamento nella struttura pubblicistica dell’ente, il che è sufficiente per respingere l’applicazione ad enti di diritto privato quali l’associazione o la fondazione;
  • l’art. 2201 si limita a prevedere l’esonero dalla registrazione e non può essere inteso come esonero degli enti pubblici titolari di imprese – organo dall’intero statuto degli imprenditori commerciali. Tanto è vero che per le procedure concorsuali è dettata una espressa norma, l’art. 2221.

In conclusione: le associazioni e le fondazioni esercenti attività commerciale in forma di impresa diventano sempre e comunque imprenditori commerciali e restano esposte al fallimento, senza possibilità di operare distinzioni in base al carattere principale o accessorio dell’attività di impresa.
Problema è invece se il fallimento di un’associazione non riconosciuta comporti anche il fallimento degli associati illimitatamente responsabili.
Ma dalla formulazione dell’art. 147, 1° comma, legge fallimentare, dall’art. 9 del d.lgs. 240/1991, è desumibile che il fallimento di un’impresa collettiva senza scopo di lucro non comporta il fallimento di chi risponde illimitatamente per le relative obbligazioni.

14. L’IMPRESA SOCIALE

L’art. 1,1° comma, d.lgs. 155/2006 prevede che possono acquistare la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni private che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale.
Inoltre l’impresa sociale non ha scopo di lucro. L’impresa sociale è impresa in base all’art. 2082, perché è espressamente tenuta ad operare con metodo economico. Nulla vieta, inoltre, che l’esercizio dell’attività imprenditoriale produca un avanzo dei ricavi sui costi, detto avanzo di gestione.  È vietata solo l’autodestinazione degli utili, che devono essere destinati allo svolgimento dell’attività o all’incremento del patrimonio dell’ente.
Inoltre sul patrimonio grava un vincolo di indisponibilità, in quanto, né durante l’esercizio dell’impresa, né allo scioglimento, è possibile distribuire fondi o riserve a vantaggio di coloro che fanno parte dell’organizzazione: amministratori, partecipanti, lavoratori, collaboratori, art. 3, 2° comma, d.lgs. 155/2006.
In caso di cessazione dell’impresa, il patrimonio residuo è devoluto ad organizzazioni non lucrative di utilità sociale, associazioni, comitati, fondazioni ed enti ecclesiastici, secondo l’art. 13, 3° comma, d.lgs. 155/2006.
L’art. 13,1° comma, inoltre, stabilisce che l’assenza di lucro venga preservato in caso di operazioni di trasformazione, fusione e scissione cui partecipi l’impresa sociale, o di cessione dell’azienda.
Le finalità di interesse generale dell’impresa sociale sono favorite dal legislatore con alcuni privilegi.
Il primo privilegio è quello di potersi organizzare in qualsiasi forma di organizzazione privata.
In particolare può essere impiegato qualsiasi forma societaria anche se l’impresa non ha uno scopo lucrativo. Inoltre, più imprese sociali possono formare fra loro un gruppo di imprese, holding.
Invece, non possono avere la forma di imprese sociali, secondo l’art. 1, 2° comma
1) le amministrazioni pubbliche;
2) le organizzazioni che erogano beni e servizi esclusivamente a favore dei propri soci, associati o partecipi.
L’impresa sociale non è un nuovo tipo di ente diverso da quelli già previsti e regolati dall’ordinamento, bensì una qualifica che gli enti di diritto privato possono assumere a certe condizioni e che comporta l’applicazione di una disciplina speciale. Ne consegue che, ove non espressamente derogata, continuerà a trovare applicazione la disciplina propria dell’ente che esercita l’impresa sociale.
Il secondo privilegio è quello di poter limitare a certe condizioni  la responsabilità patrimoniale dei partecipanti, anche quando è impiegata una forma giuridica che prevedrebbe la responsabilità personale illimitata di costoro.
Più precisamente: se l’impresa sociale è dotata di un patrimonio netto di almeno ventimila euro, dal momento dell’iscrizione nel registro delle imprese risponde delle obbligazioni assunte soltanto l’organizzazione con il suo patrimonio. Qualora, però, il patrimonio diminuisca per perdite di oltre un terzo (a meno di 13.333 euro), delle obbligazioni assunte ne rispondono personalmente e solidalmente anche coloro che hanno agito in nome e per conto dell’impresa, ma non gli altri soci.
Di fatto, la limitazione di responsabilità opera solo a vantaggio delle imprese sociali in bonis, ma cessa quando il patrimonio diventa insufficiente.
Le imprese sociali sono soggette, anche, a delle regole speciali per quanto riguarda l’applicazione degli istituti tipici dell’imprenditore commerciale. Indipendentemente dalla natura agricola o commerciale dell’attività esercitata, esse:

  • devono iscriversi in un’apposita sezione del registro delle imprese, art. 5;
  • devono redigere le scritture contabili, art. 10;
  • in caso di insolvenza, sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa, invece che a fallimento, art. 15.

Le organizzazioni che intendono assumere la qualifica di impresa sociale devono costituirsi per atto pubblico, osservando le disposizioni in merito all’atto costitutivo.
L’atto costitutivo deve:

  • determinare l’oggetto sociale, individuandolo fra le attività di utilità sociale riconosciute dalla legge;
  • enunciare l’assenza dello scopo di lucro;
  • indicare la denominazione dell’ente, integrata dalla locuzione “impresa sociale”, art. 7;
  • fissare i requisiti e regole per la nomina dei componenti delle cariche sociali;
  • disciplinare le modalità di ammissione ed esclusione dei soci, nel rispetto del principio della non discriminazione, art. 9;
  • prevedere forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’ attività di impresa nell’assunzione delle decisioni che possono incidere direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità delle prestazioni erogate, art. 12. Devono essere coinvolti anche i lavoratori volontari.
  • prevedere una forma di controllo contabile affidato ad uno o più revisori contabili, iscritti presso il registro del Ministero della Giustizia, ed una forma di controllo di legalità della gestione e del rispetto dei principi di corretta amministrazione, che è riservato ad uno o più sindaci.

A questi sindaci, che  devono vigilare anche sull’osservanza delle finalità sociali dell’impresa, è riconosciuto, in qualsiasi momento, il potere di ispezione e controllo e di chiedere notizie agli amministratori.
Le imprese sociali sono sottoposte anche a dei controlli esterni da parte del Ministero del Lavoro, che può procedere ad ispezioni.
Il Ministero del Lavoro può anche disporre la perdita della qualifica di impresa sociale in due circostanze:

  • se rileva l’assenza delle condizioni per il riconoscimento (natura di ente privato, attività in settori di utilità sociale, assenza dello scopo di lucro, indipendenza da enti pubblici o imprese lucrative);
  • se riscontra violazione della disciplina e, diffidati gli organi direttivi a porre fine ai comportamenti illegittimi, l’impresa non ottempera entro un congruo termine.

Ne consegue la cancellazione dell’impresa dal registro e l’obbligo di devolvere il patrimonio ad enti non lucrativi determinati dallo statuto, art. 16, 4° comma.

 

Fonte:

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