La domanda di lavoro nella società di servizi
La domanda di lavoro nella società di servizi
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La domanda di lavoro nella società di servizi
La domanda di lavoro nella società di servizi (cap. 1)
Quello dei servizi è ormai il settore ove si concentra la gran maggioranza degli occupati.
Tre fenomeni che hanno investito l’intero mondo del lavoro:
- la diffusione del computer;
- la domanda di nuove competenze cognitive,
- comunicative e sociali;
- affermazione della professionalizzazione.
- I DIVERSI PERCORSI DELLA TERZIARIZZIONE
Come in tutti i paesi avanzati, anche in Italia la crescita dell’occupazione da oltre trent’anni si deve alle attività terziarie. Il processo di terziarizzazione è più accentuato nel Mezzogiorno, che in una sola generazione è passato da un’economia agricola ad una terziaria ‘saltando’ la fase industriale. Questa divergenza tra Centro-Nord e Mezzogiorno è frutto di 2 diversi modelli di terziarizzazione.
Centro-nord= forte tradizione industriale e alti redditi familiari prevalgono i servizi privati
Meridione= l’occupazione terziaria è sostenuta dall’intervento pubblico
- Perché cresce il terziario
- Al crescere dei livelli di reddito la domanda dei servizi aumenta più di quella dei beni industriali
- La produttività del lavoro (data dal rapporto tra volume di beni o servizi prodotti e volume di ore o numero di lavoratori necessari per produrli) può crescere enormemente nell’industria manifatturiera grazie all’uso delle macchine, mentre è molto difficile automatizzare i servizi. Perciò nell’industria i beni prodotti possono aumentare anche con meno lavoratori mentre nei servizi se cresce la produzione devono aumentare anche i lavoratori.
- I servizi per le imprese
Quando l’impresa manifatturiera decide di ‘esternalizzare’ i suoi uffici pubblici o ricerche di mercato, l’occupazione industriale diminuisce e quella terziaria aumenta
Il grande aumento dei servizi alle imprese (dall’assistenza tecnica alla ricerca di marketing) è frutto di un processo di specializzazione organizzativa a seguito della maggiore importanza assunta da queste funzioni nel processo produttivo. La tendenza ad esternalizzare i servizi per la produzione si presenta più o meno accentuata (Germania,Italia).
- I servizi per le persone
L’altra componente del terziario è quella dei servizi finali o per il consumo delle persone. Questi servizi possono essere acquistati sul mercato oppure forniti gratuitamente o a prezzi inferiori ai costi da strutture pubbliche; finanziate dal prelievo fiscale.
La dinamica dei servizi finali dipende dalla soluzione che la società dà al funzionamento di tre sistemi essenziali:
- il sistema politico, formato dalle attività dirette a garantire sicurezza e ordine sociale;
- il sistema di riproduzione biopsichica, composto dalle attività necessarie a mantenere in buone condizioni di salute i membri di una società;
- il sistema di riproduzione socioculturale, volto a riprodurre la cultura di una società (stili di vita, conoscenze e modelli di personalità.
Perciò l’andamento della domanda di servizi finali e dei loro addetti dipende anche da come cambia il grado in cui tali funzioni sono svolte all’interno delle famiglie oppure esternalizzate ad agenzie specializzate.
- La ‘self-service economy’
Da un lato, il minor tempo dedicato al lavoro, aumenta il tempo libero in cui le persone possono fruire dei servizi, dall’altro, il maggior tempo libero può favorire lo sviluppo di una self-service economy, cioè un’autoproduzione di servizi in seno alla famiglia
Le nuove tecnologie favoriscono l’autoproduzione di servizi, sebbene conti molto la composizione delle famiglie: è più difficile che si diffonda il self-service se le famiglie sono composte da singoli o se la donna lavora.
L’alternativa tra servizi finali e self-service dipende anche da come una società organizza la sua vita quotidiana e dalla politica sociale dello Stato. Se nella spesa pubblica prevalgono i trasferimenti monetari alle famiglie, ne risultano rafforzate le tendenze all’autoproduzione di servizi; all’opposto uno stato che offre servizi collettivi
- Tre modelli di terziarizzazione
- WELFARE ECONOMY(prevale la logica della ridistribuzione): forte carico fiscale e servizi pubblici largamente diffusi.
Svezia:l’elevata pressione fiscale,consente una forte espansione del settore pubblico, che supera 1/3 dell’occupazione; principalmente femminile
- SELF-SERVICE ECONOMY: carico fiscale medio-alto cui corrispondono più trasferimenti monetari alle famiglie che servizi sociali. È la situazione che avviene nei principali paesi europei. La Francia e la Germania si caratterizzano per una minor terziarizzazione e a una spesa pubblica che privilegia i trasferimenti monetari alle famiglie rispetto ai servizi pubblici.
- MARKET ECONOMY( prevale la logica di mercato): basso carico fiscale e servizi finali affidati al settore privato. Stati Uniti: la domanda di servizi è molto elevata, alta attività femminile e famiglie di single, è soddisfatta sul mercato da imprese private. A questo modello si avvicina la GB
- Un’occupazione socialmente determinata
I processi di terziarizzazione sono molto diversi da un paese all’altro e queste differenze dipendono soprattutto dalla natura del welfare state, dall’assetto delle relazioni industriali e dai modelli di famiglia.
La stessa società, organizzando in modi diversi la soddisfazione dei propri bisogni, può decidere la composizione e il volume dell’occupazione.
- Il caso italiano
Prevalenza di trasferimenti monetari alle famiglie, diffusa autoproduzione di servizi personali , scarsa occupazione femminile e bassa percentuale di occupati nel settore pubblico.
L’aspetto che distingue l’Italia da Francia e Germania è un altro: la scarsa occupazione nei servizi intermedi e per contro un’elevata quota di addetti ai servizi finali privati ( commercio, pubblici esercizi, turismo, lavoro domestico)
In Italia sono poco presenti i servizi a più elevata tecnologia e con un’occupazione qualificata
- La dinamica dei diversi servizi
Negli anni 80-90 i servizi intermedi per le imprese sono cresciuti molto di più di quelli finali alle persone; il loro peso è aumentato sia nell’occupazione tot che in quella terziaria
La stagnazione dell’occupazione nel commercio, risultato di una profonda riorganizzazione: le grandi catene di distribuzione sostituiscono i piccoli negozi.
Cresce molto l’occupazione nei settori legati al turismo e alla ristorazione, nel lavoro domestico presso le famiglie e nei servizi sociali e personali
La pubblica amministrazione, cioè sanità e istruzione, ristagna e declina negli anni ‘90
- Crescita e declino del settore pubblico
Il rallentamento della crescita dell’occupazione pubblica negli anni ’80 interessa quasi tutti i paesi avanzati: in Italia il contributo del settore pubblico, decisivo negli anni ’70, diventa modesto a fronte di quello dei servizi privati; si è diffusa soprattutto negli enti locali e nella sanità la pratica di esternalizzare funzioni ricorrendo a contratti di collaborazione coordinata e continuativa o a convenzioni con organizzazioni del settore non profit.
- Le differenze territoriali
La sovraterziarizzazione del Mezzogiorno è sempre più dovuta al settore pubblico. In realtà nel Mezzogiorno il peso dell’occupazione pubblica appare dominante solo perché è molto più ridotta, rispetto alla popolazione, quella privata.
Il pubblico impiego esercita una forte attrazione anche nel mercato settentrionale. La fuga dal privato verso il pubblico si spiega non tanto con la ricerca di maggiore sicurezza come al sud ma piuttosto con altre caratteristiche del pubblico impiego: struttura retributiva e qualifiche superiori rispetto al privato e sino a metà anni ’90 la possibilità di pensionamento anticipato.
- TERZIARIZZAZIONE E LIVELLO DELL’OCCUPAZIONE
Maggiore è la terziarizzazione dell’occupazione, più elevata è l’occupazione di un paese. l’Italia è molto in ritardo rispetto agli attuali livelli medi dell’Unione Europea ma non per quanto riguarda l’occupazione dei maschi adulti, piuttosto per la posizione delle ‘fasce deboli’ (giovani e donne)
- Perché in realtà la distanza è un po’ minore
La distanza è tuttavia minore di quanto risulti a prima vista, poiché:il tasso di occupazione di alcuni paesi è sovrastimato per motivi statistici; maggiore diffusione del part-time rispetto all’Italia e l’occupazione italiana è sottostimato a causa della più elevata diffusione del lavoro nero. Inoltre, tale distacco si deve quasi del tutto al Mezzogiorno.
- Le differenze tra Nord e Mezzogiorno
Nelle regioni settentrionali il tasso di occupazione totale è quasi uguale alla media europea. La distanza del Mezzogiorno dal Nord è enorme e persino il tasso di occupazione dei maschi adulti è molto inferiore ai livelli europei. I tassi di occupazione dei giovani e delle donne sono infimi. Unico elemento di controtendenza, ma non certo positivo, è il tasso di occupazione dei maschi in età avanzata.
I lavoratori meridionali hanno avuto minori probabilità di accesso a forme di pensionamento: essi sono stati quindi costretti a continuare a lavorare più a lungo dei loro coetanei delle altre regioni italiane.
- Tasso di occupazione totale e nei servizi
Il tasso di occupazione tot è più alto nei paesi in cui è più alta la percentuale di persone occupate nei servizi,ma i paesi ove l’occupazione nei servizi è aumentata più rapidamente non hanno avuto un maggiore aumento nell’occupazione complessiva; ciò si deve al fatto che una crescita dell’occupazione nei servizi non è riuscita a controbilanciare una riduzione molto maggiore dell’occupazione nell’industria e in agricoltura.
Tra i paesi europei, Danimarca, Svezia e Gran Bretagna sono quelli che presentano il più elevato tasso di occupazione totale; la caratteristica che li accomuna è l’elevata partecipazione femminile al lavoro. Vedi circolo virtuoso
- Il caso italiano
In Italia la performance occupazionale è decisamente mediocre a causa della scarsa occupazione nei servizi.
Presenza debole dei servizi alle imprese; che non favorisce quindi l’innovazione dell’impresa; la scarsa occupazione nei servizi sociali e alla persona, lascia insoddisfatti molti bisogni delle famiglie.
Il Nord Italia presenta il più alto tasso di occupazione manifatturiera.
Un così alto tasso di occupazione nell’industria si scontra con incapacità del sistema sociale di riprodurre una sufficiente offerta di lavoratori disponibili a fare gli opera (che nella mentalità comune rimane un lavoro degradante e sporco), perciò va aumentando una domanda di lavoro operaio che riesce ad essere soddisfatta soltanto ricorrendo all’immigrazione.
- COME SI PUÒ AUMENTARE L’OCCUPAZIONE?
Nel consiglio di Lisbona del 2000 si è posto l’obiettivo di raggiungere nel 2010 un tasso di occupazione del 70% nel complesso (60% donne, 50% lavoratori anziani). Per l’Italia il tasso di attività per le donne supera di poco il 48% e per le persone dai 55 a 64 anni non raggiunge il 32%.
- Occupate per amore o per forza?
Un numero crescente di donne è presente nel mercato del lavoro come occupate o in cerca di lavoro e molte altre vi entrerebbero se vi fossero minori difficoltà a trovare un’occupazione e/o se esistessero adeguati sostegni ai carichi di lavoro familiare.
Per raggiungere l’elevato livello fissato dall’UE, i paesi in cui tale obiettivo è già stato raggiunto mostrano che oltre i ¾ delle donne adulte devono avere un lavoro retribuito. Ciò implica l’adesione ad un particolare stile di vita familiare, che dà al lavoro fuori della famiglia un ruolo importante nella costruzione dell’identità personale anche per le donne.
I tassi di occupazione delle giovani donne sono minori nei paesi in cui è più radicata l’opinione che il lavoro della madre andrebbe a scapito dei figli piccoli. Dunque ciò che porta queste donne ad anteporre le esigenze familiari agli obiettivi lavorativi è soprattutto un orientamento culturale.
- Età di ritiro del lavoro e livelli di istruzione
Più ottimistiche appaiono le prospettive per i lavoratori anziani e non soltanto perché le riforme sono volte ad innalzare in modo forzoso l’età di ritiro del lavoro, ma variano in misura considerevole secondo il livello di istruzione: per i meno istruiti un’uscita precoce dal mercato del lavoro corrisponde ad un’entrate altrettanto precoce e per di più sono confinati nei lavori più dequalificati e gravosi, non hanno basi culturali per aggiornarsi e oltre i 50 anni diventano scarsamente ‘appetibili’ per le imprese.
Infine, è probabile che i più istruiti tendano a ritardare l’uscita da un lavoro qualificato anche perché vi trovano motivi di gratificazione e di identità.
La presenza ancora forte di persone poco istruite spiega anche l’attuale livello molto basso del tasso di occupazione dei maschi da 55 a 64 anni.
- Un’ulteriore espansione dei servizi
Se il terziario è considerato il settore che più può creare occupazione in un sistema economico maturo: basta un aumento anche piccolo della quantità di servizi prodotti per generare una domanda di lavoro aggiuntiva.
Alcuni economisti hanno attribuito al terziario una produttività differita, in quanto grazie ai servizi forniti l’industria può migliorare la sua efficienza e quindi aumentare la sua produttività. Ma ciò vale soltanto per alcuni settori del terziario (servizi alle imprese, ricerca, formazione,…) che non sono quelli che creano più occupazione.
- La crescita dei servizi sociali e personali
Quelli che dovrebbero creare nuova occupazione sono essenzialmente i servizi sociali e alla persona. Nell’attuale società dei servizi sono le famiglie che con le loro scelte di consumo determinano le occasioni di lavoro per i propri membri.
Queste scelte dipendono da tre fattori:
il livello di reddito,
il costo dei servizi
i vincoli di tempo.
Le “nuove” famiglie hanno poco tempo per fare i lavori domestici o di cura e debbono quindi ricorrere a servizi esterni alla famiglia. Ovviamente, perché le donne possano lavorare, occorre che dispongano di servizi di cura per i figli accessibili per il loro reddito. Il problema diventa quello di avviare il circuito virtuoso dell’occupazione:se le donne lavorano; hanno meno tempo di occuparsi di lavori domestici e dei servizi alla famiglia; qnd richiedono l’intervento esterno; questo porta ad un aumento crescente dell’ occupazione nel terziario; che a sua volta è rivolto in particolare all’occupazione femminile, qnd se la donna ha più possibilità di trovare lavoro; aumentano le donne occupate e aumenta anche la richiesta di servizi…..
- Nel modello americano: i servizi alle famiglie sono per lo più acquistati sul mercato privato, la possibilità che la loro crescita continui si fonda su una duplice disuguaglianza: - disuguaglianza nella fruizione dei servizi, legata al diverso livello di reddito
- disuguaglianza nelle retribuzioni dei lavoratori addetti a tali servizi, per cui nei servizi a bassa produttività i salari saranno più bassi che in altri settori.
Per contro il modello europeo:prevede che i servizi sociali e alle famiglie siano forniti da strutture pubbliche ma soprattutto rifiuta la duplice disuguaglianza nell’accesso a tal servizi e nei livelli salariali dei lavoratori. In questo caso la possibilità che l’espansione continui è minore poiché è legata ad un’ulteriore crescita del ruolo redistributivo dello Stato, cioè del prelievo fiscale e contributivo.
- Le obiezioni ai limiti del modello europeo
- Innanzitutto il peso fiscale dipende in larga misura dalla platea di chi ha un reddito regolare. Se questa platea cresce, allora il volume totale delle risorse prelevate può aumentare anche se il prelievo pro capite diminuisce. Può avvenire almeno in Italia grazia alla riduzione dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale.
- Non è detto che per tutti i servizi alle famiglie sia ragionevole conservare il principio dell’uguaglianza di accesso e qualità del servizio. Il welfare state si è andato costruendo per aggiunte successive e in contesti socioeconomici diversi da quello attuale. È venuto il momento di ridisegnarlo a misura dei problemi attuali. Ciò può voler dire conservare e rafforzare il principio di uguaglianza per alcuni servizi (da mantenere pubblici) ma rinunciarvi per altri (da lasciare al mercato privato).
- Ma alla rinuncia del principio di uguaglianza si può giungere in modo più trasparente e senza rinunciare ad assicurare un uguale accesso a servizi di buona qualità. Per chi cerca lavoro potrebbe essere resa esplicita l’alternativa tra buona retribuzione in lavori instabili nel privato e minor retribuzione in occupazioni stabili nel pubblico, che attrarrebbero le persone meno propense al rischio (es.: donne)
- DALLA CLASSE OPERAIA “CENTRALE” AL LAVORO MANUALE NON OPERAIO
Si riduce il lavoro manuale e quello operaio in particolare. Il fenomeno è universale; anzi l’Italia risulta in ritardo rispetto a tutti i paesi avanzati.
Fenomeno di attenuazione tre lavoro operaio e impiegatizio.
L’innovazione tecnologica ha notevolmente modificato l’ambiente e le prestazioni per alcune figura operaie (addetti macchine a controllo numerico, operatori di processo nelle fabbriche chimiche o alimentari). Costoro operano in ambienti puliti e non sono loro richiesti particolari sforzi fisici, ma piuttosto conoscenze tecnico-scientifiche e responsabilità
- Uno sviluppo minore e in ritardo per la grande fabbrica
Nella riduzione del lavoro manuale assume gran rilievo il declino dell’operaio. La classe operaia della grande industria ha avuto un ruolo centrale nel mercato del lavoro e nel sistema di relazioni industriali. L’industrializzazione in Italia decolla in ritardo rispetto agli altri paesi europei, rimane a lungo ristretta in poche aree settentrionali e cresce più grazie alle piccole che non alle grandi fabbriche. Dopo la guerra la ripresa economica è segnata dalla crescita della piccola impresa.
- Gli anni della maggiore espansione
Gli anni ’60 sono quelli di maggior sviluppo industriale. L’occupazione nella grande impresa cresce in misura ancor maggiore, poiché l’artigianato si riduce.
È il momento di maggior espansione della classe operaia e in particolare della sua componente “centrale”, quella delle fabbriche con produzione in serie (fordista) e organizzazione del lavoro parcellizzato e ripetitivo (taylorista), localizzate per lo più nelle aree metropolitane del triangolo industriale Genova-Milano-Torino.
- La fase di rapido declino
Per la classe operaia italiana il declino arriva molto presto. Già nel 1975 la quota dell’industria manifatturiera sul totale dell’occupazione dipendente scende sotto il 38% e l’anno dopo inizia la riduzione anche in valore assoluto, sia pure resa più lenta della cassa integrazione. Negli anni ’90 i lavoratori dell’industria manifatturiera sono poco più di un quarto di tutti i dipendenti e gli operai non raggiungono il 20%.
Ancora più rapida è la riduzione dei lavoratori delle grandi fabbriche.
Come in altri paesi, il lavoro operaio si concentra ormai nelle piccole e piccolissime fabbriche, che continuano ad assumere lavoratori a bassa formazione per mansioni poco qualificate e a volte nocive. La riduzione del lavoro diretto di trasformazione dei materiali, a favore di quello indiretto (pianificazione, gestione, ricerca e sviluppo), investe principalmente le grandi imprese manifatturiere; mentre quelle di minori dimensioni possono aver poco bisogno di tali servizi per la produzione, perché lavorano su commessa.
- La situazione attuale
Alla fine degli anni ’90 gli operai della grande fabbrica sono poco più del 6% di tutti gli operai.
La quota di lavoro manuale diminuisce ancor più rapidamente al di fuori dell’industria manifatturiera. La grande espansione del terziario fa sì che all’inizio del XXI secolo vi lavori quasi il 43% mentre appena il 38% lavora nell’industria manifatturiera e neppure il 13% in edilizia.
- Una nuova figura di lavoratore manuale
Il processo di terziarizzazione settoriale crea un cospicuo numero di nuovi lavori manuali, per lo più dequalificati. Una figura nuova per l’era moderna compare nel mercato del lavoro e sulla scena sociale: l’operaio dei servizi.
Alla manualità all’operaio di servizi, a differenza dell’operaio industriale, non si accompagna uno sforzo fisico altrettanto intenso ma piuttosto la capacità a resistere ad orari e condizioni di lavoro disagiati. La mobilità del lavoro per gli operai dei servizi è molto alta per la grande sostituibilità dello loro prestazioni. Quasi inesistenti sono le possibilità di carriera professionale poiché vi è una netta cesura con le posizioni qualificate dei servizi.
- LA QUALIFICAZIONE DEL LAVORO IN UNA PROSPETTIVA COMPARATA
- I limiti del contrasto tra pessimisti e ottimisti
VISIONE PESSIMISTA: sociologi del lavoro: nella società terziaria il lavoro tende a dequalificarsi: approccio microsociologico
VISIONE POSITIVISTA: economisti: emergono lavoratori qualificati non nell’industria: approccio macroeconomico
Recente compromesso;
- nel complesso la terziarizzazione ha generato un miglioramento professionale UPSKILLING
- tuttavia esiste un processo di polarizzazione, i cattivi lavori MACJOBS diventano sempre peggiori.
Le distanze tra buoni lavori e cattivi lavori tendono ad ampliarsi
In realtà sia le ricerche microsociologiche, sia quelle macroeconomiche rischiano di presentare un’immagine deformata.
Infine esiste una divisione internazionale del lavoro, per cui spesso nei paesi più avanzati sono concentrate le “teste” ad alta professionalità di più vasti e dequalificati “corpi” produttivi sparsi in paesi meno sviluppati. Anche questa posizione condiziona la struttura occupazionale di un paese e rende difficile fare previsioni tratte dalle tendenze di un altro paese più avanzato.
- Analizzare la struttura dell’occupazione per professioni
A volte si parla di professioni emergenti per la forte crescita, ma si tratta per lo più di attività che restano elitarie.
Per avere un’idea realistica delle occasioni di lavoro che si creano per le nuovi generazioni bisognerebbe inoltre tener conto anche del ricambio occupazionale, cioè dei posti di lavoro resi liberi dai pensionamenti.
- Un confronto tra i paesi europei
Le differenze tra i paesi europei sono notevoli e nettamente a sfavore dell’Italia. Gli occupati in attività manageriali o intellettuali di elevata specializzazione in campo scientifico o umanistico è in Germania e Svezia quasi una volta e mezza quella che si registra in Italia e in Gran Bretagna e Olanda il doppio. In Italia c’è una presenza consistente della categoria più bassa all’interno delle professioni intellettuali: i tecnici
L’Italia si caratterizza per un’alta percentuale di lavoratori occupati in professioni relative alle vendite e ai servizi personali e soprattutto per un’altissima percentuale di lavoratori manuali specializzati. Raggruppando i nove livelli in 4 grandi aree (le professioni intellettuali, le attività non manuali dequalificate, quelle manuali qualificate e quelle manuali non qualificate):
- Gran Bretagna, Olanda Svezia e Belgio→ altissima proporzione delle professioni intellettuali, elevata quelle delle attività non manuali poco qualificate, bassa la percentuale delle occupazioni manuali.
- Spagna e Portogallo→ elevata percentuale occupazioni manuali, bassa percentuale delle professioni non manuali sia intellettuali sia poco qualificate
- Italia e Germania→ sono in una situazione intermedia. Hanno percentuali di lavoro manuale abbastanza simili, mentre è diversa al ripartizione dell’occupazione non manuale: in Germania prevalgono le professioni intellettuali, in Italia quelle poco qualificate
- Le differenze per settore
- Il settore industriale
Il punto di forza dell’industria italiana sta negli artigiani e operai specializzati. In Italia i servizi alle imprese sono ad altissima qualificazione professionale, ma l’occupazione nei servizi alle imprese è ancora bassa
- Edilizia e servizi alle imprese
In Italia e Germania la presenza di mansioni intellettuali e tecniche è maggiore nel lavoro indipendente più che in quello dipendente. In Italia l’occupazione indipendente è più qualificata di quelle dipendente anche nell’industria manifatturiera.
Ovunque, il settore delle costruzioni si caratterizza per il netto prevalere degli operai specializzati; ma per la scarsa presenza di professioni intellettuali.
- I servizi privati alla persona
Alcuni servizi soddisfano le funzioni di riproduzione culturale e biologica e sono spesso realizzati da strutture pubbliche, mentre altri forniscono prestazioni che sono “comprate sul mercato” dalle famiglia. In Italia questi settori continuano a prevalere nella piccolissima impresa su basi familiari. Non emergono compiti tecnico-professionali di livello elevato e anche quelli gestionali non sono specializzati, sicché il piccolo imprenditore è chiamato anche a prestare attività di servizio ai clienti. Ciò spiega perché in Italia la percentuale di addetti alle vendite e ai servizi alle persone sia in questi settori di gran lunga superiore a quella di tutti gli altri paesi europei.
- I servizi pubblici e sociali
I servizi diretti alla riproduzione culturale, politica e biologica di una società sono i settori a più alta intensità di professioni intellettuali. In quest’area la struttura dell’occupazione italiana si presenta meno qualificata ma è decisamente migliore di quella degli altri paesi grazie ad un netto recupero negli anni ’90 della pubblica amministrazione: si tratta per lo più di occupazioni finanziate dalla spesa pubblica.
La pubblica amministrazione italiane resta in ogni caso il regno delle ‘mezze maniche’: gli impiegati sono ancora oltre il 34%. Ciò evidenzia che vi sono troppo pochi dirigenti, professionisti e tecnici pubblici.
In Italia l’occupazione nella sanità risulta molto più qualificata che negli altri paesi europei principalmente perché sono carenti le figure intermedie, paramediche e assistenziali. Ciò è il frutto, da un lato, della scarsa spesa pubblica e, dall’altro, dell’eccessiva offerta di medici.
L’Italia infine presenta una percentuale di professioni intellettuali e tecniche relativamente bassa nel settore di servizi sociali e domestici.
- Il recente recupero dell’Italia
La bassa qualità professionale dell’occupazione italiana non si deve tanto ad un effetto di composizione, cioè alla scarsa presenza di settori a elevata intensità di lavoro intellettuale qualificato. Lo scenario però è migliorato dal ’94: dalla seconda metà degli anni ’90 in Italia le occupazioni intellettuali e tecniche sono aumentate. La differenza tra Germania e Gran Bretagna si concentra sempre più sull’alternativa tra lavori manuali qualificati e impiegatizi non qualificati. Si conferma la contrapposizione tra un’economia tedesca ancora fortemente industriale ed un’economia britannica ormai pienamente terziarizzata.
- Un’occupazione cresciuta in quantità e qualità
Della nuova occupazione si suole sottolineare il carattere spesso precario ma si dimentica di aggiungere che è quasi tutta concentrata nell’area del lavoro non manuale e per lo più in quella ad alta qualificazione. Le giovani generazioni sempre più istruite cominciano finalmente a trovare un maggior numero di occasioni di lavoro congruenti con le loro aspettative.
Se guardiamo in dettaglio alle occupazioni emergenti le troviamo tra i dirigenti e i professionisti di elevata specializzazione che lavorano nei servizi alle imprese e professionali, nella distribuzione e nei servizi personali. Accanto alle tradizionali libere professioni, si diffondono le nuove professioni legate allo sviluppo dei mercati finanziari, dell’informatica, della gestione delle risorse umane.
La riduzione degli artigiani e degli operai specializzati nell’industria manifatturiera, unita ad un forte aumento delle professioni intellettuali e tecniche, indica l’avvio di un processo di modernizzazione dell’apparato produttivo
- NUOVE PROFESSIONI E NUOVE COMPETENZE
- L’impatto dell’informatica
Nelle conoscenze informatiche occorre soprattutto una formazione di base e possono essere utilizzate in processi e settori produttivi anche molto diversi.
La maggiore novità non sta nella comparsa di nuove professioni, ma piuttosto nella trasformazione di quelle tradizionali, poiché l’ingresso delle nuove tecnologie distrugge i vecchi modelli organizzativi. Sulla ristrutturazione in nuovi assetti influiscono soprattutto fattori culturali e sociopolitici, oltre che economici e istituzionali.
- Le competenze cognitive e sociali
Novità nella richiesta di capacità lavorativa: capacità gestionali e sociali, che si caratterizzano per la capacità di guidare processi lavorativi indeterminati verso obiettivi di efficienza economica. La gran maggioranza ritiene molto importanti le abilità sociali.Sono diventate determinanti le life skills, cioè le competenze che attengono alla vita personale di un lavoratore. Sono le competenze cognitive, relazionali e affettive, che non si acquisiscono attraverso un apprendimento formale.
- Dal mestiere al posto
Il mestiere: ha le sue radici nel modo di produzione artigiano. Il mestiere è la combinazione di attività manuali e di competenze tecnico-merceologiche acquisite grazie all’esperienza. Abilità ed esperienza sono proprie del lavoratore qnd è abbastanza agevole la mobilità interaziendale ma non quella settoriale. Tuttavia la storia dell’industrializzazione è stata descritta come un processo di distruzione della logica del mestiere: al lavoratore secondo logica taylorista viene affidata una mansione.dal mestiere si passa al posto.
- Crisi dei tradizionali confini ed affermazione delle semi-professioni
Emergono grandi aree professionali, definite dalle funzioni e dal livello piuttosto che dal settore merceologico o dalla tecnologia.
Ma oltre ai confini settoriali, sia attenuano quelli aziendali.
Ai jobs si sostituiscono figure professionali con carriere che si sviluppano attraverso rapporti dipendenti o di collaborazione con diverse aziende, per cui anche l’impresa perde funzioni di contenere l’attività lavorativa e di costruirne l’identità.
Nel suo significato specifico per professione di intende un’attività svolta fuori da ogni vincolo di organizzazione cui si accede attraverso un curriculum di studi formalizzato e la nomina da parte di una comunità di pari (avvocati, medici,…)→ prevalere sulla fedeltà aziendale dell’identificazione con la comunità professionale.
Si formano così mercati professionali. Ciò indebolisce le tradizionali gerarchie aziendali, poiché le carriere si formano entro questi mercati. Dalle carriere organizzative si passa a quelle occupazionali, ove la fiducia gioca un ruolo essenziale poiché spesso non è facile accertare le competenze tecniche.
In conclusione, ai mestieri e ai posti si aggiungono le quasi professioni a complicare il modo in cui l’occupazione è organizzata.
Flessibilità del lavoro e occupazioni instabili (cap. 2)
Il passaggio da modelli organizzativi fordisti e tayloristi all’affermazione dei nuovi principi dell’economia dell’appropriatezza ha reso cruciale la questione della flessibilità delle risorse umane.
- IL SISTEMA DELLE FLESSIBILITÁ TRA MERCATO INTERNO ED ESTERNO
La crisi dell’impresa manifatturiera = crisi fordismo, cioè la produzione in grande serie di beni standard e il taylorismo, cioè la divisione del lavoro in mansioni semplici e ripetitive.
Le imprese miravano a produrre volumi sempre più alti di merci identiche per ridurne il costo unitario.
- La crisi del taylor-fordismo
Spesso si parla di turbolenza e instabilità dei mercati attribuendone genericamente la responsabilità alla sempre maggiore concorrenza internazionale ma si trascura la crescente sofisticazione del gusto dei consumatori che hanno imposto non solo di puntare sulla qualità dei prodotti, ma anche di accelerarne il ritmo di innovazione per cogliere le diverse nicchie di mercato con strategie che mirano a “personalizzare” il bene o il servizio. Ciò impone di ridurre drasticamente i volumi delle produzione, la produzione seriale di poca qualità.
- L’economia dell’appropriatezza
La concorrenza sulla qualità e sulla capacità di soddisfare i mutevoli gusti dei consumatori può generare mercati strutturalmente instabili e incerti. Il prezzo è percepito come indicatore di qualità e prestigio qnd una sua riduzione rischia di frenare invece che stimolare le vendite. Azzerato il potere di mercato, le imprese possono tentare di ricostituirlo condizionando i gusti dei consumatori attraverso la pubblicità..
Si affermano i nuovi principi dell’economia dell’appropriatezza secondo i quali per l’impresa, più che ridurre i costi unitari di produzione, è importante produrre beni e servizi ‘appropriati’ nel tempo e nel luogo in cui sono richiesti dal mercato. L’efficienza di un’impresa si misura quindi sulla prontezza di risposta agli impulsi del mercato.
Ciò richiede un diverso modello organizzativo che sia in grado anche di permettere continue e rapide variazioni sia nei volumi sia nelle caratteristiche dei prodotti. È essenziale un uso flessibile delle risorse umane, molto diverso da quello della grande impresa taylorista.
- Le diverse flessibilità
flessibilità salariale, che può avere 2 dimensioni:
- strutturale: differenze retributive più o meno ampie a fronte di differenze nei livelli di produttività per territorio, settore, qualifica o età;
- congiunturale in 2 varianti: quella macro riguarda il grado di adeguamento dei salari alle fluttuazioni cicliche di un sistema economico nazionale, quella micro il collegamento delle retribuzioni all’andamento economico di un’impresa.
flessibilità nell’uso della forza lavoro presenta 2 dimensioni, una statica, che attiene alla differenziazione delle situazioni di lavoro, e una dinamica, che riguarda la capacità di aggiustamento rapido ai mutamenti. Le aree interessate sono:
- l’orario di lavoro. Da un punto di vista dinamico, la flessibilità sta nella possibilità di variare l’orario secondo le esigenze produttive dell’impresa. Da quello statico, al tradizionale orario diurno e rigido su 5 giorni si contrappongono l’orario flessibile durante la giornata o la settimana e gli orari di lavoro atipici, dai turni al lavoro notturno e festivo.
- l’ingresso e l’uscita dall’impresa. Riguarda la flessibilità numerica o ‘esterna’, cioè il grado di libertà con cui un’impresa può adeguare il volume e le caratteristiche professionali dell’occupazione all’andamento della produzione. Interessa quindi 3 aspetti: i vincoli normativi, contrattuali o convenzionali che regolano licenziamenti e assunzioni, possibilità di ricorrere a rapporti di lavoro dipendente diversi da quello indeterminato e quella di affidare fasi o funzioni in subappalto ad altre imprese.
- la mobilità interna all’impresa. Concerne la flessibilità funzionale: riguarda la possibilità di spostare lavoratori da un posto all’altro all’interno dell’impresa o di variarne il contenuto della prestazione. Questa possibilità richiede una buona disponibilità dei lavoratori ad accettare processi di riqualificazione e frequenti mutamenti delle condizioni di lavoro. Tali presupposti si realizzano soltanto se i lavoratori hanno un alto coinvolgimento nei fini produttivi dell’impresa e un saldo attaccamento alla sua organizzazione. Ma per avere dipendenti fedeli e motivati occorre garantire loro un’occupazione stabile: la sicurezza del lavoro sviluppa una lealtà di lungo periodo e un senso di identificazione con l’azienda.
- Il mercato interno del lavoro
- Esternalizzazione e flessibilità dualistica
- Il sistema della flessibilità
- Flessibilità e dinamica dell’occupazione
- Sicurezza dell’impiego in una data impresa; garantita se c’è flessibilità funzionale; non garantita da flessibilità numerica
- Sicurezza della mansione ; non garantita se c’è flessibilità funzionale,
- Sicurezza di restare occupati in un dato mercato del lavoro; la flessibilità numerica non incide
- LAVORI ATIPICI E TEMPORANEI IN EUROPA
- Forme di lavoro atipico
- Il lavoro a domicilio
- Tempo parziale e orari atipici
- I rapporti di lavoro temporaneo
- La resistibile ascesa del lavoro instabile in Italia
- La diversa diffusione nei paesi europei
- I motivi del ricorso al lavoro temporaneo
- La “gavetta” dei lavoratori temporanei
- Il lavoro temporaneo è sempre involontario?
- Lavoro temporaneo e disoccupazione
- IL LAVORO INTERINALE
- Il progressivo allentamento dei vincoli
- La diffusione in Europa e in Italia
- Perché le imprese lo utilizzano
- Dove è più usato
- Chi sono i lavoratori interinali
- L’effettivo ruolo delle agenzie
- Il lavoro interinale come periodo di prova
- METTERSI IN PROPRIO: LA PRESUNTA FUGA DAL LAVORO DIPENDENTE
- Una categoria eterogenea
- Con e senza salariati
- Indipendenti, ma poco autonomi
- Orari e guadagni
- La stabilità di un’attività non protette
- Chi lavora in proprio
- Le recenti tendenze in Italia
- Le cause della diversa diffusione del lavoro indipendente
- Il lavoro indipendente come promozione sociale
- TRA INDIPENDENZA E SUBORDINAZIONE: LE COLLABORAZIONI
- la coordinazione : il collaboratore pur avendo autonomia organizzativa della propria attività deve collegarla all’organizzazione del datore di lavoro;
- la continuità : una serie di attività ripetute nel tempo;
- natura personale e professionale dell’opera prestata.
- La scoperta della nuova figura e la riforma del 2003
- Quanti sono i veri collaboratori?
- Chi sono e dove lavorano
- Profilo professionale e livello di istruzione
- Numero dei committenti e condizioni di lavoro
- L’incerto equilibrio tra professionalità e affidabilità
- Per forza o per amore
- QUALE SCAMBIO TRA FLESSIBILITA’ E OCCUPAZIONE?
- INSTABILITA’ OCCUPAZIONALE E CICLO DI VITA
- Negli altri paesi europei e in passato
- Tappa o trappola?
- Come difendersi dall’instabilità
- Le conseguenze dell’instabilità
- LE ALTRE ECONOMIE E L’OCCUPAZIONE IRREGOLARE
- Economia informale e famiglia
- Economia criminale e irregolare
- Lavoro nero e grigio
- Il sommerso nelle rilevazioni statistiche del mercato del lavoro
- Le stime indirette dell’ISTAT
- DINAMICA E COMPOSIZIONE DELL’OCCUPAZIONE NON REGOLARE
- Economia sommersa e occupazione non regolare
- Le tendenze di lungo periodo
- La dinamica recente
- Le differenze settoriali
- Le differenze territoriali
- Dall’arretratezza allo sviluppo post-industriale
- IL LAVORO NERO TRA COSTRIZIONI E OPPORTUNITA’
- L’importanza del cuneo fiscale e della regolamentazione economica
- Controlli e coesione sociale
- Flessibilità contro affidabilità
- Diversi tipi di lavoro nero
- occupazione di lavoratori subordinati da parte di un’impresa. Prevalgono situazioni di sfruttamento per lavoratori deboli e vulnerabili (immigrati) in condizioni di lavoro gravose e a bassi salari.
- Occupazione di lavoratori subordinati da parte di un’impresa con l’accordo a non dichiarare il rapporto.
- Occupazione di lavoratori subordinati da parte di privati. Caso dei lavoratori domestici.
- Lavoro indipendente svolto in via principale. Importante è la posizione nei confronti del sistema assistenziale e l’eventuale presenza di altra identità sociale (studente, pensionato).
- Chi lavora in nero
- Complicità e reciprocità
- Il radicamento sociale dell’economia sommersa
- Perché i lavoratori in nero non fanno denunce
- DOPPIO LAVORO E SISTEMA DELLE GARANZIE
- Doppio lavoro e attività plurime
- Doppio lavoro regolare e irregolare
- Il secondo lavoro in agricoltura
- Il doppiolavoro extragricolo
- Chi domanda e chi offre doppio lavoro
- Le differenze territoriali
- Cosa spiega la diffusione del doppio lavoro
- i vincoli: l’attività secondaria è favorita da una maggiore libertà di organizzare il lavoro, da un ambiente meno restrittivo e da situazioni in cui minori sono i controlli della gerarchia, il rischio di sanzioni per scarso impegno e anche l’interesse dei colleghi di lavoro a esercitare un forte controllo sociale.
- Risorse: i più qualificati hanno maggiori opportunità di svolgere un secondo lavoro dei non qualificati.
- Stimolo: lo stimolo a cercare un’altra attività può essere dato da stati di deprivazione, di squilibri tra istruzione, inquadramento, mansione e retribuzione.
- pressioni: esercitate da esigenze di reddito familiare quando cioè il reddito del primo lavoro non consente di mantenere o raggiungere i livelli di consumo ritenuti consoni al proprio status.
- LAVORARE MENO PER LAVORARE TUTTI
- La riduzione dell’orario favorisce il doppio lavoro?
- Ridurre il doppio lavoro crea una nuova occupazione ?
- gli spezzoni di lavoro secondario dovrebbero essere ricomposti in occupazioni a tempo pieno e/o svolte con continuità.
- La domanda dovrebbe essere disposta a impiegar lavoratori meno occupati sostenendone le garanzie istituzionali e gli oneri indiretti.
- I disoccupati dovrebbero avere le caratteristiche professionali e sociali adatte a svolgere questa attività.
- Questi disoccupati, o giovani in cerca di primo lavoro, dovrebbero essere in grado di entrare con successo nei mercati tipici dei plurioccupati.
- quelli con una specializzazione tanto rara
- lavori che derivano da picchi di domanda concentrati nel tempo
- prestazioni richieste a chi è all’interno di una istituzione pubblica e addetto a valutare lo stesso tipo di attività per cui si richiede la sua prestazione.
- Attività che si svolgono in unità economiche di proprietà del plurioccupato o di un suo familiare
- Competizione tra doppiolavoristi e disoccupati
- Resistenza ai rischi sociali
- Ma perché combattere il doppio lavoro
- VECCHIA E NUOVA IMMIGRAZIONE
- La chiusura delle frontiere a metà anni ‘70
- Il processo di maturazione di un flusso migratorio
- L’immigrazione non autorizzata e le regolarizzazioni
- Come l’Italia è diventata un paese di immigrazione
- Overstayers o clandestini
- Un’immigrazione più istruita
- i “deprivati”: basso status sociale e scarsa istruzione
- i “falliti”: scarsa educazione ma origine sociale medio-alta
- gli “scalatori” : alto livello di istruzione ma basso status sociale
- i “privilegiati” con alta istruzione ed elevato status sociale
- La crescente presenza di donne sole
- CATENE E PROGETTI MIGRATORI TRA FUGA E ATTRAZIONE
- Da dove si emigra
- La catena migratoria
- Nuovi e vecchi fattori di attrazione
- I progetti migratori
- Immigrazione temporanea o permanente?
- Rifugiati ed emigranti a tempo e scopo definiti
- Gli esploratori, i consumisti e i pendolari
- Chi pensa di stabilirsi
- IMMIGRATI NEL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO
- La crescente occupazione regolare
- In quali settori
- Gli ingressi autorizzati per lavoro
- L’andamento delle assunzioni
- La concentrazione territoriale
- Le condizioni dell’occupazione: stabilità, qualificazione e retribuzione
- Lavoro delle donne immigrate
- Le condizioni del lavoro domestico
- L’assistenza agli anziani
- Il lavoro operaio nell’industria manifatturiera
- Costruzioni e servizi urbani
- L’agricoltura
- I venditori ambulanti
- Imprenditori e lavoratori indipendenti
- causa della frammentazione dei gruppi sociali : il mercato dei prodotti etnici è ridotto e mancano le comunità etniche che possano inserire gli immigrati in reti sociali utili ad avviare attività commerciali.
- Fino al ’99 era molto difficile trasformare un permesso di soggiorno per lavoro dipendente per lavoro indipendente.
- La diffusione del lavoro indipendente tra gli italiani apre pochi spazi ai nuovi venuti.
- Etnicizzazione e reti sociali
- Modelli territoriali di inserimento lavorativo
- modello industriale: nord est e regioni centrali. Si caratterizza per la provenienza della domanda dalle piccole imprese manifatturiere e anche edili. È importante la domanda che proviene dal turismo e dall’agricoltura mentre il lavoro domestico assume un certo rilievo solo nelle città dell’Italia centrale.
- Modello metropolitano: proprio delle conurbazioni di Milano e Roma, ma presente anche in città medio-grandi del centro-nord. Si caratterizza per la forte domanda che proviene dalle famiglie a doppio reddito per il lavoro domestico e di cura.
- Modello meridionale: si articola in due sottomodelli: nelle grandi e medie città è presente quasi soltanto la domanda di lavoro domestico da parte delle famiglie mentre nelle aree rurali la domanda di lavoro proviene per lo più dall’agricoltura stagionale.
- IMMIGRAZIONE ED ECONOMIA SOMMERSA
- La disoccupazione degli immigrati
- La diffusione dell’occupazione irregolare
- Lavoro irregolare e presenza non autorizzata
- Instabilità del lavoro irregolare e degli immigrati autorizzati
- CONCORRENTI COMPLEMENTARI O SOSTITUTIVI?
- Immigrazione, economia sommersa e welfare state
- Consolidamento e aspetti tradizionali
- Concorrenza o sostituzione ?
- Fabbisogno di forza lavoro immigrata
- Un effetto di spiazzamento?
- Un effetto di complementarietà?
Nelle grandi imprese l’esperienza e i processi di addestramento informale creano delle specializzazioni particolari, che non sono acquisibili sul mercato. Le grandi imprese devono quindi creare delle carriere interne con un’ampia gerarchia e una forte progressione retributiva per trattenere i lavoratori e ricorrere ad assunzioni sul mercato esterno
Evidenti sono i vantaggi per i lavoratori quanto a stabilità dell’occupazione e certezza degli aumenti salariali. Ma, poiché le specializzazioni non sono trasferibili ad altre imprese, il rischio di perdere il posto è insopportabile.
Si parla di mercati interni “professionali”, nei quali la lealtà verso l’impresa si fonda sulla responsabilità professionale del lavoratore. La disponibilità a farsi coinvolgere e ad accettare la massima flessibilità nasce dalla garanzia della stabilità occupazionale da parte dell’impresa
Un’impresa esternalizza funzioni o fasi del ciclo produttivo quando ne affida la realizzazione ad altre imprese con contratti di subappalto o fornitura o a lavoratori indipendenti con i quali stipula un contratto d’opera, per cui acquista il risultato della prestazione.
Le imprese possono segmentare la propria forza lavoro in una fascia fissa con cui perseguire una politica di flessibilità funzionale, e una variabile, che consente una flessibilità numerica.
La possibilità di un’impresa di variare la proporzione tra il nucleo fisso e le diverse fasce periferiche delinea un’ulteriore dimensione della flessibilità: dualistica.
Maggiore è l’incertezza e meno sofisticata la tecnologia, più probabile è il ricorso alla flessibilità numerica. Il ricorso ad una forza lavoro periferica o esterna presenta il rischio di una caduta del controllo sulla loro prestazione, che è essenziale nel caso di produzioni di qualità.
Negli Stati Uniti: alta flessibilità numerica, bassa flessibilità funzionale
La combinazione europea: flessibilità funzionale e rigidità numerica è preferibile a quella americana per produzioni che richiedono un forte coinvolgimento e un’elevata fiducia dei lavoratori.
Quanto più flessibile diventa un aspetto del rapporto di lavoro, tanto più un altro si irrigidisce.
Nettà è la relazione tra flessibilità funzionale e livello di formazione dei lavoratori: soltanto in un contesto di stabilità le imprese e i lavoratori sono motivati ad investire in formazione e a sua volta una specifica formazione acquisita sul lavoro riduce flessibilità funzionale.
I lavoratori temporanei ricevono meno addestramento dall’impresa di quelli permanenti. Ciò spiega perché in Italia i settori a maggiore propensione innovativa sono caratterizzati da una mobilità job-to-job.
Tre differenti forme di sicurezza dell’occupazione:
Un lavoratore temporaneo o di una piccola impresa, pur dovendo cambiare spesso lavoro, può non restare mai disoccupato se ha competenze molto richieste e godere perciò di una sicurezza di fatto sul mercato del lavoro.
Su questa sequenza logico-temporale si fonda l’ipotesi che elevati gradi di flessibilità abbiano effetti positivi sulla dinamica dell’occupazione.
A livello microeconomico un’impresa può essere invogliata ad assumere dalla facilità di licenziare, ma a livello macro non è affatto provato che una maggiore flessibilità dei rapporti di lavoro abbia un effetto positivo sui livelli di occupazione.
modello standard: si caratterizza per la subordinazione ad un solo imprenditore, l’integrazione in un’organizzazione produttiva, un contratto di assunzione a tempo indeterminato, l’impegno a tempo pieno, una protezione legislativa o contrattuale contro il rischio di perdere il lavoro.
I lavori atipici sono privi di una o più di tali caratteristiche.
Non sono considerati in senso stretto lavori atipici quelli indipendenti, sebbene spesso la frontiera tra lavoro dipendente e indipendente sia molto incerta (si pensi alle collaborazioni coordinate e continuative o ai lavori a progetto ma anche al cottimismo in edilizia).
Dal lavoro atipico esula anche il subappalto quando è svolto nella forma di subfornitura: i lavoratori sono di fatto inseriti nell’organizzazione di un’azienda diversa da quella da cui dipendono sul piano giuridico. La dissociazione tra datore di lavoro legale e utilizzatore reale delle prestazioni lavorative è ancora più netta qualora l’impresa appaltatrice si limiti a fornire manodopera. Fino al 2003 in Italia questa situazione assumeva un carattere illegale. La situazione è cambiata quando è stato introdotto lo staff-leasing, per cui gruppi di lavoratori sono assunti con un contratto a tempo indeterminato dalle agenzie private e inviati a svolgere funzioni integrate nell’organizzazione dell’impresa committente. La stessa legge ha introdotto anche il contratto a zero-ore che prevede di corrispondere un’indennità al lavoratore a fronte della sua disponibilità a svolgere una prestazione lavorativa saltuaria.
Nel lavoro interinale i lavoratori sono assunti da agenzie di lavoro temporaneo e sono poi inviati in missione per qualche giorno o qualche mese presso imprese che li utilizzano come fossero propri dipendenti, senza avere con loro alcun rapporto di lavoro, poiché l’unico contratto è quello di fornitura che stipulano con le agenzie. Quello interinale costituisce il caso estremo e più flessibile di lavoro atipico, comporta una relazione trilaterale.
Quelli a domicilio sono invece lavoratori subordinati, benché retribuiti “a pezzo” e non “a tempo”.
Vanno infine ricordate le diverse forme di occupazione temporanea previste per favorire l’occupazione giovanile: dall’apprendistato ai contratti di formazione lavoro o di inserimento.
Grazie ai lavori atipici, le imprese possono esternalizzare sul piano giuridico parte dell’occupazione senza rinunciare ai vantaggi dell’inserimento della propria organizzazione produttiva.
È quasi impossibile valutare l’evoluzione del lavoro a domicilio, un fenomeno che su scale mondiale risulta molto diffuso. Si tratta di attività ripetitive e dequalificate. Nei paesi europei più sviluppati l’occupazione in questi settori si è ridotta.
Arretratezza economica, ambiente rurale, scarsa presenza delle donne sul mercato del lavoro: queste sono le caratteristiche delle aree europee ove rimane ancora una buona diffusione del lavoro a domicilio.
Ancora poco più di 7oo mila sono invece in Italia i “telelavoratori”. Ma questi sono normali lavoratori dipendenti integrati nell’organizzazione aziendale, seppure per via telematica.
La crescita del lavoro a tempo parziale si deve soprattutto al forte aumento nei servizi, in quelli pubblici e nella grande distribuzione. L’anomalia italiana si può quindi spiegare con la peculiare situazione del pubblico impiego, ove un tempo pieno ridotto ha impedito che si diffondesse quello parziale. Alla forte espansione di grandi magazzini e supermercati si può inoltre attribuire la crescita del part-time da metà anni ’90. Tuttavia il lavoro a tempo parziale non può essere considerato appieno una forma atipica perché è quasi altrettanto permanente di quello a tempo pieno. D’altro canto, l’Italia è in linea con la media dei paesi europei quanto ai lavori dipendenti con regimi di orario atipici.
lavoro temporaneo: comprende tutti i diversi tipi di contratti a termine e il lavoro interinale.
Quasi ovunque negli anni ’90 il lavoro temporaneo ha preso a crescere a ritmi ancora più elevati, contribuendo ad alimentare la diffusione tra i lavoratori di un sentimento di insicurezza.
In Europa l’aumento più forte negli anni ’90 è quello dell’Italia, ove la percentuale di occupati dipendenti a tempo determinato cresce sino al 10% nel 2000. Questa crescita si può spiegare considerando fattori sia economici sia istituzionali. Il peso dell’occupazione instabile cresce anche prima del “pacchetto Treu” del 1997, che introduce il lavoro interinale, riforma l’apprendistato e rende più agevole il ricorso al part-time. Poiché le aspettative sono incerte, le imprese che assumono preferiscono ricorrere a rapporti a tempo determinato e la negoziazione sindacale diventa più disponibile.
Quando dal 1998 cominciano ad assumere in maniera consistente, le imprese possono contare sulla nuova legge sull’apprendistato e sulla novità del lavoro interinale.
Il leggero declino dal 2002 della percentuale di lavoro temporaneo “puro” (non a fini formativi e non interinale) si può attribuire all’inatteso provvedimento del 2001 che rese più facile stipulare contratti a termine.
Ma l’aumento può essere imputato anche ad una maggiore importanza dei settori terziari e delle costruzioni, ove i rapporti a termine sono più diffusi per ragioni organizzative.
L’arresto della crescita del lavoro a tempo determinato potrebbe essere dovuto sia ad un effetto demografico sia all’assestarsi delle imprese di un nuovo equilibrio tra le esigenze di flessibilità e di stabilità nella gestione della forza lavoro.
Assunto il principio che un lavoro precario non è un passo indietro ma uno in avanti rispetto alla disoccupazione, in tutti i paesi europei. Se l’intento era di ridurre la disoccupazione, l’esito è stato perlomeno incerto, poiché né dal confronto tra i paesi europei, né da quanto accaduto in ogni paese risulta alcuna relazione tra la proporzione di occupazione temporanea e il tasso di disoccupazione.
L’ipotesi che si tratti di strumenti per aggirare le rigidità dell’occupazione stabile risulta più fragile se si guarda ai settori ove si concentra l’uso di rapporti temporanei e ai principali motivi per cui vi si ricorre (agricoltura, turismo, edilizia, servizi alla persona).
Quanto all’Italia, il fatto che nel Mezzogiorno la quota di lavoro temporaneo sia quasi doppia rispetto al Centro-Nord si deve principalmente alla diversa composizione settoriale dell’occupazione e alla più alta percentuale di lavoro precario in agricoltura e edilizia.
Il lavoro temporaneo nelle sue diverse forme costituisce un importante elemento di flessibilità per le imprese industriali e terziarie. Ciò risulta soprattutto dalla relazione tra ricorso al lavoro temporaneo e dimensione dell’impresa: contratti di apprendistato usati in maggior misura dalle piccole imprese, contratti di formazione e lavoro interinale crescono al crescere delle dimensioni dell’impresa. Il salto è molto netto quando si supera la soglia dei 15 dipendenti, oltre la quale le norme sui licenziamenti individuali diventano più restrittive.
In Italia i contratti di formazione lavoro sono stati introdotti nel 1984 per favorire l’assunzione dei giovani, riducendone il costo del lavoro e consentendo alle imprese di scegliere chi assumere in deroga alla chiamata numerica. Dopo la riforma Treu del 1997 i contratti di formazione lavoro vanno progressivamente esaurendosi a favore di una diffusione dell’apprendistato anche per età superiori. Le assunzioni a tempo indeterminato cominciano ad assumere un ruolo rilevante solo oltre i 25 anni e diventano prevalenti oltre i 30.
Frequente uso dei rapporti temporanei come lungo periodo di prova.
L’esistenza di un vasto precariato giovanile è confermata della concentrazione tra i giovani anche dei lavori temporanei non a fini formativi.
Quindi, la minore presenza del lavoro dipendente a tempo determinato in Italia si deve essenzialmente all’ancor scarsa diffusione tra i giovani, nonostante la recente crescita.
La stragrande maggioranza di chi ha un lavoro temporaneo dichiara di svolgerlo perché non ha trovato un’occupazione permanente. L’ostilità per una situazione instabile spiega perché i lavoratori temporanei presentino ovunque un livello di soddisfazione inferiore a quello di chi ha un’occupazione permanente. Ma vi sono anche i volontari: gli stagionali occupati nelle attività più redditizie, i giovani che non vogliono “fissarsi” in lavori a basso livello, i lavoratori professionalmente forti.
2 segnali si trovano al livello di istruzione e di occupazione: il lavoro a tempo determinato è più diffuso tra le persone meno istruite, mentre la percentuale di temporanei è minimo tra i dirigenti.
Se per alcuni il lavoro temporaneo non comporta rischi di precarietà, perché possono contare su un elevato capitale umano, ben diverse possono essere le prospettive per la gran maggioranza di lavoratori temporanei.
Le indagini sulle forze lavoro mostrano come gli ex disoccupati siano sovrarappresentati tra i lavoratori a tempo: le attività temporanee contribuiscono ad interrompere lo stato di disoccupazione e a ridurre il peso di quella di lungo periodo. Ma alla loro scadenza il lavoratore può ritrovarsi di nuovo disoccupato, poiché solo un’occupazione stabile assicura l’uscita dalla disoccupazione.
Introdotto in Italia nel Giugno 1997 dal “pacchetto Treu”, il più importante provvedimento di deregolazione del mercato del lavoro degli anni ’90. Dapprima piccole modifiche e poi una radicale riforma inserita nella legge 30/2003 hanno molto attenuato vincoli e limiti, facendo della normativa italiana una delle meno restrittive in Europa.
Secondo la legge Treu, le imprese potevano stipulare contratti con le agenzia di lavoro interinale per sostituire lavoratori assenti e per usare temporaneamente qualifiche non previste dai normali assetti produttivi.
L’esigenza di far fronte a “punte di attività” dovute all’acquisizione di commesse o al lancio di nuovi prodotti ha permesso che di fatto si potesse ricorrere al lavoro interinale ogni volta che lo richiedesse un aumento della produzione, anche quando tale evento era largamente prevedibile.
La contrattazione sindacale ha di regola vietato le missioni superiori a 24 mesi.
La legge 30/2003 ha compreso il lavoro interinale nella più ampia fattispecie del contratto di somministrazione di lavoro quando la durata del contratto tra l’agenzia e l’impresa utilizzatrice non ha limiti predefiniti. In questo caso si tratta di staff leasing ed è ammessa solo in una precisa serie di attività e servizi per i quali le imprese italiane tradizionalmente ricorrono ad appalti con cooperative o a contratti di prestazione professionale. Invece per la somministrazione di lavoro a tempo determinato, la nuova denominazione dell’interinale, l’elenco dei motivi ammissibili è sostituito da un generico riferimento a ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Rimane il divieto di ricorrere al nuovo lavoro interinale per attività pericolose, per sostituire lavoratori in sciopero e nelle imprese dove vi siano stati recenti licenziamenti collettivi.
Continuano ad esser severi i vincoli che regolano le agenzie di lavoro interinale che per essere autorizzate devono avere un’elevata solidità finanziaria e organizzativa e una buona affidabilità professionale. Secondo la legge istitutiva, le agenzie non potevano svolgere attività di selezione e intermediazione tra domanda e offerta di lavoro ma tale limite è abolito dalla riforma del 2003, che fa nascere un vero e proprio sistema privato di servizi per l’impiego. Le agenzie devono destinare il 4% dei salari corrisposti ai lavoratori assunti per essere inviati in missione ad un fondo per la loro formazione professionale. Tutto ciò spiega perché il mercato del lavoro interinale in Italia è stato fin dall’inizio dominato dalle società multinazionali. La quota di mercato delle più importanti agenzie italiane è ora su livelli medio-bassi per un mercato in cui visibilità e dimensione degli archivi di lavoratori e di imprese rendono rilevanti le economie di scala.
L’OCSE classificava l’iniziale legislazione italiana tra le più restrittive. Dopo la riforma del 2003 l’Italia presenta un valore dell’indice di regolazione del lavoro interinale che la pone in una posizione intermedia tra i paesi economicamente sviluppati.
Nonostante il suo forte sviluppo negli anni ’80 e ’90, il lavoro interinale costituisce ancora una fascia minoritaria della più vasta area di quello temporaneo.
In Italia l’espansione è stata molto forte. Il lavoro interinale è poco diffuso nelle piccole imprese, che in Italia hanno un peso molto maggiore. Infine, è cresciuto il peso dell’interinale sull’occupazione temporanea, nonostante la riforma del contratto a tempo determinato del 2001, che nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto renderlo più appetibile per le imprese.
Il lavoro interinale svolge un non piccolo ruolo nel favorire la flessibilità numerica delle imprese e nel fornire un’occasione di lavoro temporanea ai giovani.
Parecchie imprese hanno utilizzato il lavoro interinale per provare i giovani da assumere, ritenendo che un maggior costo sia compensato dalla selezione svolta dalle agenzie. L’uso del lavoro interinale per i picchi produttivi può aver ridotto il ricorso agli straordinari, che nelle imprese medio-grandi sono costosi perché è difficile pagarli “fuori busta”.
Un’ora di lavoro interinale è più cara per l’impresa di quella di un lavoratore assunto con contratto a tempo determinato o indeterminato, anche se la retribuzione del lavoratore interinale è quasi sempre inferiore. Bisogna infatti tener conto da un lato che il lavoratore non percepisce indennità e preme e dall’altro che la società di lavoro interinale ha dei costi di reclutamento e di gestione e deve trarre un profitto. Il costo elevato senza dubbio contribuisce a spiegare perché le imprese utilizzino il lavoro interinale meno di quanto lo consentano le quote previste dalla contrattazione sindacale.
In molti paesi europei la durata delle missioni è per lo più inferiore a un mese. In Italia però la durata media oscilla da poco meno di un mese a poco più di due mesi secondo le maggiori agenzie e le proroghe sono frequenti.
Quando l’esigenza di ricorrere ad una prestazione temporanea è improvvisa, non c’è tempo di selezionare e quindi non rimane che rivolgersi ad un’agenzia di lavoro interinale.
Queste agenzie grazie ai loro archivi sono in grado di fornire i lavoratori richiesti in tempi rapidi: il maggior costo è perciò ampiamente ripagato dalla grande rapidità con cui il problema è risolto.
Si spiega così perché il normale lavoro a tempo determinato sia più usato in agricoltura e nel turismo, mentre la grande distribuzione risolve i suoi problemi di flessibilità programmando il ricorso al part-time orizzontale e verticale. Il settore che usa in maggior misura il lavoro interinale è l’industria manifatturiera, in particolare quella metalmeccanica.
Oltre il 60% degli interinali sono occupati in imprese settentrionali. Anche gli sportelli delle agenzia sono concentrati nelle regioni settentrionali e in particolare nel Nord-Ovest, mentre tra gli avviati non sono pochi i lavoratori meridionali: il 40% dei lavoratori interinali residenti nel Mezzogiorno ha svolto missioni presso imprese centro-settentrionali. Le missioni hanno una durata più lunga e sono meglio pagate. Pur offrendo soltanto occasioni temporanee le agenzie di lavoro interinale sono uno strumento di mobilità assistita da Sud a Nord dei lavoratori perché suppliscono alla difficoltà di ottenere informazioni sui posti di lavoro a grande distanza e spesso assicurano ai lavoratori fuori sede alloggi a un costo compatibile con un salario operaio.
I maggiori utilizzatori sono le imprese medio-grandi:in Lombardia il tasso di utilizzo dell’interinale cresce nettamente al crescere delle dimensioni di impresa.
Le imprese piccole hanno altre vie meno costose per rispondere alle oscillazioni del ciclo produttivo: da un più facile uso dello straordinario al subappalto ad artigiani o ad altre piccole imprese.
Il lavoro interinale è quasi ovunque sempre più maschile e operaio-industriale. Le mansioni più frequenti sono quelle operaie non qualificate mentre minore è la presenza di operai qualificati. Anche la fascia dei lavoratori impiegatizi è poco qualificata, poiché prevalgono contabili, segretarie, mansioni di inserimento e gestione dei dati.
Alcune agenzie nelle grandi città del Nord si sono specializzate nel fornire operatori di call center, esperti di informatica, assistenti sanitari e personale alberghiero.
La caratterizzazione maschile del lavoro interinale si sta attenuando a causa della crescente presenza di donne, che in maggior misura svolgono attività impiegatizie o non manuali.
Nonostante che i giovani possono essere assunti con contratti di apprendistato e formazione, che consentono un grande risparmio sul costo del lavoro, parecchie imprese preferiscono comunque ricorrere al lavoro interinale per disporre di giovani già selezionati dall’agenzia.
Il lavoro interinale è senza dubbio uno degli strumenti principali di accesso al primo impiego per i più giovani.
Tra i lavoratori interinali in età adulta vi è una maggior presenza di donne e di immigrati. Alle agenzie si presentano parecchie donne quarantenni. Il livello di istruzione dei lavoratori inviati in missione è abbastanza basso per la loro giovane età: i laureati non superano il 5% e i diplomati oscillano dal 35% al 45%. I più istruiti incontrano maggiori difficoltà a trovare lavoro come interinali. Le persone con qualifica operaia superano invece il 70%.
Se non professionalità, le agenzie vendono fiducia, poiché forniscono lavoratori privi di esperienza e con percorsi formativi a volte ridondanti per il lavoro da svolgere, ma molto adattabili e con forti capacità di apprendimento. D’altronde, la selezione dei candidati si fonda sugli aspetti relazionali e sul carattere del lavoratore, con il quale i selezionatori, anch’essi giovani, stabiliscono rapporti personali e amichevoli. Le imprese si rivolgono alle agenzie di lavoro interinale perché pensano che assicurino lavoratori con queste caratteristiche personali.
Molti sono i giovani che vivono il lavoro interinale come una situazione che non impregna la loro identità personale, perché ogni missione si chiude in tempo abbastanza brevi e non fa correre il rischio di restare bloccati in un lavoro non soddisfacente. È possibile che non pochi si adattino ad un lavoro operaio, anche perché l’ingresso in un’impresa medio-grande può offrire interessanti opportunità di stabilizzazione.
Non poche imprese ricorrono al lavoro interinale in vista di un’assunzione. In questo caso la missione costituisce di fatto un periodo di prova.
Nelle regioni centro-settentrionali esistono una seria di carenze di offerta, le candidature spontanee sono troppo scarse e le agenzie devono avviare azioni di ricerca, anche al di fuori del contesto locale, quando un’impresa lo richiede.
La probabilità che la missione si trasformi in assunzione è maggiore per quelle di durata media e per chi ha già svolto alcune missioni, ma non per chi ne ha svolte molte. Il fatto che il lavoratore interinale raramente sia assunto dopo la prima missione conferma l’importanza che le imprese danno all’esperienza.
Tra i marginali sono sovrarappresentati gli esclusi dalla scuola dell’obbligo mentre tra i “professionisti dell’interinale” prevalgono i maschio con la licenza media e con qualifiche operaie.
L’Italia è il paese sviluppato che presenta la quota di occupazione indipendente di gran lunga più alta e infrange la regola secondo cui tale quota è minore nei paesi a più elevato reddito pro capite.
Gli anni ’90 non sono stati altrettanto favorevoli al lavoro indipendente: quasi ovunque la quota di occupazione indipendente non agricola si stabilizza o diminuisce leggermente.
Dunque, più che di inversione, si deve parlare di temporanea interruzione della tendenza secolare ad una maggiore organizzazione delle strutture produttive.
Lavoratore indipendente è chi lavora per proprio conto e dovrebbe poter organizzare la propria attività senza alcun vincolo, essere cioè autonomo. Non percepire un salario a ricompensa del proprio lavoro e quindi sopportare il rischio di impresa oppure stipulare un contratto che ha per oggetto solo il risultato della prestazione. Ma si vanno diffondendo forme di attività per le quali è difficile cogliere differenze sostanziali con quelle alle dipendenze.
I tradizionali lavoratori indipendenti sono imprenditori, professionisti, lavoratori in proprio e coadiuvanti familiari.
La prima dimensione che distingue gli indipendenti è l’impiego di lavoratori salariati.
La situazione italiana è eccezionale e costituisce un ulteriore indicatore dell’enorme diffusione che hanno sia il lavoro in proprio, sia l’impresa meramente familiare in cui non lavora alcun dipendente.
L’Italia è il paese con la più elevata percentuale di occupazione indipendente extragricola ma è il primo se si considerano solo gli indipendenti senza salariati e la differenza rispetto ai paesi con un’occupazione più strutturata assume dimensioni enormi. All’interno dell’occupazione indipendente la quota degli imprenditori è andata riducendosi a favore dei lavoratori indipendenti senza salariati. Si dovrebbe parlare di rinascita del tradizionale lavoro in proprio. In molti paesi sviluppati è proseguita la crescita delle imprese di minori dimensioni. Come in Italia, anche in altri paesi la quota dell’occupazione nelle piccole imprese manifatturiere e terziarie dagli anni ’70 prende ad aumentare.
Molti lavoratori formalmente indipendenti possono essere legati da contratti di subappalto o consulenza con un solo committente e quindi essere soggetti di fatto ad un controllo gerarchico, senza però avere i diritti associati allo status di dipendente.
Queste figure hanno un minore grado di copertura rispetto al ciclo economico poiché se perdono l’unico committente si ritrovano senza reddito. In Italia la diffusione delle collaborazioni coordinate e continuative non è stata a lungo regolata da alcuna norma.
La distinzione tra lavoro salariato e indipendente è stata indebolita anche dallo sviluppo del franchising. La società concedente, conserva un potere di controllo non molto inferiore a quello che avrebbe su proprie filiali, senza sopportare i rischi.
Una forma tutta italiana di esternalizzazione dei servizi: il subappalto a cooperative. Nelle cooperative di lavoro i soci sono considerati lavoratori indipendenti, pur facendo parte di un’organizzazione anche ampia: ciò consente che, in cambio di una partecipazione più o meno reale ai processi decisionali facciano un uso molto flessibile delle proprie prestazioni, senza rispettare i contratti collettivi di lavoro.
Le cooperative di produzione e lavoro sono un fenomeno tipico dell’Italia, dove si concentra l’80% dell’occupazione in cooperative dell’intera Unione Europea.
Dunque, non tutti i lavoratori con un’occupazione indipendente sul piano giuridico hanno una completa autonomia nell’organizzare il proprio processo lavorativo. Mentre il grado di autonomia si riduce per i coadiuvanti familiari.
Due immagini polari si contrappongono: mettersi in proprio può esser visto come frutto o di una scelta alla ricerca di più elevati livelli di reddito e autonomia oppure di una risposta obbligata all’esigenza di procurarsi di che vivere in mancanza di occasioni di lavoro dipendente. Entrambe queste immagini convivono, unificate da un solo tratto che in realtà ne accentua le disparità: il lungo orario di lavoro.
Ovunque i lavoratori indipendenti sono impegnati nella propria attività molto più a lungo di quelli dipendenti. Ad un impegno di tempo così gravoso non sempre corrispondono elevati guadagni che lo compensino. Confrontare i guadagni dei lavoratori indipendenti con quelli dei dipendenti ha scarso significato, poiché elusione ed evasione fiscale sono comportamenti tipici delle piccole imprese e degli indipendenti in tutti i paesi. Fasce forti e fasce deboli di lavoratori indipendenti si ritrovano in tutti i settori dell’industria e dei servizi ed è difficile identificarle.
Dimensione che sancisce l’eterogeneità dei lavoratori indipendenti è la stabilità dell’occupazione; nei periodi di crisi i lavoratori indipendenti possono limitarsi a ridurre i propri guadagni senza perdere il lavoro. La condizione di insabilità icorrisponde a rapporti di subappalto o di committente unico. Il diverso combinarsi tra la fascia instabile e quella stabile può spiegare perché i dati non sono univoci.
D’altronde un’indagine a livello europeo rivela che non solo gli imprenditori, ma anche i lavoratori in proprio presentano un livello di soddisfazione del lavoro superiore a quello dei salariati. I più alti guadagni e la maggiore autonomia nel lavoro sono probabilmente considerati un compenso più che sufficiente per il più lungo orario di lavoro e i presunti maggiori margini di rischio.
In quasi tutti i paesi la percentuale di lavoratori indipendenti è nettamente maggiore tra gli uomini, benché questa forma di lavoro si vada diffondendo tra le donne. In Italia il divario è minore se si considerano anche i coadiuvanti familiari, che sono per lo più donne.
L’età ancor più del genere caratterizza il lavoro indipendente; sia per le donne sia per gli uomini la quota di indipendenti sull’occupazione aumenta al crescere dell’età.
Infatti, per riuscire a costruirsi una posizione lavorativa indipendente, occorrono esperienze e reti di relazioni che solo una precedente presenza sul mercato del lavoro può fornire. Motivi strutturali spiegano perché mettersi in proprio sia una possibilità più per adulti che non per giovani al loro debutto nel mondo del lavoro. Se accedono più tardi a un lavoro indipendente smettono però di lavorare in età molto più avanzata.
Anche in Italia la propensione dei ventenni a svolgere attività indipendenti ha presentato negli anni ’80 una leggera tendenza all’aumento.
In Italia nel 2003 il lavoro indipendente è più diffuso nel commercio e nel settore dei ristoranti e alberghi dove supera il 43%. Seguono i servizi privati alle imprese, l’edilizia e i servizi alle persone.
L’occupazione indipendente italiana appare ancora molto orientata in senso tradizionale a confronto degli altri paesi europei, tuttora la percentuale di lavoro indipendente nel commercio è in Italia più che doppia della media europea e nel settore ristoranti e alberghi è superiore del 50%.
L’Italia ha il record del lavoro indipendente nell’industria manifatturiera. Per contro la percentuale di imprenditori puri, che si limitano ad attività di direzione e gestione, è solo 1/3 della media europea. Tuttavia grazie ad una forte crescita negli anni ’90 la percentuale di lavoro ad elevata qualificazione ha raggiunto il livello medio europeo: oltre ¼ dei lavoratori indipendenti sono ormai professionisti e tecnici.
Nel Mezzogiorno si concentrano le forme di autoimpiego povero e flessibile nell’artigianato e nel commercio, le nuove forme di lavoro indipendente ad alta qualificazione professionale si diffondono in maggior misura nelle regioni centro-settentrionali dove maggiore è lo sviluppo economico e industriale, fondato sull’esternalizzazione di molte attività.
La forte diffusione dell’occupazione indipendente costituisce un aspetto tradizionale dello sviluppo economico italiano. Per spiegarla si suole ricorrere a fattori non solo economici, ma anche culturali e politici. A ciò si aggiunge la protezione giuridica e sindacale dell’occupazione dipendente che nelle imprese industriali medio-grandi avrebbe imposto vincoli elevati, incentivando il decentramento produttivo ad imprese artigiane. La recente diffusione del lavoro indipendente fa pensare piuttosto a nuovi assetti produttivi e a vecchi assetti sociali. Analisi comparative e storiche consentono di discutere alcuni di questi fattori.
Secondo l’OCSE il lavoro indipendente è più diffuso a fine anni ’80 ed è più cresciuto in questo decennio nei paesi dove più rigida è la legislazione relativa alla sicurezza dell’occupazione dipendente. Norme legislative o contrattuali più restrittive sui licenziamenti e più elevati contributi previdenziali spingerebbero le imprese a ristabilire un uso più flessibile e meno costoso della forza lavoro ricorrendo al subappalto o a lavoratori in proprio. L’Italia dovrebbe costituire un caso estremo sia nella relazione statica sia in quella dinamica: essendo stato a lungo considerato (erroneamente) uno dei paesi con il più alto indice di sicurezza dell’impiego dipendente, è anche quello in cui la quota di occupazione indipendente è maggiore ed è più cresciuta negli anni ’80.
relazione tra rigidità del mercato del lavoro dipendente e diffusione dell’occupazione indipendente
Una discreta relazione è stata identificata con un fattore di ordine politico : il lavoro indipendente è meno diffuso nei paesi con frequenti governi di sinistra, che sarebbero meno propensi a favorire le piccole imprese e il lavoro indipendente.
La quota di occupazione indipendente è maggiore anche nei paesi dove le indennità di disoccupazione sono meno generose, poiché chi cerca lavoro senza poter contare su un adeguato sostegno sarebbe costretto a trovare comunque una fonte di reddito e non avrebbe altra scelta che tentare di mettersi in proprio. Il caso italiano sarebbe ben spiegato anche da questa relazione, poiché chi è senza lavoro ed è escluso dal sistema della cassa integrazione fruisce di un trattamento molto inferiore a quello di tutti gli altri paesi europei. Nel favorire l’altissima presenza del lavoro indipendente in Italia congiurerebbero due fattori istituzionali: forte protezione del lavoratore occupato nelle medie e grandi imprese e la scarsa tutela di chi ha perso il lavoro che spinge i disoccupati a trovare rifugio nell’autoimpiego.
A mettersi in proprio sono soprattutto lavoratori dipendenti con una solida esperienza professionale e adeguate risorse. D’altronde per molti, soprattutto per i meno istruiti, questa è la sola possibilità di mobilità occupazionale ascendente per le scarse opportunità in Italia di far carriere all’interno del lavoro dipendente.
Fin dagli anni ’40 il codice di procedura civile italiano prevede che tra un’impresa e un lavoratore vi possa essere un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa senza vincolo di subordinazione, fondato su tre elementi:
Sul piano giuridico, l’autonomia organizzativa distingue tale situazione dal lavoro dipendente.
La riforma del sistema pensionistico del 1995 fa emergere una realtà nuova e ben più consistente. Ad un fondo speciale presso l’INPS si iscrivono alcune centinaia di migliaia di persone versando un contributo del 10% sui compensi percepiti.
Insieme all’obbligo di assicurazione contro gli infortuni e alla concessione delle detrazioni fiscali previste per il lavoro subordinato, queste sono state le uniche norme che sino al 2002 hanno interessato le collaborazioni coordinate.
La legge 30/2003 istituzionalizza una nuova forma di lavoro non subordinato, il contratto di lavoro a progetto, che prevede l’inserimento di uno specifico progetto o programma di lavoro, determinato dal committente e gestito autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato. La principale novità sta nell’impossibilità di stabilire una durata indeterminata del contratto. Ciò dovrebbe limitare il ricorso al lavoro a progetto alle sole attività temporanee.
In non poche situazioni la normativa è risultata inapplicabile, con esiti opposti: in alcuni casi si è passati a rapporti dipendenti non standard, ma più tutelati per altri invece si teme una regressione verso il lavoro nero o quello grigio delle prestazioni occasionali o delle partite Iva fasulle, perché il committente delle prestazioni è uno solo.
La crescita degli iscritti al fondo speciale INPS è stata fortissima.
Vi è una quota cospicua di occasionali, che lavorano come collaboratori per non più di un anno.
Sulla base dei dati INPS si è stimato che i collaboratori puri fossero nel 2003 poco più di 600 mila.
L’importanza di questa figura è rilevata dal suo peso relativo perché si tratta del 10% di tutti i lavoratori indipendenti.
La figura del lavoratore parasubordinato è molto più presente tra le donne (60%) e i giovani (45% sotto i 30 anni).
Il fatto che nel 1998 1/3 degli iscritti all’INPS fosse alla prima esperienza di lavoro conferma l’importanza delle collaborazioni come strumento di ingresso nel lavoro non dipendente dei giovani, che sono privi delle reti di relazione necessarie per avviare un’attività in proprio.
Quanto alla distribuzione territoriale, la diffusione è maggiore nelle aree in cui più dinamico è lo sviluppo economico, fondato sulla piccola impresa e sull’esteriorizzazione delle attività professionali e di servizio. Nel 1999 oltre il 60% dei contribuenti si concentra in quelle settentrionali e soltanto il 14% in quelle meridionali.
Il sospetto che la scarsa presenza nel Mezzogiorno si debba anche alla diffusione di attività svolte in nero o frutto di misure di politica del lavoro. Invece, il recente aumento della percentuale di iscritti all’INPS nel Mezzogiorno si può attribuire al crescente ricorso alle collaborazioni da parte degli enti pubblici locali.
Contrariamente agli interinali, i collaboratori lavorano nei servizi. La prevalenza dei servizi non commerciali e turistici seguiti dal commercio, alberghi e ristoranti e dall’industria manifatturiera.
Le figure professionali dei collaboratori sono per lo più ad elevata o media qualificazione nell’area del lavoro intellettuale e tecnico anche se, soprattutto tra i più giovani, molti sono i venditori a domicilio. All’alta presenza di mansioni qualificate corrisponde un’alta percentuale di collaboratori istruiti
La monocommittenza è un carattere distintivo delle collaborazioni. Il 90% dei collaboratori presta la propria attività per un solo cliente. L’orario di lavoro è deciso dai collaboratori stessi neppure nel 40% dei casi, mentre per la gran maggioranza in cui è frutto di una decisione unilaterale del committente si tratta per lo più di un orario simile a quello di un dipendente.
L’83% dei collaboratori lavora nei locali del committente, sia per utilizzarne le attrezzature sia per collaborare con i suoi dipendenti.
I guadagni più bassi sono molto frequenti tra i più giovani. Il costo di un lavoratore a progetto è inferiore del 33% a quello di un dipendente.
Avere solo un committente di per sé può essere un segno sia di debolezza sia di forza. Chi ha un solo committente può essere alla sua mercé. Per contro, un contratto di lunga durata con un solo committente può indicare una situazione stabile, fondata su un rapporto fiduciario e prossima a quella di un rapporto dipendente. Anche avere parecchi committenti può essere un segno di debolezza e precarietà, se si è costretti a passare da un contratto all’altro, ma può costituire un segno di forza perché chi ha più committenti è meno vulnerabile.
La combinazione tra alta qualificazione e alta affidabilità genera relazioni stabili tra committente e collaboratore, mentre quella tra bassa qualificazione e bassa affidabilità è esposta a comportamenti opportunistici da parte di entrambi.
collaboratori che subiscono nell’attesa di trovare un lavoro dipendente e stabile e chi invece ne è gratificato per il contenuto e/o la considera come un utile passaggio verso un’attività libero-professionistica. La distinzione dipende principalmente dal livello di qualificazione del lavoro svolto. I primi svolgono per lo più lavori meno qualificati e insistono sugli aspetti negativi del rapporto di collaborazione: il senso di precarietà, la mancanza di tutela.
Per i secondi ciò che conta è la possibilità di utilizzare le conoscenze acquisite a scuola o all’università e di sviluppare le competenze e le capacità professionali, l’autonomia nell’organizzare il proprio lavoro e nel gestirne il tempo.
Dal 1995 al 2003 al forte aumento dell’occupazione e alla parallela riduzione della disoccupazione si è accompagnata una crescita delle occasioni di lavoro instabili.
La diffusione dei lavori flessibili ha interessato essenzialmente i giovani, ma l’impatto sui tassi di occupazione risulta quasi nullo per i giovani maschi e molto scarso per le giovani femmine.
Le donne dai 45 ai 60 anni sono state interessate solo in misura molto limitata dalla diffusione dei lavori instabili.
I giovani nel 2003 risultano un po’ meno occupati di 10 anni prima e se occupati più spesso con lavori instabili.
L’apparente paradosso che i giovani sono contemporaneamente meno occupati e meno disoccupati si spiega con la netta ripresa della scolarità superiore. I giovani sono meno disoccupati non perché riescono a trovare più facilmente occasioni di lavoro flessibile, ma perché frequentano in maggior misura gli istituti superiori e le università.
Il forte aumento dell’occupazione, che si deve quasi tutto alle donne adulte, può essere sì collegato ad una misura di flessibilizzazione, che concerne solo l’orario di lavoro. L’occupazione femminile a tempo parziale è molto cresciuta ma la stragrande maggioranza delle donne che lavorano part-time hanno normali rapporti a tempo indeterminato.
Le retribuzioni dei lavoratori italiano sono precipitate agli ultimi posti della graduatoria dei paesi della vecchia Unione Europea.
La moderazione salariale è proseguita anche dopo quando la disoccupazione diminuiva e l’occupazione cresceva poiché la produttività del lavoro ha continuato a crescere sia pur debolmente, la quota de redditi da lavoro dipendente sul reddito nazionale si è fortemente ridotta a favore sia dei profitti sia anche delle rendite.
Nonostante tutte le discussioni sull’atipicità e la precarietà dell’occupazione giovanile, anche negli anni ’90 la maggior parte dei giovani ha iniziato la propria attività lavorativa come dipendente a tempo indeterminato. La percentuale di primi lavori tipici è maggiore nelle regioni settentrionali e per le donne, ma è molto minore per i laureati in ogni area territoriale.
Il peso del tempo determinato è molto più elevato per i laureati e i diplomati nelle regioni centro-settentrionali e per i meni istruiti nel Mezzogiorno. Il 15% dei giovani ha cominciato come lavoratore indipendente; si tratta soprattutto di laureati maschi, molti dei quali è probabile abbiano avviato un rapporto di collaborazione o ereditano uno studio professionale.
L’instabilità della prima occupazione è molto elevata nella maggior parte degli altri paesi europei.
I giovani in cerca di prima occupazione tentano innanzitutto di trovare un posto stabile, seguendo anche la rappresentanza del mercato del lavoro dei loro padri, e soltanto dopo aver constatato quanto sia difficile trovarlo si rassegnano al second best di un lavoro instabile.
La minore precarietà dell’occupazione giovanile in Italia rispetto agli altri paesi europei non vuole affatto dire che la situazione per i giovani italiani non sia molto cambiata negli ultimi anni.
Se l’ingresso nel mercato del lavoro delle nuove generazioni avviene sempre più spesso grazie ad occupazioni instabili ci si deve chiedere cosa accadrà dopo. Ciò che dovrebbe preoccupare non è tanto la precarietà del ventenne. La questione è cosa gli accadrà nel corso di vita, quando si avvierà lungo i 30 anni e avrà sempre più bisogno di sicurezze, sul piano sia economico sia emotivo. Ora le nuove forme di lavoro instabile sono per lo più appannaggio dei giovani; ma poi? I giovani attuali saranno sostituiti dalle successive generazioni in tali attività o vi invecchieranno?
Recenti rielaborazioni condotte dall’ISTAT forniscono un quadro pessimistico, rafforzando le ipotesi di intrappolamento.
Da due indagini sulle collaborazioni risulta che al crescere dell’età il motivo per cui si svolge tale lavoro diventa sempre più una scelta professionale e/o di vita e sempre meno un ripiego in mancanza di meglio. Ciò sembra indicare che c’è stato un processo di autoselezione per cui chi vive la collaborazione come un’imposizione dopo qualche anno riesce a trovare altre e più gradite soluzioni, mentre chi continua anche in età avanzata lo fa perché questa è per lui la situazione più soddisfacente.
Gli interinali possono trovare aiuto nell’agenzia, che può assicurare loro un flusso quasi continuo di missioni qualora posseggano professionalità molto richieste.
I collaboratori devono investire molte risorse personali nella costruzione di reti di contatti con committenti e altri collaboratori sia per aver accesso ad informazioni su eventuali commesse, sia per creare rapporti di fiducia.
L’altra via, in assenza di un sistema di welfare che protegga il lavoro intermittente, è quella di cercare protezione nella famiglia. Vivere con i genitori costituisce per i giovani interinali o collaboratori una garanzia in caso di lunghi periodi senza missioni o commesse per malattia o contrazione della domanda di lavoro.
Esiste l’ipotesi che i giovani accettino senza problemi e persino con entusiasmo i nuovi lavori instabili anche perché i mass media diffondono il messaggio che queste sono le uniche attività attualmente disponibili.
È certo che l’incertezza del lavoro e del reddito costringe i giovani a un continuo rinvio delle decisioni cruciali per la vita, dallo sposarsi ad avere figli, e rischia di distruggere la loro capacità di fare progetti per il futuro, confinandoli nel limbo di un’infinita adolescenza. Lo slittamento dell’ingresso nella vita adulta, se si prolunga troppo, può mettere in crisi l’equilibrio tra le generazioni. E si pensi anche agli aspetti previdenziali: quale pensione avranno i giovani di oggi quando si ritireranno dal lavoro.
Occupazione sommersa e doppio lavoro (Cap. 3)
Tra le motivazioni alla base del lavoro nero, oltre al risparmio sul costo del lavoro e alla maggiore flessibilità di utilizzo, vi può essere anche la convenienza del lavoratore.
Le attività di produzione di beni e servizi per il consumo familiare e quelle non retribuite non sono considerate lavoro, benché costituiscano un’alternativa al ricorso a servizi pubblici o all’acquisto sul mercato e abbiano non poco rilievo economico.
Tuttavia non tutte le attività che si svolgono nella famiglia sono regolate da affettività e reciprocità. Le piccole aziende familiari non sono affatto scomparse e quello che giovani e donne vi prestano è un vero e proprio lavoro. Questi lavori in famiglia possono essere altrettanto e forse più gravosi e penosi di quelli per conto terzi. Proprio in aziende familiari è più presente il lavoro minorile.
Quando è illecito l’oggetto, si tratta di economia criminale, che nella sua fattispecie mafiosa e camorristica occupava negli anni ’80 oltre mezzo milione di persone.
Si può anche distinguere tra estorsioni e furti, che sono un mero trasferimento forzoso di ricchezza e contrabbando, prostituzione, gioco d’azzardo, droga, che producono beni e servizi grazie all’attività di soggetti consenzienti. Le ambiguità rimangono, poiché si conviene che l’economia criminale includa la prostituzione anche quando non viola la legge penale, ma non la produzione e la vendita di beni contraffatti, cioè attività rigorosamente proibite.
Nonostante in alcune province italiane le attività illegali abbiano un peso non piccolo nel mercato del lavoro, le analisi socioeconomiche dell’occupazione, sono solite escludere l’economia criminale.
Nell’economia irregolare si producono beni e servizi leciti e la violazione della legislazione concerne le modalità con cui l’attività è svolta e in particolare le disposizioni poste a tutela del lavoratore dipendente o volte a disciplinare il lavoro in proprio. Il lavoro nero è un’attività professionale, esercitata al margine o fuori delle norme legali, amministrative o convenzionali, a scopo di lucro e non occasionalmente. Le violazioni possono concernere sia le norme fiscali e previdenziali, sia il diritto del lavoro e i contratti collettivi.
l’OCSE definisce occupazione nascosta quella non dichiarata a una o più autorità amministrative che dovrebbero averne conoscenza e che si trova quindi sottratta ad ogni regolamentazione. Nel caso italiano il lavoro nero diventa quello subordinato non registrato dai centri per l’impiego e dagli enti previdenziali e quello indipendente privo delle necessarie licenze e/o iscrizioni agli albi professionali.
lavoro grigio: es. si dichiara part-time quando l’orario è intero
Tipi di occupazione dipendente in nero:
- il lavoratore ma anche l’azienda è sconosciuta alla pubblica amministrazione
- un’impresa regolare utilizza alcuni dipendenti senza registrarne l’assunzione.
Esistono i lavori neri che sono rilevati e i lavori regolari che non lo sono, come accade spesso quando sono svolti da immigrati regolari, ma non iscritti all’anagrafe, o come seconde attività.
Ormai le rilevazioni statistiche sono attrezzate a cogliere le attività economiche nere. Nelle indagini sulle forze di lavoro dal 1977 si considerano occupati anche coloro che ammettono di avere effettuato almeno un’ora di lavoro retribuito nell’ultima settimana. Costoro sono senza dubbio lavoratori precari e occasionali ma è probabile che siano pure irregolari. In nero può trovarsi anche chi si dichiara occupato, poiché non è prevista alcuna domanda per cogliere la regolarità della posizione lavorativa.
L’occupazione rilevata nelle indagini sulle forze di lavoro dovrebbe comprendere anche i lavoratori irregolari, tranne gli stranieri non residenti, i minori e il secondo lavoro di chi ne ha già uno.
Gli occupati irregolari sono stimati grazie a complessi controlli degli archivi fiscali, previdenziali, professionali e commerciali con le indagini campionarie sulle forze lavoro e i consumi delle famiglie e con i censimenti della popolazione, dell’agricoltura e dell’industria e commercio.
È probabile quindi che gli accorgimenti adottati dall’ISTAT nella complessa metodologia di misurazione dell’economia sommersa riescano a bilanciare in misura adeguata le reticenze di alcuni intervistati. Oltre a stimare gli occupati non in regola l’ISTAT stima i secondi lavori, svolti cioè da chi ha già un’occupazione principale, che però possono essere regolari.
I metodi indiretti adottati dall’ISTAT forniscono una stima quantitativa dell’occupazione non regolare distinguendone soltanto il settore e la posizione nella professione (dipendente/indipendente). Non vi è invece alcuna informazione sulle caratteristiche di chi svolge tali lavori, dal genere all’età. L’unico aspetto di cui danno conto è l’orario di lavoro, necessario a stimare il contributo di ogni lavoratore alla produzione del reddito. A tal fine l’ISTAT costruisce un’altra misura dell’occupazione, l’unità di lavoro standard, definita come il volume di lavoro svolto da un occupato a tempo pieno e pari all’ammontare delle ore lavorate diviso per l’orario di lavoro medio annuo. Le posizioni lavorative invece considerano tutte le diverse attività svolte da un occupato, comprese quelle secondarie, indipendentemente dall’orario. La differenza tra posizioni lavorative e occupati può essere considerata una buona stima della diffusione delle occupazioni plurime.
In Italia l’occupazione irregolare è molto diffusa, come negli altri paesi dell’Europa meridionale. Queste differenze sono generalmente attribuite soprattutto alla diversa struttura occupazionale: nei paesi dell’Europa meridionale è maggiore l’occupazione in agricoltura e in edilizia, inoltre nell’industria manifatturiera e nei servizi sono molto più presenti piccole unità produttive.
Buona parte del reddito non tassato e non dichiarato agli enti previdenziali è prodotta da lavoratori regolarmente registrati negli albi professionali e dagli enti previdenziali, in particolare da indipendenti che dichiarano redditi inferiori a quelli reali e da dipendenti i cui straordinari sono pagati fuori busta.
Una vasta occupazione in condizioni non regolari ha segnato tutto lo sviluppo industriale italiano: dall’inizio del 900 a fine anni ’70 si contavano circa due milioni di occupati irregolari nell’industria manifatturiera e in edilizia. Una contrazione si sarebbe avuta solo nel periodo fascista. In una fase di forte crescita quale quella tra fine anni ’60 e primi anni ’70 si ha un deciso aumento della quota di occupazione irregolare.
Le attività a domicilio e di subappalto a microimprese manifatturiere sono all’origine dell’aumento del lavoro nero.
L’ISTAT ha poi fornito sistematicamente valutazioni sulle persone che lavorano in condizioni irregolari o che si presume vi lavorino tanto da non dichiararsi subito occupati nelle indagini sulle forze di lavoro. Purtroppo per avere una visione di lungo periodo è necessario far ricorso alle unità di lavoro, che non consentono di distinguere il lavoro irregolare svolto in via principale da quello svolto in via secondaria da chi ha un primo lavoro.
Negli anni ’90 la crescita delle unità di lavoro irregolari si deve quasi soltanto agli stranieri non residenti e alle occupazioni plurime, mentre le unità degli italiani occupati irregolarmente in via principale restano praticamente stabili.
Nel corso del ventennio (’80-2000) muta profondamente l’incidenza del lavoro non regolare secondo la posizione lavorativa.
Anni ’80 il tasso di irregolarità nell’occupazione indipendente in agricoltura è più che dimezzato mentre il tasso di irregolarità sia pur lentamente cresce in tutti i settori sia per le unità di lavoro dipendente sia per quelle indipendenti. Occorre ricordare che l’analisi non consente di distinguere l’occupazione irregolare dal doppio lavoro.
Gli occupati non regolari nel complesso seguono un andamento a U rovesciata, con un massimo nel ’97-’98.
Un andamento simile è stato rilevato da un’analisi sui bilanci delle famiglie. Si potrebbe quindi pensare che ciò sia l’effetto del pacchetto Treu che a fine ’97 ha introdotto forme più flessibili di occupazione. Si confermerebbe così che il ricorso a forme non standard di lavoro riduce il lavoro irregolare legato ad esigenze di flessibilità e non quello legato ad esigenze di ridurre il costo del lavoro.
Bisogna ricordare che la diffusione delle forme di lavoro flessibile, se può aver ridotto in parte il ricorso al nero, può aver contribuito alla crescita delle situazioni di lavoro grigio, in cui le nuove forme sono utilizzate in modo improprio al posto di rapporti di lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato. All’inizio del XXI secolo in Italia i lavoratori irregolari sarebbero oltre 3 milioni e 20 mila, pari al 13,5% dell’occupazione totale.
L’agricoltura è il regno del lavoro nero (60% nel 2002). Nelle costruzioni è importante ma sta diminuendo (12%). L’industria manifatturiera è quella dove il lavoro nero è meno diffuso (6%).
La diffusione dell’occupazione irregolare nei servizi ha ormai raggiunto quelli dell’edilizia; soprattutto nei servizi domestici svolti presso le famiglie. Quindi in Italia in poco più di 20 anni si è passati da un’occupazione irregolare prevalentemente agricola ad una terziaria.
L’ occupazione non regolare continua ad essere molto più diffusa nel Mezzogiorno e non soltanto perché nelle regioni meridionali sono più presenti edilizia e agricoltura.
L’Italia meridionale è una delle aree dei paesi economicamente avanzati dove è più diffuso il lavoro non regolare: se si esclude la pubblica amministrazione, quasi 4/10 lavorano in nero. Emerge uno stretto legame tra economia sommersa e sottosviluppo.
Il quadro del lavoro irregolare in Italia concorda ampiamente con quello di altri paesi dell’Europa meridionale dove la quota di lavoro nero nelle costruzioni raggiunge altissimi livelli.
Varie sono le condizioni che consentono una maggiore presenza di lavoro non regolare: la ridotta dimensione dell’impresa, la prossimità alla domanda finale delle famiglie, la bassa intensità di capitale e impianti, l’immaterialità della prestazione offerta.
Al sommerso tradizionale, frutto di un’arretrata organizzazione economica e sociale e di un’alta disoccupazione, se ne aggiunge uno nuovo, frutto di tre tendenze dell’economia contemporanea: la crescita della domanda di servizi da parte delle famiglie e delle persone, la disintegrazione dell’apparato produttivo con l’allungamento delle catene di subappalto e l’aumento del lavoro soltanto formalmente indipendente, la diffusione di tecnologie leggere quali quelle informatiche, che favoriscono nuove forme di lavoro a domicilio.
Con il lavoro nero l’impresa risparmierebbe quasi la metà del costo del lavoro, poiché a tanto ammonta quanto dovrebbe versare vuoi agli enti previdenziali per finanziare il sistema pensionistico e sanitario vuoi al lavoratore stesso come salario differito per 13ma, ferie e liquidazione. Secondo i dati di contabilità nazionale, il costo del lavoro per dipendente è inferiore di quasi il 60% a quello del lavoro regolare.
Decisivo appare invece il grado di organizzazione della struttura economica poiché il lavoro nero si radica meglio dove prevalgono le piccole imprese. E, se si considera anche l’evasione fiscale, risulta importante anche il peso dei lavoratori indipendenti.
Tra i fattori che favoriscono la diffusione dell’economia sommersa vi sono la mancanza di controlli e la levità delle sanzioni, perché il rischio di ispezioni non a seguito di una denuncia sono infimi. Maggiori controlli e più severe sanzioni contro le imprese che usano il lavoro nero sortiscono scarsi effetti se non sono sostenuti da un radicato consenso sociale, che sottoponga i comportamenti irregolari alla riprovazione generale.
Minore è la platea dei contribuenti e maggiore è l’onere che deve sopportare chi è in posizione regolare. Quindi il lavoro nero contribuisce ad aumentare il costo complessivo del lavoro regolare.
La mancanza di riprovazione sociale verso l’evasione fiscale e il lavoro nero si può spiegare anche con una crisi di legittimità del governo, considerato corrotto, irresponsabile e dilapidatore delle risorse pubbliche.
Al lavoro irregolare si attribuisce un altro vantaggio: la maggiore flessibilità di utilizzo, sia in termini di orario che di facilità di interrompere o sospendere il rapporto.
Il lavoro irregolare è svolto per lo più da giovani, donne e anziani.
Occorre poi distinguere il ruolo familiare del lavoratore. Per parecchie donne che a 40 anni tornano a cercare lavoro, il lavoro in nero offre la più agevole opportunità di guadagno.
Le reti di relazioni informali sono indispensabili per il funzionamento dell’economia irregolare poiché solo attraverso conoscenza bocca a bocca i lavoratori disposti ad essere assunti in nero e le imprese irregolari si possono incontrare.
Vi è ormai un’omertà diffusa che prescinde dalle relazioni personali. Qualora la prestazione di lavoratore indipendente irregolare sia insoddisfacente non vi è possibilità di ricorso perciò costui deve essere ben nota alla sua clientela per poter lavorare.
Un suo comportamento opportunistico gli farebbe perdere nuovi clienti.
Tra i contraenti di un rapporto di lavoro in nero vi sono spesso legami personali e diretti che affondano le radici in reti di relazioni familiari e comunitarie.
La forza dell’economia irregolare sta nel suo radicamento nella società.
Nel caso del Mezzogiorno chi offre un lavoro nero può apparire come un benefattore purché non si arricchisca troppo e i lavoratori continuino a pensare che l’impresa fallirebbe se fossero in regola.
La complicità dei lavoratori si fonda su un’equa ripartizione dei guadagni delle commesse in nero. Anche nel lavoro domestico irregolare è frequente un arrangiamento informale.
Nell’economia sommersa il rapporto di lavoro è nettamente squilibrato a favore del lavoratore, infatti l’arma del licenziamento non funziona come strumento di controllo perché fornisce al lavoratore la possibilità di denunciare il datore di lavoro una volta licenziato.
Due ipotesi possono spiegare quali meccanismi impediscano al lavoratore di ricorrere alla denuncia: le relazioni personali; chi denuncia un datore di lavoro incontrerà enormi difficoltà a trovare un’altra occupazione in nero.
Nelle realtà meridionali prevale la prima ipotesi. Nel Centro-Nord dovrebbe prevalere la seconda ma la scarsa disoccupazione impedisce ai datori di lavoro di sfruttare la posizione di vantaggio.
Non è detto che il lavoro in nero sia necessariamente svolto da lavoratori privi di tutele previdenziali e giuridiche. In 2/3 dei casi il doppio lavoro è prestato rispettando la legislazione previdenziale e fiscale anche perché un esplicito divieto è previsto solo per i dipendenti pubblici.
Il doppio lavoro si distingue dalle attività plurime perché chi la svolge ha un’occupazione a tempo pieno e indeterminato svolge un’altra attività ben identificabile come aggiuntiva e secondaria.
Le attività plurime sono all’interno dell’area precaria e marginale e irregolare.
Chi le svolge è una figura per la quale si pone il problema di definire una cesura con il disoccupato poiché entrambi aspirano a un posto di lavoro stabile e regolare.
Il doppiolavorista è una figura mista che con un piede nell’area regolare e tutelata del mercato del lavoro e l’altro in quella precaria e spesso irregolare mira a sfruttare i vantaggi della doppia collocazione.
In Italia nel 1980 ci sarebbero stati oltre 6 milioni di occupati con una seconda attività, negli anni ’90 superano i 7 milioni mentre all’inizio del nuovo secolo i doppi lavoristi sarebbero ridiscesi a poco più di 6 milioni. Tuttavia il fenomeno risulta in aumento.
Soltanto parte delle attività secondarie sono svolte in modo non regolare cioè non rispettando norme contributive, fiscali e amministrative.
L’agricoltura è il regno dei doppilavoristi. Se l’occupazione agricola in via principale si è ormai ridotta è il numero di operai, piccoli commercianti, artigiani e impiegati che dedicano parte del tempo libero a coltivare un proprio campo o un proprio allevamento.
Il loro contributo produttivo è basso ma si può stimare che oltre ¼ della produzione agricola italiana sia opera di doppilavoristi.
Col secondo lavoro si cerca un’integrazione di reddito familiare. Questo quadro non è valido per le regioni meridionali. In ogni modo il secondo lavoro in agricoltura è sempre legato a un terreno di proprietà del doppiolavorista e risulta così isolato dal mercato del lavoro.
È stato in forte espansione negli anni ’80. Il doppio lavoro sembra relativamente più diffuso nella metalmeccanica, nella carta e stampa, nel settore del legno e arredamento. Tra i doppiolavoristi che lavorano in proprio si stima che nell’industria manifatturiera tutti abbiano le previste autorizzazioni.
Fuori dall’industria i secondi lavori sono essenzialmente terziari.
Colpisce che il ramo degli alberghi e dei pubblici servizi, dei trasporti quasi tutti coloro che hanno un secondo lavoro lo svolgano in nero.
La domanda di doppio lavoro proviene da piccole imprese, famiglie.
Paradossalmente il doppio lavoro è più diffuso nel pubblico impiego dove è vietato per legge.
I dipendenti pubblici sono spinti a cercare ulteriori fonti di reddito da retribuzioni relativamente bassa e dalla frustrazione di un’organizzazione che non ne utilizza a pieno le competenze professionali.
Chi lavora negli enti locali fruisce di alcune fondamentali sicurezze. Questi lavoratori sarebbero dei garantiti.
Soprattutto per i servizi la doppia occupazione è più un fenomeno del Centro-Nord ricco e a bassa disoccupazione rispetto al Mezzogiorno dove prevale il lavoro irregolare svolto in via principale. Italia i capifamiglia non sono solo quasi tutti occupati ma spesso hanno due lavori e sembrano costretti a procurarsi due redditi perché gli altri membri della famiglia non riescono ad averne alcuno.
Quattro dimensioni:
Se per aumentare l’occupazione si vuol ridurre la quantità di lavoro offerta ad ogni lavoratore il primo intervento dovrebbe proprio essere quello di eliminare la possibilità di cumulare un secondo lavoro.
Non vi è connessione tra monte ore settimanale e diffusione del secondo lavoro.
La sola eccezione è costituita dalle insegnanti. Quanto alla diffusione del doppio lavoro nel pubblico impiego italiano le cause sono meno semplici dell’orario ridotto. Ad un minore impegno del primo lavoro garantito può corrispondere solo una maggiore facilità di svolgerne un altro nell’economia informale.
È scarsissimo il doppio lavoro femminile quindi si può escludere che abbiano effetti perversi riduzione dell’orario in settori con maggior occupazione femminile o maggiore diffusione del part-time. I settori in cui riducendo l’orario si intende creare maggiore occupazione sono diversi da quelli in cui si potrebbe avere un aumento dell’offerta di doppio lavoro.
Perché sia possibile sostituire quelle secondarie con attività svolte in via principale, devono essere soddisfatte 4 condizioni:
Numerosi sono i secondi lavori targati come tali:
Il primo lavoro può fornire la carta di credito dell’affidabilità sociale. Almeno una occupazione garantita fornisce la sicurezza necessaria a costruire un’ampia rete di relazioni. Il doppio lavoro può diventare un’importante via per entrare in questi mercati poiché l’occupazione principale svolge una duplice funzione: sostegno nella fase iniziale e copertura assicurativa qualora l’attività secondaria non abbia successo.
Per ridurla si dovrebbe adottare una politica retributiva e fiscale che tenga in maggior conto i carichi familiari. Un maggiore controllo e una migliore organizzazione dei mercati artigianali e dei servizi li renderebbe più trasparenti con conseguenza negative per chi vi opera in via principale ma è abituato a una larga evasione fiscale.
I politici dovrebbero opporsi al doppio lavoro dei dipendenti pubblici in nome di due classici temi elettorali: l’occupazione e l’efficienza dei servizi pubblici. I politici sono più interessati ad ottenere il consenso dei dipendenti pubblici o aspiranti tali che non quello degli utenti.
Anche l’aumento della qualità professionale del lavoro richiesto è una strategia utile poiché prestazioni più qualificate richiedono un’affidabilità che il lavoro nero non riesce a offrire.
Lo Stato non può intervenire a imporre il riposo ai propri cittadini limitandone l’autorealizzazione nel lavoro.
Infine vi è l’accusa centrale: il doppio lavoro sarebbe terreno fertile per il lavoro nero.
Il doppio lavoro è spesso irregolare perché vietato, se fosse liberalizzato molto probabilmente sarebbe svolto in modo regolare.
Gli immigrati in una società terziaria e segmentata (Cap.4)
L’Italia è l’unico paese che non ha dovuto far ricorso a lavoratori stranieri per il proprio sviluppo industriale negli anni ’60 e ’70, poiché ha potuto attingere ad un bacino domestico di forza lavoro che per origine agricola e mancanza di istruzione vedeva l’accesso al lavoro operaio dequalificato una promozione sociale. Contemporaneamente Germania, Francia, Belgio e Svizzera attiravano milioni di persone dalle stesse campagne dell’Italia meridionale per impiegarle da loro. I movimenti migratori europei sono per lo più “a tempo e scopo definiti” cioè costituiti da lavoratori, senza famiglia al seguito, che intendono ritornare nel paese di origine una volta raggiunto il risparmio necessario.
Il numero degli immigrati presenti nei paesi dell’Europa industriale era cresciuto sino a raddoppiare in poco più di 10 anni. Questo sistema si blocca nel 1974 quando i paesi dell’Europa centro-settentrionale chiudono le frontiere a nuove immigrazioni.
La chiusura delle frontiere provoca una riduzione di immigrati molto minore al previsto perché di fronte alla prospettiva di non poter più rientrare molti immigrati decidono di stabilirvisi.
La chiusura delle frontiere ha favorito lo sviluppo di movimenti migratori non autorizzati.
Ciò contribuisce a dirottare chi non riesce ad entrare nei paesi dell’Europa centro-settentrionale verso quelli dell’Europa meridionale, impreparati ad affrontare l’improvvisa trasformazione da paesi di emigrazione in paesi di immigrazione.
Presenza non autorizzata e inserimento in attività irregolari sono le principali caratteristiche della nuova ondata immigratoria che dalla fine degli anni ’70 interessa l’Italia.
La Grecia e l’Italia sono i paesi che hanno regolarizzato il maggior numero di immigrati irregolari.
In Italia l’afflusso di immigrati è diventato rilevante nella seconda metà degli anni ’80
Nel 2004 gli immigrati erano stimati in più di 2 milioni e mezzo pari al 4,5% della popolazione italiana.
Poiché l’Italia ha migliaia di km di coste i controlli sono difficili. In ogni caso a partire dal 1992 i controlli ai confini sono diventati più rigorosi e il numero dei respinti alle frontiere è aumentato in modo consistente.
L’obbligo del visto è stato introdotto solo nel 1991 e gli ingressi dai paesi sottosviluppati per motivi turistici, religiosi e di studio sono numerosi. Questi visti di breve durata consentono un ingresso legale, ma quando scadono la permanenza diventa non autorizzata. È il caso degli overstayers.
Per rinnovare il permesso di soggiorno gli immigrati devono provare di avere un contratto di lavoro o un reddito minimo, ma tale prova è difficile per chi ha lavori occasionali e non in regola. La difficoltà di conservare una presenza autorizzata sono state acuite dalla legge Bossi-Fini del 2002 che ha dimezzato la durata del permesso di soggiorno per lavoro e quello per ricerca di lavoro in caso di disoccupazione, costringendo a più frequenti rinnovi e lasciando meno tempo per ritrovare un lavoro regolare a chi lo ha perso.
Vi sono due altri aspetti nuovi dell’immigrazione nell’Europa meridionale:
- per lo più i nuovi flussi migratori non provengono dalle campagne dei paesi arretrati, ma dalle sempre più ampie aree urbanizzate
- la presenza di giovani con alti livelli di istruzione è rilevante. La presenza di diplomati e laureati è alta tra gli immigrati che provengono dall’Europa orientale, dall’America Latina e dalle Filippine, mentre è relativamente bassa tra gli africani.
. Gli immigrati si dividono in:
Si tratta per lo più di giovani e nubili, con un livello di istruzione medio-alto, benché vi siano anche molto donne sposate e in età matura, che hanno lasciato i figli al paese d’origine.
Prima la presenza femminile era legata alo stadio di maturazione di un’emigrazione, quando le donne emigravano per raggiungere mariti o padri emigrati da tempo.
Emigrano le donne solo perché le occupazioni più facilmente accessibili in Italia, come in altri paesi dell’Europa occidentale, sono da donna come le collaborazioni domestiche e l’assistenza agli anziani.
Quella attuale non è più dettata dalle necessità della domanda di lavoro dei paesi di arrivo, ma dalle condizioni demografiche, economiche e politiche dei paesi di esodo: da importazione di forza lavoro a fuga verso la sopravvivenza.
In realtà è dimostrato che non sono i paesi più poveri quelli che generano i maggiori flussi di emigranti ma è più probabile che le maggiori correnti emigratorie provengano da pesi con un livello di sviluppo intermedio, che sono in posizione di svantaggio, ma non completamente stremati dalla povertà.
Le penetrazione dei modi di produzione capitalistica, nonché dei mezzi di comunicazione di massa, nei paesi in via di sviluppo genera una forte propensione a emigrare Chi emigra: le aspettative e le risorse
La decisione di emigrare è una scelta individuale o familiare, che coinvolge soltanto chi è disposto a sopportarne i costi monetari e affettivi e inoltre possiede le risorse economiche, personali e informative necessarie ad affrontarne le difficoltà. L’emigrazione è quindi un processo selettivo. Per emigrare occorre avere aspettative che si ritiene di non poter soddisfare nel proprio paese, ma soltanto in un altro più ricco e sviluppato.
Ma per emigrare occorre avere accesso ad una rete di relazioni nel paese di arrivo. L’emigrazione raggiunge dimensioni consistenti soltanto se si sviluppa una catena migratoria tra una comunità locale o una rete di famiglie nel paese di origine e un’altra comunità o rete familiare in quello di arrivo.
L’aspetto costitutivo della catena tende a prevalere su quello informativo, provocando un effetto di autoalimentazione del flusso migratorio anche quando la situazione nel paese di arrivo è molto difficile.
L’ampiezza del fenomeno è anche legata all’immagine che le società sviluppate trasmettono: è il mito della società ricca, aperta e libera, che offre possibilità di emancipazione e di consumo per tutti.
La possibilità di lavorare nell’economia sommersa, dove non servono documenti, promuove gli ingressi non autorizzati.
Molti immigrati prima di lasciare il paese d’origine hanno un’immagine dell’Italia come di un paese dove è facile trovare lavoro e fare soldi anche senza permesso di soggiorno.
Lungi dall’essere un effetto dell’immigrazione non autorizzata, l’economia sommersa italiana ne è la causa.
Nell’ottica temporale, fin dall’inizio l’emigrante può proporsi di stabilirsi definitivamente o di fermarsi solo il tempo ritenuto necessario per realizzare l’obiettivo stabilito. Nel secondo caso l’emigrazione prevista può prolungarsi di qualche anno, sia perché si rivelano errati i calcoli sui guadagni e sul costo della vita, sia perché gli immigrati sono distratti dagli stili di vita consumistici della società di arrivo e sentono sempre meno il peso psicologico della separazione dalla terra natale. Con il passare del tempo parte di coloro che erano emigrati in un’ottica temporanea si stabilisce per sempre.
due segnali mostrano una crescente tendenza a stabilizzarsi:
- il forte aumento dei permessi di soggiorno per motivi familiari e del numero dei figli degli immigrati che frequentano una scuola in Italia.
- Il proseguimento di una politica di rigida chiusura delle frontiere rendere sempre più consistenti insedimenti di immigrati che si stabilizzano; per paura di non potervi più entrare se escono.
L’attuale emigrazione verso l’Italia e gli altri paesi europei ha origine varie: politico, culturale oltre ad economici.
Gli immigrati dell’Ex Jugoslavia hanno le caratteristiche dell’immigrazione economica e stagionale. Con gli albanesi fattori sociali, economici e ragioni politiche.
Il progetto migratorio dominante rimane quello a tempo e scopo definiti che comporta scarso interesse per norme e valori del paese di arrivo. L’identità sociale resta ancorata alla società d’origine. Le abitudini di consumo sono quelle del paese di origine e i guadagni da lavoro scadenti sembrano enormi. Questi immigrati sono più adatti ad essere inseriti in lavori dequalificati, nocivi, faticosi e irregolari.
Nuova è l’immigrazione orientata al consumo che esprime l’aspirazione di assumere modelli di vita e di consumo dei paesi sviluppati e si contrappone a quella a tempo e scopo definiti. Questo fenomeno si deve alla televisione, che fornisce un’immagine enfatizzata delle condizioni di vita nelle società sviluppate.
Ciò accentua la propensione ad un approccio strumentale al lavoro e in particolare la disponibilità al sommerso, che a breve termine può pagare di più.
Immigrazione pendolare:molti immigrati del nordafrica e dell’Europa orientale cercano i lavori temporanei per far fronte alla bassa stagione nei paesi di origine, dove periodicamente ritornano.
Gli immigrati orientati all’insediamento stabile sono in forte crescita, ma pochissimi sono entrati in Italia con questo scopo esplicito.
Con il tempo tende a mutare l’orientamento verso il lavoro, perché i termini di confronto per quanto riguarda retribuzione, qualificazione, condizioni di lavoro diventano quelli del paese di arrivo. Guadagni che sembravano altissimi appaiono non sufficienti a reggere un decente tenore di vita per la propria famiglia nel paese di arrivo.
In appena 10 anni l’occupazione regolare alle dipendenze è quasi quadruplicata. Valutare l’effettiva consistenza dell’occupazione regolare degli immigrati è un esercizio arduo.
Fanno eccezione soltanto i lavoratori domestici la cui percentuale è essenzialmente nel sommerso.
Risulta una netta e crescente prevalenza del commercio, mentre modesta è la presenza dei trasporti e delle comunicazioni ed ancor più quella di altri servizi.
Nell’industria manifatturiera prevale il settore metalmeccanico seguito a grande distanza dal tessile, abbigliamento e dal chimico. Sempre rilevante il peso delle costruzioni mentre sottostimato è quello dell’agricoltura.
Sono previsti dalla legge del 1986 e hanno dato sino al 1999 un contributo molto limitato alla crescita dell’occupazione regolare..
Le autorizzazioni all’ingresso hanno interessato quasi soltanto il lavoro domestico e il Trentino Alto Adige con contratti di lavoro stagionali in agricoltura
Per il lavoro domestico non vigeva la verifica dell’indisponibilità dei lavoratori italiani almeno fino al 1995. Tale verifica poteva funzionare soltanto in un mercato del lavoro senza lavoro nero. In questo periodo qnd la domanda di lavoro non soddisfatta,
la legge sull’immigrazione del 1998, che non prevede più la verifica della richiesta di lavoratori e consente a un certo numero di immigrati l’ingresso per ricerca di lavoro garantito da uno sponsor che si impegna a mantenere l’immigrato sino all’assunzione o al rimpatrio entro 1 anno. La legge sull’immigrazione approvata dal governo di centro destra nel 2001 lo ha abolito.
L’incidenza degli immigrati sul totale delle assunzioni è nettamente superiore alla media europea anche in molti rami dell’industria manifatturiera. Per il lavoro manuale a metà degli anni ’90 in realtà non vi è stata una riduzione ma una sostituzione degli italiani da parte degli immigrati. I dati sulle assunzioni confermano anche che gli immigrati trovano lavoro nelle piccole imprese più spesso degli italiani.
Nelle due aree di industrializzazioni fondate sulle piccole imprese (nord-est e centro) e aLombardia, dove la domanda di lavoro domestico e terziario nella metropoli milanese si aggiunge a quella del lavoro operaio da parte delle fabbriche manifatturiere si concentra quasi il 75% delle assunzioni regolari. La quota di immigrati sul totale delle assunzioni nel 2004 va da poco più del 6% nel Mezzogiorno sino al 25% nel nord-est. E in alcune province del Veneto sono ancora più elevate.
La tendenza è simile a quella dei lavoratori italiani ma sempre su livelli inferiori. Anche dal Gran parte delle differenze retributive tra italiani e immigrati sono spiegate dalle loro diverse caratteristiche e che per chi riesce a inserirsi stabilmente le differenze retributive quasi scompaiono, naturalmente a parità di tutte le altre condizioni. Dunque in Italia per gli immigrati il problema non è solo la discriminazione salariale ma piuttosto l’accesso a posizioni regolari ad elevata qualificazione. La scarsa discriminazione retributiva degli immigrati regolarmente occupati si spiega anche con la loro elevata sindacalizzazione. Nel 2003 i sindacati dichiarano di avere un tasso di iscrizione decisamente superiore a quello degli italiani occupati nel settore privato.
Negli anni ’90 immigrano in Italia esclusivamente per lavorare come domestiche o assistenti domiciliari poi inizia un lento processo di desegregazione il cui approdo è però quasi sempre nei settori dei servizi a basso livello di qualificazione. Solo poche donne diventano operaie. Spesso il canale decisivo per una mobilità professionale è il matrimonio con un italiano.
Nel lavoro domestico finisce il predominio delle filippine per lasciare il posto alle donne dell’est, equadoregne e peruviane.
Le prime donne immigrate in Italia sono state reclutate in paesi con una forte presenza cattolica da enti ecclesiastici che avevano una vecchia tradizione come agenzie di collocamento per le domestiche italiane.
Le colf immigrate a tempo pieno alloggiano molto più spesso delle italiane presso il proprio datore di lavoro, la disponibilità dell’alloggio consente cospicue rimesse: solo così si spiega perché le donne spesso istruite possono accettare condizioni molto restrittive e servili.
La forte ripresa del lavoro domestico si spiega con la crescente partecipazione del lavoro delle donne che non è stata compensata da una più equilibrata retribuzione del lavoro familiare.
La diffusione delle badanti si deve alla combinazione tra intervento pubblico che distribuisce solo sussidi monetari alle famiglie e larga disponibilità di donne disposte a svolgere prestazioni di assistenza domiciliare in nero. Per assistenti domiciliari immigrate le retribuzioni mensili in nero sono di 800-900 euro. Sono costi che possono essere supportati anche da famiglie a reddito medio e nettamente inferiori alla rette delle residenze protette per anziani.
Ciò spiega perché le strutture residenziali per anziani si stanno riducendo anziché crescere. Le donne che si dedicano all’assistenza domiciliare provengono soprattutto dall’europa dell’est ma anche dal sudamerica e sono parecchio più anziane delle colf. Le badanti hanno di regola un progetto migratorio ben preciso limitato nel tempo: accumulare una certa quantità di denaro e rientrare al più presto.
Dai primi casi negli anni ’70 la presenza degli immigrati nell’industria manifatturiera è cresciuta. Da qualche anno cresce il numero di immigrati in posti che richiedono abilità e competenze professionali oltre che forza fisica.
Ciò che più interessa alla imprese che impiegano lavoratori immigrati è la stabilità: una manodopera in grado di reggere a lungo condizioni di lavoro pesanti, evitando il rapido turnover di giovani operai italiani
Nelle province industrializzate del centro nord, gli insediamenti degli immigrati sono ormai cospicui, ma l’inizio il percorso tipico poteva essere così standardizzato: un primo lavoro ambulante o da bracciante nelle campagne meridionali o laziali, un secondo sempre irregolare da manovale nell’edilizia o nel terziario, quindi l’approvo ad un lavoro regolare in una piccola azienda, un’impresa di pulizia, un ristorante di provincia.
Gli edili immigrati svolgono i lavori più disagiati e a più alto rischio infortunistico in tutte le regioni comprese quelle a più alto tasso di disoccupazione.
Dalla fine degli anni ’90, soprattutto nel nord est, si è diffusa una nuova forma di utilizzo degli immigrati nell’edilizia: il subappalto ad imprese dell’europa orientale, che possono inviare i propri dipendenti a lavorare nei cantieri italiani senza necessità di chiedere permessi di soggiorno per lavoro. Sino al 2000 questi lavoratori non UE potevano essere retribuiti ai livelli salariali dei paesi di origine, ma poi i margini per sfruttare legalmente le differenze nel costo del lavoro si sono ridotti.
Nel commercio, gli alberghi, nella ristorazione e negli altri rami dei servizi urbani, la presenza degli immigrati si presenta in attività manuali poco gratificanti. Le caratteristiche comuni sono la scarsa qualificazione, la richiesta di forza fisica e resistenza, orari lungi e scomodi, poche opportunità di carriera e status sociale basso.
L’utilizzo degli immigrati nell’agricoltura si è largamente diffusa fino a diventare una componente fondamentale dell’agricoltura mediterranea.
Alcuni di questi lavoratori sono pendolari: arrivano per il raccolto e ripartono per il loro paese quando finisce..
Gli immigrati reclutati sono pagati a cottimo e ricevono salari inferiori anche a quelli degli italiani irregolari che sono usati per compiti più leggeri.
Di fatto gli immigrati potevano vendere per strada grazie alla mancanza di controlli o alla tolleranza della polizia. Poiché nel 2005 le norme che vietano la vendita di beni contraffatti sono state rese più severe si attende una riduzione di questa attività.
Tra i commercianti per scelta vi sono immigrati che fungono da grossisti per gli ambulanti e/o hanno avviato reti di import/export con i paesi di origine attraverso le quali prodotti di artigianato esotico si scambiano con merci obsolete per un paese europeo ma moderne per uno arretrato. I grossisti, molti dei quali italiani, sono per lo più legali. Recentemente si sono diffusi laboratori clandestini cinesi.
Ai nuovi flussi immigratori si suole attribuire un’ampia diffusione del lavoro indipendente fin dal loro inizio. La particolare cultura di alcuni paesi di origine ha portato alla nascita di negozi etnici, dove tutti i clienti sono immigrati, alcuni immigrati rilevano attività lasciate dai nativi perché poco redditizia, alla marginalità sociale che costringe al lavoro in proprio in mancanza di alternative.
Quanto successo in Italia si spiega più con la tradizionale ipotesi del radicamento e con la regolazione della presenza degli immigrati. Fin quasi alla fine degli anni ’90 il lavoro indipendente era poco diffuso. Ciò si deve a 3 fattori:
Da quando però la legge del 1998 ha consentito a tutti gli immigrati di trasformare il permesso per motivi di lavoro, il numero dei permessi per lavoro indipendente è cresciuto molto rapidamente. Ogni 100 imprese avviate, quasi 15 hanno un titolare straniero.
Il lavoro indipendente degli immigrati si diffonde specialmente in attività artigianali e commerciali dove la durezza del lavoro e degli orari rende sempre più difficile la successione generazionale tra gli italiani. Sono tutti settori a bassa intensità di capitale e ad alta intensità di lavoro poco qualificato, che sempre più spesso devono ricorrere a lavoratori immigrati.
Per mettersi in proprio hanno potuto contare sul sostegno dei familiari, soprattutto se vi è una tradizione imprenditoriale di famiglia. Il lavoro indipendente è molto più diffuso fra egiziani e cinesi ma i motivi sono differenti.
Gli egiziani sono tra gli immigrati presenti da più tempo e hanno sempre avuto la possibilità di trasformare il permesso di soggiorno per lavoro da dipendente a indipendente.
Soltanto per i cinesi si può parlare di un orientamento culturale, in cui vocazione imprenditoriale e affidamento alle relazioni di reciprocità si rafforzano reciprocamente.
I cinesi hanno organizzato le loro attività secondo modelli chiusi, in cui si sfrutta molto intensamente il lavoro familiare e connazionale, e si ricorre a finanziamenti interni alla comunità..
La concentrazione in particolari nicchie occupazionali è il risultato paradossale dell’efficienza delle reti sociali di alcuni gruppi di immigrati, che da prima li aiutano a trovar lavoro più in fretta, ma poi rischiano di intrappolarli in queste nicchie. Reti sociali degli immigrati e stereotipi dei datori di lavoro si rafforzano reciprocamente.
Nelle metropoli si sviluppano anche le attività indipendenti degli immigrati.
Parallelamente agli immigrati occupati regolarmente crescono quelli che rimangono iscritti agli uffici di collocamento. Molti immigrati in cerca di lavoro non si iscrivono ai centri per l’impiego perché non ne conoscono l’esistenza o perché non hanno il permesso di soggiorno.
Anche per gli immigrati solo una parte degli iscritti al collocamento è effettivamente disoccupato sicché gli immigrati davvero disoccupati si riducevano a meno della metà degli iscritti. Poiché gli immigrati si muovono facilmente alla ricerca di lavoro, perciò è ragionevole stimare un tasso di disoccupazione che presenti un valore doppio di quello dei lavoratori nazionali.
La percentuale di immigrati che lavorano in modo non regolare si riduce ma resta elevata. Occorre distinguere quelli che hanno un lavoro in nero pur potendone avere uno regolare in quanto titolari di un permesso di soggiorno, da quelli che sono costretti al lavoro nero perché privi di tale permesso.
In ogni caso la percentuale di immigrati occupati in nero non è mai inferiore al 31% oltre il doppio di quella dei lavoratori italiani. Le differenze per regioni e per settori sono rilevanti.
La distinzione tra immigrati costretti al lavoro irregolare e immigrati simili ai lavoratori italiani occupati in nero presenta notevoli differenze territoriali. Nel Mezzogiorno, Piemonte e Liguria l’alto tasso di irregolarità è dovuto essenzialmente alla mancanza del permesso di soggiorno.
Nelle regioni dove più critica è la situazione per gli italiani, le occasioni di lavoro per gli immigrati sono ai livelli più bassi e vi accedono quelli più disponibili alle peggiori condizioni perché senza permesso. Al contrario, in Lombardia, nel Lazio e nell’Italia centrale la figura più comune è quella di chi lavora in nero pur avendo un permesso che gli consentirebbe di avere un lavoro regolare.
Gli immigrati sono spesso costretti ad accettare le prime occasioni di lavoro che trovano tra le quali prevalgono quelle irregolari. Per disincentivare comportamenti opportunistici la legge del 98 aveva previsto per gli immigrati la possibilità di riscattare i contributi previdenziali versati anche solo dopo pochi anni di lavoro. La Bossi-Fini del 2002 sopprimendo questa facoltà ha così favorito di fatto la complicità tra immigrati e datori di lavoro. Paradossalmente, imprenditore e famiglie possono rischiare meno, assumendo in nero un immigrato privo di permesso di soggiorno che non uno in possesso di tale permesso perché è meno probabile che un immigrato non autorizzato si rivolga agli ispettori del lavoro.
Gli immigrati sono coinvolti nel circuito vizioso che si è innescato tra crisi del welfare state e ripresa economica sommersa. Quando lo Stato si impegna a fornire poche garanzie a chi si trova in condizione di bisogno non è difficile aprire le frontiere (USA). Invece nei paesi europei dove lo Stato è impegnato a offrire una soglia minima di benessere devono preoccuparsi di accogliere solo quanti pensano di poter assistere qualora se ne presenti la necessità. Il welfare state si è sviluppato per assicurare la funzione di garanzia e sicurezza che legami familiari e comunitari non sono più in grado di offrire, la sua solidarietà universalistica fonda una nuova forma di appartenenza, quella della cittadinanza, aperta a tutti purché direttamente o indirettamente contribuiscano con il proprio lavoro all’accumulazione delle risorse da ridistribuire. I costi di solidarietà crescono senza fine e si è sempre più disposti a sostenerli solo per le persone che si conoscono da vicino e da tempo, lasciando fuori gli stranieri nonostante i loro contributi e le loro imposte siano raccolti dallo Stato.
La disponibilità di immigrati pronti a qualunque lavoro disincentiva le azioni per migliorare le condizioni delle mansioni più dequalificate e scadenti. Gli immigrati ma soprattutto le immigrate svolgono una funzione sostitutiva. Le giovani italiane non sono disposte al rapporto lavorativo che non solo richiede la coabitazione col datore di lavoro, orari molto impegnativi che richiamano un passato, non lontano, servile.
.Nell’economia sommersa meridionale ci sono due fasce: quella inferiore per guadagni e condizioni di lavoro è riservata agli immigrati, quella superiore è per i locali. Questo è l’esito di una concorrenza tra immigrati e locali oppure una segmentazione dell’offerta del lavoro irregolare. Spesso però gli immigrati hanno un ruolo complementare come nella vecchia immigrazione europea perché il loro lavoro consente l’occupazione dei lavoratori italiani in attività collegate. Gli ambulanti immigrati hanno un ruolo complementare all’interno dell’economia sommersa poiché la disponibilità di una vasta rete di distribuzione ha favorito lo sviluppo di laboratori per la produzione di oggetti di scarso pregio dove lavorano per lo più italiani.
Dalla fine degli anni 90 la domanda di lavoro immigrato raggiunge livelli altissimi a fronte delle difficoltà di reperire lavoratori italiani.. Gli immigrati soddisfano ormai per le imprese italiane fabbisogni strutturali. Contrariamente a quanto accade negli altri paesi sviluppati che fanno a gara per attirare forza lavoro ad alto livello di qualificazione;in Italia avviene il contrario
Le imprese ricorrerebbero agli immigrati pur esistendo lavoratori italiani disposti a svolgere lavori di basso livello i quali resterebbero disoccupati a causa della concorrenza degli immigrati.
In Italia vi è uno sfasamento tra domanda di lavoro che resta poco qualificata e un’offerta soprattutto giovanile sempre più istruita quindi è possibile che chi perde un’occupazione dequalificata resti più a lungo di una ricerca di un nuovo posto sperando di trovarlo più adeguato alle proprie aspirazioni.
Anche a livello regionale la relazione inversa tra presenza di immigrati e il livello di disoccupazione è andata accentuandosi nel corso del tempo. La concorrenza tra immigrati e lavoratori italiani è scarsa. La presenza di immigrati potrebbe aver causato un debole effetto di spiazzamento limitato alle regioni meridionali.
La grande disponibilità di una forza lavoro mobile come quella degli immigrati ha contribuito a ridurre la mobilità interna dal Mezzogiorno ad alta disoccupazione, verso le regioni del centro-nord.
Fonte: http://www.scienzeturismo.it/wp-content/uploads/2008/03/libro2.doc
Sito web da visitare: http://www.scienzeturismo.it/
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