Nozione e fonti del diritto del lavoro riassunto

 


 

Nozione e fonti del diritto del lavoro riassunto

 

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Nozione e fonti del diritto del lavoro riassunto

Il concetto e le classificazioni del diritto del lavoro Il diritto del lavoro, inteso in senso lato, può essere definito come l'insieme delle norme che disciplinano il rapporto di lavoro, ossia la relazione giuridica intercorrente tra il prestatore ed il datore di lavoro. Tale relazione rappresenta un rapporto giuridico complesso, avente ad oggetto tanto l'obbligo del lavoratore di prestare la propria attività e l'obbligo del datore di corrispondere la retribuzione, quanto una molteplicità di situazioni giuridiche soggettive attive e passive, facenti capo alle due parti del rapporto. Il diritto del lavoro è una disciplina giuridica relativamente nuova, sviluppatasi essenzialmente a partire dai primi anni dell'Ottocento, quando emerse con tutta evidenza la necessità di mediare le esigenze della tutela dei lavoratori con quelle della produzione. Disciplina che ha subìto un'evoluzione fortemente condizionata dalle varie fasi attraversate nella storia sociale, economica e politica del nostro Paese. Il diritto del lavoro presenta connotazioni peculiari rispetto alle altre branche del diritto, in quanto si sottrae alla partizione tradizionale - ma sempre più, oggi, contestata - del diritto nei due rami del diritto pubblico e del diritto privato. In esso, infatti, confluiscono: norme di diritto privato, poste a tutela immediata di interessi privati ed individuali; norme di diritto pubblico, impositive di obblighi legali a carico delle parti del rapporto; norme di diritto processuale, essendo stata prevista per la tutela dei diritti dei lavoratori una speciale procedura; norme di diritto sindacale, relative all'attività ed all'organizzazione delle associazioni sindacali. La dottrina tradizionale distingue nell'ambito del diritto del lavoro inteso in senso ampio: il diritto del lavoro in senso stretto, attinente alla regolamentazione dei rapporti individuali di lavoro subordinato, nonché di altri rapporti di lavoro, diversi dal lavoro subordinato, ma ritenuti parimenti meritevoli di tutela giuridica; il diritto sindacale, che disciplina l'azione e l'organizzazione delle associazioni sindacali contrapposte; il diritto della previdenza sociale, che tutela il lavoratore in presenza di specifiche situazioni di bisogno, riconoscendogli un reddito sostitutivo od integrativo di quello di lavoro. Per ciò che concerne tale ultimo complesso di norme, va segnalata, tuttavia, la sua tendenza ad inserirsi nel più ampio sistema della sicurezza sociale, volto alla liberazione di tutti i cittadini (e, dunque, non solo dei lavoratori) dai bisogni materiali e morali (MAZZIOTTI). L'oggetto principale della presente trattazione è il diritto del lavoro in senso stretto. Le fonti del diritto del lavoro: premessa Il sistema delle fonti di produzione del diritto del lavoro in senso stretto presenta aspetti di particolare complessità e problematicità, in ragione del concorso di una molteplicità di atti che, se pur dotati di un diverso grado di efficacia, hanno tutti la forza giuridica di incidere sulla regolamentazione concreta del rapporto di lavoro e di determinarla. In via di prima approssimazione, le fonti che concorrono alla produzione del diritto del lavoro possono essere suddivise nel modo che segue: fonti sovranazionali; fonti legislative; fonti contrattuali; usi. Le fonti sovranazionali Ricordato che a termini dell'art. 35, co. III, Cost., la Repubblica "promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro", occorre precisare che nel novero delle fonti sovranazionali od internazionali si distinguono due livelli di produzione normativa: l primo, relativo alla partecipazione dello Stato italiano alla Comunità internazionale degli Stati; il secondo, afferente invece alla partecipazione dello Stato italiano alle Comunità economiche europee. Con riferimento al primo livello, oltre ai vari trattati internazionali stipulati anche dall'Italia, rivestono fondamentale importanza alcuni atti ad efficacia esterna emanati dall'O.I.L. (Organizzazione internazionale del lavoro, istituzionalmente deputata a favorire il progresso delle classi lavoratrici nel mondo), e cioè: le convenzioni, strutturate in articoli, aventi natura di veri e propri atti normativi, che assumono valore di norme interne se sono rese esecutive con legge dello Stato; le raccomandazioni, prive di valore impegnativo, con cui si auspica che gli Stati destinatari si attivino per la risoluzione di un determinato problema. Con riferimento al secondo livello, va ricordato che, a differenza delle norme del diritto internazionale, quelle del diritto comunitario - che hanno assunto, specie nell'ultimo decennio, una sempre crescente importanza - possono esplicare efficacia immediata e diretta all'interno degli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Tali norme sono quelle contenute: nei regolamenti comunitari, che, ai sensi dell'art. 189, co. II, del Trattato C.E.E., hanno portata generale applicandosi a tutto il territorio comunitario ed a tutti i soggetti giuridici comunitari; nelle direttive comunitarie, che, a norma del co. III dell'art. 189 del Trattato istitutivo della C.E.E., vincolano lo Stato membro cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma ed ai mezzi.

Le fonti legislative In materia di diritto del lavoro, le fonti legislative sono le seguenti: la Costituzione, che si pone all'apice della gerarchia delle fonti; le leggi ordinarie e gli altri atti aventi forza di legge, collocati in posizione subordinata rispetto alla Costituzione; i regolamenti di attuazione o di esecuzione degli atti summenzionati, emanati nella forma del decreto del Presidente della Repubblica dal Governo, ovvero dai ministri con proprio decreto, ovvero da altre autorità ove ciò sia previsto. Tali regolamenti non possono modificare le leggi e gli altri atti aventi forza di legge, né derogare ad essi. La Costituzione La nostra Carta costituzionale, definita da taluno "lavoristica" (MAZZIOTTI), considera il rapporto di lavoro come il più importante rapporto interprivato. Prova ne è che nella grande area delle garanzie costituzionali attinenti ai rapporti tra privati, le garanzie relative al rapporto di lavoro sono di gran lunga prevalenti (GHERA). Il rilievo dato dalla Costituzione al lavoro si evince, innanzitutto, dall'art. 1, co. I, ai sensi del quale "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro". Nonostante qualche autorevole opinione contraria, sembra doversi ritenere che, nel contesto di tale disposizione, il termine lavoro assuma un significato ampio, tale da comprendere cioè non solo il lavoro salariato, ma ogni altra attività, anche imprenditoriale. Vengono, quindi, dettati in altre norme costituzionali, altri princìpi fondamentali volti a rendere più concreta la disposizione di cui all'art. 1, co. I. In realtà, è necessario distinguere in proposito le norme della Costituzione sociale dalle norme della Costituzione economica. Infatti, come osserva Ghera, "la tutela del soggetto contraente debole rappresenta indubbiamente la finalità delle norme dettate dalla Costituzione in materia di lavoro, ma non si tratta più di una finalità esclusiva: si aggiunge, infatti, ad essa la finalità ulteriore e più ampia della garanzia dei diritti sociali. Al tradizionale obiettivo della tutela della posizione contrattuale debole si affianca perciò l'obiettivo della tutela della libertà e dignità sociale del lavoratore". Gli articoli della Costituzione sociale che vengono in rilievo sono: l'art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità: tale disposizione, da un lato, ha contribuito all'ampiamento della categoria dei diritti civili dei lavoratori e, dall'altro, ha conferito efficacia interprivata alle libertà fondamentali (MAZZIOTTI); l'art. 3, che sancisce il principio dell'eguaglianza giuridica e, dunque, implicitamente, il divieto, per il legislatore, di discriminazione fra lavoratori (essendo il principio di eguaglianza non meramente formale, ma sostanziale, saranno chiaramente consentiti trattamenti differenziati in presenza di situazioni diverse); l'art. 4, che al co. I statuisce che "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro", tipico diritto sociale, ossia finalizzato all'eliminazione delle diseguaglianze sostanziali; e al co. II sancisce il dovere di svolgere un'attività o una funzione che contribuiscano al progresso materiale o spirituale delle società, dovere non sanzionabile penalmente stante l'inammissibilità nel nostro ordinamento del lavoro coatto. Gli articoli della Costituzione economica relativi alla materia del lavoro sono: l'art. 35, che dispone che la Repubblica tutela il lavoro (in tutte le sue forme ed applicazioni), la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori, promuove gli accordi e le organizzazioni internazionali volti ad affermare i diritti dei lavoratori, riconosce la libertà di emigrazione; l'art. 36, che enuncia il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata e sufficiente nonché il diritto irrinunciabile al riposo settimanale ed alle ferie, ponendo altresì il principio che la durata massima della giornata lavorativa deve essere stabilita con legge; l'art. 37, relativo al lavoro femminile ed al lavoro minorile, che stabilisce, tra l'altro, che alla donna lavoratrice spetta, a parità di lavoro, parità di retribuzione rispetto ai lavoratori maschi; l'art. 38, in cui è prefigurato l'intervento assistenziale nonché quello previdenziale a favore dei lavoratori subordinati "in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria"; l'art. 39, che tratta della libertà sindacale, del sindacato riconosciuto e del contratto collettivo; l'art. 40, a norma del quale "Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano". I codici Nell'ambito delle leggi ordinarie, una posizione preminente, quale fonte del diritto del lavoro, spetta al Codice Civile ed in particolare al suo libro V che reca l'intestazione "Del lavoro". Va, però, precisato, al riguardo, che non tutte le norme in esso contenute afferiscono alla materia del lavoro, così come, per converso, molte norme appartenenti al diritto del lavoro sono contenute in altri libri del codice. Di più, alcune speciali figure di contratti di lavoro ed alcune categorie di prestatori di lavoro rinvengono la loro disciplina nel codice della navigazione. Sempre con riguardo ai codici, va rammentato che il codice di procedura civile conteneva le norme relative alle controversie in materia di lavoro; ma tali norme sono state integralmente riformate con la L. 11 agosto 1973, n. 533. Gli altri atti aventi forza di legge Per legge deve intendersi anche ogni altro atto avente forza di legge, e quindi: i decreti legislativi, di cui agli artt. 76 e 77, co. I, Cost., che hanno trovato ampia applicazione in materia di lavoro, soprattutto in virtù della legge delega 14 luglio 1959, n. 741, che autorizzò il Governo a recepire, appunto con decreto legislativo, in via transitoria, i contratti collettivi fino a quel momento stipulati per conferire ai medesimi efficacia generale; i decreti-legge, di cui all'art. 77, co. II e III, Cost, che hanno conosciuto una notevole diffusione negli ultimi tempi (si pensi, ad esempio ai decreti-legge sul costo della forza lavoro). leggi speciali Numerosissime sono le c.d. leggi speciali volte a tutelare il lavoratore, non solo in quanto contraente debole, ma anche nella sua qualità di soggetto che impegna la propria persona nel rapporto di lavoro, ricavandone un reddito che costituisce, nella maggior parte dei casi, la sua unica fonte di sostentamento. Nella più recente legislazione si registra la tendenza a tutelare, oltre all'integrità fisica del lavoratore, anche l'integrità morale dello stesso. Si citano qui soltanto alcune delle più importanti leggi speciali, e cioè: la L. 15/7/1966, n. 604, modificata ed integrata dalla L. 11/5/1990, n. 108; la L. 20/5/1970, n. 300, universalmente nota come Statuto dei lavoratori; la L. 11/8/1973, n. 533; la L. 23/7/1991, n. 223. Le fonti contrattuali Non tutta la disciplina relativa alla materia del lavoro è contenuta nel codice o nelle leggi integratrici - pure numerose - o, ancora, nei decreti-legge e nei decreti legislativi emanati dal Governo. Altra regolamentazione, che si aggiunge a quella generale, può essere rinvenuta: nel contratto collettivo, che la migliore dottrina definisce come il contratto stipulato tra il sindacato dei lavoratori e l'associazione sindacale degli imprenditori, a livello interconfederale, o di categoria, o aziendale, al fine di stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro a cui dovranno uniformarsi i singoli contratti individuali; e nel contratto individuale, consistente nell'accordo raggiunto direttamente tra singolo lavoratore e singolo datore. Il contratto collettivo viene stipulato a più livelli. Esso può essere: confederale: è tale il contratto che viene stipulato tra le confederazioni nazionali che rappresentano interi rami delle attività economiche, e che è relativo ad istituti di generale applicazione; nazionale di categoria: si tratta del contratto stipulato tra le organizzazioni sindacali di categoria, che detta la disciplina generale delle condizioni minime di trattamento della forza-lavoro; aziendale: stipulato anche direttamente da parte del datore e, per i lavoratori, anche dal solo organismo sindacale aziendale, che detta la disciplina delle condizioni di trattamento dei dipendenti all'interno dell'azienda. Nelle ipotesi in cui i contratti di diverso livello predispongano discipline in contrasto fra loro, il criterio risolutore del conflitto deve essere individuato, per la dottrina e la giurisprudenza dominanti, nel criterio della specialità, ossia nella preferenza accordata alla disciplina speciale rispetto a quella generale. Per quanto concerne i rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale va detto che essi sono strettamente regolati, nel nostro ordinamento, dal meccanismo dell'inderogabilità in peius di natura reale; è invece possibile che il contratto individuale si discosti dal contratto collettivo derogandolo in melius. Tuttavia, in tema di fonti del diritto del lavoro, l'argomento di maggior interesse è quello del rapporto tra la legge e contrattazione collettiva. Tra tali fonti possono stabilirsi tre forme di relazione funzionale: una funzione ordinaria del contratto collettivo di applicazione e specificazione dei princìpi posti dalla legge; una funzione di disciplina del contratto collettivo, in virtù di espressa previsione legislativa; una funzione derogatoria del contratto collettivo, abilitato da specifica previsione legislativa a dettare una disciplina difforme da quella posta con legge. Gli usi L'uso è costituito da un comportamento costante ed uniforme, dal ripetersi cioè di un dato comportamento nel tempo ("diuturnitas"), accompagnato dalla convinzione della conformità al diritto e della necessità giuridica del comportamento stesso ("opinio iuris ac necessitatis"). Nella loro qualità di fonti del diritto del lavoro, gli usi assumono una valenza peculiare. Essi sono sempre dispositivi in quanto si applicano, di regola, solo in mancanza di disposizioni di legge o di contratto collettivo e non possono derogare la disciplina del contratto collettivo né prevalere su quella del contratto individuale. Tuttavia, essi, se più favorevoli al prestatore, prevalgono - è questa la deroga, contenuta nell'art. 2078, c.c., alla regola generale sancita dall'art. 8, preleggi - sulle norme dispositive di legge. Da tale categoria di usi - i c.d. usi normativi - va tenuta distinta quella degli usi aziendali, che esplicano la loro efficacia nell'ambito, non della comunità generale, ma di una singola unità produttiva. Gli usi aziendali non hanno valore di norma inderogabile e, secondo la giurisprudenza, possono essere esclusi dalle parti, ancorché solo al momento della stipulazione del contratto individuale. Il rapporto di lavoro subordinato, autonomo e parasubordinato La dottrina tradizionale considerava il rapporto di lavoro subordinato nel settore privato l'oggetto esclusivo del diritto del lavoro in senso stretto. Di tale branca del diritto si registra, invece, oggi una tendenza espansiva; la tendenza cioè a regolamentare anche altri rapporti di lavoro, diversi da quello dipendente, ma ritenuti parimenti meritevoli di tutela giuridica. Ciò detto, si pone innanzitutto il problema dell'individuazione dei caratteri costitutivi del rapporto di lavoro subordinato (c.d. "locatio operarum"), di quello autonomo (c.d. "locatio operis" o contratto d'opera) e di quello parasubordinato. La distinzione tra questi diversi tipi di rapporto non è questione di poco momento: basti pensare, a titolo esemplificativo, che la disciplina particolarmente favorevole dettata in tema di recesso del datore di lavoro ovvero di previdenza ed assistenza si applica, in linea di principio, al solo rapporto di lavoro subordinato. Nella presente trattazione si partirà proprio da quest'ultimo, che comunque resta a tutt'oggi il principale centro d'imputazione del diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato L'art. 2094, c.c., riferendosi al rapporto di lavoro alle dipendenze di un'impresa, definisce il prestatore di lavoro subordinato come colui che "si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore". Per i rapporti di lavoro con datori non imprenditori provvede l'art. 2239, c.c., che dispone l'applicabilità anche a questi ultimi della normativa del lavoro nell'impresa, in quanto compatibile con la specialità del rapporto. Sulla base del dettato dell'art. 2094, c.c., gli elementi di qualificazione del lavoro subordinato vengono individuati nella subordinazione e nella collaborazione del prestatore. La subordinazione La subordinazione rappresenta l'elemento qualificante del rapporto di lavoro in oggetto, indipendentemente dal luogo in cui questo si svolge, e ciò in quanto esso implica per definizione una prestazione non autonoma, ma svolta alle dipendenze e sotto la direzione del datore o di chi per lui. Il grado di subordinazione effettiva varia, riducendosi via via che si passa dal lavoro meno qualificato alle prestazioni di alta specializzazione: questa, però, è solo un'implicazione di fatto, non conferente sul piano giuridico-formale. La subordinazione del lavoratore presenta i seguenti caratteri: - è tecnica e funzionale, cioè determinata dalla prestazione ed a questa collegata; - è personale, in quanto investe la personalità stessa del prestatore, assoggettato perciò al potere direttivo e disciplinare del datore e dei collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende; - è patrimoniale, avendo origine contrattuale e ricollegandosi alla retribuzione; - è costante, poiché variano solo, in relazione alle mansioni a ciascuno attribuite, i limiti della subordinazione. Come osserva la dottrina prevalente (SANTORO, PASSARELLI, PERA), la subordinazione è una notazione non meramente economica - da intendere cioè in termini di inferiorità socio-economica e, dunque, di condizione sociale -, ma propriamente giuridica - imposta cioè dalla normativa del codice. Essa comporta, infatti, che l'osservanza delle disposizioni a cui è tenuto il prestatore sia garantita dalle sanzioni che colpiscono le infrazioni del lavoratore, così come anche gli abusi del datore. Proprio perché nel rapporto di lavoro di cui trattasi il prestatore si mette a disposizione del datore per svolgere l'attività dedotta nel contratto, i rischi connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa gravano sul datore. Più precisamente, su quest'ultimo gravano il rischio economico e la responsabilità verso i terzi per i danni causati dai dipendenti, mentre è coperto per legge da assicurazioni sociali obbligatorie il rischio dell'inabilità al lavoro e ricadono sugli istituti di assistenza e previdenza obbligatori - e solo indirettamente sul datore - i rischi per gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali. La collaborazione Venendo all'altro carattere costitutivo del rapporto di lavoro subordinato, e cioè la collaborazione, va rilevato che autorevole dottrina ritiene che il riferimento ad essa, contenuto nell'art. 2094, c.c., sia da considerare quale "omaggio ideologico" alle tesi dominanti all'epoca dell'emanazione del codice. Secondo tali tesi, l'ordinamento del rapporto di lavoro doveva essere proiettato al superamento del conflitto tra le classi sociali; conflitto inconciliabile con il sistema corporativo di disciplina dei rapporti di produzione (GHERA). Tuttavia, l'elemento della collaborazione può ritenersi ancora oggi attuale se inteso come descrittivo, per così dire, del fenomeno della partecipazione di un soggetto all'attività lavorativa di un altro soggetto. Più in dettaglio, si ritiene che la collaborazione si specifichi: - nella continuità ideale della disponibilità delle energie lavorative, intellettuali o manuali, poste al servizio del datore; - nell'inserimento del lavoratore all'interno dell'organizzazione produttiva. Anche il grado di collaborazione effettiva, come quello di subordinazione, varia col variare dell'intensità del vincolo che lega il prestatore al datore. Gli indici della sussistenza della subordinazione Se è vero che quelli di cui si è appena detto sono i caratteri costitutivi del rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che non sempre nel caso concreto è facile stabilire se un determinato rapporto di lavoro partecipi oppure no di tali caratteri. L'elemento della subordinazione, in particolare, non sempre può agevolmente apprezzarsi. Tale difficoltà ha dato vita ad un nutrito contenzioso che ha portato la giurisprudenza ad individuare determinate circostanze di fatto, ricavate per massima d'esperienza dalla realtà sociale, da considerarsi come indici o spie della sussistenza dell'elemento della subordinazione. Se ne menzionano alcune, e cioè: - il luogo della prestazione, sempre che il lavoratore si rechi a lavorare nei locali apprestati dal datore; - la predeterminazione dell'orario di lavoro; - l'inserimento del prestatore nell'organizzazione produttiva; - l'incidenza del rischio sul datore di lavoro. Si sottolinea, però, che nessuno di tali criteri - e degli altri che pure sono stati individuati dalla giurisprudenza - è decisivo ai fini dell'esatta qualificazione del rapporto di lavoro, essendo la stessa sempre rimessa alla prudente valutazione del giudice. Il rapporto di lavoro autonomo Ai sensi dell'art. 2222, c.c., si ha lavoro autonomo o "locatio operis" o contratto d'opera "quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente". Come si evince dalla lettura di tale norma, nel rapporto di lavoro autonomo, l'oggetto della prestazione è rappresentato dall'"opus perfectum", ossia dal risultato finale dell'attività organizzata dallo stesso prestatore; risultato che potrà essere ovviamente assai diverso a seconda della specifica natura dell'opera o del servizio il cui compimento è dedotto in obbligazione. Dunque, il lavoratore autonomo si trova in una posizione di autonomia, essendo rimessa alla sua piena discrezionalità la scelta circa le modalità, il luogo ed il tempo di organizzazione della propria attività e ricadendo completamente su di lui il rischio inerente all'esercizio dell'attività lavorativa (salva l'ipotesi di cui all'art. 2228, c.c.). Tale posizione di autonomia rappresenta l'elemento che differenzia il lavoratore autonomo dal lavoratore dipendente, che si trova, al contrario, in una posizione di subordinazione, dovendo prestare il proprio lavoro secondo le direttive, la vigilanza ed il controllo del datore sul quale incide il rischio connesso allo svolgimento dell'attività lavorativa. Ancora, nel rapporto di lavoro dipendente oggetto della prestazione non è il risultato, ma le "operae" (pertanto si parla di "locatio operarum"), ossia le energie lavorative che il datore impiega per conseguire un risultato utile a proprio rischio. La giurisprudenza ha anche chiarito che nel caso di contemporanea sussistenza di rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo va applicata la disciplina del rapporto i cui caratteri assumono prevalente rilevanza qualitativa e quantitativa. Il rapporto di lavoro parasubordinato Il rapporto di lavoro parasubordinato può essere definito come quel rapporto che, a prescindere dalla sua formale ed incontestata autonomia, si caratterizza, oltre che per la continuità, per il carattere strettamente personale della prestazione, integrata dall'impresa e da questa coordinata (PERA). Quindi, tale rapporto di lavoro è caratterizzato dalla: - continuatività, nel senso che esso - se pure eventualmente fondato su più contratti - deve avere stabilità e durata nel tempo (restano escluse le prestazioni uniche ed occasionali); - coordinazione, che comporta l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione predisposta dal datore, il collegamento con i fini da questo perseguiti e - compatibilmente con l'autonomia professionale del lavoratore - la sottoposizione all'ingerenza ed alle direttive del datore stesso; - personalità della prestazione, che deve prevalere sull'aspetto imprenditoriale, tenuto conto del numero dei collaboratori, dell'entità dei capitali impiegati e del giro d'affari del lavoratore parasubordinato. Del rapporto di lavoro in oggetto manca, allo stato attuale, una regolamentazione sostanziale diretta e protettiva. Tuttavia, la considerazione della posizione di inferiorità socio-economica in cui versa il lavoratore rispetto al committente, ha indotto il legislatore ad estendere, con la L. 11 agosto 1973, n. 533, la disciplina delle controversie individuali di lavoro anche ai "rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d'opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato". Le forme tipiche di rapporto parasubordinato sono dunque: - l'agenzia, che, ai sensi dell'art. 1742, c.c., è il contratto con il quale "una parte assume stabilmente l'incarico di promuovere, per conto dell'altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti di una zona determinata"; - la rappresentanza, che, in conformità con l'art. 1752, c.c., ricorre quando all'agente è conferita dal preponente la rappresentanza per la conclusione dei contratti. La giurisprudenza ha, poi, ritenuto che rientrino, tra gli altri, nello schema del rapporto di lavoro parasubordinato: - il contratto di scrittura artistica, purché avente ad oggetto l'effettuazione periodica di prestazioni; - l'attività del procacciatore di affari, svolta mediante prestazioni a carattere personale ripetute per un apprezzabile lasso di tempo e coordinate con l'organizzazione ed i fini perseguiti dal preponente; - l'attività di consulenza, purché le parti ne concordino lo svolgimento per un periodo apprezzabilmente lungo ed in relazione ad una serie di incarichi. Il contratto di lavoro Il problema della fonte del rapporto di lavoro: il prevalere delle tesi contrattualistiche e la configurazione del contratto di lavoro come contratto di scambio Una delle questioni più dibattute dalla dottrina giuslavoristica è quella concernente l'origine contrattuale oppure no del rapporto di lavoro. Si possono distinguere, al riguardo, due diversi orientamenti di pensiero, in quanto: - da un lato, vengono sostenute tesi che possono essere definite acontrattualistiche, perché, pur nella varietà delle ricostruzioni e delle argomentazioni addotte, negano che la disciplina del rapporto di lavoro debba essere costruita in chiave contrattuale; - dall'altro, si propugnano tesi cosiddette contrattualistiche perché muovono dall'opposto rilievo che il rapporto di lavoro derivi necessariamente dal contratto, benché di quest'ultimo il Codice Civile non dia alcuna definizione, limitandosi alla disciplina del rapporto. Nell'ambito del primo orientamento, discorrendo in termini sintetici, possono ulteriormente distinguersi: - la teoria istituzionalistica, che - configurando l'azienda quale comunità necessaria di cui, sia pure con ruoli diversi, fanno parte tanto il datore che il lavoratore, legati dall'identico sentimento di appartenenza - esclude che il rapporto di lavoro abbia natura contrattuale in quanto in esso è fortemente limitata l'autonomia negoziale del prestatore, autonomia di cui il contratto è invece la massima espressione; - la teoria della prestazione di fatto, propugnata da quanti, facendo leva sull'art. 2126, co. I, C.C. ("La nullità o l'annullamento del contratto non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione..."), sostengono che il rapporto di lavoro trae origine dalla materialità della prestazione di fatto, svincolata cioè da una fonte contrattuale. In altri termini, se i normali effetti del rapporto di lavoro subordinato si producono come conseguenza dell'esecuzione della prestazione, nonostante la nullità o l'annullamento del contratto, si deve ammettere che fonte del rapporto è non il contratto, ma la prestazione di fatto. Le teorie suesposte sono però generalmente respinte dalla dottrina dominante che, seguita anche dalla giurisprudenza, si fa portatrice di concezioni contrattualistiche, individuando la fonte del rapporto di lavoro nel contratto ed osservando: - con riferimento alla tesi istituzionalistica, che i limiti dell'autonomia negoziale nella disciplina del rapporto non escludono la libertà di consenso al momento della sua costituzione. L'accordo delle parti resta pur sempre la fonte del rapporto, anche se esso non ne costituisce la fonte esclusiva, bensì una fonte concorrente con le norme legislative e le norme contrattuali; - con riferimento alla tesi della prestazione di fatto, che proprio dalla lettura dell'art. 2126, co. I, c.c., si evince che l'ordinamento ricollega la costituzione del rapporto individuale di lavoro all'esistenza di un titolo contrattuale, anche se nullo o annullabile. Difatti, la norma sopracitata, riconoscendo effetti al contratto nullo od annullabile, implicitamente conferisce rilevanza al contratto come fattispecie produttiva degli effetti stessi. Una volta accolta la tesi contrattualistica, sorge però il problema di individuare la natura giuridica del contratto di lavoro. Questo viene di volta in volta configurato in vario modo, cioè a dire: - ora come contratto associativo, nel senso che realizza una comunione di scopo tra le parti (datore e prestatore) in vista del perseguimento di un interesse comune ad entrambe (in primo luogo, l'interesse comune alla prosperità dell'impresa); - ora come contratto di adesione, le cui clausole sono predisposte unilateralmente dal datore, essendo il lavoratore solo libero di aderire o meno; - ora, infine, come contratto di scambio, caratterizzato dalla sussistenza di reciproche posizioni di supremazia e di soggezione delle parti. Quest'ultima concezione è quella seguita dalla dottrina più accreditata, che, tuttavia, incontra il problema ulteriore dell'inquadramento del contratto di lavoro negli altri contratti di scambio. Un primo tentativo di risoluzione della questione si sviluppa nel senso di ricondurre il contratto alla compravendita, attribuendo alle energie lavorative la natura di beni immateriali che si staccano dalla persona del prestatore e che costituiscono, dunque, l'oggetto dello scambio. Tuttavia, in senso critico, è facile porre in evidenza l'impossibilità di scindere le energie dalla persona del lavoratore; impossibilità da cui deriva, a voler accogliere la concezione in discorso, la conseguenza di ritenere il lavoratore oggetto del contratto, con un'inaccettabile lesione della sua dignità. Pertanto, è preferibile fare ricorso allo schema classico della "locatio operarum", effettuando, però, un distacco di tale figura dalla categoria generale della locazione, il cui elemento essenziale consiste sempre in un dare. La "locatio operarum" ha, invece, come contenuto un facere, cioè l'obbligo del lavoratore di prestare la propria opera al servizio del datore. Così, il contratto di lavoro può, finalmente, essere definito come un contratto di scambio con il quale il prestatore si obbliga a mettere a disposizione dell'imprenditore, o altro datore, la sua attività, e questi si obbliga a corrispondere al prestatore di lavoro una retribuzione (SANTORO PASSARELLI). La struttura del contratto di lavoro Il contratto di lavoro è: - a titolo oneroso, essendo necessaria l'esistenza della retribuzione; - sinallagmatico (o a prestazioni corrispettive), in quanto le attribuzioni patrimoniali rispettivamente a carico di ciascuna parte ed a vantaggio della controparte sono legate dal cosiddetto nesso di reciprocità o sinallagma; - commutativo, perché l'entità delle prestazioni e delle controprestazioni è stabilita in maniera certa dalla legge e dai contratti collettivi; - consensuale, perfezionandosi con il semplice consenso o accordo delle parti; - di durata, in quanto la prestazione continua nel tempo; - a forma libera. I presupposti del contratto di lavoro Fra i presupposti del contratto di lavoro riveste particolare importanza la capacità dei soggetti stipulanti, ossia: - la capacità giuridica, che è l'attitudine di un soggetto ad essere titolare di diritti e doveri, che per le persone fisiche si acquista con la nascita; - la capacità di agire, cioè l'idoneità del soggetto ad acquistare e ad esercitare da solo, con il proprio volere, i diritti soggettivi e ad assumere obblighi; essa si acquista col compimento della maggiore età, salvo i casi per i quali sia eccezionalmente stabilita un'età diversa. In materia di lavoro, è opportuno distinguere la capacità del datore da quella del prestatore. La capacità giuridica e di agire del datore Al datore si applicano le norme dettate per la generalità dei soggetti in tema di capacità giuridica e di agire. Una disciplina sotto alcuni aspetti particolare vige, però, se il datore è un imprenditore, posto che in tal caso incombono su di lui alcuni obblighi e limiti, determinati dall'esigenza di tutela del lavoratore subordinato alle dipendenze dell'impresa, soprattutto media o grande. La qualità di imprenditore del datore assume rilevanza anche sotto il profilo della c.d. spersonalizzazione dell'imprenditore agli effetti della formazione e conclusione del contratto nonché della successione nello stesso. Sotto il primo aspetto, in omaggio al principio della continuità dell'impresa, si applica al lavoro subordinato l'art. 1330, c.c., ai sensi del quale la proposta o l'accettazione provenienti da un imprenditore restano ferme anche in caso di morte o di sopravvenuta incapacità prima della conclusione del contratto. Sotto il secondo aspetto, l'art. 2112, c.c., dispone che "in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con l'acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano": da tale norma si desume agevolmente il principio della normale irrilevanza della persona dell'imprenditore ai fini della successione anche mortis causa nel contratto di lavoro. La capacità giuridica e di agire del lavoratore Al lavoratore si applicano tutte le regole generalmente dettate per la capacità giuridica e di agire delle persone fisiche, in quanto, in ragione dell'implicazione delle energie del lavoratore nella prestazione, solo le persone fisiche sono capaci di prestare il proprio lavoro e di agire al riguardo ponendo in essere i relativi negozi. Una parte della dottrina afferma l'esistenza, in materia di lavoro, di una capacità giuridica speciale, stante la vigenza di una disciplina particolare che - salve le disposizioni di legge che stabiliscono età minime inferiori o superiori - fissa l'età minima di ammissione al lavoro a quindici anni. Il che, come si vede, costituisce una deroga al principio di cui all'art. 1, c.c., che sancisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita. Con riguardo alla capacità di agire, va detto che l'art. 2, c.c., dopo aver ribadito, al co. I, che con il compimento della maggiore età (18 anni) si acquista la capacità di porre in essere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un'età diversa, fa salve, con il co. II, le leggi speciali che stabiliscono un'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro, statuendo che "in tal caso il minore è abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro". Dunque, vi è coincidenza tra la capacità giuridica, i.e. l'idoneità ad essere parte di un rapporto di lavoro, e la capacità al lavoro, ossia l'attitudine a prestare il proprio lavoro. In virtù di tale coincidenza tra capacità giuridica e capacità di agire in anticipazione rispetto alla regola generale, non vi è più spazio - secondo la dottrina maggioritaria - per l'intervento del genitore ovvero di qualunque altro rappresentante legale (nemmeno a titolo di semplice assistenza) nella stipulazione del contratto. Restano salvi, comunque, i casi in cui questo intervento sia espressamente previsto da norme speciali. A parte l'illiceità e, dunque, la nullità dei negozi contrari alle norme imperative di cui si è fin qui discorso, è prevista l'irrogazione di sanzioni penali per i datori che vi contravvengono e per i soggetti rivestiti di autorità o incaricati della vigilanza sui minori cui le violazioni si riferiscono. Le documentazioni relative al lavoratore: il libretto di lavoro Sotto l'aspetto della capacità giuridica del lavoratore possono essere considerate anche alcune documentazioni relative alla sua persona, poiché esse condizionano la validità o quantomeno la regolarità della conclusione del contratto. Rientrano nella categoria di cui trattasi le iscrizioni dei prestatori in albi, registri, liste, ecc., richieste ai fini del collocamento e dell'assunzione. In tale contesto, qualche cenno va riservato alla disciplina generale del libretto personale di lavoro, contenuta nella L. 112/1935. Il libretto è obbligatorio per quasi tutti i prestatori di lavoro. Esso contiene una serie di indicazioni relative al prestatore, alcune delle quali provenienti dal sindaco (contro le quali è sempre ammessa la prova contraria); altre provenienti da ogni singolo datore di lavoro (contro le quali è ammesso anche il ricorso del lavoratore all'Ispettorato del lavoro per la rettifica). Il libretto rimane, per tutto il periodo di occupazione, presso il datore di lavoro, che, ove commetta abusi, è passibile di sanzioni penali. Nei casi in cui è esclusa l'obbligatorietà del libretto, è previsto il rilascio, da parte del datore, all'atto della cessazione del rapporto di lavoro o del tirocinio, di un attestato del lavoro o del tirocinio compiuto e della sua durata. Gli elementi essenziali del contratto di lavoro: l'accordo delle parti Il contratto di lavoro è un contratto consensuale, che si perfeziona con l'incontro delle volontà espresse dalle parti. Come è stato osservato (GHERA), nella formazione del contratto di lavoro, la disciplina generale del contratto dettata dal Codice Civile si applica con alcuni rilevanti caratteri di specialità, a causa dei numerosi limiti imposti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, che restringono in misura notevole il margine dell'autonomia privata. L'efficacia di tali limiti è particolarmente penetrante e si attua per mezzo del meccanismo dell'inserzione automatica di clausole (art. 1339, c.c.), e della sostituzione di diritto delle clausole difformi del contratto individuale (art. 1419, c.c.). Tuttavia, essa, incidendo solo sul piano della libera determinazione del contenuto del contratto, non esclude l'origine contrattuale del rapporto di lavoro e, in secondo luogo, non inficia la natura del contratto di lavoro che è e resta, come si è detto, un contratto consensuale. La causa La causa del contratto di lavoro deve essere individuata nello scambio tra lavoro e retribuzione, scambio vincolato alla reciprocità per cui l'obbligazione e la prestazione di una parte sono in funzione dell'obbligazione e della prestazione dell'altra (SANTORO PASSARELLI). Dalla causa vanno tenuti distinti i motivi, che sono i particolari interessi o bisogni che rappresentano lo scopo concreto che, tramite gli effetti del negozio, le parti intendono raggiungere. Essi sono, di regola, giuridicamente irrilevanti, a meno che le parti si siano determinate a concludere il contratto esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe, nel qual caso il contratto è illecito (art. 1345, c.c.). L'oggetto Secondo la dottrina dominante, l'oggetto del contratto di lavoro è rappresentato sia dalla prestazione lavorativa sia dalla retribuzione. I requisiti che esso deve possedere sono quelli richiesti dall'art. 1346, c.c., per il contratto in generale, ossia: - la liceità: l'oggetto non deve essere contrario a norme imperative, all'ordine pubblico ed al buon costume; - la possibilità: al riguardo si distingue tra impossibilità di fatto ed impossibilità giuridica (numerose norme mitigano, comunque, mediante la previsione della sospensione del rapporto, gli effetti di una sopravvenuta impossibilità temporanea del datore di lavoro a ricevere la prestazione o del lavoratore ad eseguirla); - la determinatezza o la determinabilità, alla quale concorrono i contratti collettivi e gli usi (si ricorda che questi ultimi hanno natura negoziale e prevalgono sulle norme dispositive di legge solo quando dettano regole in senso più favorevole al lavoratore). La forma Il contratto di lavoro è un contratto a forma libera. Al principio della libertà della forma, tuttavia, si deroga in tutte le ipotesi in cui particolari patti, ovvero gli elementi accidentali del contratto, costituiscano clausole negoziali sfavorevoli al prestatore. Così devono risultare a pena di nullità da atto scritto: - il patto di non concorrenza, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto, con il quale il lavoratore si obbliga a non svolgere attività professionali in concorrenza con il precedente datore; - l'apposizione del termine, che deve essere altresì giustificata dalla specialità del rapporto; - la determinazione del periodo di prova. Al principio della libertà della forma si deroga anche per determinati tipi di contratti di lavoro, tra cui si ricordano: - il contratto di arruolamento marittimo, che richiede la forma dell'atto pubblico; - il contratto di formazione e lavoro; - il contratto a tempo parziale. Ipotesi a sé stante è, poi, quella rappresentata dal contratto di lavoro a tempo determinato del personale di volo, per il quale è richiesta, sì, la forma scritta, ma non ad substantiam, bensì ad probationem, cioè ai soli fini probatori. Gli elementi accidentali del contratto Gli elementi accidentali del contratto sono quegli elementi che le parti sono libere di apporre o meno, ma che una volta apposti incidono sull'efficacia del contratto stesso. Essi possono essere inseriti anche nel contratto di lavoro: nella pratica, ricorrente è soprattutto l'apposizione della condizione e del termine. La condizione ed il patto di prova La condizione - che è un avvenimento futuro ed incerto dal quale le parti fanno dipendere la produzione degli effetti del contratto, cui la condizione è opposta, ovvero l'eliminazione degli effetti già prodotti dal contratto - può inerire in maniera esplicita od implicita al contratto di lavoro, e può essere: - sospensiva, se da essa dipende la produzione degli effetti del contratto di lavoro; - risolutiva, se da essa dipende l'eliminazione degli effetti già prodotti; qualora essa tenda, però, all'elusione delle norme limitative del licenziamento, è da ritenersi illecita. Si osservano i princìpi civilistici con una particolarità: la retroattività della condizione sospensiva non può risalire oltre l'effettivo inizio della prestazione di lavoro; la retroattività della condizione risolutiva è sicuramente esclusa per l'impossibilità di restituzione delle prestazioni di lavoro già eseguite. Una parte della dottrina (GHERA, MAZZIOTTI) configura, quale particolare forma di condizione, il patto di prova, cioè la clausola scritta inserita nel contratto di lavoro, con la quale le parti subordinano la definitiva assunzione all'esperimento positivo di un periodo di prova (art. 2096, c.c.). Si è detto che il patto di prova è una clausola scritta: esso, infatti, deve risultare da atto scritto contenente l'indicazione della durata della prova: in mancanza, l'assunzione del lavoratore si considera definitiva. Poiché la prova è evidentemente uno strumento predisposto più nell'interesse del datore che del prestatore, la legge fissa il limite massimo di sei mesi per la sua durata. L'art. 2096, co. III, c.c., regola il recesso dal periodo di prova, stabilendo che "ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine". Con riguardo al recesso, la Corte costituzionale, con la sent. 16/12/1980, n. 189, ha chiarito che esso non può essere immotivato, ma deve trovare la sua ragione nell'esito negativo della prova: è, dunque, illegittimo il licenziamento in periodo di prova se non è stato concretamente consentito al lavoratore di dimostrare le sue qualità professionali. Se poi l'esperimento dà esito positivo, il periodo di prova si trasforma nel rapporto di lavoro subordinato vero e proprio. Se, invece, l'esperimento dà esito negativo, il datore è obbligato a corrispondere al prestatore il trattamento di fine rapporto e le ferie retribuite o la relativa indennità sostitutiva, nonché ogni altro emolumento previsto per il lavoratore che non sia incompatibile con la particolare natura del periodo di prova. Il termine ed il contratto a tempo determinato Al paragrafo II si è detto che il contratto di lavoro è un contratto di durata. Ad esso, tuttavia, può anche essere apposto un termine finale. Lo sfavore del nostro ordinamento per il contratto di lavoro a tempo determinato risultava, in passato, chiaramente dal dettato dell'art. 2097, c.c., che consentiva l'apposizione del termine - richiedendo per essa la forma scritta - soltanto in presenza di un rapporto di lavoro che presentasse il carattere della specialità. L'art. 2097, c.c., è stato abrogato dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, intitolata "Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato", che è ancora più drastica, in quanto non si limita a richiedere la specialità del rapporto e la forma scritta per l'apposizione del termine, ma elenca in maniera tassativa le ipotesi nelle quali tale apposizione può aversi. Si tratta dei seguenti casi: - quando l'apposizione del termine sia richiesta dalla speciale natura dell'attività lavorativa, derivante dal carattere stagionale della medesima; - quando l'assunzione abbia luogo per la sostituzione di lavoratori assenti che abbiano diritto alla conservazione del posto, il cui nominativo e la causa della sostituzione siano specificati nel contratto a termine; - quando l'assunzione avvenga per l'esecuzione di un'opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo, aventi carattere straordinario od occasionale; - per le lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse, per specializzazione, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative per le quali non vi sia continuità di impiego nell'ambito dell'azienda; - nelle assunzioni di personale riferite a specifici spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi. A queste ipotesi, la L. 84/1986 ne ha aggiunto un'altra, che si verifica: - quando l'assunzione viene effettuata da aziende di trasporto aereo e da aziende esercitanti i servizi aeroportuali ed abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci. Ancora possono essere stipulati contratti di lavoro a termine: - con i dirigenti amministrativi e tecnici, purché di durata non superiore a 5 anni; - nei casi previsti dai contratti collettivi stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; - per i lavoratori in mobilità, che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine di durata non superiore a dodici mesi (art. 8, co. II, L. 223/1991). L'art. 2, L. 230/1962, stabilisce che "il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, eccezionalmente prorogato, non più di una volta e per un tempo non superiore alla durata del contratto iniziale, quando la proroga sia richiesta da esigenze contingibili ed imprevedibili e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato". Il contratto si considera a tempo indeterminato fin dalla data della prima assunzione del lavoratore qualora: - il rapporto di lavoro continui dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato; - il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di quindici ovvero trenta giorni dalla scadenza di un contratto di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi; - si tratti di assunzioni successive a termine intese ad eludere le disposizioni della L. 230/1962. Le vicende patologiche del contratto e gli effetti eccezionali dei contratti di lavoro nulli: in particolare, la prestazione di fatto Le vicende patologiche del contratto di lavoro sono regolate dai princìpi comuni di diritto privato. Perciò, tale contratto può essere: - nullo, per contrarietà a norme imperative, per la mancanza di un requisito essenziale, per illiceità della causa o del motivo, per impossibilità, illiceità o indeterminabilità dell'oggetto; - annullabile, per incapacità legale o naturale di agire e per i vizi del consenso (errore, violenza e dolo) di una delle parti. Ciò detto in generale, occorre segnalare due fattispecie proprie del diritto del lavoro in cui il legislatore fa scaturire effetti giuridici da contratti di lavoro radicalmente nulli, e cioè: - l'ipotesi della prestazione di fatto, contemplata dall'art. 2126, co. 1, c.c., a termini del quale "La nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa". L'art. 2126, co. 1, c.c., non equipara il rapporto di lavoro invalido a quello valido e non disciplina lo svolgimento di un rapporto di fatto: esso regola unicamente gli effetti giuridici di un rapporto di lavoro in concreto svoltosi fra le parti, a cui riconosce efficacia per il tempo in cui ha avuto attuazione, al fine di evitare che la portata retroattiva della pronuncia di nullità del contratto incida sulla prestazione lavorativa già resa e, dunque, sul diritto del prestatore alla retribuzione ed al versamento dei contributi assicurativi; - l'ipotesi del subappalto di mano d'opera, per la cui trattazione si rinvia al capitolo VII, paragrafo VI.

 

Rapporti speciali di lavoro Rapporti speciali di lavoro sono tanto i rapporti la cui fattispecie si discosta notevolmente da quella dell'art. 2094 c.c., quanto quelli in cui assume particolare rilevanza la tutela dell'interesse pubblico. Quest'ultima categoria ricomprende rapporti di lavoro - quelli di lavoro nautico, marittimo ed aereo e quelli nel settore del trasporto ferroviario ed autoferrotranviario - che non pongono particolari problemi di qualificazione perché la loro natura subordinata è ben definita: per tale ragione, in questa sede, non ci si soffermerà su di essi. Il lavoro a domicilio L'art. 1 della L. 18 dicembre 1973, n. 877, modificato dalla L. 16 dicembre 1980, n. 858, definisce lavoratore a domicilio "chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilità, anche con l'aiuto accessorio di membri della sua famiglia conviventi a carico, ma con esclusione di manodopera salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime o accessorie e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi.". Prima dell'emanazione della L. 858/1980, si discuteva, in dottrina ed in giurisprudenza, della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro a domicilio. Oggi il problema è superato nel senso che deve farsi ricorso ad una valutazione caso per caso, essendo prevista sia l'ipotesi di: - lavoro a domicilio autonomo, quando l'oggetto della prestazione è il risultato dell'attività che il lavoratore fornisce, avvalendosi di un'organizzazione propria ed assumendosi in proprio il rischio della stessa; - sia quella di lavoro a domicilio subordinato, quando l'oggetto della prestazione è costituito dalle energie lavorative che il dipendente mette a disposizione del datore ed esplica sotto la vigilanza e le direttive di questi. Con riferimento alla disciplina del rapporto, si segnalano: - l'istituzione di un apposito registro dei committenti, nel quale devono essere iscritti i datori che intendono assumere lavoratori a domicilio; - la previsione di un libretto personale di controllo, di cui i prestatori devono essere muniti; - l'obbligo di retribuire il lavoratore sulla base delle tariffe di cottimo pieno, risultanti dai contratti collettivi della categoria; - l'applicazione delle norme vigenti in materia di tutela previdenziale e di assegni familiari, con l'esclusione dell'integrazione salariale. Il lavoro sportivo, artistico e giornalistico La L. 23 marzo 1981, n. 91, disciplina il lavoro sportivo, qualificando, all'art. 2, come sportivi professionisti "gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l'attività sportiva a titolo oneroso, con carattere di continuità nell'ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l'osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell'attività dilettantistica da quella professionistica.". L'attività svolta dall'atleta a titolo oneroso e con carattere di continuità costituisce l'oggetto di un rapporto di lavoro dipendente. Lo sportivo professionista assume, invece, la veste di lavoratore autonomo quando ricorre anche uno solo dei seguenti requisiti: - l'attività è svolta per una manifestazione sportiva singola o per più manifestazioni collegate tra di loro in un breve periodo di tempo; - non è previsto alcun obbligo di frequenza a sedute di preparazione o di allenamento; - la prestazione non supera le 8 ore settimanali o 5 giorni in un mese o 30 giorni in un anno. Ora, se è vero che di regola il lavoro sportivo si configura come lavoro subordinato, è anche vero che la sua disciplina si differenzia notevolmente da quella di quest'ultimo. Le principali particolarità riguardano: - la costituzione del rapporto, che può avvenire senza il tramite degli uffici di collocamento, con assunzione diretta; - il contratto individuale di lavoro, che: deve essere stipulato per iscritto ad substantiam; deve essere depositato presso la federazione sportiva nazionale per l'approvazione; può contenere una clausola compromissoria, con conseguente definizione arbitrale, anche obbligatoria, delle controversie; non può avere durata superiore a 5 anni (con esclusione dell'applicazione della L. 230/1962 sul contratto a termine); - il patto di non concorrenza per il periodo successivo alla risoluzione del contratto, che è vietato; - la cessione del contratto, che è ammessa sempreché vi sia il consenso dell'atleta; - la disciplina limitativa dei licenziamenti, che non si applica al lavoro sportivo. Presenta delle affinità con il lavoro sportivo il lavoro artistico, che consiste nell'attività di spettacolo e nelle prove svolte dal personale artistico e tecnico - orchestrali, corali, ballerini, artisti e tecnici della produzione televisiva, cinematografica, radiofonica, teatrale, e lavoratori ad essi equiparati. Come afferma MAZZIOTTI, "la valutazione come autonomo o dipendente del lavoro artistico svolto con una certa continuità deve essere operata tenendo conto della particolarità delle prestazioni artistiche e dell'alto grado della loro autonomia.". Il lavoro artistico è soggetto ad uno speciale collocamento. Infine, qualche cenno al rapporto di lavoro giornalistico che, di norma, è un rapporto di lavoro dipendente che si instaura tra il giornalistica professionista, da un lato, e gli editori di quotidiani o riviste o agenzie di informazione per la stampa, dall'altro. Da tale definizione si evince che l'attività giornalistica può essere svolta solo dagli appartenenti all'ordine professionale: gironalisti e pubblicisti. La particolarità del rapporto - derivante sia dalla natura intellettuale della prestazione lavorativa sia dalla natura dell'attività imprenditoriale (che è quella di un'impresa di tendenza) - consiste in un affievolimento del vincolo di subordinazione. Tale affievolimento comporta che i giornalisti, in caso di cambiamento dell'indirizzo politico del giornale, possono dimettersi senza perdere né i benefici economici né la c.d. indennità fissa, cioè quella particolare indennità cui hanno diritto nell'ipotesi di licenziamento dovuto a colpa dell'editore. lavoro domestico Il rapporto di lavoro domestico può essere definito come quel rapporto avente ad oggetto la prestazione dei servizi necessari al governo della casa ed ai bisogni personali e familiari del datore di lavoro da parte di terzi estranei, che assumono la posizione tipica di lavoratori subordinati. E ciò sia che si tratti di personale con qualifica specifica (istitutori, maggiordomi, bambinaie diplomate, ecc.), sia che si tratti di personale adibito a mansioni generiche (cameriere, cuochi, bambinaie comuni, ecc.). Al fine dello svolgimento della prestazione di lavoro domestico, non sempre è necessaria la coabitazione; tuttavia, essendo il lavoro prestato nella stessa sfera in cui si svolge la vita privata del datore, esso implica sempre l'elemento della convivenza, inteso in senso lato. Ciò spiega perché non è considerato lavoro domestico: - quello svolto a favore, non della comunità familiare, ma dell'attività professionale di uno dei suoi membri; - quello svolto fuori del luogo in cui si svolge la vita privata del datore: ad es., in alberghi, pensioni, ecc. (così, MAZZIOTTI). La disciplina del lavoro domestico è contenuta: - negli artt. 2240-2246, c.c.; - nella L. 27 dicembre 1953, n. 940, per la tredicesima mensilità; - nella L. 2 aprile 1958, n. 339; - nel D.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1403, che estende anche ai lavoratori domestici l'assicurazione infortuni, contro la disoccupazione e per il carico di famiglia (assegni familiari); - nei contratti collettivi, che a seguito della dichiarazione di incostituzionalità del divieto contenuto nell'art. 2068, co. II, C.C. (Corte Cost. 9 aprile 1969, n. 68), possono essere stipulati anche in materia di lavoro domestico. In particolare, la L. 339/1958 dispone che: - l'assunzione del personale domestico avviene direttamente, con l'obbligo per il datore di denunciare, entro 30 giorni dal compimento del periodo di prova, l'avvenuta assunzione al competente ufficio di collocamento; - il periodo di prova, regolarmente retribuito, non può essere superiore ad un mese per la categoria impiegatizia e ad 8 giorni consecutivi per la categoria operaia; - il lavoratore ha diritto ad un riposo settimanale di una giornata intera, di regola coincidente con la domenica (o di due mezze giornate, una delle quali coincidente con la domenica), ad un conveniente riposo durante il giorno ed a non meno di 8 ore consecutive di riposo notturno. Ai lavoratori domestici sono poi stati estesi i diritti relativi: - alle ferie annuali, che in ogni caso non possono essere inferiori a 15 giorni; - al congedo matrimoniale; - alla tredicesima mensilità; - al preavviso; - al trattamento di fine rapporto. La L. 339/1958 istituisce anche una commissione centrale per la disciplina del lavoro domestico con compiti consultivi e commissioni provinciali con compiti di rilevazione e regolamentari. Infine, va detto che deve essere considerato rapporto di lavoro domestico subordinato anche il rapporto c.d. di "ospitalità alla pari", se presenta i caratteri della collaborazione domestica. Il rapporto di portierato Si ha rapporto di portierato quando il lavoratore (portiere) è adibito alla custodia di uno stabile condominiale, abitato cioè da più proprietari od affittuari. Tale rapporto è disciplinato da alcune leggi speciali e dalla contrattazione collettiva. Presenta le seguenti particolarità: - si costituisce senza il tramite degli uffici di collocamento; - il prestatore deve essere munito di apposita licenza rilasciata dall'autorità comunale, in difetto della quale il rapporto è tuttavia qualificato egualmente come di portierato se tali sono state le mansioni di fatto svolte; - il prestatore deve essere iscritto nel registro dei portieri; - è prevista la possibiltà per il portiere di farsi sostituire da un familiare per periodi brevi nell'arco della giornata: come si vede, si tratta di una particolarità rispetto agli altri rapporti di lavoro subordinato che si caratterizza per l'infungibilità della prestazione. Al portiere, come corrispettivo del lavoro svolto, deve essere garantito: - il salario; - la tredicesima mensilità; - l'alloggio gratuito, con luce, acqua e riscaldamento. Il pubblico impiego Gli elementi caratteristici del rapporto di pubblico impiego Il rapporto di pubblico impiego è un rapporto di lavoro dipendente che si distingue dal rapporto di impiego privato in ragione di alcuni caratteri peculiari che la dottrina dominante (VIRGA) individua: - nella natura pubblica dell'ente datore di lavoro; - nella continuità; - nella professionalità; - nell'inserimento del lavoratore nell'organizzazione dell'ente; - nella predeterminazione della retribuzione. Ora, sembra lecito ritenere che questi criteri siano idonei a differenziare il rapporto di pubblico impiego dal rapporto di lavoro privato anche a seguito dell'emanazione del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 - successivamente modificato ed integrato dai decreti legislativi n. 470 e n. 546 del 1993 - con il quale sono state realizzate la c.d. privatizzazione del pubblico impiego e la riforma della dirigenza pubblica, che si esaminano qui di seguito nelle loro linee fondamentali. La c.d. privatizzazione del pubblico impiego: l'applicazione della normativa di diritto comune e la contrattualizzazione L'art. 2, co. II, D.Lgs. 29/1993, nel testo sostituito dall'art. 2, D.Lgs. 546/1993, dispone che "I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II del libro V del Codice Civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, salvi i limiti stabiliti dal presente decreto per il perseguimento degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione amministrativa sono indirizzate." Con tale disposizione viene realizzata una ridefinizione del sistema delle fonti della disciplina del rapporto di pubblico impiego. Ridefinizione che può sintetizzarsi nella sottrazione di tale rapporto allo specifico corpus normativo vigente con la correlativa graduale sua riconduzione sotto la disciplina del diritto comune e con la sua contrattualizzazione. Si fa eccezione, tuttavia, per alcune categorie che restano escluse dalla privatizzazione: magistrati ordinari ed amministrativi, avvocati e procuratori dello Stato, personale militare e delle forze di polizia, dirigenti generali ed equiparati, personale delle carriere diplomatica e prefettizia. L'art. 2, D.Lgs. 29/1993, va posto in relazione con l'art. 55, co. II, D.Lgs. 29/1993, ai sensi del quale "La L. 20 maggio 1970, n. 300, si applica alle pubbliche amministrazioni, a prescindere dal numero dei dipendenti.". Questa disposizione pone fine alle antiche dispute, sorte soprattutto in sede giudiziaria, circa i limiti di applicabilità dello Statuto dei lavoratori al settore del pubblico impiego; dispute che, difatti, vengono oggi risolte nel senso dell'estensione dello Statuto alle pubbliche amministrazioni, senza limitazioni né sotto il profilo dei soggetti destinatari, né sotto quello delle modalità di applicazione. Unica eccezione è quella relativa all'attribuzione delle mansioni proprie della qualifica superiore di cui si tratterà al paragrafo IV. L'assoggettamento del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici alla disciplina di cui si è detto comporta necessariamente la contrattualizzazione dello stesso (art. 2, co. III, D.Lgs. 29/1993). Infatti, con la riforma del 1993, si attribuisce il ruolo di fonte diretta e primaria di regolamentazione del rapporto ai contratti collettivi, eliminando la necessità della loro recezione in atti a carattere normativo e realizzando, al tempo stesso, una notevole semplificazione del procedimento per la loro stipula. Si stabilisce, infatti, che la contrattazione collettiva è nazionale e decentrata e si svolge su tutte le materie relative al rapporto di lavoro, eccezion fatta per quelle riservate alla legge ed agli atti normativi ed amministrativi, previste dall'art. 2, co. I, lett. c), L. 421/1992. Il D.Lgs. 29/1993 prevede quattro livelli di contrattazione collettiva, per cui si hanno: - contratti collettivi quadro; - contratti collettivi nazionali di comparto; - contratti collettivi nazionali delle aree separate; - contratti collettivi decentrati. In sede di contrattazione collettiva, la P.A. è rappresentata dall'Agenzia per la rappresentanza negoziale, organismo tecnico dotato di personalità giuridica e sottoposto alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica, che si sostituisce alle preesistenti delegazioni pubbliche differenziate per i singoli comparti e facilmente permeabili alle influenze politico-clientelari. L'accesso al pubblico impiego Differenze notevoli fra la disciplina del pubblico impiego e quella del lavoro privato permangono, anche a seguito della c.d. privatizzazione, in materia di assunzione, che nel settore pubblico avviene, di regola, mediante concorso (art. 97, co. III, Cost.). Più precisamente, l'art. 36, D.Lgs. 29/1993, nel testo sostituito dall'art. 17, D.Lgs. 546/1993, dispone che l'assunzione avviene: - per concorso pubblico, che può essere per esami, per titoli, per titoli ed esami, per corso-concorso o per selezione, e deve svolgersi con modalità che ne garantiscano l'imparzialità, la tempestività, l'economicità e la celerità di espletamento, ricorrendo, ove necessario, all'ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche a realizzare forme di preselezione; - mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento presenti negli uffici circoscrizionali del lavoro, per le qualifiche ed i profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell'obbligo (si tratta, in pratica, dei posti dalla prima alla quarta qualifica funzionale), fatti salvi gli ulteriori requisiti prescritti per specifiche professionalità; - mediante chiamata numerica degli iscritti nelle apposite liste di collocamento formate dagli appartenenti alle categorie protette di cui al titolo I della L. 2 aprile 1968, n. 482. Le mansioni del dipendente pubblico L'art. 56, co. I, D.Lgs. 29/1993, dopo aver ribadito il principio generale per cui il pubblico dipendente deve essere adibito alle mansioni della qualifica di appartenenza, introduce una novità rispetto alla normativa previgente precisando che nella suddetta qualifica "rientra comunque lo svolgimento di compiti complementari e strumentali al perseguimento degli obiettivi di lavoro". Ancora più innovative sono, però, le disposizioni contenute nel co. II dell'art. 56 e quelle dettate dall'art. 57, D.Lgs. 29/1993, così come sostituito dall'art. 25, D.Lgs. 546/1993; disposizioni che rappresentano una deroga al principio della generale applicabilità dello Statuto dei lavoratori alle P.A.. Le ipotesi previste da tali articoli sono tre, e cioè: - quella dell'adibizione occasionale, attuata ove possibile con l'osservanza di criteri di rotazione, a compiti o mansioni immediatamente inferiori, che non comporta alcuna variazione del trattamento economico (si noti che nel sistema privatistico l'adibizione a mansioni inferiori non è consentita); - quella dell'attribuzione di compiti specifici non prevalenti della qualifica superiore, che non viene considerata esercizio di mansioni superiori e non dà, quindi, diritto al lavoratore ad una retribuzione maggiore; - quella dell'assegnazione temporanea a mansioni superiori, che dà diritto al trattamento economico corrispondente all'attività svolta per il periodo di espletamento delle mansioni superiori, ma che non attribuisce il diritto all'assegnazione definitiva delle stesse (nel settore privato, invece, l'assegnazione a mansioni superiori, in presenza di alcune circostanze, previste dall'art. 13, st. lav., diventa definitiva). L'assegnazione a mansioni superiori può essere disposta solo ove ricorrano le circostanze contemplate dall'art. 57, D.Lgs. 29/1993. La riforma della dirigenza pubblica Con il D.Lgs. 29/1993, e successive modificazioni ed integrazioni, viene realizzata, oltre che la privatizzazione del pubblico impiego, anche la riforma della dirigenza pubblica. Punti qualificanti di essa sono i seguenti: - la creazione di un'effettiva élite di managers, attuata con la riduzione del numero delle qualifiche dirigenziali da tre ("dirigente generale", "dirigente superiore", primo dirigente") a due ("dirigente generale" e "dirigente"); - l'affermazione del fondamentale principio della separazione tra politica ed amministrazione, in virtù del quale agli organi di direzione politica spetta il compito di definire gli obiettivi, i programmi e gli indirizzi per l'attività dell'amministrazione, mentre la gestione amministrativa è affidata ai dirigenti. A questi ultimi è rimessa, dunque, l'adozione di atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno e l'esercizio di autonomi poteri di gestione tecnica e finanziaria con l'unico limite degli stanziamenti di bilancio; - l'imputazione ai dirigenti di una responsabilità maggiore che nel passato, afferente ai risultati dell'azione amministrativa e, specificamente, all'attuazione o meno dei programmi di matrice politica; - la modifica dei criteri di reclutamento e di formazione dirigenziale, attuata per mezzo dell'assegnazione di un ruolo fondamentale alla Scuola superiore della pubblica amministrazione. Lineamenti della nuova disciplina della giurisdizione Il naturale corollario della sottoposizione dei pubblici dipendenti alla disciplina civilistica del rapporto di lavoro subordinato è la devoluzione al giudice ordinario individuato nella persona del "Pretore del lavoro" - e non più dunque al giudice amministrativo - di tutte le controversie afferenti al pubblico impiego (art. 68, D.Lgs. 29/1993, nel testo sostituito dall'art. 33, D.Lgs. 546/1993). Si fa eccezione solo per quelle concernenti le materie rimaste assoggettate alla normazione unilaterale pubblicistica di cui ai numeri da 1 a 7 dell'art. 2, co. I, lett. c), L. 421/1992 e per quelle riguardanti le categorie di personale di cui all'art. 2, co. IV e V, D.Lgs. 29/1993, nel testo sostituito dall'art. 2, D.Lgs. 546/1993. In considerazione dei rilevanti problemi organizzativi a cui la nuova normativa dà luogo, il legislatore delegato, opportunamente, ne differisce l'applicazione ad un momento successivo all'entrata in vigore del D.Lgs. 29/1993, e cioè a partire dal febbraio 1996. Infine, l'art. 69, D.Lgs. 29/1993, come sostituito dall'art. 34, D.Lgs. 546/1993, nell'intento di realizzare una deflazione del contenzioso in materia di pubblico impiego, obbliga, a pena di improcedibilità della domanda, al tentativo di conciliazione stragiudiziale delle controversie individuali devolute al giudice ordinario. Il lavoro dei minori e delle donne. L'occupazione giovanile Dopo aver esaminato, nei due capitoli che precedono, le più rilevanti ipotesi di rapporti di lavoro speciali, si ritiene opportuno ora trattare brevemente di quei casi in cui la predisposizione di una disciplina specifica da parte del legislatore è giustificata dall'esigenza di proteggere il prestatore che versa in una situazione di particolare debolezza. E ciò a causa: - della ridotta capacità lavorativa: è questo il caso dei minori; - ovvero di situazioni sociali consolidate: è il caso delle donne e dei giovani. Il lavoro minorile La tutela del lavoro dei minori trova il suo specifico fondamento nell'art. 37, co. II e III, Cost., ai sensi del quale "La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.". Le principali disposizioni in materia di lavoro minorile sono contenute nella L. 17 ottobre 1967, n. 977, che fissa l'età minima di ammissione al lavoro a 15 anni; tale età è abbassata a 14 anni in alcune ipotesi - ad es., per il lavoro in agricoltura e nei servizi familiari - ed elevata a 16 in altre - così, per i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri. La L. 977/1967 contiene anche norme relative ai limiti di orario - per le quali si rinvia al capitolo XII -, alle visite mediche preventive e periodiche, ecc.. Il lavoro femminile L'art. 37, co. I, Cost., del cui carattere precettivo ormai la giurisprudenza non dubita più, sancisce che "La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.". La disciplina del lavoro femminile si rinviene: - nella L. 26 aprile 1934, n. 653, che vieta l'adibizione delle donne a lavori faticosi, pericolosi o insalubri, limitando e vincolando anche la durata e la distribuzione dell'orario di lavoro; - nella L. 9 gennaio 1963, n. 7, che sancisce la nullità del licenziamento per causa di matrimonio e delle clausole c.d. di nubilato; - nella L. 30 dicembre 1971, n. 1204, che detta norme finalizzate, in particolare, alla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri; - nella L. 9 dicembre 1977, n. 903, volta a ribaltare la tradizionale prospettiva della tutela differenziata del lavoro femminile ed a realizzare un'effettiva parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. In estrema sintesi, i punti cardine della legge sono: il divieto di qualsiasi discriminazione; la parità di trattamento retributivo; la conservazione del divieto di lavoro notturno; la corresponsione degli assegni familiari, delle aggiunte di famiglia e delle maggiorazioni delle pensioni per familiari a carico, in alternativa, alla donna lavoratrice o pensionata alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per il lavoratore o pensionato; - infine, nella L. 10 aprile 1991, n. 125, che rafforza notevolmente la tutela della donna nel lavoro predisposta dalla L. 903/1977 in quanto, a differenza di quest'ultima che si ispira quasi completamente al principio della parità formale tra uomo e donna, si muove nella logica dell'uguaglianza sostanziale. La L. 125/1991 prevede una serie di "azioni positive", ossia di "programmi rivolti a consentire alle donne di godere effettivamente di pari opportunità (e non solo di parità di trattamento in atto) rispetto agli uomini nel campo anche autonomo" (GHERA). L'occupazione giovanile: l'apprendistato ed il contratto di formazione e lavoro L'apprendistato è disciplinato dagli artt. 2130-2134, C.C. (che lo denominano "tirocinio"), dalla L. 19 gennaio 1955, n. 25, successivamente modificata dalla L. 2 aprile 1968, n. 424 e dagli artt. 21 e 22 della L. 28 febbraio 1987, n. 56. Ai sensi dell'art. 2, L. 25/1955, l'apprendistato è uno speciale rapporto di lavoro, in forza del quale il datore è obbligato ad impartire o a fare impartire, nella sua impresa, all'apprendista l'insegnamento necessario affinché quest'ultimo consegua le capacità tecniche necessarie per diventare lavoratore qualificato, utilizzandone l'attività lavorativa nella sua impresa. La specialità dell'apprendistato discende da ciò che la causa del contratto è complessa, o mista, perché costituita non solo dallo scambio tra prestazione e retribuzione, ma anche dallo scambio tra prestazione ed insegnamento. Le particolarità di tale rapporto di lavoro sono le seguenti: - la costituzione di esso deve essere autorizzata dall'Ispettorato del lavoro; - il numero degli apprendisti non può essere superiore a quello dei lavoratori specializzati; - l'assunzione degli apprendisti avviene con richiesta nominativa rivolta dal datore all'ufficio di collocamento, fatta eccezione per le imprese artigianali alle quali è consentita l'assunzione diretta; - di regola, l'età minima per essere assunti come apprendisti è di 14 anni e quella massima di 20; - la durata del contratto non può superare i 5 anni: tale limite non configura l'apprendistato come rapporto a termine; il suo superamento ne comporta la trasformazione in comune rapporto di lavoro a tempo indeterminato; - la retribuzione è inferiore rispetto a quella degli altri lavoratori e non può essere a cottimo; - al termine del rapporto, l'apprendista ha diritto ad un attestato e può essere sottoposto a prove di idoneità. Il contratto di apprendistato viene usato sempre più raramente e tende ad essere soppiantato dal contratto di formazione e lavoro che garantisce al datore, con forme diverse, un minor costo del lavoro. Anche quest'ultimo, al pari dell'apprendistato, è un contratto a causa complessa, in quanto caratterizzato dallo scambio tra lavoro retribuito e formazione professionale. Esso trova oggi la sua regolamentazione nell'art. 3, L. 19 dicembre 1984, n. 863, come modificato ed integrato dall'art. 8, L. 29 dicembre 1990, n. 407. Tale disposizione statuisce: - per i lavoratori, che il requisito richiesto è l'età, che deve essere compresa tra i 15 ed i 29 anni (32 anni per le aree del Mezzogiorno e quelle svantaggiate del Centro-Nord); - per i datori, che sono ammessi alla stipulazione solo gli imprenditori (esclusi i contratti di formazione presso studi professionali) o i consorzi di imprese o gli enti pubblici economici; - che il contratto non può superare la durata massima di 24 mesi non rinnovabili e deve rivestire, a pena di nullità, la forma scritta. La costituzione del rapporto di lavoro. Cenni sul divieto di intermediazione Le limitazioni dell'autonomia negoziale nella formazione del rapporto di lavoro Nelle pagine che precedono, si è più volte sottolineato che il margine dell'autonomia individuale nella disciplina del rapporto di lavoro è molto ristretto, perché le condizioni di lavoro sono in massima parte determinate dalla legge e dai contratti collettivi. Si aggiunge ora che il datore ed il prestatore sono privati anche della piena libertà della formazione del rapporto e della scelta dell'altro contraente. Tali limiti trovano, ancora una volta, la loro ragione d'essere nell'esigenza di tutela del contraente debole, e cioè il lavoratore. Più in concreto, essi possono essere ricondotti a tre categorie: - divieti di assunzione, destinati ad operare in alcuni casi in cui sia necessario tutelare i minori e le donne, la cui inosservanza comporta la nullità dei relativi contratti per contrarietà a norme imperative e la comminatoria di sanzioni penali nei confronti dei datori; - assunzioni obbligatorie, a favore di alcune categorie di lavoratori (le c.d. categorie protette: invalidi e soggetti che versano in particolari situazioni sociali, come orfani, vedove dei caduti in guerra, per servizio e sul lavoro, ecc.), individuate dalla L. 2 aprile 1968, n. 482, e da altre disposizioni complementari. In base a tale normativa, tutti i datori di lavoro, privati e pubblici (compreso lo Stato), che abbiano un numero di dipendenti che superi le 35 unità, sono obbligati ad assumere, per un'aliquota pari al 15% del personale in servizio, lavoratori appartenenti alle categorie protette. Tali soggetti vantano un diritto soggettivo perfetto all'assunzione e, quindi, il diritto al risarcimento dei danni commisurati alle retribuzioni perdute, in caso di inadempimento del datore; - modalità obbligatorie di assunzione, essendo imposto al datore che intende assumere il rispetto delle disposizioni dettate in tema di collocamento obbligatorio della manodopera, contenute nella L. 29 aprile 1949, n. 264, negli artt. 33 e 34 dello Statuto dei lavoratori, nelle leggi 25 marzo 1983, n. 79, 28 febbraio 1987, n. 56 e 23 luglio 1991, n. 223. Delle tre categorie di limiti di cui si è appena discorso l'ultima è sicuramente la più importante. Pertanto, di essa si tratterà più diffusamente nei paragrafi che seguono. Il collocamento obbligatorio Come afferma MAZZIOTTI, "il collocamento si esplica attraverso l'esercizio non di un semplice servizio, ma di una vera e propria funzione: infatti esso dà luogo non all'erogazione di prestazioni amministrative, come nel caso di un servizio pubblico, bensì all'esercizio di una serie di poteri autoritativi, sia nella fase del procedimento che si conclude con l'iscrizione del lavoratore nelle liste di collocamento, sia nella fase successiva che si conclude con l'atto di avviamento". Si tratta di un istituto volto sia a proteggere il prestatore contro le sopraffazioni eventualmente perpetrate a suo danno dal datore - il quale potrebbe anche, in ipotesi, condizionare l'assunzione al versamento di una somma di danaro -, sia a debellare il deprecabile fenomeno della mediazione privata. Gli organi La funzione del collocamento è svolta quasi esclusivamente dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, per mezzo di un apparato che, secondo una concezione piramidale, si articola in: - Direzione generale per l'impiego, i cui compiti sono connessi alla disciplina nazionale del collocamento dei lavoratori dei settori dell'agricoltura, dell'industria e del terziario; - Uffici regionali e provinciali del lavoro e della massima occupazione, organi periferici del Ministero del lavoro; - Sezioni circoscrizionali per l'impiego, che, istituite dalla L. 56/1987, hanno sostituito i preesistenti uffici di collocamento, nella funzione di effettiva intermediazione tra le offerte e le domande di lavoro; - Agenzie per l'impiego, istituite in ogni regione, con funzioni di tipo esclusivamente programmatorio. Alla concreta gestione del collocamento contribuiscono anche le organizzazioni sindacali, attraverso la presenza dei rappresentanti delle parti sociali nelle diverse commissioni a composizione mista, istituite nell'ambito della struttura burocratica facente capo al Ministero del lavoro, e cioè: - la Commissione centrale per l'impiego, con rilevanti funzioni di programmazione; - le Commissioni regionali per l'impiego, cui sono attribuiti più concreti compiti gestionali; - le Commissioni provinciali per l'impiego, con funzioni decisorie dei ricorsi presentati contro provvedimenti delle sezioni o commissioni circoscrizionali; - le Commissioni circoscrizionali, operanti nell'ambito delle sezioni circoscrizionali, anche con compiti di direzione politica delle sezioni stesse. Le fasi: l'iscrizione e l'avviamento Il collocamento si esercita attraverso due fasi fondamentali, a ciascuna delle quali corrisponde un procedimento amministrativo: - il primo si conclude con l'iscrizione del lavoratore nelle liste di collocamento; - il secondo è volto all'avviamento al lavoro, su richiesta del datore. Il primo procedimento ha inizio con la domanda di iscrizione presentata dal lavoratore; domanda che l'ufficio di collocamento è obbligato ad accettare essendo l'iscrizione un atto dovuto (GHERA la classifica tra le ammissioni). I requisiti per la domanda sono: - la residenza nel comune dove ha sede l'ufficio presso il quale si chiede l'iscrizione; - l'età lavorativa; - il libretto di lavoro. I lavoratori vengono iscritti nelle liste secondo i seguenti criteri: - la prima classe comprende i lavoratori disoccupati o inoccupati, nonché quelli occupati a tempo parziale con orario non superiore a 20 ore settimanali che aspirino ad un diverso impiego; restano iscritti in questa classe anche i lavoratori avviati con contratto a termine, la cui durata complessiva non sia superiore a 4 mesi nell'anno solare; - nella seconda classe sono iscritti i lavoratori occupati in cerca di diversa occupazione; - infine, la terza classe comprende i lavoratori titolari di trattamenti pensionistici di anzianità o vecchiaia. Ulteriori classificazioni, nell'ambito di ciascuna classe, vengono operate con riguardo ai settori di produzione, alle categorie professionali ed alle qualifiche possedute dai lavoratori. In base a tali classificazioni, i lavoratori vengono inclusi nelle graduatorie di avviamento, per la formazione delle quali si tiene conto: - del carico familiare; - dell'anzianità di iscrizione nelle liste di collocamento; - della situazione economica e patrimoniale desunta anche dallo stato di occupazione dei componenti del nucleo familiare; - degli altri elementi concorrenti nella valutazione dello stato di bisogno del lavoratore. Il lavoratore iscritto ha l'obbligo di comunicare alla sezione circoscrizionale competente ogni mese (ovvero nel diverso termine eventualmente fissato dalla commissione regionale per l'impiego) la permanenza dello stato di disoccupazione, a pena di cancellazione dalle liste (analoga sanzione è comminata nel caso in cui il lavoratore non risponda alla convocazione o rifiuti un posto di lavoro a tempo indeterminato, corrispondente ai suoi requisiti professionali, per due volte consecutive e senza giustificato motivo). La seconda fase del procedimento di collocamento, ossia quella dell'avviamento al lavoro, ha inizio con la richiesta che il datore deve inoltrare, per iscritto, all'ufficio competente. Con riguardo a tale richiesta, va detto che, a seguito dell'emanazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, si è verificato un radicale mutamento rispetto al sistema previgente. Infatti, in passato la richiesta del datore poteva essere esclusivamente numerica, poteva cioè contenere solo l'indicazione del numero, della categoria e della qualifica professionale dei lavoratori da assumere. Oggi, invece, viene conferita, ai datori di lavoro privati obbligati ad assumere i lavoratori tra gli iscritti al collocamento, la facoltà di assumere tutti i lavoratori mediante richiesta nominativa. Quest'ultima diventa, così, la regola generale. Si tratta, però, pur sempre di una facoltà, sicché la richiesta numerica ben può, a tutt'oggi, essere utilizzata dai datori che intendono avvalersene. D'altronde, a tutela dei lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli, è predisposto un istituto, chiamato in sostanza a sostituire il vincolo dell'avviamento numerico: è previsto, cioè, che i datori che occupano più di 10 dipendenti devono riservare una percentuale del 12% delle nuove assunzioni a particolari categorie di lavoratori (quelli iscritti da più di 2 anni nella prima classe delle liste di collocamento; quelli iscritti nelle liste di mobilità; quelli appartenenti a speciali categorie determinate con delibera della Commissione regionale per l'impiego, approvata dal Ministro del lavoro). In ogni caso, la richiesta del datore fa nascere, in capo all'ufficio di collocamento, l'obbligo di provvedere all'avviamento dei lavoratori indicati. Secondo l'opinione prevalente, l'atto di avviamento ha la natura di un'autorizzazione, in quanto consente l'esercizio del potere contrattuale del datore e del lavoratore, previo accertamento della sussistenza dei requisiti richiesti per l'esercizio del potere medesimo. Dall'atto di avviamento sorge un diritto del lavoratore, cui è correlato un obbligo del datore, a contrarre. Le assunzioni dirette Per assunzioni dirette si intendono quelle effettuate senza il tramite degli uffici di collocamento, siano o meno sottoposte al controllo successivo della sezione circoscrizionale (nulla-osta o convalida). Tale controllo non è previsto per l'assunzione: - dei prossimi familiari del datore; - del personale con funzioni direttive; - del personale di concetto o specializzato assunto mediante pubblico concorso; - dei domestici, dei portieri, degli addetti agli studi professionali; - dei lavoratori assunti da aziende con non più di 3 dipendenti; - dei lavoratori esclusivamente a compartecipazione. In tutti questi casi sussiste, per il datore, solo l'obbligo di comunicare il nominativo del lavoratore assunto alla sezione di collocamento competente. Invece, è richiesto il controllo successivo della sezione per: - le assunzioni motivate da urgente necessità di evitare danni a persone ed impianti; - il passaggio diretto ed immediato del lavoratore da un'azienda all'altra. La violazione delle norme sul collocamento Ai sensi dell'art. 2098, c.c., "il contratto di lavoro stipulato senza l'osservanza delle disposizioni concernenti la disciplina della domanda e dell'offerta di lavoro può essere annullato, salva l'applicazione delle sanzioni penali. La domanda di annullamento è proposta dal pubblico ministero, su denunzia dell'ufficio di collocamento entro un anno dalla data dell'assunzione del prestatore di lavoro.". Qualora tale azione non venga proposta, il contratto è perfettamente valido e vincolante fra le parti. Ancora, gli artt. 26 e 27, L. 56/1987, dispongono che i datori che non assumono i lavoratori per il tramite degli uffici di collocamento sono tenuti al pagamento di una sanzione amministrativa da lire cinquecentomila a lire tre milioni per ogni lavoratore interessato. I sistemi speciali di collocamento Accanto al collocamento ordinario, esistono nel nostro ordinamento altri sistemi speciali di collocamento, istituiti per particolari categorie di lavoratori. Così, il legislatore, nel 1970, in considerazione della particolare struttura del mercato del lavoro agricolo, ha emanato una apposita regolamentazione per il collocamento nel settore dell'agricoltura, che non è stata modificata dalla L. 223/1991. Si rimanda, invece: - al regolamento C.E.E. n. 1612/1968, per il collocamento dei lavoratori che siano cittadini comunitari. - alla L. 675/1977, emanata in materia di ristrutturazione e riconversione industriale, per le disposizioni concernenti la mobilità della manodopera ed in particolare i c.d. lavoratori esuberanti, cioè il personale in sovrannumero delle aziende in crisi; - alla L. 285/1977, modificata dalle leggi nn. 479/1978, 113/1986 e 41/1986, per l'occupazione giovanile; - alle L. 943/1986 e 39/1990, per il collocamento dei lavoratori extracomunitari disponibili a prestare la propria attività in Italia; - alla L. 398/1987, che prevede una speciale lista di collocamento per i lavoratori italiani disponibili a svolgere attività all'estero, in Paesi extracomunitari; - alla L. 223/1991, che contempla una procedura particolare di mobilità per il caso in cui le aziende, che abbiano beneficiato della cassa integrazione straordinaria, non siano in grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori sospesi; Il divieto di intermediazione nel rapporto di lavoro Al paragrafo II si è detto che l'istituto del collocamento ha tra i suoi scopi anche quello di debellare la piaga della mediazione privata. Si aggiunge ora che, oltre al divieto della mediazione privata, nel nostro ordinamento vige anche il divieto di intermediazione nel rapporto di lavoro, posto dall'art. 1, L. 23 ottobre 1960, n. 1369. Tale norma trova il suo immediato precedente legislativo nell'art. 2127, c.c., che vieta il cd. cottimo collettivo affidato ad un dipendente dell'imprenditore e dispone che, in caso di violazione di tale divieto, l'imprenditore risponde direttamente, nei confronti dei prestatori di lavoro assunti dal proprio dipendente, degli obblighi derivanti dai contratti di lavoro da essi stipulati. L'art. 1, L. 1369/1960, ha, rispetto all'art. 2127, c.c., una portata più ampia. Esso, infatti, da un lato, estende il divieto di interposizione al lavoro a cottimo organizzato - oltre che dal dipendente dell'imprenditore - da un terzo o da una società, anche cooperativa; d'altro, pone il più generale divieto, per l'imprenditore, di affidare in appalto o in subappalto, od in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l'esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l'impiego di manodopera assunta e retribuita dall'appaltatore o dall'intermediario, qualunque sia la natura dell'opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono. L'art. 1, co. III, L. 1369/1960, chiarisce che per appalto di mere prestazioni di lavoro deve intendersi ogni forma di appalto o subappalto, anche per l'esecuzione di opere o di servizi, ove l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante, quand'anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all'appaltante. In caso di violazione dell'art. 1, L. 1369/1960, i lavoratori occupati sono considerati a tutti gli effetti dipendenti dell'imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni. Come appare, si è in presenza di un'ipotesi peculiare di invalidità del contratto di lavoro, dal quale scaturiscono egualmente effetti giuridici per i prestatori. Mansioni, qualifiche e categorie: jus variandi del datore di lavoro Concetti di mansione, qualifica e categoria L'attuale legislazione lavoristica distingue i lavoratori dipendenti facendo riferimento alle mansioni svolte, alla qualifica rivestita, alla categoria legale o contrattuale di appartenenza. Malgrado le difficoltà che l'individuazione del significato di tali termini pone, stante la confusione esistente in materia, può sostenersi, con la dottrina dominante, che: - le mansioni indicano l'oggetto specifico dell'obbligazione di lavoro, le attività concrete che il lavoratore è chiamato a svolgere sotto la direzione ed alle dipendenze del datore. Le mansioni hanno natura contrattuale perché su di esse si forma l'accordo delle parti. Infatti, ai sensi dell'art. 2103, c.c., "il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto", ed a termini dell'art. 96, disp. att. c.c., il datore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell'assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto; - la qualifica designa l'oggetto generico dell'obbligazione di lavoro; per MAZZIOTTI, essa costituisce "l'insieme delle mansioni omogenee cui il prestatore è tenuto nel corso del rapporto di lavoro, secondo le specificazioni dei contratti collettivi e delle norme interne aziendali, tenendo conto dei criteri di professionalità, anche di quella specifica del singolo lavoratore"; - le categorie, infine, possono essere definite come delle entità organizzatorie, dei raggruppamenti omogenei di lavoratori. Esistono due diverse classificazioni delle categorie professionali perché alle categorie legali (cioè previste dalla legge: art. 2095, c.c.) si affiancano le categorie contrattuali (previste dalla contrattazione collettiva).

 

Le categorie legali L'art. 2095, co. I, c.c., come novellato dall'art. 1, L. 190/1985, contempla quattro categorie di prestatori di lavoro, destinatarie di determinate regolamentazioni previste dalla legge: dirigenti, quadri, impiegati ed operai. Lo stesso articolo, al co. II, rinvia alle leggi speciali ed alla contrattazione collettiva per la determinazione dei requisiti di appartenenza alle categorie legali di cui al co. I, sia per quanto attiene alla collocazione nelle singole imprese, sia per ciò che concerne la collocazione nei vari settori. I dirigenti L'art. 1 del contratto collettivo nazionale di lavoro del 3 ottobre 1989, per i dirigenti industriali, definisce i dirigenti come quei lavoratori che "ricoprono nell'azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano la loro funzione al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell'impresa". La peculiarità degli interessi dei dirigenti rispetto a quelli degli altri lavoratori comporta: - uno speciale inquadramento sindacale in associazioni separate; - una contrattazione collettiva separata; - un trattamento previdenziale diverso da quello riservato agli altri prestatori di lavoro. Ancora, ai dirigenti non si applicano alcune leggi di tutela, ossia quelle sull'orario di lavoro, sul contratto a termine, sul licenziamento. I quadri L'art. 2, L. 190/1985, definisce i quadri come i "prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa.". Lo stesso articolo rimanda alla contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la determinazione dei requisiti di appartenenza alla categoria "in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura organizzativa dell'impresa.". Come per la definizione dei dirigenti, anche per quella dei quadri il legislatore fa riferimento alle funzioni, e non alle mansioni svolte dal prestatore. Tuttavia, sul piano della disciplina, la differenziazione tra le due categorie è netta. Per i quadri è prevista, infatti, l'applicabilità delle norme che regolano il rapporto individuale di lavoro degli impiegati, salvo diversa disposizione dei contratti collettivi; si esclude, inoltre, che possano essere ricompresi nella categoria dei quadri i lavoratori già classificati come dirigenti. Gli impiegati L'art. 1, R.D. 13 novembre 1924, n. 1825, definisce l'impiegato come colui che professionalmente presta la propria attività alle dipendenze di un imprenditore privato, con la funzione di collaborazione, tanto di concetto che di ordine, eccettuata ogni prestazione che sia semplicemente di mano d'opera. La prestazione di lavoro dell'impiegato si caratterizza, dunque, per: - la collaborazione all'impresa, che consiste in compiti di organizzazione, propulsione, direzione e vigilanza; - la professionalità, intesa come abitualità della prestazione. Con riferimento al primo elemento, l'art. 1, R.D. 1825/1924, distingue la collaborazione di concetto da quella d'ordine, senza però definirle. Per la Cassazione, il criterio discretivo consiste non tanto nel carattere intellettivo della prestazione, quanto, piuttosto, nella parziale autonomia dell'impiegato di concetto rispetto ai superiori, autonomia da valutare non in ragione dell'incarico conferito, ma del lavoro effettivamente svolto. Gli operai: cenni sull'inquadramento unico L'art. 1, R.D. 1825/1924, fornisce una definizione in negativo dell'operaio, essendo tale, per questa disposizione, il lavoratore che non può essere inquadrato in nessuna delle altre categorie. Con riguardo alla distinzione tra impiegato ed operaio, la dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono, dopo molte incertezze, che sia determinante, non il carattere intellettuale o manuale del lavoro prestato, bensì il grado della collaborazione fornita dal lavoratore al datore. Così, mentre la prestazione dell'impiegato, anche d'ordine, si caratterizza per l'attività di "collaborazione all'impresa" - di cui si è detto al paragrafo precedente -, quella dell'operaio si caratterizza per la "collaborazione nell'impresa", consistente in un generico apporto al processo produttivo, realizzato mediante la mera attuazione delle direttive ricevute. In proposito, va anche segnalato che la distinzione tra impiegati ed operai è oggi parzialmente superata dall'introduzione, ad opera della contrattazione collettiva, di un nuovo sistema di inquadramento professionale: il c.d. sistema di inquadramento unico. Esso si fonda su una classificazione unica dei lavoratori, che vengono ordinati in una pluralità di livelli professionali, e non più, come avveniva in passato, per gruppi di qualifiche all'interno delle varie categorie. Le categorie contrattuali Le categorie contrattuali sono quelle previste non dalla legge, ma dalla contrattazione collettiva, e cioè: - la categoria dei funzionari, che comprende personale con funzioni direttive e che presenta caratteri comuni sia ai dirigenti sia agli impiegati con funzioni direttive; - la categoria degli intermedi, nella quale rientrano quei prestatori che guidano e controllano un gruppo di altri lavoratori, collocandosi ad un grado superiore della categoria operaia. L'art. 2103, c.c.: jus variandi del datore, trasferimento del lavoratore e nullità dei patti contrari L'art. 2103, c.c., novellato dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori, al co. I, prima parte, testualmente recita: "Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.". Tale disposizione limita il c.d. jus variandi, ossia il potere unilaterale del datore di modificare le mansioni del lavoratore, il quale, oltre che alle mansioni per le quali è stato assunto, può essere adibito soltanto: - a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, con pari retribuzione (c.d. mobilità orizzontale): il concetto di equivalenza va inteso in senso professionale, nel senso cioè che le nuove mansioni non devono modificare in peggio il corredo di esperienza, nozioni e perizia, acquisito dal prestatore nell'effettivo svolgimento delle precedenti mansioni (PERA); - ovvero a mansioni superiori (c.d. mobilità verticale): in questo caso, il prestatore ha diritto al trattamento economico e normativo corrispondente all'attività svolta, mentre l'assegnazione alle mansioni superiori diventa definitiva, ove non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. L'art. 2103, ult. co., c.c., prevede espressamente che "ogni patto contrario è nullo". Si tratta di un'ipotesi di nullità testuale che determina l'inefficacia di ogni modificazione in peius delle mansioni del prestatore, con attribuzione a quest'ultimo del diritto alla restituzione delle mansioni originarie o equivalenti ovvero, in alternativa, al risarcimento del danno causato alla sua professionalità. L'art. 2103, co. 1, c.c., disciplina anche il potere di trasferimento, disponendo che il lavoratore "non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.". Ciò in quanto il trasferimento può comportare la lesione di interessi lavorativi ed extralavorativi. L'onere della prova della legittimità del trasferimento è a carico del datore. Va notato che l'art. 2103, c.c., non si riferisce al trasferimento da una località all'altra, ma al trasferimento da un'unità produttiva all'altra: per unità produttiva deve intendersi ogni articolazione autonoma dell'impresa o azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di produzione di beni o servizi dell'impresa della quale è elemento organizzativo. Obblighi e diritti del lavoratore La struttura complessa del rapporto di lavoro Il rapporto di lavoro è un rapporto complesso, perché accanto alle due obbligazioni principali - e cioè l'obbligo del lavoratore di prestare la propria attività e l'obbligo del datore di corrispondere la retribuzione - si pone una molteplicità di situazioni soggettive, attive e passive, facenti capo alle due parti del rapporto. Efficacemente, MAZZIOTTI osserva che "nel caso del rapporto di lavoro la complessità assume peculiare rilievo per l'intensità del vincolo della messa a disposizione di energie lavorative e per il fatto che l'utilizzazione delle stesse si ha nell'ambito dell'organizzazione di un altro soggetto, il datore di lavoro; il quale è tenuto anche ad un complesso di obblighi nei confronti del lavoratore, varianti in ragione della diversa intensità del vincolo personale che l'obbligazione di lavoro comporta.". Le situazioni giuridiche soggettive passive facenti capo al lavoratore: l'obbligazione principale della prestazione lavorativa L'obbligazione principale cui è tenuto il lavoratore consiste nell'esecuzione della prestazione lavorativa. Di essa e dei suoi caratteri si è parlato già al capitolo II, paragrafo II, ed al capitolo III, paragrafo V. 2., a cui si rinvia. In questa sede si ricorda soltanto che la prestazione consiste nella messa a disposizione del "proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore" e che essa deve presentare i caratteri della liceità, possibilità, determinatezza o determinabilità, personalità e patrimonialità. Le situazioni giuridiche soggettive passive facenti capo al lavoratore: gli obblighi integrativi La dottrina dominante configura gli obblighi ulteriori, rispetto alle due obbligazioni principali cui sono tenute le parti del rapporto di lavoro, non quali obblighi accessori, costituenti posizioni giuridiche autonome, bensì quali profili coordinati e complementari rispetto alle obbligazioni principali, ad esse legati da un nesso funzionale. L'obbligo di diligenza Il primo degli obblighi integrativi facenti capo al prestatore è l'obbligo di diligenza. L'art. 2104, c.c., sancisce che "Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale.". La norma in esame fa riferimento a tre criteri, alla cui stregua la diligenza del prestatore deve essere valutata, e cioè quelli: - della natura della prestazione dovuta, che costituisce una specificazione dell'art. 1176, co. II, c.c., in virtù del quale "nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata"; - dell'interesse dell'impresa, che per alcuni si identifica con l'interesse dell'impresa in sé considerato, per altri con l'interesse soggettivo dell'imprenditore; posizione intermedia è quella di chi ritiene che l'interesse dell'impresa sia da considerare quale interesse soggettivo dell'imprenditore, inteso però non in senso stretto, ma come specifico interesse a ricevere la prestazione nell'ambito di un certo contesto; - dell'interesse superiore della produzione nazionale, criterio organizzativo da considerarsi implicitamente abrogato con la caduta del sistema corporativo e non sostituibile con il criterio dell'utilità sociale di cui all'art. 41, co. II, Cost., che costituisce un limite alla libera iniziativa economica privata, ma non anche un parametro di valutazione dell'adempimento dell'obbligazione lavorativa. L'inosservanza del dovere di diligenza comporta per il prestatore: - l'obbligo di risarcire, a titolo di responsabilità contrattuale, il danno che dalla sua condotta negligente o imprudente sia derivato al datore; - nonché l'eventuale sottoposizione a sanzioni disciplinari. L'obbligo di obbedienza Il co. II dell'art. 2104, c.c., pone a carico del prestatore l'obbligo di obbedienza, sancendo che egli deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro che gli vengono impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende. Come la giurisprudenza ha ripetutamente precisato, la soggezione del prestatore al datore ed ai suoi collaboratori non può superare i limiti imposti dalle norme di legge - in particolare, da quelle dello Statuto dei lavoratori - e dalle norme contrattuali, potendo, in caso contrario, il lavoratore, esercitare il c.d. jus resistentiae, cioè rifiutarsi di osservare le disposizioni impartite. L'inosservanza dell'obbligo di obbedienza può costituire, nei casi più gravi, giustificato motivo (soggettivo) di licenziamento. L'obbligo di fedeltà L'art. 2105, c.c., rubricato "Obbligo di fedeltà" pone a carico del prestatore un obbligo volto a tutelare l'interesse dell'imprenditore alla capacità di concorrenza dell'impresa (GHERA). Esso trae origine dal principio generale per il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (artt. 1175 e 1375, c.c.). Tre sono i divieti che costituiscono il contenuto dell'art. 2105, c.c., e cioè: - il divieto per il prestatore di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore: esso va distinto dal divieto di concorrenza sleale, di cui all'art. 2598, c.c., che rappresenta una forma di illecito extracontrattuale e si verifica solo nei casi espressamente previsti dalla norma; - il divieto di divulgazione delle notizie attinenti alla organizzazione ed ai metodi di produzione dell'impresa (c.d. segreti aziendali), con riferimento al quale va chiarito, da un lato, che si ha "divulgazione" quando le notizie di cui si tratta non abbiano ancora raggiunto un alto grado di diffusione e, dall'altro, che la divulgazione è vietata se ed in quanto finalizzata ad arrecare pregiudizio all'impresa; - il divieto di uso dei c.d. segreti aziendali: tale divieto, al pari di quello di divulgazione, è penalmente sanzionato (si vedano, in proposito, gli artt. 621, 622 e 623, c.p.). Sul piano civilistico, la violazione dell'art. 2105, c.c., dà luogo sia alla responsabilità disciplinare sia al risarcimento del danno eventualmente causato al datore. In conclusione, va anche ricordato che per alcuni autori (BUONCRISTIANO, MAZZIOTTI) e per la giurisprudenza (Cass. 5257/87), l'art. 2105, c.c., è una norma dispositiva e non imperativa, per cui l'autonomia delle parti - individuali o collettive - può sia consentire lo svolgimento di attività in concorrenza sia vietare al lavoratore l'espletamento di altre attività, autonome o subordinate, a favore di terzi, indipendentemente dalla rilevanza o meno di esse sotto il profilo della concorrenza. Il patto di non concorrenza Il divieto di concorrenza, sancito dall'art. 2105, c.c., avendo natura contrattuale, si estingue al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Tuttavia, l'art. 2125, c.c., consente alle parti di limitare lo svolgimento dell'attività del prestatore anche successivamente alla cessazione del contratto, con la stipulazione del "patto di non concorrenza". Tale stipulazione è circondata da particolari garanzie, essendo richiesti: - la forma scritta, a pena di nullità; - la previsione di un corrispettivo a favore del lavoratore; - il contenimento del vincolo entro determinati limiti di oggetto, luogo e tempo; La violazione del patto di non concorrenza può dar luogo ad una condanna al risarcimento del danno, ma non ad un ordine di cessazione dell'attività svolta. Le situazioni giuridiche soggettive attive facenti capo al lavoratore: i diritti patrimoniali Le situazioni giuridiche soggettive attive fanno capo al prestatore di lavoro comprendono diritti patrimoniali, diritti personali e diritti sindacali. Nella categoria dei diritti patrimoniali del lavoratore rientrano il diritto alla retribuzione, il diritto al trattamento di fine rapporto ed il diritto alle indennità speciali: di essi si dirà al capitolo XI. I diritti personali I diritti personali sono i diritti inerenti alla personalità del lavoratore nel cui ambito assumono peculiare rilievo: - il diritto all'integrità fisica ed alla salute nei luoghi di lavoro: a tutela di esso, l'art. 2087, c.c., impone al datore l'adozione di tutte le misure necessarie "secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica". Tale norma, però, benché ispirata ad una funzione prevenzionale, è stata per lo più utilizzata con funzione risarcitoria di eventi dannosi già prodotti. Il legislatore ha tentato di ovviare ai suoi limiti con l'art. 9, St. lav., che ne ha modificato la stessa ratio. L'art. 9, St. lav., infatti, da un lato, impegna nella politica di prevenzione non il solo datore, ma anche i lavoratori, che vi partecipano mediante le loro rappresentanze; dall'altro, prevede, sempre da parte delle rappresentanze dei lavoratori, non solo il controllo sull'applicazione delle norme esistenti, ma anche la promozione di nuove misure protettive, idonee a modificare le condizioni dell'ambiente di lavoro. Le previsioni dell'art. 9, St. lav., sono state poi razionalizzate dai contratti collettivi che hanno previsto sistemi di accertamento, analisi e controllo delle condizioni ambientali, nonché l'istituzione di registri dei dati ambientali e biostatistici e dei c.d. libretti personali sanitari e di rischio per i lavoratori. Dei risultati ottenuti dalla contrattazione collettiva ha tenuto conto anche la L. 833/1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale; - la libertà e la dignità del lavoratore: l'art. 2087, c.c., pone a carico del datore l'obbligo di adottare misure idonee a tutelare, oltre all'integrità fisica, anche la personalità morale dei lavoratori, ossia la sfera di libertà e riservatezza, che il contratto di lavoro può limitare solo se richiesto, in senso stretto, dalle esigenze tecnico-produttive (MAZZIOTTI). Anche in quest'ultimo caso è necessario, comunque, il rispetto delle norme dello Statuto dei lavoratori ed in particolare: dell'art. 1, che tutela la libertà di opinione dei prestatori e dell'art. 8, che vieta al datore di effettuare indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore (degli artt. 3, 4 e 6, St. lav. si parlerà in materia di vigilanza e controllo dell'attività lavorativa); - la tutela dell'interesse dei lavoratori ad adempiere funzioni pubbliche, che dà diritto alla conservazione del posto di lavoro, al computo del periodo di sospensione della prestazione lavorativa ai fini pensionistici ed alla assistenza sanitaria; - il diritto allo studio per i lavoratori studenti; - la tutela delle attività culturali, ricreative ed assistenziali. I diritti sindacali I diritti sindacali sono diritti che costituiscono espressioni tipiche dell'attività sindacale, riconosciuta ai singoli prestatori di lavoro. La dottrina più accreditata distingue: - i diritti sindacali generali, espressione della libertà di organizzazione ed attività sindacale e del diritto di sciopero; - ed i diritti sindacali speciali, concernenti alcune forme di attuazione della libertà sindacale (si pensi, ad es., al diritto allo svolgimento di referendum, al diritto ai premessi retribuiti e non retribuiti, ecc.). È chiaro che ai diritti del lavoratore sono correlati altrettanti obblighi del datore, e viceversa. La vigilanza dell'attività lavorativa ed il potere disciplinare del datore Il potere di vigilanza e controllo del datore ed i suoi limiti Come si è detto al capitolo precedente, il datore di lavoro è titolare di situazioni giuridiche soggettive attive e passive, di diritti ed obblighi contrapposti a quelli facenti capo al prestatore e ad essi funzionalmente collegati. Per quanto riguarda i diritti del datore, che la dottrina configura come poteri giuridici in senso proprio, esercitabili in maniera discrezionale per la tutela di un interesse proprio, va detto che, accanto al potere di impartire "le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro", un posto di rilievo occupa il potere di vigilanza e controllo sull'esecuzione del lavoro e sull'osservanza della disciplina. Tale potere, che in origine era privo di espressa regolamentazione legislativa, ha subìto sostanziali limitazioni con l'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori. Oltre agli artt. 1, 5 e 8, relativi alla tutela della personalità morale del prestatore, alla quale si è fatto cenno nel capitolo precedente, vengono in rilievo: - l'art. 2, che dispone che soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale il datore può impiegare guardie giurate, le quali dunque non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono a tale tutela e non possono essere adibite alla vigilanza sull'attività lavorativa; esse non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività se non eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di tutela del patrimonio aziendale. In caso di inosservanza dell'art. 2, l'Ispettorato del lavoro promuove presso il questore la sospensione dal servizio della guardia giurata, salvo il provvedimento di revoca della licenza da parte del prefetto per i casi più gravi; - l'art. 3, che statuisce che i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell'attività lavorativa debbano essere comunicati ai lavoratori interessati; - l'art. 4, che vieta l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, a meno che l'uso di tali strumenti sia richiesto da esigenze organizzative o produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro e previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, con la commissione interna. In difetto di accordo provvede l'Ispettorato del lavoro, contro i cui provvedimenti è possibile ricorrere al ministro per il lavoro e la previdenza sociale; - l'art. 6, che vieta le visite personali di controllo (ossia perquisizioni) sul lavoratore, tranne nei casi in cui esse siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti. In tali casi, le visite devono, comunque, essere circondate da particolari garanzie: così, possono essere eseguite solo all'uscita dei luoghi di lavoro con l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori. Le ipotesi in cui le visite possono essere disposte e le relative modalità devono essere concordate dal datore con le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, con la commissione interna. In difetto di accordo, provvede, su istanza del datore, l'Ispettorato del lavoro, contro i cui provvedimenti è possibile ricorrere al ministro per il lavoro e la previdenza sociale. Il potere disciplinare L'inosservanza delle disposizioni dettate dal legislatore in tema di diligenza e fedeltà del prestatore di lavoro (artt. 2104 e 2105, c.c.) può dar luogo all'irrogazione da parte del datore di sanzioni disciplinari, proporzionate alla gravità dell'infrazione (art. 2106, c.c.). La tipologia delle sanzioni previste dai contratti collettivi è divenuta, con il passare del tempo, sempre più complessa. Le sanzioni disciplinari oggi irrogabili sono, in ordine crescente di gravità: - l'ammonizione, verbale o scritta; - la multa (per un importo non superiore a 4 ore della retribuzione base); - la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione (per non più di 10 giorni); - il licenziamento disciplinare. Sono illecite, invece, quelle sanzioni che determinano un mutamento definitivo del rapporto di lavoro (ad esempio, la retrocessione, che però è ammessa nel settore degli auto-ferrotranvieri). L'irrogazione delle sanzioni è espressione del potere disciplinare del datore, nel quale la dottrina dominante ravvisa un potere autoritativo, unilaterale e punitivo, previsto in via del tutto eccezionale nell'ambito dei rapporti tra privati e che trova la sua ratio nel vincolo di subordinazione tecnicofunzionale del lavoratore; le sanzioni disciplinari vengono configurate quali speciali pene private, che adempiono però ad una funzione non risarcitoria, ma preventiva. Il potere disciplinare trova oggi la sua principale fonte di regolamentazione, oltre che nel Codice Civile e nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 29 novembre 1982 - di cui si dirà al capitolo XIV quando si tratterà del licenziamento disciplinare -, nell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori. Tale articolo, al fine di tutelare la libertà e la dignità dei prestatori, limita notevolmente l'esercizio del potere disciplinare, depotenziando, in tal modo, l'autorità del datore come capo dell'impresa. In particolare, esso afferma due princìpi fondamentali: - quello della predeterminazione e della pubblicità del codice disciplinare, che comporta che le norme disciplinari, conformi a quanto stabilito dai contratti collettivi e relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti; - quello del contraddittorio, che esclude la possibilità per il datore di irrogare sanzioni disciplinari senza aver prima contestato per iscritto l'addebito al lavoratore ed avergli consentito l'eventuale discolpa. Per la disciplina specifica della procedura di contestazione e di discolpa si rinvia ai co. II, III e IV dell'art. 7 dello Statuto, che sono da integrare con le norme contenute nei contratti collettivi e con la prassi aziendale. La fase procedurale della contestazione e della discolpa si svolge davanti al datore, che non è terzo, ma parte in causa e che è chiamato ad applicare la sanzione se reputa insufficiente la discolpa del lavoratore. L'imparzialità dell'organo è invece prevista per la fase eventuale e successiva dell'impugnativa della sanzione, che, ai sensi dell'art. 7, co. VI, St. lav., può avvenire mediante: - ricorso all'autorità giudiziaria; - ricorso al collegio di conciliazione ed arbitrato, la cui costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, è promossa dallo stesso lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare, nei venti giorni successivi; - procedure arbitrali analoghe previste dalla contrattazione collettiva. La retribuzione ed il trattamento di fine rapporto Nozione e caratteri della retribuzione La retribuzione è l'obbligazione fondamentale a cui il datore di lavoro è tenuto nei confronti del prestatore. Essa "può essere considerata il corrispettivo della messa a disposizione delle energie lavorative, in quanto costituisce il prezzo di quest'ultima, prezzo che non risponde a criteri strettamente economici essendo troppi i fattori sociali e politico-sindacali che si intrecciano nella determinazione del suo ammontare. Determinazione che trova la sua prima fonte in una norma costituzionale, l'art. 36, co. I" (MAZZIOTTI). Questa norma testualmente recita "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.". Nonostante la genericità dell'art. 36, co. I, Cost., è possibile individuare il significato: - sia del criterio della proporzione, in virtù del quale la retribuzione deve essere determinata secondo un criterio oggettivo di equivalenza alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, per cui la sua commisurazione dipende non soltanto dalla durata e dall'intensità della prestazione, ma anche dal tipo di mansioni espletate e dalle loro caratteristiche intrinseche; - sia del criterio della sufficienza, che corregge o almeno tempera il rigido criterio proporzionalistico, rispetto al quale assume un'importanza maggiore; in base al criterio della sufficienza, la misura della retribuzione deve oltrepassare il minimo vitale o di sussistenza, al fine di assicurare un livello di vita sufficiente a garantire un'esistenza libera e dignitosa non soltanto al prestatore come singolo, ma pure alla sua famiglia. L'art. 36, Cost., ha innanzitutto natura programmatica, in quanto vincola il legislatore a stabilire, con provvedimenti del Governo o con appositi meccanismi procedurali di carattere amministrativo, il salario minimo spettante al lavoratore. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico, non è mai stata emanata una legislazione determinatrice dei minimi salariali, per cui la giurisprudenza riconosce all'art. 36, Cost., oltre che la natura di norma direttiva, anche una funzione precettiva, considerandola direttamente vincolante nei confronti dell'autonomia privata. In altri termini, i giudici affermano che, in assenza di determinazione convenzionale della retribuzione o nell'ipotesi in cui la retribuzione pattuita sia insufficiente, il datore deve corrispondere un emolumento equivalente alla retribuzione minima prevista nei contratti collettivi di categoria o del settore produttivo di appartenenza del lavoratore, integrando i medesimi il requisito della sufficienza voluto dall'art. 36, Cost.. Per tale via, si realizza l'estensione erga omnes delle norme dei contratti collettivi riguardanti le tariffe salariali, che si applicano, infatti, in tal modo, anche ai prestatori dipendenti da imprese non aderenti alle associazioni sindacali. Gli elementi della retribuzione La retribuzione presenta una struttura composita perché "pur essendo il corrispettivo della prestazione di lavoro può essere utilizzata, a causa della sua intrinseca elasticità, per realizzare determinati scopi aziendali" (MAZZIOTTI). Dunque essa si compone di vari elementi, quali: - la paga base, il cui ammontare è fissato dai contratti collettivi per l'orario normale di lavoro, corrispondentemente alle varie categorie e qualifiche. Ad essa si aggiungono i c.d. scatti di anzianità, aumenti percentuali della retribuzione, previsti dalla contrattazione collettiva, con frequenza generalmente biennale; - le attribuzioni patrimoniali accessorie, previste dai contratti collettivi ed individuali, consistenti, nella maggior parte dei casi, in attribuzioni corrisposte, in aggiunta alla paga base, in maniera saltuaria o, più spesso, continuativa. Rientrano nella categoria: - i superminimi, incrementi collettivi od individuali che corrispondono a quella parte di retribuzione che supera i minimi tariffari; - le maggiorazioni per il lavoro straordinario, notturno e festivo; - le gratifiche (si pensi, ad esempio, alla tredicesima mensilità); - i premi di produzione o di rendimento. Un cenno a sé merita l'indennità di contingenza, istituto volto a correggere, almeno in parte, la natura della retribuzione come credito di valuta e, quindi, ad adeguarne il valore nominale a quello reale. Il sistema si è basato, fin dall'origine, sulla c.d. scala mobile, meccanismo che comporta un adeguamento automatico del livello retributivo al costo della vita attraverso il riferimento alle variazioni dei prezzi di particolari beni costituenti il c.d. paniere. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Settanta, l'istituto della scala mobile è entrato in crisi e, dopo vari interventi legislativi, è stato soppresso con il protocollo triangolare di intesa tra Governo e parti sociali del 31 luglio 1992. Il principio di omnicomprensività della retribuzione Problema particolarmente discusso in dottrina ed in giurisprudenza è quello dell'individuazione delle attribuzioni patrimoniali da far rientrare nel concetto giuridico di retribuzione. Esso inerisce alla sussistenza o meno, nel nostro ordinamento, del principio di omnicomprensività della retribuzione, per il quale essa ricomprende non solo il compenso che costituisce il diretto corrispettivo della prestazione lavorativa, ma anche tutti gli emolumenti che presentano carattere continuativo, periodico o costante nel tempo. Tale principio non è privo di risvolti sul piano pratico: primo fra tutti, quello dell'individuazione delle erogazioni che possono essere prese in considerazione per il calcolo di istituti che assumono la retribuzione come base di computo. La giurisprudenza era, in passato, nel senso della omnicomprensività della retribuzione, sostenuta sulla base di una congerie di argomentazioni, delle quali la più rilevante era quella dell'applicazione estensiva dell'art. 2121, c.c.. Oggi, anche a causa della modifica di tale articolo ad opera della L. 297/1982, tale orientamento è mutato e prevale quello per cui non esiste nel nostro ordinamento un concetto monolitico di retribuzione ed è da escludere che l'omnicomprensività valga oltre i casi richiamati espressamente dalla legge e dai contratti collettivi. I sistemi retributivi Alla stregua dell'art. 2099, c.c., la retribuzione può essere: - a tempo, se commisurata alla frazione di tempo di lavoro svolto (ora, giorno, mese). In tale sistema retributivo assume importanza la distinzione tra: retribuzione oraria, o salario, tipica del lavoro operaio e rapportata al numero di ore effettivamente lavorate, con la conseguenza che qualsiasi sospensione del lavoro comporta l'automatica perdita della retribuzione; e retribuzione mensile, o stipendio, propria del lavoro impiegatizio e stabilita in misura fissa mensile, comprensiva anche dei giorni di riposo settimanale o infrasettimanale; - a cottimo, se commisurata alle unità di prodotto fornite dal lavoratore, cioè al risultato produttivo. Nell'ambito di tale forma retributiva occorre distinguere: - il cottimo pieno, che si ha quando la retribuzione viene determinata in base alla quantità di lavoro prestato; - il cottimo misto, in cui la retribuzione è calcolata in parte a tempo ed in parte in base al sistema del cottimo; - il cottimo collettivo, legato al rendimento, non del singolo lavoratore, ma di un gruppo organizzato di lavoratori; - il concottimo, che designa un particolare trattamento retributivo riservato a lavoratori non cottimisti, il cui lavoro può aumentare con l'intensificarsi del ritmo di lavoro di prestatori cottimisti. Il cottimo può poi essere: - obbligatorio, quando, in ragione dell'organizzazione del lavoro il prestatore deve osservare un determinato ritmo produttivo e quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione (art. 2100 c.c.); - vietato, per gli apprendisti. A tutela dei prestatori, l'art. 2101, c.c., dispone che "L'imprenditore deve comunicare ai prestatori di lavoro i dati riguardanti gli elementi costitutivi della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguirsi e il relativo compenso unitario"; Ancora, sempre a termini dell'art. 2099, c.c., la retribuzione può essere: - a provvigione, se è commisurata al numero degli affari conclusi; - con partecipazione agli utili o ai prodotti, quando il lavoratore è retribuito, in tutto o in parte, con una percentuale sugli utili conseguiti dall'imprenditore nell'esercizio della sua attività; - in natura, ipotesi residuale, che si riscontra in alcune forme di lavoro domestico, agricolo e nel settore della pesca. Le modalità di pagamento della retribuzione La retribuzione è, di regola, corrisposta in danaro ed è, quindi, soggetta alla disciplina dettata dagli artt. 1277 e ss., c.c.. La contrattazione, collettiva ed individuale, fissa generalmente l'ammontare della retribuzione con riferimento ad un anno di lavoro; la corresponsione avviene, tuttavia, in ratei periodici e, per il principio c.d. della post-numerazione, dopo l'espletamento della prestazione lavorativa. Le modalità ed i termini di corresponsione della retribuzione sono quelli in uso nel luogo in cui il lavoro viene svolto, che è anche il luogo in cui la retribuzione viene pagata. In ordine alle modalità, la L. 5 gennaio 1953, n. 4, sanzionata penalmente, fa obbligo al datore di accompagnare la corresponsione della retribuzione con la consegna di un "prospetto paga", recante l'indicazione di tutti gli elementi costitutivi di essa. Il trattamento di fine rapporto e l'indennità in caso di morte La L. 29 maggio 1982, n. 297, ha sostituito all'indennità di anzianità - consistente nella retribuzione che maturava al momento della cessazione del rapporto di lavoro e che era pari al prodotto dell'importo dell'ultima retribuzione per il numero di anni di servizio prestato - il diverso istituto del trattamento di fine rapporto. Quest'ultimo, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, ha natura retributiva e previdenziale insieme, perché rappresenta quella parte di retribuzione cui il lavoratore alle dipendenze di un privato o di un ente pubblico economico ha diritto in ogni caso di cessazione del rapporto, al fine di superare le eventuali difficoltà economiche connesse a tale cessazione. L'art. 2120, c.c., nella nuova formulazione, dispone che il trattamento di fine rapporto si calcola accantonando, anno per anno, una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. Il totale delle quote accantonate - con esclusione della quota maturata nell'anno - è incrementato, su base composta, al 31 dicembre di ciascun anno, con l'applicazione di un tasso costituito dall'1,5% in misura fissa e dal 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall'ISTAT, rispetto al mese di dicembre dell'anno precedente. Nella retribuzione media da prendere a base del calcolo devono farsi rientrare tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese. Previsioni diverse possono, però, essere contenute nei contratti collettivi a cui la L. 297/1982 concede ampio spazio, tanto che la Cassazione ritiene possibili anche deroghe in peius, purché la disciplina pattizia assicuri al prestatore un trattamento complessivamente più favorevole. L'art. 2120, co. VI, c.c., dipone che il lavoratore, con almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore, può chiedere in costanza di rapporto di lavoro, un'anticipazione non superiore al 70% sul trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta. I commi dal VII all'XI dello stesso articolo contemplano una serie di limiti per tale anticipazione, che deve essere giustificata dalla necessità di: - eventuali spese sanitarie per terapie ed interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche; - acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile (si ricorda che la sent. n. 142/1991 della Corte cost. ha dichiarato illegittimo l'art. 2120, co. VIII, lett. b), nella parte in cui non prevede la possibilità di concessione in caso di acquisto in itinere comprovato con mezzi idonei a dimostrarne l'effettività). L'indicazione delle finalità per cui può essere chiesta l'anticipazione è evidentemente generica: ciò si spiega in considerazione dell'ampio margine che la legge lascia in materia alla contrattazione collettiva ed individuale, chiamata ad integrare e migliorare la disciplina legislativa. Il trattamento di fine rapporto, unitamente all'indennità di preavviso, spetta nel caso di morte del prestatore, ai "superstiti", ossia al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del lavoratore, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado. La ripartizione deve seguire i criteri stabiliti dall'accordo tra i superstiti; in difetto di accordo, il criterio del bisogno attuale di ciscuno. Secondo l'orientamento dottrinale prevalente, il diritto spetta ai prossimi congiunti indicati dalla legge "iure proprio", ciò che implica importanti conseguenze sotto il profilo fiscale e sotto quello dei rapporti del de cuius con i creditori, che non possono rivalersi sull'indennità in questione avente natura anche previdenziale ed assistenziale. Solo in mancanza di "superstiti" subentrano le norme della successione testamentaria o legittima e l'acquisto avviene "iure successionis". L'orario di lavoro La durata massima della prestazione di lavoro La disciplina che limita la durata massima della prestazione di lavoro, concernente l'orario di lavoro, le pause settimanali e le ferie annuali, svolge una rilevantissima funzione di tutela della persona del lavoratore. Essa, infatti, è volta a consentire a quest'ultimo non solo di reintegrare le energie spese nello svolgimento della propria attività, ma anche di soddisfare le proprie esigenze ricreative, familiari e sociali. Le principali fonti normative in materia sono: - l'art. 36, co. II, Cost., che contempla una riserva di legge nella determinazione della durata della giornata lavorativa; - gli artt. 2107 - 2109, c.c., che disciplinano le pause dal lavoro e che sono integrati dalle leggi speciali e dai contratti collettivi; - il R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, che, dopo aver subìto alterne vicende nel periodo corporativo e bellico, rappresenta la legge speciale tuttora vigente, e che fissa il limite massimo di 8 ore giornaliere o di 48 ore settimanali per tutti i lavoratori. È controverso, però, se tali limiti siano concorrenti ovvero se il lavoro prestato oltre le 8 ore giornaliere, ma entro le 48 settimanali rientri egualmente nell'orario normale, senza dar luogo a lavoro straordinario: la dottrina dominante e la giurisprudenza (PERA, MAZZIOTTI, Cass. 2729/83) sono orientate nel primo senso; - i contratti collettivi, che apportano continue deroghe in melius al limite massimo previsto dal R.D.L. 692/1923, riducendo di regola l'orario di lavoro a 40 ore settimanali. La durata massima concerne il solo lavoro effettivo, ossia quello che richiede un'applicazione continua e senza soste. Per tale ragione, oltre che per le particolari mansioni svolte, sono escluse dalla disciplina generale alcune categorie di lavoratori, e cioè: - i lavoratori addetti a lavori discontinui o di semplice attesa o custodia (indicati specificamente dal r.d. 6/12/1923, n. 2657); - gli impiegati di concetto con funzioni direttive (tra cui vanno ricompresi i quadri ed i dirigenti); - i commessi viaggiatori ed i piazzisti; - i lavoratori a domicilio; - i lavoratori domestici (salvo che conviventi); - il personale di sorveglianza; - il personale navigante; - alcune categorie di lavoratori agricoli. Inoltre, poiché per il calcolo della giornata lavorativa deve, come si è detto, farsi riferimento al solo lavoro effettivo, non possono prendersi in considerazione: i riposi intermedi (per la consumazione dei pasti); il tempo occorrente per recarsi al lavoro; quello necessario per indossare gli abiti di lavoro o per fornirsi degli attrezzi; le soste di lavoro non inferiori a 10 minuti dovute a forza maggiore oppure a necessità tecniche. Le parti possono protrarre l'orario di lavoro oltre il limite stabilito dalla legge nel caso di: - attività agricole o industriali, quando ricorrano necessità tecniche o stagionali; - lavori complementari e preparatori che debbano essere effettuati al di fuori dell'orario di lavoro. In tali ipotesi, il prolungamento dell'orario di lavoro va comunicato al competente Ufficio provinciale del lavoro. In conclusione, va notato anche che la durata massima della prestazione lavorativa, benché finalizzata alla tutela del prestatore, si configura quale limite ai poteri datoriali, con la conseguenza che, in caso di violazione, penalmente sanzionato è il solo comportamento del datore.

 

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