Product placement
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Product placement
1. Definizione
Il 'posizionamento di prodotto', letteralmente, è la pratica pubblicitaria1 che porta all'inserimento di un marchio/prodotto all'interno di un'opera cinematografica (o di una produzione televisiva, di un video musicale, un videogioco), legandolo al contesto narrativo-espressivo, in modo tale che siano perfettamente riconoscibili i segni distintivi, e che il prodotto/marchio risulti essere frutto 'spontaneo' delle scelte dei soggetti che vi prendono parte.
Parte della dottrina lo qualifica come “l’evidenziazione di un prodotto o di un servizio nel corso di spettacoli cinematografici o televisivi, per effetto di un accordo intercorso tra il produttore del film o della trasmissione (o il conduttore di questa) e il fabbricante del prodotto o l’offerente il servizio evidenziati”2.
Tale tecnica prevede l'utilizzo contestuale di un duplice linguaggio: quello artistico-cinematografico, e quello commerciale del marketing pubblicitario.
Chiaramente, perché si possa parlare di product placement, l'inserimento del marchio/prodotto deve essere funzionalmente effettuato a scopo promozionale/pubblicitario, cioè l'inserimento deve essere sovvenzionato dallo sponsor (il produttore/ distributore del prodotto o del servizio).
Sulla base di tale definizione, quindi, non costituiscono forme di product placement gli inserimenti di marchi o prodotti a scopo puramente artistico (si evita così di porre limiti alla forza creativa dell'artista), o le forme artistiche che hanno dato vita autonoma ai marchi, trasformando dei beni di consumo in vere e proprie forme d'arte, come nella Pop Art3 4 .
Si parla, così, di product placerment solo laddove l'inserimento del marchio all'interno del prodotto artistico viene effettuato intenzionalmente con scopo promozionale.
La finalità pubblicitaria non è, pertanto, presente nel caso di:
- inserimento intenzionale in assenza di scopo promozionale, al fine di comunicare un messaggio esclusivamente artistico (la cosiddetta veicolazione artistica del messaggio), positivo, negativo o neutro che sia. Qui il marchio fa parte dell'atto creativo stesso, e non è funzionale al suo significato pubblicitario vero e proprio. Chiaramente, alla veicolazione del messaggio mediante l'utilizzo del marchio, corrisponderà un fenomeno pubblicitario indiretto, che, però, non è detto sia necessariamente positivo (laddove il contenuto è veicolato in forma negativa, potrebbe anzi essere accolto in maniera diametralmente opposta alle aspettative);
- inserimento casuale del marchio/prodotto (tipico esempio, la scena ripresa in strada, con passaggio casuale dell'interprete davanti ad un cartellone pubblicitario, o messaggio pubblicitario portato da un autobus in transito, etc...), con l'unica finalità di contestualizzare il prodotto artistico, ed adattarlo al contesto narrativo dell'opera nel suo complesso.
2. Breve storia del product placement
Il product placement cinematografico nasce con la nascita stessa del cinema, il 19 Marzo 1895. Con l'obiettivo di battere sul tempo la concorrenza di George Estman e di Thomas Edison5, i fratelli Lumiere presentarono il loro 'Uscita degli operai dalla fabbrica Lumiere', breve filmato di autopromozione. In realtà, non c'è ancora un vero confine fra cinema e pubblicità. Classici esempi in tal senso 'Sunlight' (film francese degli stessi fratelli Lumiere, del 1898, su un gruppo di lavandaie che utilizzano il sapone Sunlight), 'Dewar’s Scotch Whisky' (film del 1897, anno di nascita dell'azienda stessa, in cui tre scozzesi ballano con sullo sfondo un cartello pubblicitario del whisky Dewar’s)6, e 'Cripple Creek Bar-Room Scene'7, il primo 'film western'8 della storia del cinema (di Edison, 1899), primo esempio ufficiale di product placement.
Le grandi dei nostri tempi, come la Coca-Cola, fanno la loro apparizione solo qualche tempo più tardi, intorno agli anni trenta, con l'introduzione del sonoro e la nascita dello script placement9
Nello stesso periodo assistiamo ad altre due importanti fenomeni avvicinabili al product placement: i film di propaganda e i fake brands
I primi nascono con l'intento, neanche troppo nascosto, di propagandare un determinato regime. Maestri nel settore, nel periodo compreso tra il 1933 e il 1945, i cineasti tedeschi. Sul mito della 'Hollywood tedesca', il Reich cercò di assoldare i registi più importanti dell'epoca, ma dovette fare i conti con il fatto che tutti i più grandi, da Lubitch a Lang, scelsero di emigrare pur di non piegarsi ai diktat del Nazionalsocialismo.
Sulla scia del simile orientamento politico, anche in Italia si produssero film di propaganda, al fine di esaltare le virtù del fascismo.
Il fake brand è, invece, un marchio fittizio (fake) utilizzato all'interno di un'opera cinematografica. Tale fenomeno nasce e assume rilievo soprattutto nei cartoon Looney Tunes, con la creazione del marchio ACME, acronimo di A Company Making Everything, ossia una ditta che produce di tutto (vera e propria 'multinazionale del prodotto'), ed in seguito introdotto in decine di film fino agli anni settanta (e con apparizioni che negli anni successivi si fanno sporadiche, probabilmente a causa del grande sviluppo del product placement vero e proprio)10
I marchi fittizi vengono creati ed inseriti nei film quando la parodia è talmente evidente da non permettere l'utilizzo di un vero marchio, o la finalità è quella di creare 'originali' campagne pubblicitarie che, in alcuni casi, appunto, fanno la parodia di quelle esistenti, spesso fungendo da posizionamento di marchio/prodotto esse stesse.
Chiaramente, il fenomeno non si è fermato alla nascita della ACME (che è solo stata la prima in ordine di tempo, e la più nota), ma ha prodotto numerosi degni successori, sconosciuti ai più11: le sigarette Red Apple di Quentin Tarantino (Pulp Fiction), il motore di ricerca Finder-Spyder (telefilm come Prison Break, Dexter o Criminal Minds); il prefisso '555' (riservato all'utilizzo nelle produzioni cinematografiche, come in Ghostbusters o La donna bionica).
E qui gli esempi potrebbero essere davvero infiniti.
Mi limito ad una nota insolita, una sorta di fake brand al contrario: in occasione del lancio del film 'Simpson – The movie' nel 2007, è stato inaugurato in California il primo 'Kwik - E - Mart’, il supermercato che nel cartoon si trova nella cittadina di Springfield, in cui è possibile trovare tutti i falsi prodotti del cartoon Simpson, compresa la celebre birra Duff.
Un esempio di come il fake possa, a furor di popolo, diventare un marchio reale.
In realtà, il cambiamento più radicale, che avrebbe in seguito portato al product placement come oggi lo conosciamo, si ebbe con l'avvio del fenomeno dello 'star system': centro dell'opera cinematografica non è più il messaggio artistico, bensì la star che vi partecipa. Tutto ciò che gira (o non gira) intorno ad essa diventa, direttamente o indirettamente, parte della sua 'aura', del suo potere fascinatorio12.
E' solo in questo momento, pertanto, tra la metà e la fine degli anni trenta, che il product placement assume le sue caratteristiche peculiari.
La dottrina, infatti, fa risalire il primo esempio ufficiale di product placement proprio a quest'epoca: nel 1945, in “Mildred Pierce”, Joan Crawford viene inquadrata mentre beve un bicchiere di Jack Daniel’s. Ed infatti, fu in quest’opera cinematografica che, per la prima volta, il piazzamento di prodotto venne inserito su espressa richiesta della società produttrice del prodotto stesso13.
Il 'potere' divistico era ben noto anche all'epoca, e sapientemente sfruttato: uno studio dell’Università della California, pubblicato sulla rivista d'oltremanica Tobacco Control, e recentemente ripreso da notiziari e giornali italiani14, ha rivelato come molti celebri attori statunitensi degli anni ’30 e ’40 venissero regolarmente pagati dall’industria del tabacco per pubblicizzare marche di sigarette nei film dei quali erano protagonisti, nonché nella loro vita pubblica.
Ma è solo nel 1963 che nasce, cinematograficamente, quello che alcuni autori hanno definito il 'testimonial-movie' per eccellenza, James Bond, e la sua nutrita compagnia fatta di Aston Martin, Martini, Dom Perignon, etc...: una pletora di marchi che caratterizzano inscindibilmente il contesto narrativo della storia, senza poter essere separati dal personaggio del protagonista.
Per il battesimo ufficiale del product placement come forma pubblicitaria, però bisognerà aspettare ancora qualche anno (il 1968, per alcuni, con '2001: Odissea nello spazio' di Stanley Kubrick; il 1982, con 'E.T. - l'Extraterrestre' di Steven Spielberg, per i più): solo in questo momento, infatti, si può iniziare a considerare il product placement una forma di comunicazione aziendale a tutti gli effetti15.
3. Il product placement come pubblicità 'indiretta', tra pubblicità ingannevole e pubblicità occulta
Il product placement, che, come vedremo, è oggi ammesso nelle opere cinematografiche nelle forme e con i limiti indicati, se effettuato lecitamente non può essere considerato una forma di pubblicità ingannevole, ma di pubblicità indiretta.
. La terminologia ingannevole, infatti, assume una forte connotazione negativa, come sottolineato dalla scelta operata nelle vigenti disposizioni, nonché nelle numerose pronunce che si sono susseguite negli anni, sia da parte del Garante (della Concorrenza e del Mercato) che del Giurì (creato dall'Istituto dell'Autodisciplina Pubblicitaria).
Definizione di cosa sia considerato 'ingannevole' la ricaviamo, innanzitutto, dalla lettura 'a contrario' dell'art. 1 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria (se “la comunicazione commerciale deve essere onesta, veritiera e corretta”, è ingannevoletutto ciò che è suscettibile di ledere la 'lealtà' della comunicazione pubblicitaria16).
Tale concetto è stato poi specificato nel D.Lgs. 74/92 di “Attuazione della direttiva 84/450/CEE, come modificata dalla direttiva 97/55/CE,
in materia di pubblicità ingannevole e comparativa”, nel quale è definita ingannevole “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta”17.
Differenza sostanziale tra il disposto del codice di autodisciplina e la normazione di cui al decreto legislativo sta nell'ulteriore requisito richiesto affinchè la pubblicità ingannevole cada sotto la scure delle norme di legge, ossia il pregiudizio economico, con restrizione, quindi, del relativo ambito applicativo rispetto all'ambito applicativo del codice di autodisciplina.
Il product placement, infatti, quale forma di pubblicità occulta, ossia non immediatamente percepibile come tale, è da alcuni per ciò stesso considerato 'geneticamente ingannevole'18: se al di fuori di modalità e limiti normativamente stabiliti, pertanto, ricadrebbe nel concetto di 'ingannevole', e, come tale sarebbe vietato, privando il messaggio pubblicitario dei suoi peculiari caratteri di trasparenza, veridicità, riconoscibilità.
Diversamente e più propriamente, utilizzato nei limiti normativamente previsti (ora dall'art. 9, co.3 del decreto legislativo n. 28/04), il product placement costituisce una forma di pubblicità indiretta prevista ed accettata dall'ordinamento italiano nell'ambito, al momento, delle sole produzioni cinematografiche.
4. Tipologie e livelli di product placement
La prima distinzione è tra il product placement commerciale e il product placement culturale: come abbiamo visto, solo nel primo caso siamo in presenza di una vera forma pubblicitaria, poiché il prodotto può essere sostituito senza alcuna modifica del contesto narrativo; nel secondo caso, invece, il prodotto svolge una semplice funzione di caratterizzazione del personaggio, e, pertanto, è parte integrante dell'espressione artistica, non di quella pubblicitaria.
Secondo le diverse forme di rappresentazione, sono possibili tre diverse tipologie di product placement commerciale:
- screen placement;
- script placement;
- plot placement.
1. Il posizionamento 'visivo' (screen) si realizza quando il prodotto/marchio è inserito nel contesto scenico/scenografico, in primo piano o sullo sfondo. Di solito, all'interno dello stesso prodotto cinematografico il posizionamento visivo viene realizzato attraverso differenti combinazioni delle due forme.
2. Il posizionamento 'verbale' (script) si realizza quando sono gli attori sullo schermo, protagonisti o meno, a parlare del prodotto, inserendolo nel contesto narrativo. E' più raro del posizionamento visivo, poiché meno incisivo e più difficile da realizzare in maniera efficace e convincente senza sembrare avulso dal contesto.
3. Si parla, invece, di posizionamento 'integrato' (plot) quando la storia viene costruita intorno al prodotto, che viene inserito razionalmente all'interno della storia stessa, arrivando, in talune ipotesi, a diventarne il protagonista, esaltando il valore artistico della narrazione.
Per una efficace realizzazione del product placement, l'ideale è una combinazione delle diverse tipologie previste, soprattutto visivo e verbale, anche se, dal punto di vista dell'investitore, questa è certo la tipologia più costosa.
La via del product placement, quale alternativa alle usuali forme pubblicitarie, infatti, viene percorsa per motivi di maggiore visibilità e notorietà rispetto alla pubblicità tradizionale, ma, anche, per caratterizzare maggiormente il prodotto, in relazione al contesto nel quale viene inserito19.
L’aspetto dell’integrazione è quindi fondamentale se si intende dar luogo ad una corretta ed efficace operazione di product placement, dato che non basta immaginare il tipo di prodotto-marchio che potrebbe essere inserito nel contesto, quanto come effettuare l'inserimento.
L'associazione che lo spettatore/fruitore è solito fare è quella tra il soggetto attore e il prodotto: maggiore empatia ci sarà con il soggetto attore (e con la storia), maggiore empatia/simpatia ci sarà per il marchio/prodotto, con ritorni estremamente positivi sull'investimento realizzato.
Paradigmatico, ormai, in tal senso, e citato da molteplici fonti, l'esempio della caramelle Reesie's Piecies, presenti in numerose scene del film 'E.T. - L'Extraterrestre', che videro, nei mesi successivi all'uscita del film in sala, un aumento di fatturato tra il 66 e l'85%.
Oltretutto, come alternativa alla pubblicità tradizionale, il product placement risulta essere praticamente immune ai comuni problemi che affliggono quest'ultima: il senso di rifiuto indotto dalla sua eccessiva presenza, e la tendenza alla fuga da parte del fruitore (zapping).
Quest'anno, per la prima volta in Italia, è stato utilizzata una tecnica statunitense nota col nome di naming placement: sulla scia di 'Colazione da Tiffany' e del più recente 'Il Diavolo veste Prada', anche l'Italia conosce il primo inserimento di prodotto all'interno del nome di un film, 'L'Ultimo Crodino', esperimento dell'agenzia pubblicitaria Top Time di Torino, che annovera tra i soci gli stessi produttori del film.
In realtà, l'esempio statunitense ci mostra come le comuni forme di product placement di cui abbiamo finora parlato siano solo un primo livello di pubblicizzazione del marchio, il più elementare, poichè si basano sulla semplice presenza del marchio o del prodotto all’interno della scena (un cartellone pubblicitario, una lattina di bibita appoggiata sul bancone di un bar, etc...).20
Da decenni, invece, l'evoluto prodotto cinematografico d'oltreoceano utilizza un product placement di secondo e terzo livello: il primo, il product integration (o product tie-in), prende le caratteristiche peculiari del prodotto e le rende parte integrante della storia. Pensiamo ai personaggi di 'Man in Black' ,in abito nero e Rayban; lo stesso dicasi per i personaggi di 'Matrix': altra storia, stesso marchio per gli occhiali).
Il terzo livello – branded entertaiment – consiste nel trasformare il prodotto nella vera star del film, renderlo protagonista della storia (uno dei migliori esempi di scuola è sicuramente 'Toy Story' della Pixar, in cui tutti i personaggi sono giocattoli Playskool e Mattel).
In Italia l'applicazione del product placement è ancora ferma al primo stadio. Poche le escursioni nel product tie-in: ne è mirabile esempio il film 'The Minis' prodotto dalla Really Good Productions di Valerio Zanoli, uscito nel 2007, con discreti risultati, ma mirabile realizzazione della tipologia avanzata di placement.
Sintomo che anche da noi, quando si vuole, è possibile realizzare forme evolute di product placement, nonostante le differenze di mezzi a disposizione, e, anzi, forse proprio per questo. Il film ha visto la partecipazione di marchi celebri con accordi di co-marketing firmati prima della realizzazione del film, per 1,5 mln di euro (La Gazzetta dello Sport, RTL 102.5, Tv Sorrisi e Canzoni, Yahoo, Cisalfa, etc..), ed altri in post-produzione (primo film italiano, tra l'altro, legato all'Happy Meal di McDonald)21.
Nonostante l'arretratezza del sistema cinematografico italiano, il product placement riscuote un notevole successo: esempio emblematico è quello di Pasta Garofalo, marchio italiano di qualità che dal 2006 ha deciso di investire la totalità del proprio budget pubblicitario esclusivamente nelle varie forme di product placement.
Ma il product placement non si ferma alla produzione: al fine di facilitare anche la distribuzione, che resta l'anello debole della catena cinematografica italiana, è stato introdotto il “product placement allargato”, nel quale l'inserimento del prodotto segue l'intero ciclo vitale del film, dall’uscita in sala, all’home-video, alla paytv ed alla tv generalista.
Alcuni autori distinguono, a riguardo, tra product placement in-program (laddove il collocamento del marchio avviene all'interno del contesto narrativo) e ex-program (riferibile alle sole operazioni promozionali pre e post a supporto dell’inserimento del marchio)22.
In realtà i sistemi utilizzabili sono molteplici e dipendono dal livello di investimento che l’azienda intende dedicare: ad esempio, legare direttamente film e prodotto (come fa spesso McDonal con l’Happy Meal con i film Disney-Pixar) oppure avviare una campagna pubblicitaria ad hoc studiata prima dell’uscita del film (come nel caso della Mini per The Italian Job), con un'operazione definita cross promotion, che permette all’azienda di associare il proprio marchio o il proprio nome al film o al personaggio anche fuori dalla pellicola stessa e di sponsorizzare, contestualmente, il film stesso.
Queste operazioni promozionali di contorno sono, in realtà, di importanza fondamentale, visto che la specificità del product placement sta proprio nella necessità della 'notorietà' dell'investimento per la buona riuscita dell’operazione, nel rendere nota la pubblicità occulta.
4. Elementi contrattuali del product placement
Il contratto di product placement è sicuramente un contratto pubblicitario, che utilizza, di quest'ultimo, i suoi aspetti distintivi: posto in essere da operatori pubblicitari nell’esercizio di attività pubblicitarie o per conseguire scopi o produrre risultati pubblicitari. Ciò che caratterizza e distingue tutti i contratti pubblicitari, infatti, non sono i tratti caratteriali o la natura giuridica, ma solo la loro relazione con la pubblicità o, più esattamente, il fatto che sono posti in essere da operatori della pubblicità e diretti a regolare rapporti inerenti alla pubblicità23.
Al di là delle specifiche caratteristiche, quindi, che ne rendono estremamente vario il contenuto e la tipologia, sono caratterizzati dalla stessa funzione socio-economica, e cioè fine pubblicitario.
Distinguendo la specifica fattispecie 'contratto di product placement', siamo in presenza di un contratto atipico, sia per l'assenza di una precisa codificazione in tal senso, sia perché il contratto può essere oggetto dell'attività di intermediazione da parte delle agenzie pubblicitarie, che hanno, oltretutto, la possibilità di concludere direttamente i relativi contratti (divenendone parti).
Per quanto riguarda l'oggetto, il contratto di product placement può consistere in una prestazione di servizi, finalizzata al collocamento di uno specifico marchio/prodotto all'interno di una specifica opera; o, in alternativa, in un contratto di mandato (anche se, per la pluralità delle prestazioni e per la totale libertà nei mezzi utilizzabili, la fattispecie sembra avvicinarsi di più ad un appalto di servizi)24.
Il contratto di product placement è un contratto consensuale, ad effetti obbligatori, a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive. Quest'ultimo aspetto è fondamentale, atteso che costituisce caratteristica precipua del contratto proprio l'individuazione della 'durata e dello spessore dell'inserimento', cui si collega il placement stesso.25
Esso prevede, di norma, il versamento del costo 'pubblicitario' dell'inserimento (paid product placement), o, in alternativa, la fornitura di beni o di servizi aventi un valore monetario, per il cui acquisto il ricevente avrebbe dovuto impiegare proprie risorse finanziarie, personali o materiali (barter product placement).
L’impresa di produzione audiovisiva, che intende rendere più realistico il contesto narrativo e contemporaneamente acquisire risorse per la realizzazione dell’opera, e le imprese inserzioniste, produttrici di beni e/o servizi, che cercano di promuovere un proprio prodotto/servizio, nonché il proprio marchio ed esse direttamente collegato sono parti necessarie del contratto.
Nel caso del mandato, saranno parti necessarie anche le agenzie specializzate in product placement, con il delicato ruolo di identificare il prodotto audiovisivo più adatto per un dato marchio, di intervenire nel contesto narrativo e controllarne il posizionamento.
Società di produzione, aziende e agenzie pubblicitarie sono chiamate ad una stretta collaborazione: solo la perfetta integrazione tra le parti può portare ad un risaltato che coniughi l'operazione commerciale e quella artistica.
La tipica metodologia di stipulazione contrattuale prevede lo 'spoglio della sceneggiatura', con iniziativa dell'agenzia pubblicitaria che contatta le imprese che possono essere interessate al progetto; a tale metodo, detto classico, si contrappone un metodo alternativo in cui il contatto parte dalle imprese nei confronti dell'agenzia, e, ovviamente, non è (e non può essere) preceduto dallo spoglio della sceneggiatura.
Clausole essenziali, oltre a quelle relative alla durata ed alla tipologia dell'inserimento, cui commisurare il costo del product placement 26, nonché quelle relative ai limiti e divieti posti dall'appartenenza di tale fattispecie contrattuale ai 'contratti pubblicitari' (norme imperative) e all'atteggiamento delle parti in caso di ipotesi di nullità; infine, quelle rinvenienti dalla specifica tipologia di placement adottata.
Parlando, ovviamente, di un contratto atipico, nei limiti suddetti il contenuto del contratto sarà, comunque, della tipologia più varia.
5. Rapporto tra product placement e contratto di sponsorizzazione
Le due tipologie contrattuali sono simili ma non assimilabili: entrambi i contratti prevedono un accordo tra l’impresa, produttrice/fornitrice del prodotto/servizio, e il produttore del film o del programma televisivo; oggetto dell’operazione è l'inserimento di un 'messaggio pubblicitario' all'interno di una produzione (cinematografica, televisiva, spettacolo, manifestazione, etc..).
Di solito, ulteriore elemento assimilante è costituito dal fatto che la promozione viene affidata ad un personaggio (detto testimonial) noto ed amato dal pubblico.
Essenziali sono gli elementi che distinguono le due tipologie contrattuali: la sponsorizzazione ha ad oggetto necessariamente l’intera opera (programma, manifestazione, evento), laddove il product placement può essere previsto in una singola scena; il product placement, ancora, ha spesso un ruolo 'attivo' (ossia, come abbiamo visto, si inserisce dinamicamente nel contesto narrativo, caratterizzandolo), laddove, la sponsorizzazione è passiva, limitata all'apparizione e/o citazione del marchio/prodotto; infine, il product placement si distingue in quanto è efficace proprio in virtù della mancata esplicitazione dell’accordo tra il committente e i responsabili del programma finanziato (salvi i limiti di legge, di cui vedremo meglio più avanti).
In realtà, l'errata identificazione tra contratto di sponsorizzazione e contratto di product placement è causata dalla loro qualità di 'forme di finanziamento' alle produzioni artistiche: in tal caso, il product placement si distinguerebbe per essere un contratto di sponsorizzazione 'integrato' (e modificato) dalla presenza di specifiche clausole contrattuali.
Il contratto di sponsorizzazione, inoltre, è più risalente rispetto al product placement, poiché è già stato regolamentato in passato dalla legge 223/90, all'art. 8, co. 13, 14 e 15; non c'era, invece, all'epoca, una disciplina della pubblicità indiretta (vietata espressamente solo nel 1992, anche se mai espressamente nella forma del product placement e regolamentata, come vedremo, solo a partire dal 2004).
6. L'evoluzione della normativa italiana sul product placement
La storia del product placement italiano è sostanzialmente diversa da quella statunitense, come diverso è lo sviluppo sociale del nostro paese, soprattutto negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale.
Gli studiosi del fenomeno hanno identificato una sorta di product placement nei cosiddetti 'film di propaganda', dove, effettivamente, la veicolazione di un prodotto (le glorie del ventennio fascista ed il conseguente 'benessere' dei cittadini) veniva rivestita dalla confezione artistica dell'opera cinematografica.
Lo scenario muta radicalmente solo con la definizione del secondo conflitto, e l'arrivo di marchi e prodotti statunitensi nel nostro mercato, con il loro enorme potenziale fascinatorio: l'America, mito vagheggiato, diviene finalmente raggiungibile, metà e riferimento insieme, patria delle mode e degli stili di vita più moderni e desiderabili.
E cosa poteva esserci di maggiormente desiderabile di ciò che il grande schermo mostrava?
Negli anni del boom economico arriva in Italia anche la televisione, e con essa Carosello. La pubblicità televisiva, però, anche nella forma più nobile dei 'film' di Carosello, non può essere considerata una vera forma di product placement: qui, infatti, al film segue quello che in gergo si chiama 'codino', ossia il vero spot pubblicitario (all'epoca, infatti, la pubblicità vera e propria non poteva superare i 35 secondi: la durata del codino, per l'appunto27), laddove nel product placement elemento essenziale è l'inserimento e la contestualizzazione del prodotto all'interno dell'opera artistica.
Nelle opere cinematografiche l'abuso del product placement si contrappone ad un pubblico acerbo ed impreparato, passivo di fronte alla massiccia invasione dei marchi e dei prodotti: è solo con l'entrata in vigore della legge n. 165/62, infatti, che viene introdotto un primo divieto, relativo alla pubblicizzazione nelle opere cinematografiche dei prodotti per fumatori.28
Negli anni ottanta e novanta il fenomeno trova un suo naturale assestamento: diminuisce il numero dei prodotti 'pubblicizzati', ma non l'intensità del fenomeno.
La vera svolta la segna il decreto legislativo 25 gennaio 1992 n. 74, “Attuazione della direttiva 84/450/CEE in materia di pubblicità ingannevole”, che vieta l'utilizzo di pratiche assimilabili al product placement nell'ambito della produzione cinematografica. L'unica possibilità lecita era data dal semplice inserimento delle merci nelle opere, senza, però, alcuna possibilità di pubblicizzazione del marchio stesso.
Il decreto legislativo colpiva un fenomeno considerato illecito a causa dell'impossibilità da parte del pubblico di riconoscerne la natura pubblicitaria e la conseguente necessità di approntare idonee forme di tutela, nei confronti di quest'ultimo, nonché degli autori delle opere artistiche.
Del pari, forte era la spinta contraria verso la necessità di regolamentare il fenomeno, anziché vietarlo, in un'ottica di tutela coordinata con la libertà di iniziativa economica, costituzionalmente garantita29
Tale auspicio viene, però, colto solo diversi anni più tardi, nel 2004, con l'adozione del decreto legislativo n. 28/2004.
Fino al 2004, però, è importante ricordare che nessuna norma vietava espressamente l'utilizzo del product placement: solo la sua equiparazione alla pubblicità occulta, e l'attività interpretativa dei tribunali, avevano portato ad una sostanziale illiceità nella sua applicazione, ritenuta in contrasto con l'obbligatoria trasparenza pubblicitaria.
Di certo, comunque, la positività della norma fuga, dal 2004 in avanti, ogni dubbio sulla legittimità nell'utilizzo di tale forma pubblicitaria, opportunamente regolamentata, all'interno dei prodotti cinematografici.
L'iter che ha portato a tale ultimo testo normativo prende le mosse dalla direttiva 84/450/CEE del Consiglio Europeo del 10 settembre 1984, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di pubblicità ingannevole
Alla fine degli anni ottanta, in Italia l'attenzione del legislatore era incentrata sull'applicazione del codice di Autodisciplina Pubblicitaria30 (in passato ignorato dall'ordinamento giuridico, ed ora parte integrante delle leggi volte alla tutela dei consumatori ed alla repressione della pubblicità ingannevole), sulla cessazione del fenomeno della pubblicità ingannevole, nonché sull'eliminazione dei suoi effetti, attraverso l’intervento del Giurì, prima, e, successivamente, dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.31
Negli anni novanta, il forte aumento del fenomeno pubblicitario, dovuto soprattutto allo sviluppo della televisione commerciale, porta una conseguente proliferazione di normative di settore: la legge n. 223 del 1990, recante la "Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato" (Legge Mammì); la legge n. 483/92 recante “Disposizioni urgenti in materia di pubblicità televisiva”; il decreto ministeriale 425/91 (che riforma la legge 165/62 vietandone anche la cd. pubblicità indiretta) “Regolamento concernente attuazione degli articoli 13, 15 e 16 della direttiva del Consiglio delle Comunità europee del 3 ottobre 1989 (89/552/CEE), relativi alla pubblicità televisiva dei prodotti del tabacco e delle bevande alcoliche ed alla tutela dei minorenni” ; il d.lgs. 74/92 “Attuazione della direttiva 84/450/CEE, in materia di pubblicità ingannevole”.
L'intero iter legislativo prende avvio con la legge delega n. 428/90 (Legge Comunitaria per il 1990), e con la necessità di procedere all'emanazione di successivi decreti legislativi per adeguare la legislazione italiana alle direttive comunitarie.
La delega prevedeva, tra l'altro, la previsione di un’Autorità Garante, competente in tema di sospensione e divieto di pubblicità ingannevole, nonché per l’adozione dei provvedimenti necessari all’eliminazione degli effetti eventualmente prodotti; la valorizzazione degli organismi volontari e autonomi di autodisciplina e la loro funzione preventiva prevedendo la sospensione della procedura avanti l’autorità per un periodo non superiore a trenta giorni, in caso di ricorso avanti l’organo di autodisciplina; di salvaguardia della giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’art. 2598 del Codice Civile.
Un notevole passo avanti nella definizione dell'istituto si ebbe, però, solo con l'emanazione del decreto legislativo n. 74/92, con l'individuazione delle regole della trasparenza pubblicitaria e della cosiddetta “pubblicità subliminale”32: ai sensi dell'art. 4, co 1, infatti, “la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale – omissis -”, e, “è vietata ogni forma di pubblicità subliminale” (art. 4, co.3).
Si richiede, pertanto, come evidenziato da parte della dottrina, che si svolga “un doppio passaggio motivazionale: la qualificazione della comunicazione esaminata quale pubblicità o semplice manifestazione del pensiero, e, successivamente, in caso di accertamento della natura promozionale del messaggio, la valutazione circa la effettiva riconoscibilità dello stesso quale pubblicità”33.
In realtà, il testo evidenzia la volontà governativa di disciplinare il solo fenomeno della pubblicità ingannevole: infatti, la pubblicità relativa a prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza dei consumatori (art. 5) o rivolta a bambine e adolescenti (art. 6), è stata sostanzialmente equiparata dal legislatore alla pubblicità ingannevole (utilizzando una fictio juris, si dice che “è considerata ingannevole”, allo scopo di tutelare i beni supremi della sicurezza e della salute), consentendo al Garante, istituito, come abbiamo visto, con la legge n. 287/90, di intervenire con l'inibitoria prevista dall’art. 7, co.234.
Quindi, mentre in relazione a tali fattispecie ed alla loro violazione la pubblicità è considerata tout court ingannevole, nelle altre forme di illecito pubblicitario non è espressamente stabilita l'equiparazione con la pubblicità ingannevole, anche se la giurisprudenza e la dottrina hanno portato ad una interpretazione estensiva del concetto di 'ingannevole'35. Un messaggio pubblicitario può essere veritiero, ma tuttavia difettare del requisito della 'riconoscibilità'36 come messaggio pubblicitario, pertanto sanzionabile tramite l'intervento del Garante.
Alla luce di quanto innanzi detto, con il decreto legislativo 74/92 il product placement diventa una forma pubblicitaria punibile, e, pertanto, vietata dall'art. 4, co.1, difettando dei requisiti di chiara 'riconoscibilità', di distinguibilità, di 'evidente percezione'37.
Chiaramente, l'applicazione di tale impianto normativo ad un fenomeno solo parzialmente pubblicitario è frutto di un adattamento della normativa, che non tiene conto delle peculiari caratteristiche del product placement38: un film che ambienta la propria storia in una città e in uno specifico contesto si troverà a fare i conti con tante altre forme di pubblicità, difficilmente distinguibili in volontarie e involontarie, dirette e indirette (negozi, vetrine, oggetti, affissioni, etc...).
Come spesso la dottrina ha sottolineato, un primo problema interpretativo discendeva dalla difficoltà di distinguere, all'interno del prodotto cinematografico, il soggetto 'autore' del messaggio pubblicitario, regista, scenografo, sceneggiatore o attore che esso fosse.
Se, infatti, procedere contro queste figure ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. 74/92 è sostanzialmente corretto dal punto di vista della legittimazione passiva (in senso stretto, tali soggetti sono autori dell'opera, e autori anche del messaggio pubblicitario in essa contenuto), non lo è altrettanto sul piano pratico e sistematico.
Tale sistema normativo è rimasto sostanzialmente immutato fino al 2004, quando l'allora Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Giuliano Urbani, concretizzò un complesso sistema di riforma di tutta la legislazione in materia di cinema, che sfociò nel decreto legislativo n. 28/04 del 22 gennaio 2004.
Il decreto ha introdotto una serie di sostanziali novità: tra le tante, nel caso che qui ci interessa, la regolamentazione della comunicazione pubblicitaria occulta all'interno dei film, con possibilità di utilizzare marchi e prodotti all'interno dell'opera cinematografica (art. 9, co.3).
L'art. 9, co.3, quindi, innova la tradizione ultradecennale ed, espressamente, reintroduce la pubblicità indiretta sotto forma di 'inquadrature di marchi e prodotti comunque coerenti con il contesto narrativo', purchè il prodotto cinematografico contenga un 'idoneo avviso che renda nota la partecipazione delle ditte produttrici di detti marchi e prodotti ai costi di produzione del film'.
In realtà, l'eccessiva ermeticità della norma lascia aperte una serie di problematiche: prime tra tutte, quelle relative ai concetti di 'coerenza con il contesto normativo' e di 'idoneità dell'avviso'.
Il tenore dell'art. 9, co.3, ad ogni modo, consente di cambiare radicalmente prospettiva rispetto all'art.4 del d.lgs. 74/92: il product placement non può più essere considerato una forma di pubblicità non 'riconoscibile', non distinguibile, di non 'evidente percezione'.
Il successivo decreto ministeriale del 30 luglio, in due soli articoli, ha poi disciplinato le modalità tecniche di attuazione del collocamento pianificato di marchi e prodotti nelle scene di un'opera cinematografica.
Diventa, così, 'ammesso il collocamento pianificato di marchi e prodotti nelle scene di un'opera cinematografica "product placement" con le modalità tecniche previste' (art. 1, co.1), la cui determinazione è rimessa alla 'contrattazione tra le parti' (art. 1, co.2); si ribadisce, poi, che 'la presenza di marchi e prodotti è palese, veritiera e corretta (qui il riferimento, esplicitato, è ai principi e criteri del decreto legislativo n. 74/92, che il product placement 'deve integrarsi nello sviluppo dell'azione, senza costituire interruzione del contesto narrativo'; si cerca, infine, di risolvere una delle questioni aperte (l'idoneo avviso), specificando che esso consiste in 'un avviso nei titoli di coda che informi il pubblico della presenza dei marchi e prodotti all'interno del film, con la specifica indicazione delle ditte inserzioniste' (art. 2, co.2).
In realtà, la portata innovativa di tale previsione normativa è stata notevolmente ridotta dall'interpretazione datane dalla dottrina, concentratasi sulle evidente lacune ed omissioni proprie della nuova previsione normativa.
Dalla previsione normativa rimane escluso, per esempio, il product placement televisivo, chiaramente limitatamente alle produzioni strettamente televisive, atteso che i prodotti cinematografici che passano sul piccolo schermo sono normale oggetto di product placement secondo il disposto del d.lgs. 28/04, e oggetto, oltretutto, di quello che abbiamo visto essere il product placement 'allargato'.
Tale trattamento 'discriminatorio' viene a creare difficoltà applicative nel momento del passaggio di un'opera cinematografica nel circuito televisivo, con le possibili diverse forme di trattamento ad opera del d.lgs. 28/04 (e successivo DPCM 30 luglio 2004) e del d.lgs. 177/05.
Tale forma di inserimento promozionale televisiva è, al momento, possibile in tutta Europa tranne che in Italia.39
A questo riguardo, l’Italia si appresta a recepire la direttiva europea sui servizi audiovisivi “Audiovisual Media Services” 2007/65/CE, come approvata il 19 dicembre 2007 dall’Unione Europea.
La nuova direttiva è lo sviluppo dell'iniziativa avviata nel 1997 ad opera della Commissione europea per attualizzare la direttiva 89/552/CEE "Televisione senza frontiere", che aveva l'obiettivo di creare un mercato uniforme dei servizi televisivi, promuovendo nel contempo l'industria europea.
Il punto di maggior interesse della nuova direttiva riguarda senza dubbio l'introduzione del product placement in ambito televisivo.
La direttiva Audiovisual Media Services fissa alcuni paletti fondamentali: ll product placement è vietato nei notiziari e nei programmi di attualità, nei programmi per bambini e nei documentari.
Gli Stati membri possono autorizzare l'inserimento di prodotti in opere cinematografiche, film, serie televisive e trasmissioni sportive, avendo cura, però, di avvertire lo spettatore all'inizio e alla fine della trasmissione e dopo le interruzioni pubblicitarie, della presenza del product placement., in ossequio ai principi di verità e trasparenza, che permeano tutta l'evoluzione normativa degli ultimi anni.
L'11 marzo scorso il Senato della Repubblica ha approvato la Legge Comunitaria per il 2008 (ddl 1078-C).
All'articolo 17, la Legge Comunitaria apre le porte proprio al product placement televisivo, con l'introduzione delle necessarie modifiche alla normativa italiana sul divieto di product placement televisivo come previsto dal decreto legislativo 177/05.
In tema di pubblicit°, in particolare, la direttiva definisce esplicitamente il concetto di “inserimento di prodotti” e stabilisce il quadro giuridico in materia, fissando tra l'altro il principio del divieto di inserimento di tali prodotti, ma demandando agli Stati membri la decisione in merito alla eventuale deroga a tale principio.
La disposizione dell'articolo 17 del disegno di legge è volta a definire l'ambito di esercizio della discrezionalità dello Stato in materia di inserimento dei prodotti, attraverso la modifica al testo unico della radiotelevisione, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177.
L'opportunità di recepire tali norme nel nostro Paese si è evidenziata dalla necessità di garantire un unico trattamento, non discriminatorio, alle opere audiovisive prodotte in Italia rispetto a quelle prodotte in altri Paesi, comunitari e non, introducendo regole certe di certa applicazione per il pubblico dei fruitori, e, nello stesso tempo, evitando di penalizzare economicamente il settore della produzione audiovisiva italiana.
Un differente approccio, infatti, comporterebbe comunque la diffusione nel nostro Paese di opere audiovisive contenenti il product placement prodotte in Paesi dove la legislazione lo consente, con la conseguenza che eventuali effetti negativi sugli utenti non sarebbero neanche compensati dalla crescita del nostro prodotto audiovisivo nazionale. Occorre, inoltre, considerare che le stringenti regole previste dalla direttiva per la diffusione del product placement, quali il divieto dell'inserimento di prodotti a base di tabacco, di sigarette, di prodotti medicinali o cure mediche, l'esclusione dai programmi per bambini, il principio di salvaguardia dell'integrità del programma e dello spettatore, ove integralmente recepite, regolano una pratica già usuale in molti Paesi europei.
La direttiva, nel consentire l'inserimento del product placement, ha replicato l'approccio francese, ovvero quello di consentirne la presenza, ma, contestualmente, introducendo regole e condizioni più stringenti rispetto ai normali criteri di inserimento della pubblicità tradizionale, nella speranza di ottenere, così, una regolamentazione il più possibile omogenea da paese a paese.40
In realtà, l'Italia non sarebbe obbligata a fare propria questa regola europea. Ed è proprio questa 'facoltà', riconosciuta anche dall'Europa, a spingere il centrosinistra a chiedere di ignorare il product placement televisivo, per evitare che altra pubblicità si trasferisca alle emittenti tv e ai produttori di programmi per la tv, a discapito dei giornali.
Nella consapevolezza che tali rilievi non saranno considerati, ll centrosinistra ha avanzato allora la richiesta di vietare che il product placement possa essere effettuato nelle trasmissioni per minori.
L'attuale maggioranza di governo sembra essere disponibile a vietare la pioggia dei marchi, ma solo nelle trasmissioni per bambini.41
8. Riflessioni conclusive
Il quadro normativo europeo è in evoluzione, e potrà trovare una sua stabilità solo al termine della fase di recepimento della direttiva europea prevista per il dicembre 2009.
Nel primo anno dalla sua liberalizzazione, il mercato del product placement cinematograficoin Italia ha registrato una crescita del 28%, classificandosi al terzo posto nel mondo come dimensioni di fatturato dopo Stati Uniti e Francia.
In base ad una ricerca Aegis Media, basata sul fatturato presunto ponderato sul dichiarato, nel 2004 si contavano 30 aziende con un investimento nel product placement per 10 film, per un totale di 800.000 euro; tali cifre sono salite, nel 2007, a 86 aziende, 26 film ed un investimento annuo di 6.300.000 euro.
Secondo le previsioni, il mercato del product placement in Italia raggiungerà nel 2010 la cifra di 123 milioni di dollari.
Senza dimenticare i positivi influssi sul mercato dell'occupazione, con la creazione di figure professionali specifiche (penso al responsabile del placement, sia in capo alle agenzie, che alle produzioni cinematografiche), nuovi professionisti con un profilo di competenze e una sensibilità artistica diversa da quella dei pubblicitari tradizionali, con il delicato compito di seguire l’evoluzione e gestire con successo le criticità nel processo di inserimento di prodotti commerciali nelle produzioni cinematografiche italiane, dotati di competenze giuridico-economiche (diritto, marketing e pubblicità).
Penso, anche, alle enormi potenzialità di associazioni professionali tra soggetti con competenze diversificate, nell'ambito del più ampio fenomeno del product placement.
In un'ottica più specifica, mi auguro che tale strada possa rappresentare un'opportunità anche per le Film Commission locali, affinchè investano nel tessuto locale non solo dal lato propriamente artistico, ma, anche e parallelamente, nella creazione di professionisti del nascente settore cinematografico allargato.
Fonte: http://www.scienzeturismo.it/wp-content/uploads/2010/06/product-placement.doc
Sito web da visitare: http://www.scienzeturismo.it/
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