I rischi psicosociali nei luoghi di lavoro

 

 

 

I rischi psicosociali nei luoghi di lavoro

 

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I rischi psicosociali nei luoghi di lavoro

I RISCHI PSICOSOCIALI
Fin da quando il lavoro è stato tematizzato si è compreso e accettato che il lavoro avrebbe potuto arrecare dei danni, fisici e morali. Equivalenza tra lavoro e sofferenza (dal punto di vista linguistico). Nel film “tempi moderni” il lavoro della fabbrica provoca patologie psichiatriche (legate alla ripetitività del lavoro), genera sofferenza psicologica.
Cultura del lavoro in cui siamo immersi => ineluttabilità del danno che ci provoca il lavoro. Cultura che contrasta con i lavori psicologici che dimostrano come un miglioramento delle condizioni lavorative provoca un miglioramento delle prestazioni.
A partire dai primi anni 2000 si è diffuso uno specifico orientamento verso la comprensione della relazione tra il clima organizzativo, il benessere e la salute. In particolare NIOSH suggerisce un cambiamento di prospettiva dall’attenzione alla salute lavorativa individuale verso un costrutto più generale di salute organizzativa.
Una organizzazione lavorativa in salute viene definita come una realtà nella quale cultura, clima e pratiche creano un ambiente che promuove sia la salute e la sicurezza dei lavoratori, sia l’efficacia organizzativa.
In Italia la Direttiva del Ministero per la Pubblica Amministrazione 23/4/2004 ha promosso un’iniziativa intitolata “Cantieri della Pubblica Amministrazione” (oggi “Magellano”) definendo il benessere organizzativo come:  l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il grado di benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative.
PSICOLOGIA DELLA SALUTE OCCUPAZIONALE (OPH) ha come oggetto e obiettivo la salute di chi lavora. È una disciplina relativamente recente (anni ’90), deriva dalla psicologia del lavoro e dalla psicologia della salute.
Origini: La rivoluzione industriale e gli studi condotti principalmente dai sociologi hanno da subito evidenziato le ricadute del lavoro industriale sul piano della salute e della salute mentale: le “inchieste operaie” di Engels nei distretti industriali inglesi o la teoria dell’alienazione di Marx possono in questo senso costituire la matrice originaria della disciplina. La sistematicità degli studi di Mayo e la creazione nel 1948 dell’Institute for Social Research (ISR) presso l’Università del Michigan, contribuiscono a evidenziare gli intrecci tra condizioni del lavoro e salute psicofisica. Il movimento delle Relazioni Umane pone inoltre l’accento sul fattore umano e sui possibili danni al benessere dei lavoratori conseguenti alla routinizzazione del lavoro e alla dequalificazione.  Negli anni ‘50 il Tavistock Institute conduce numerosi studi che possono essere collocati alle origini della OHP, quali le ricerche di Trist and Bamforth (1951) condotte tra i minatori inglesi dove si evidenziava il rapporto esistente tra riduzione degli spazi di autonomia e tono dell’umore. Il termine Occupational Health Psychology compare, a definire un contesto disciplinare specifico, per la prima volta nel 1986 in un saggio scritto da Everly: An introduction to occupational health psychology.  Alla fine degli anni ’80 si riconduce quindi per la prima volta la salute psicosociale allo specifico contesto  organizzativo e, in termini di intervento, l’accento viene posto non più sulla diagnosi o sulla cura (prevenzione secondaria o terziaria), bensì sulla prevenzione primaria e sulla gestione dei rischi presenti in organizzazione. Nel 1990 Raymond, Wood e Patrick indicano la OHP come una nuova disciplina, nata dal convergere della HP e della Public Health negli ambienti lavorativi, volta all’applicazione della psicologia nei setting organizzativi per il miglioramento della vita lavorativa la protezione e della sicurezza dei lavoratori e la promozione della salute nei luoghi di lavoro.
A partire dagli anni ’90 in modo sistematico, si inizia a parlare di salute nei luoghi di lavoro in termini di prevenzione primaria, a partire dagli anni 2000 inizia a passare la logica della prevenzione primaria e inizia a essere condivisa l’idea che si possa parlare anche di benessere organizzativo, si inizia a parlare non solo di prevenzione primaria, ma anche di salute e di benessere (i luoghi di lavoro sono posti dove la salute non solo si preserva, ma si coltiva). Richiamo alle organizzazioni sane e in salute (in altri paesi vi è un riconoscimento ufficiale)
La specificità della OHP riguarda l’attenzione per i fattori psicosociali, che possono essere ricondotti al quarto fattore di rischio, legati ai contesti di lavoro che possono originare problemi di salute, tanto fisica (dagli incidenti di piccolo calibro alle patologie gravi di natura cardiovascolare) quanto psichica (distress, burnout, stati depressivi, ecc.), sollecitare comportamenti dannosi per la salute (fumo, abuso di alcol, farmaci, sostanze, workaholism), soddisfazione o insoddisfazione per le attività svolte, ai lavoratori.
L’OHP si occupa di sviluppare interventi di prevenzione o di miglioramento legati ai fattori psicosociali che influenzano la salute dei lavoratori.
Rischi psicosociali => attenzione ai fattori di rischio: Ambiente di lavoro => problemi di salute fisica e psichica, sollecitare comportamenti dannosi per la salute, progressiva insoddisfazione
Il rischio è la probabilità che si verifichi un evento dannoso. Il "fattore di rischio" è la causa che può determinare un simile evento. in ambito lavorativo possono essere classificati in quattro gruppi principali:

  1. Rischi di tipo fisico (rumore, vibrazioni, illuminazione,…), può più facilmente essere ridotto a zero
  2. Rischio ti tipo chimico e biologico, può essere per la maggior parte dei casi ridotto  a zero (dispositivi di protezione)
  3. Rischi legati alla fatica fisica (dinamici e statici), in molti ambienti non possono essere ridotti a zero
  4. Rischi legati all’organizzazione del lavoro (turni, ritmi, responsabilità), difficile ridurli a zero, si può cercare di ridurli al minimo

I rischi psicosociali vengono ricondotti al quarto fattore di rischio. Solo definiti :

  • Dall’organizzazione internazionale del lavoro (ILO)= interazione tra contenuti del lavoro, gestione ed organizzazione del lavoro, le condizioni ambientali e organizzative da un lato, competenze e esigenze dei  lavoratori dall’altro.
  • Da Cox e Griffiths: fattori che riguardano oltre agli aspetti di progettazione del lavoro e organizzativi anche i contesti ambientali, sociale e relazionali a […]

Rischio psicosociale viene richiamato nel D. Lgs 81/2008 articolo 28, prima volta in Italia.
Lo stress:
risposta di adattamento all’ambiente quindi, la base psicofisica ed energetica che si attiva di fronte a una novità, all’attesa di un avvenimento significativo o minaccioso o inconsueto, che è ritenuto dal soggetto sfidare o eccedere le proprie risorse e danneggiare il proprio benessere. Il nostro sistema nervoso è rimasto invariato dalla preistoria a oggi, l’attivazione che si ingenera produce sostanze che sono dannose per la salute
Stress occupazionale => stress cronico, che si attiva ricorsivamente e che deriva dalle richieste non commisurate alle capacità del lavoratore.
È necessario distinguere tra

  • Stressor: ciò che induce la reazione, genera stress
  • Stress: la somma di tutto ciò che si attiva in relazione alle fonti esterne
  • Distress: fallimento adattivo della risposta
  • Eustress: energia ben utilizzata
  • Strain: effetto immediato dello stress, tensione

Stress lavoro correlato => stressor

  • Fattori sociali (condizionamenti politici, legali, tecnologici)
  • Fattori organizzativi (strutture manageriali, modalità di supervisione, politiche del personale)
  • Fattori individuali relativi al lavoro (caratteristiche del lavoro)

Impatto dello stress lavoro correlato induce comportamenti tipici (iperattivazione da stress): abuso alcolici, di farmaci, isolamento sociale. Inducono conseguenza emotive e cognitive (difficoltà di concentrazione, tensione, depressione), fino a patologie molto gravi (patologie cardio-vascolari, disturbi del sonno, depressione
Anche l’organizzazione accusa delle problematiche collegate allo stress dei dipendenti: assenteismo, turn-over, presenteismo,…
Vi sono tre principali filoni di studio e ricerca sul tema dello stress. Questi delineano anche la traiettoria di sviluppo storico della ricerca sullo stress: da un approccio centrato sulle fonti di stress (prima di tipo fisico, successivamente anche di carattere psicosociale)e sulle loro conseguenze, verso una ricerca attenta alla variabilità personale e al ruolo dei processi cognitivi:

    • Il modello fondato sullo stimolo
    • Il modello fondato sulla risposta
    • Il modello transazionale

Gli studi di Selye:  La reazione da stress è identificata come un sistema di adattamento fisiologico indispensabile alla sopravvivenza quando mutano le condizioni ambientali. La risposta organica o «sindrome generale di adattamento» (S.G.A) si sviluppa per fasi, da una prima reazione d’allarme e di preparazione per affrontare o rifuggire gli stressor, alla seconda di resistenza dove vengono messe in campo risorse aggiuntive per mantenere l’equilibrio interno, ad una terza di esaurimento qualora lo sforzo, troppo intenso o prolungato, richieda ulteriori risorse non più disponibili.
Selye, primi studi sullo stress sul lavoro, inizia a studiare queste disposizioni dei ratti, nota che gli stessi  danni erano riscontrati nel gruppo di controllo, ciò che ingenera il danno era l’attivazione del ratto di fronte a un evento stressante, piuttosto che la tossicità della sostanza iniettata. “Sindrome generale di adattamento “ (SGA): prima reazione di allarme per far fronte allo stressor, seconda di resistenza […]
In psicologia parliamo di tre modelli principali:
i primi due fanno pienamente rifermento agli esperimenti di Selye, si concertano sullo stimolo e sulla risposta. Il terzo si concentra invece sui modi in cui i singoli soggetti affrontano eventi stressanti

  • Modello fondato sullo stimolo

In questa prospettiva lo stress trova la sua origine nell’ambiente, nelle richieste che esso pone all’individuo. Tale modello, che nasce in ambito biologico intorno agli anni ‘30, si concentra sulle fonti dello stress, quelle che successivamente Selye propone di chiamare stressor, per distinguerle dallo stato di stress inteso come stato di disagio della persona. Solo successivamente, studiando gli organismi umani, il campo di studi si estende, da un iniziale interesse orientato agli stressor di natura fisica (caldo, freddo, sostanze chimiche nocive, ecc.), verso situazioni ed eventi stressanti in ambito psicosociale (al lavoro, in famiglia, ecc.), e alle loro caratteristiche, all’incidenza di ciascun stressor sulle persone (Holmes e Rahe 1967).

  • Modello fondato sulla risposta

In questa prospettiva, molto diffusa in ambito psicosomatico, l’attenzione è rivolta alle risposte dell’organismo agli stressor ambientali. La risposta dell’organismo alle fonti di stress è considerata sana e funzionale se contenuta nel tempo (stress acuto, eustress), ma dannosa se prolungata (stress cronico, distress).  Sul fronte dei correlati psicologici, un’attivazione prolungata può indurre ansia e rabbia, difficoltà di concentrazione, produzione di pensieri catastrofici, decisioni affrettate e poco accurate. Queste reazioni sono alla base di ciò che Selye (1956) definisce i costi dell’adattamento o le malattie dell’adattamento, ovvero le conseguenze psico-fisiche dello stress in termini di salute

  • Modello transazionale

I precedenti modelli non spiegano le differenze individuali di fronte agli stessi stressor, e come possiamo modificare quei processi in modo da produrre una risposta adattiva e efficace.Le persona valutano ed effettuano valutazioni primarie (il soggetto si confronta con lo stressor e ne identifica il senso di minaccia o di sfida), secondarie (valuta le sue  possibilità di far fronte allo stressor) coping (il soggetto mette in campo le azioni volte a fronteggiare la situazione stressante), rivalutazione (la transizione è riconsiderata globalmente in rapporto al suo esito (outcome).
Stress e differenze individuali =>  In psicologia, lo studio delle differenze individuali in relazione allo stress può essere ricondotto a due tradizioni di ricerca, che spesso sono sovrapposte in letteratura: l’una centrata sulla personalità, l’altra centrata sugli stili cognitivi.
Nella prima prospettiva si tende ad assumere che i tratti di personalità siano piuttosto stabili nel tempo e nelle varie situazioni, ciò li rende poco modificabili.
Nella seconda prospettiva si pone l’accento sugli schemi di pensiero e sugli stili cognitivi usati dalle persone. Essi sono solo relativamente stabili: essendo frutto di processi di socializzazione e apprendimento sono ritenuti permeabili al cambiamento.
Stress e fattori di personalità:  Gli studi sullo stress affrontati dalla prospettiva dei tratti di personalità si concentrano principalmente su tre temi: il nevroticismo (Eysenck 1985), le personalità di Tipo A e B (Friedman e Rosenman 1974) e la hardiness (Kobasa 1982).
Il nevroticismo è l’ansia assunta come tratto, le persone più vulnerabili all’ansia lo sono anche allo stress.La personalità di tipo A, dotata di ambizione e motivazione al successo, fortemente coinvolta nel lavoro e competitiva, è più sensibile allo stress rispetto alla personalità B caratterizzata da pazienza e calma, capacità di rilassarsi e prendersi i propri tempi.
L’hardiness costituisce una fattore di protezione dallo stress ed è definita sulla base di tre aspetti: commitment, inteso come livello di coinvolgimento in tutti gli aspetti della vita in relazione a quanto la
persona crede in sé e nelle sue aspirazioni; control, inteso come l’insieme delle credenze legate alla propria capacità di agire modificando gli eventi; challenge inteso come disponibilità a fare nuove esperienze.
Stress e stili cognitivi:  Nella letteratura psicologica sono diverse le spiegazioni della vulnerabilità individuale allo stress: tra esse vi sono lo stile attribuzionale e il locus of control, lo stile di problem solving e, tra gli sviluppi più recenti, l’ottimismo.
Gli studi sullo stile attribuzionale indicano che coloro che compiono attribuzioni causali esterne, stabili e globali sono più vulnerabili allo stress. Coloro che ritengono invece di poter personalmente avere sotto controllo gli eventi, quindi coloro il cui locus of control (Rotter 1966) è interno, sono meno vulnerabili allo stress.
Il centro di interesse diventa il coping =>
Si possono quindi individuare diverse strategie di coping, a seconda che esse si focalizzino sulle possibili conseguenze dell’evento stressante, ovvero ancora sui sentimenti e le emozioni generati dallo stress.  Le Strategie di Coping sono, dunque, le modalità che definiscono il processo di adattamento ad una situazione stressante. Tuttavia esse non garantiscono il successo di tale adattamento. Infatti il Coping, se è funzionale alla situazione, può mitigare e ridurre la portata stressogena dell’evento ma, se è disfunzionale a essa, può anche amplificarla.
La tripartizione più nota è formulata a partire dal modello di Lazarus e Folkman:

  • Il coping centrato sul compito (task coping), ovvero la tendenza ad affrontare in modo diretto il problema;
  • Il coping centrato sulle emozioni (emotion coping), basato cioè su specifiche abilità di regolazione affettiva capaci di generare speranza e sensazione di controllo oppure di capacità di aprirsi alle emozioni (ad es. “sfogandosi”)
  • Il coping centrato sull’evitamento (avoidance coping) che indica il tentativo dell’individuo di ignorare la minaccia o di cercare supporto sociale oppure ancora impegnandosi in attività in grado di “distrarre” dal problema

Lo stress occupazionale:  Un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore (NIOSH). Lo stress si manifesta quando le persone percepiscono uno squilibrio tra le richieste avanzate nei loro confronti e le risorse a loro disposizione per far fronte a tali richieste (OSHAEU). Lo stress è dovuto alla disarmonia fra se stessi e il proprio lavoro, a conflitti tra il ruolo svolto al lavoro e al di fuori di esso, e da un grado insufficiente di controllo sul proprio lavoro e sulla propria vita (EU Commission)
Stress e stressor: i problemi della misurazione
Le misure “oggettive”: Tecniche di job analysis, Checklists osservazionali, Valutazione dell’esperto, Indicatori di performance/prestazione, Gli indicatori fisio(pato)logici di strain: Cerebrali; Muscolari; Cardiovascolari; Ormonali; Immunologici.
Le misure “soggettive”: Questionari taylor made, Questionari ready made, Interviste di gruppo, Focus group
Il rischio psicosociale come rischio specifico e trasversale: Tra i rischi per la salute da valutare nei luoghi di lavoro risultano inclusi anche quelli legati a fattori di tipo psicosociale, così come pare opportuno (così recita l’accordo europeo sullo stress lavoro correlato del 2004) considerare anche le ricadute sul versante psicosociale dei più rischi tradizionali (ad es. il rumore può “impattare” sia sull’udito sia sul versante psichico del lavoratore); in particolare l’art. 28, comma 1 del nuovo D.Lgs. 81/08: “La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavorocorrelato, secondo i contenuti dell’accordo europeo (...)”
La sindrome del burn out
La sindrome del burn out costituisce un fenomeno complesso, riconosciuto come rischio occupazionale proprio di certe professioni “orientate” alle persone e rappresenta lo stato finale di un processo i cui sintomi tendono a cronicizzarsi pur restando tendenzialmente reversibili, studiato a partire dagli anni ’70 in primo luogo da Cristina Maslach. Negli ultimi anni, in relazione a quanto abbiamo detto in precedenza circa i rischi psicosociali emergenti, il fenomeno è stato considerato anche in diversi ambiti professionali e tra categorie professionali diverse da quelle tradizionali “dell’aiuto”.
Tra le diverse definizioni e i diversi modelli esplicativi del burnout, possiamo ricordare la prospettiva che interpreta il fenomeno come una situazione di stato e quella lo intende come un processo.
Nel primo caso vengono evidenziati i sintomi e le tre dimensioni relative alla manifestazione del burnout: Esaurimento emotivo, Depersonalizzazione, Realizzazione personale
Nel secondo caso il burnout viene letto in una prospettiva “fasica”. Edelwich e Brodsky (1980) descrivono ad esempio 4 fasi: Entusiasmo, idealistico, Stagnazione, Frustrazione, Apatia
Alcune differenze tra stress e burnout:  Il burnout richiede una elevata motivazione iniziale mentre questa non è rilevante per lo stress;  Il burnout, a differenza dello stress, porta a un atteggiamento estremamente negativo nelle relazioni interpersonali in particolare con gli utenti;  Mentre lo stress ha risvolti positivi e può rappresentare una forma di adattamento (vd. eustress), il burnout non ha queste caratteristiche;  Lo stress occupazionale può essere elevato per un singolo soggetto all’interno di un gruppo. Il burnout ha più frequentemente carattere “epidemico” ed è solitamente basso o elevato in maniera più omogenea nel gruppo di lavoro.

 

Fonte: http://www.appuntiunito.it/wp-content/uploads/2013/12/psicologia-del-lavoro.doc

Sito web da visitare: http://www.appuntiunito.it

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