Università e lavoro
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Prima di Iniziare a leggere
Dopo il diploma di scuola superiore conviene proseguire gli studi oppure è meglio cercare subito lavoro? Se si decide di andare all’università, quali sono i corsi più affollati, quali presentano le maggiori difficoltà, quali consentono di trovare più facilmente lavoro? .Per aiutare chi si appresta a iscriversi all’università, l’Istat mette a disposizione “Università e lavoro: orientarsi con la statistica”. Dai dati presentati alcuni fatti risultano con chiarezza:
1. la laurea serve: la quota di occupati fra i laureati è maggiore
che fra i non laureati;
2. non tutte le lauree sono uguali dal punto di vista dell’inserimento
lavorativo;
- non tutti i corsi universitari presentano le stesse difficoltà, e comunque nessuno va preso con leggerezza.
In alcuni casi i dati presentati non possono che riferirsi ai vecchi corsi di laurea.
Dall’entrata in vigore della riforma universitaria è infatti ancora presto per avere informazioni dettagliate su tassi di successo e sbocchi professionali dei giovani laureati. Tuttavia, prime indicazioni sul nuovo sistema provengono dal numero di immatricolazioni, di abbandoni
dopo il primo anno e di laureati nei nuovi percorsi post-riforma.
Le informazioni qui offerte rappresentano un patrimonio informativo esaustivo e completo, che assicura risultati attendibili rispetto all’intero territorio nazionale e a tutti corsi di studio attivati nel sistema universitario.
Ricordo infine che l’Istituto mette a disposizione numerose pubblicazioni e informazioni accessibili gratuitamente attraverso il sito www.istat.it e reperibili anche nei Centri di informazione statistica presenti in ogni regione.
Quanti Arrivano al Traguardo della laurea?
Il fatto che in Italia molti iscritti all’università non arrivino alla laurea è dipeso, fino ad oggi, dalla notevole concentrazione degli studenti nei corsi di 4-6 anni, dove gli abbandoni sono particolarmente frequenti.
Il Tasso di successo nei corsi di laurea lunghi è infatti basso: su 100 immatricolati soltanto 58 riescono a laurearsi.
Il tasso è decisamente contenuto per i gruppi di corsi di laurea scientifico, geo-biologico e giuridico (rispettivamente 42% per il primo e 46% per gli altri due), mentre è il gruppo medico a distinguersi per l’alta percentuale di esiti positivi: ben 94 immatricolati su 100 conseguono il titolo di studio.
Tuttavia, quando si utilizza il tasso di successo nel conseguimento della laurea bisogna considerare che l’indicatore sovrastima le possibilità di riuscita in quei gruppi che, soprattutto a causa del numero chiuso, registrano molti trasferimenti in entrata in anni successivi al primo, mentre sottostima le possibilità di riuscita per i gruppi che registrano molti trasferimenti in uscita. È ciò che accade per gli studenti del gruppo architettura, il cui successo dipende dall’introduzione del
numero chiuso a partire dal 1993/94.
Per i nuovi corsi di laurea triennale non è ancora possibile tracciare un bilancio definitivo sui percorsi di studio.
I laureati, infatti, sono in prevalenza caratterizzati da percorsi di studio non del tutto lineari: la
maggior parte si era immatricolata a corsi pre-riforma e solo successivamente si è iscritta a un corso di laurea breve.
La possibilità di successo dipende anche dal tipo di scuola superiore frequentata?
Gli immatricolati che ottengono migliori risultati sono quelli che possiedono il diploma liceale: su 100 immatricolati, 71 riescono a laurearsi.
Le maggiori difficoltà le incontrano invece i ragazzi che escono dagli istituti professionali che, con un tasso di successo pari appena al 32%,sono distanti anche dagli studenti degli istituti tecnici(46%) e magistrali (52%).
Il risultato, tuttavia, dipende non soltanto dal tipo di scuola superiore frequentata, ma anche dalle difficoltà associate ai diversi percorsi di studio scelti dai ragazzi dopo il diploma.
Diplomati e laureati: quanti trovano lavoro?
Un titolo di studio elevato consente di trovare lavoro più facilmente: è quanto emerge dalle indagini Istat sulla condizione occupazionale dei giovani in possesso di diploma di scuola secondaria superiore e di laurea.
Nel 2004, a tre anni dal conseguimento del titolo, il 56% dei laureati con cadenza regolare (sia a lavoro continuativo iniziato la laurea, contro soltanto il svolge un tempo determinato sia a tempo indeterminato). Fanno eccezione 35% dei diplomati di scuola superiore.
Tutte le lauree hanno uguale valore per trovare lavoro?
A trovare lavoro sono più facilmente i laureati del gruppo ingegneria (l’81,6% è occupato in modo continuativo a tre anni dalla laurea. In particolare, i corsi di laurea che favoriscono un inserimento lavorativo più rapido sono Ingegneria gestionale (a tre anni dalla laurea l’89% degli ingegneri gestionali ha un’occupazione continuativa), Ingegneria delle telecomunicazioni (88%) e Ingegneria aerospaziale e aeronautica (86%).
Buoni rendimenti occupazionali presentano anche le lauree in Farmacia (80%), Economia aziendale (77%), Odontoiatria e protesi dentaria (75%), Scienze della comunicazione (74%), Relazioni
pubbliche e Scienze internazionali e diplomatiche (73%). Questi ultimi tre corsi rappresentano delle eccezioni positive all’interno del gruppo politico-sociale che, nel complesso, registra performance leggermente inferiori alla media.
Come si spiegano le differenze nelle possibilità occupazionali?
L’incidenza dei laureati che hanno un’occupazione sul totale dei laureati è piuttosto bassa per i gruppi medico e giuridico.
La spiegazione sta nella particolarità dei percorsi post-laurea dei giovani in uscita da questi raggruppamenti: a tre anni dalla laurea i medici sono ancora molto spesso impegnati nelle scuole di
specializzazione (54 laureati su 100 svolgono formazione retribuita); anche i laureati in materie giuridiche, a causa dell’attività di praticantato post-laurea (per lo più non retribuito), cominciano più tardi a cercare lavoro.
Per i laureati dei gruppi educazione fisica e insegnamento, invece, la limitata diffusione di un’occupazione iniziata dopo la fine dell’università si deve, almeno in parte, all’abitudine di lavorare già prima del conseguimento della laurea (nell’ordine, 64% e 27%), dato che i laureati in educazione fisica utilizzano sul mercato del lavoro i diplomi Isef precedentemente conseguiti.
Incontrano più ostacoli nel trovare un’occupazione i laureati dei gruppi giuridico (con un tasso di disoccupazione pari al 27%), letterario (22%), geo-biologico (20%), linguistico (19%) e psicologico
(16%).
La ricerca di lavoro rappresenta invece un problema del tutto marginale per i giovani che hanno concluso un corso del gruppo educazione fisica, ingegneria, medico, chimico-farmaceutico e
architettura (con tassi inferiori al 10%).
C’è sempre coerenza tra titolo di studio conseguito e lavoro svolto?
Il lavoro che si riesce a ottenere con la laurea non sempre corrisponde al percorso formativo intrapreso.
In ogni caso, la coerenza tra il titolo posseduto e quello richiesto per lavorare tende ad aumentare al crescere del livello di istruzione.
I diplomati di scuola secondaria superiore, infatti, dichiarano di svolgere un lavoro per il quale era effettivamente richiesto il titolo posseduto nel 52% dei casi; tra i giovani laureati tale percentuale sale al 68%.
Naturalmente per i laureati il grado di coerenza tra formazione ricevuta e lavoro svolto varia in relazione ai diversi indirizzi di studio.
Sono i giovani in uscita da corsi del gruppo ingegneria (con 83 laureati su 100 occupati in lavori che richiedono la laurea) ma soprattutto chimico-farmaceutico (94 laureati su 100 occupati) e medico (la quasi totalità) a vedere un maggiore riconoscimento del proprio titolo di studio.
Al contrario, a trovare lavori nei quali la laurea non è richiesta, sono ben 60 laureati su 100 del gruppo educazione fisica e circa la metà di quelli dei gruppi politico-sociale, linguistico e
letterario.
Le lauree più richieste dal mercato del lavoro sono quelle delle discipline mediche e farmaceutiche (Odontoiatria, Farmacia, Medicina e chirurgia, Biotecnologie farmaceutiche, Medicina
veterinaria) e del settore Ingegneria.
Incontrano maggiori difficoltà ad inserirsi in lavori che richiedono il possesso del titolo accademico, i laureati in Discipline dell'arte, della musica e dello spettacolo e Musicologia, Scienze motorie, Lingue e letterature straniere, Filosofia, Scienze politiche e Materie letterarie.
Su 100 laureati che lavorano ben 32 dichiarano che la laurea – indipendentemente dal fatto che abbia o meno rappresentato requisito di accesso all’occupazione – non è necessaria nell’effettivo
svolgimento del lavoro.
Una completa coerenza tra titolo posseduto e lavoro svolto – intesa come richiesta della laurea come requisito di accesso ed effettiva utilizzazione delle competenze acquisite per lo svolgimento
dell’attività lavorativa – è dichiarata solo da poco più della metà dei laureati (56 su 100), laddove, all’opposto, ben 20 laureati su 100 affermano di essere inquadrati in posizioni che non richiedono la
laurea sotto il profilo formale e sostanziale (la quota sale sino a sfiorare il 40% tra i laureati provenienti dal gruppo linguistico, collocandosi comunque al di sopra del 30% nei raggruppamenti
politico-sociale, educazione fisica e letterario).
È piuttosto diffusa, inoltre, la percezione di una non completa rispondenza tra domanda e offerta di skill, in termini sia di sottoutilizzo (11,7 laureati su 100 si inseriscono in posizioni “da laureati”, ma non utilizzano le competenze acquisite con la laurea nell’effettivo svolgimento delle loro mansioni), sia di sotto in quadramento (11,6 laureati su 100 vengono assunti per occupazioni che non richiedono
il possesso della laurea, anche se poi devono applicare quanto hanno appreso all’università).
Come è ovvio, i laureati dei gruppi medico, chimico-farmaceutico, architettura e ingegneria, ma anche quelli dei gruppi psicologico e geo-biologico hanno maggiori possibilità (con percentuali superiori al 75%) di trovare un’occupazione consona alle conoscenze acquisite durante il periodo universitario.
Circa la metà dei laureati provenienti dai gruppi linguistico e politico-sociale non riesce invece
a trovare un’occupazione che, indipendentemente dalla richiesta formale del titolo, sfrutti il valore aggiunto rappresentato dal completamento degli studi universitari.
Quali aspetti del lavoro sono ritenuti più soddisfacenti e quali meno?
Sebbene l’accoglienza riservata dal mercato del lavoro ai laureati non è sempre all’altezza dell’investimento formativo (rispetto sia agli ingressi nel lavoro sia alle possibili progressioni di carriera), i giovani sono comunque abbastanza soddisfatti del proprio lavoro: gli aspetti
più apprezzati sono il grado di autonomia sul lavoro (l’89% di soddisfatti) e le mansioni svolte (86%).
Il trattamento economico (62%), le possibilità di carriera (64,8%) e l’utilizzo delle conoscenze acquisite (65,7%) sono invece gli elementi meno gratificanti.
Il dato sulle possibilità di carriera, in particolare, se letto accanto a quello che si riferisce alla più limitata soddisfazione per la stabilità del posto di lavoro (71,5%), dimostra come una buona
parte dei laureati si preoccupi soprattutto per le prospettive occupazionali future.
Nel complesso i settori disciplinari nei quali si registra una più diffusa soddisfazione sono il gruppo medico (con percentuali molto al di sopra della media per le mansioni svolte e l’utilizzo delle conoscenze acquisite), chimico-farmaceutico, economico-statistico ed ingegneria (per tutti e tre i gruppi molto pronunciata la soddisfazione per la stabilità del posto di lavoro).
Le valutazioni più negative sono espresse invece dai laureati dei settori letterario, psicologico,
insegnamento e politico-sociale (tra gli aspetti meno gratificanti vi sono le possibilità di carriera).
Quanti giovani laureati lavorano con un contratto a termine?
Il tipo di lavoro che i giovani laureati trovano è senz’altro influenzato dalla crescente presenza nel mercato del lavoro di forme contrattuali particolari: contratti a termine, collaborazioni coordinate
e continuative, contratti di formazione-lavoro, prestazioni d’opera occasionali.
Così nel 2004, circa il 38% dei giovani laureati del 2001 che ha trovato lavoro dopo la conclusione degli studi universitari risulta impegnato con contratto a termine, il 43% ha un contratto a tempo
indeterminato e il 19% ha avviato un lavoro autonomo.
In particolare, su 100 occupati ben 15 sono collaboratori coordinati e continuativi (inclusi i lavoratori a progetto), quasi 9 lavorano con un contratto collettivo nazionale di lavoro a termine, circa 4 con un contratto di formazione e lavoro, e 4 con contratti di prestazione
d’opera occasionale.
Lavorare in maniera solo occasionale/stagionale o con un contratto a termine spesso non rappresenta una scelta del giovane laureato ma la conseguenza di difficoltà riscontrate e di aspettative disattese nella ricerca del lavoro.
Circa il 55% degli occupati in maniera occasionale/stagionale dichiara, infatti, di non aver trovato una migliore opportunità e poco più del 66% degli occupati con un contratto a termine ammette che questa forma contrattuale non è il frutto di una scelta personale.
I giovani e il mercato del lavoro
La partecipazione al mercato del lavoro misurata dal tasso di attività: la quota di popolazione occupata o che è in cerca di occupazione.
Nel 2005, 77 giovani (25-34 anni) su 10 lavorano o cercano un’occupazione. Forti differenze si registrano nelle diverse aree del Paese: al Nord sono “attivi” circa 87 giovani su 100, nel Mezzogiorno solamente 64.
I giovani meridionali, inoltre, incontrano maggiori difficoltà di inserimento lavorativo rispetto a quelli del Nord: nel Mezzogiorno solo 52 su 100 hanno un lavoro, mentre nel Nord sono occupati 82 su 100.
Infine, il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno è quattro volte più alto che al Nord.
La presenza femminile nel mercato del lavoro è più bassa di quella maschile: il tasso di attività supera l’87% per i giovani uomini, contro il 67% delle giovani donne.
Continuare a studiare conviene, anche se gli effetti di questa scelta possono non essere da subito evidenti.
Infatti, nel periodo immediatamente successivo alla conclusione degli studi, la differenza nei tassi di disoccupazione tra i laureati e i diplomati di scuola secondaria superiore indica un leggerissimo vantaggio per chi possiede un diploma (il 21,1% contro il 21,9%).
Tuttavia questa situazione cambia già nel secondo quinquennio dopo il conseguimento del titolo di studio: per i laureati 30-34enni la disoccupazione scende all’8,7%, mentre tra i diplomati di 25-29 anni si attesta al 10,7%.
IL CONTRATTO DI FORMAZIONE-LAVORO E IL LAVORO PART-TIME.
La diffusa coscenza della inadeguatezza della normativa sull' apprendistato ha condotto il legislatore ad emanare norme più aderenti alle necessità della moderna vita economica introducendo nel nostro ordinamento il "contratto di formazione e lavoro", oggi disciplinato dall' art. 3 della legge 19 dicembre 1984 n. 863, modificata dall' art. 9 d.l. 108/1991, conv. Nella legge 169/1991 e dall' art. 16 d.l. 299/1994 convertito dalla legge 299/1994.
Questo contratto, che ha avuto un certo seguito nelle aziende pubbliche e private, è rivolto ai giovani di età compresa tra i 15 ed i 32 anni, i quali possono essere assunti nominativamente per un tempo non superiore a 24 mesi per le professionalità elevate e medie, dodici mesi per la professionalità di livello più basso. Tale periodo non è rinnovabile. Trascorso tale termine, se il lavoratore verrà assunto a tempo indeterminato, il periodo verrà computato nell' anzianità di servizio. I tempi e le modalità di svolgimento dell' attività di formazione e lavoro sono stabiliti mediante progetti predisposti dagli enti pubblici e dalle imprese private e approvati dalla commissione regionale per l' impiego, in armonia con la legislazione regionale e statale, e con le intese eventualmente raggiunte con i sindacati nazionali aderenti alla confederazioni maggiormente rappresentative.
Se i progetti di formazione sono conformi con modelli individuati con decreto del Ministero del lavoro non è necessaria una approvazione dell' autorità; è sufficiente un accertamento di mera conformità ai parametri ministeriali, accertamento che si considera avvenuto, se, entro venti giorni dalla presentazione del progetto, l' ufficio provinciale del lavoro non nega tale conformità. Al termine del rapporto, il datore di lavoro è tenuto ad attestare l' attività svolta ed i risultati conseguiti dal lavoratore, dandone comunicazione all' Ufficio di collocamento.
La formula contrattuale in esame trova molto favore presso le imprese per le particolari caratteristiche (rapporto a termine), e per le facilitazioni previste dalla normativa (quota ridotta per gli oneri sociali, salari inferiori a quelli dei lavoratori a tempo indeterminato del medesimo livello); nel contempo, i controlli dell' Ispettorato del lavoro e la partecipazione degli organi regionali e statali alla progettazione, dovrebbero costituire affidabili garanzie contro una distorta applicazione dell' istituto.
Con l' espressione "stage" si indicano attività di formazione professionale da svolgersi in aziende. Non si tratta dell' instaurazione di un rapporto di lavoro- come nel caso della formula "formazione lavoro" o di apprendistato-ma di temporanei inserimenti in aziende di giovani che, spesso, frequentano ancora la scuola e dedicano le loro vacanze a sperimentare un contatto diretto con il mondo produttivo.
L'articolo 3 della citata legge 863/84 riprende la tematica, già contemplata da leggi precedenti, disponendo che le regioni, nell'ambito della loro possibilità di bilancio, possono predisporre piani di concerto con i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, per organizzare tale attività di formazione professionale con periodi di addestramento nelle aziende.
Durante lo stage i lavoratori hanno diritto alle prestazioni sanitarie e contro gli infortuni di lavoro previsti dalla normativa vigente.
Definizione di Lavoro:
La concezione del lavoro, elemento da sempre centrale nella vita dell’uomo, è stata soggetta ai diversi cambiamenti che, di pari passo con quelli economici e sociali, si sono susseguiti nella storia. Così alla connotazione pratica dell’attività lavorativa come mezzo vitale di sostentamento si è aggiunta una forte componente psicologica e sociale. L’idea odierna del lavoro è fortemente legata infatti al concetto di “identità lavorativa”, intesa come capacità d'immagazzinare e conservare.
Definizione di università:
Una università (dal latino universitas, -atis) è un'istituzione costituita da un gruppo di strutture scientifiche finalizzate alla didattica e alla ricerca. Le università attribuiscono titoli accademici che si conseguono a séguito di corsi cui si accede dopo aver terminato gli studi secondari.
Fin dall'antichità sono esistite istituzioni di questo tipo che possono farsi risalire all'Accademia platonica oltre ai vari simposi culturali presenti in Grecia (i più celebri dei quali sono l’etería di Alceo e il tíaso di Saffo). In epoca romana le scuole di insegnamento superiore precorritrici delle attuali università erano quelle di diritto (attive a Beirito fin dal II secolo) organizzate secondo cicli di studio prestabiliti (generalmente della durata di quattro anni). Nell'alto medioevo grande prestigio ebbe la Schola medica salernitana, da alcuni considerata la prima università. Il termine "università" designa tuttavia un preciso modello culturale che ha le sue origini nelle chiese e nei conventi europei, dove, attorno all'XI secolo, iniziarono a tenersi lezioni, con letture e commento di testi filosofici e giuridici. Presso i conventi più prestigiosi, o attorno a grandi personalità ecclesiastiche, varie categorie di docenti e studenti cominciarono ad organizzarsi in corporazioni o "universitates".
Le trasformazione nel significato storico dell'esperienza professionale; il lavoro da disvalore a fonte del progresso, identità sociale, ed autonomia individuale
Il termine lavoro ha assunto nella storia vari significati, passando da un'idea che si basava sulla fatica, sul concetto che se un individuo vive è costretto a lavorare, ad un'ideologia poetica per cui l'uomo civilizza il mondo, prende coscienza di se stesso come di colui che realizza empiricamente le cose. Queste due ideologie si sono fuse nell'idea di lavoro come dimensione esistenziale dell'uomo, per cui questi ha bisogno del contatto fisico con la natura e perciò la trasforma. Il lavoro diventa l'attività mediante la quale gli uomini collaborano tra loro per modificare il mondo, rendendolo così collettivo e non individuale. Analizzando questo concetto, notiamo che è possibile scomporlo in quattro dimensioni:
- “Dimensione cognitiva” che comprende il contenuto, il tipo di attività e la forma del lavoro stesso;
- “Dimensione etica” che riguarda la disponibilità a cercarlo e mantenerlo, considerandolo così centrale nella vita dell'individuo, secondo un'ottica individualistica. Esso può essere positivo, se il soggetto si rispecchia nella società in cui lavora e ne condivide norme e valori, ma anche negativo per il disoccupato che non lo trova, e lo vede quindi come una massa mancante che lo condiziona emotivamente;
- “Dimensione delle immagini sociali del lavoro” che comprende le rappresentazioni che l'individuo fa della posizione da lui ricoperta, all'interno di un quadro che comprende i meccanismi di funzionamento e le dinamiche di cambiamento della vita sociale;
- “Dimensione delle immagini individuali” che riguardano gli atteggiamenti verso il lavoro, come l'insoddisfazione o la soddisfazione verso l'esperienza lavorativa stessa e il funzionamento del mercato.
Il lavoro è stato considerato per tanto tempo come una categoria antropologica, ossia un'attività umana grazie alla quale gli uomini, in quanto esseri sociali, regolano i propri rapporti con l'ambiente attraverso un linguaggio simbolico legato a valori, mitologie e filosofie che aleggiano e che non nascono individualmente; scambiano risorse indispensabili alla sopravvivenza con l'ambiente stesso che viene modificato in funzione dei propri bisogni e acquistano, grazie a questi scambi, consapevolezza di se stessi come soggetti storici, in grado di trasformare il mondo.
Dominique Medà (1997) parte invece dal presupposto che il lavoro non è una categoria antropologica, ma un concetto storico costruito dalla società a partire dal 1700, inserendosi in un dibattito storico centrato sul fatto che, grazie al progresso e alle nuove tecnologie del ‘900 è avvenuta una trasformazione nella relazione tra lavoro e manodopera. Le nuove tecnologie hanno trasformato i sistemi economici, portando ad una separazione tra economia e manodopera a causa del minor bisogno di quest'ultima nel lavoro: le trasformazioni dei sistemi economici hanno portato ad un aumento della produzione, ma anche ad una diminuzione del bisogno lavorativo. Medà propone quindi una nuova cultura tesa a valorizzare altre attività che riguardano il cosiddetto “lavoro etico”, come ad esempio il volontariato. Questa concezione viene inserita nell'idea di lavoro come categoria sociologica per cui esso viene considerato un meccanismo stabile di integrazione, uno strumento di partecipazione alla collettività che, nel corso del tempo, cambia il suo significato collettivo. Nelle società primitive emerge la presenza di una forte coscienza collettiva legata ad una morale di gruppo che regola i bisogni e stabilisce i ruoli sociali; ciò si rispecchia in un concetto di lavoro legato all'attività comunitaria e al bene collettivo. Le risorse vengono scambiate in base a norme di reciprocità che si esprimono in manifestazioni ludiche e nell'esaltazione della forza fisica. Anche nei grandi Imperi dell'antichità come l'Egitto e Roma è presente una connotazione collettiva e anti-individualistica, ma il lavoro è inquadrato all'interno di principi politici di redistribuzione gerarchica dall'alto per i quali esso è affidato ai ceti inferiori e le ricchezze vengono ridistribuite dal sovrano secondo ordinamenti gerarchici, e gli apparati burocratici sono centralizzati.
http://progeweb.itissgv.net/5bi///d-r/ProvaScritta.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Giovani e lavoro
Bosio Greta
La problematica del rapporto tra giovani e lavoro si presenta con alcuni sintomi caratteristici :
- alto livello di disoccupazione giovanile
- diffusa percezione di precarietà
- sfiducia verso le cosidette forme di contratto atipico.
Innanzitutto é importante sottolineare una particolarità del caso italiano, che influenza consistentemente la precarietà giovanile, ossia l’età elevata dell’accesso al lavoro dei giovani (attestata nei casi migliori intorno ai 25 anni contro la media europea dei 23).
I giovani italiani di oggi presentano caratteristiche diverse rispetto ai giovani europei.
Il Rapporto giovani, condotto dall’istituto Iard, dipinge perfettamente la condizione giovanile italiana nei suoi tratti più significativi:
- L’ età giovanile, ossia la condizione transitoria che segna progressivamente l’abbandono dei ruoli tipici dell’adolescenza e la contemporanea assunzione delle funzioni e delle competenze dell’età adulta, protrae la sua durata fino ai 34 anni dal 2000, (contro i 29 anni negli anni 90 e i 24 anni negli anni 80)
- In correlazione anche i percorsi di formazione si protraggono ben oltre la durata tradizionale: un terzo dei 25-29enni e un quinto degli over 30 é ancora studente
- Il 23% degli over 30 non é ancora inserito nel mondo del lavoro
- Ed infine ben un terzo dei 30-34enni vive ancora con i genitori
Questi dati contribuiscono a determinare la percezione diffusa tra gli italiani di un mercato del lavoro precario e con scarse occasioni di lavoro di qualità, nonostante il 2008 si sia aperto con alcune attestazioni internazionali sul buon andamento del mercato stesso. Il tasso di disoccupazione é sceso al 6%, esattamente la metà di quello registrato prima dell’avvio delle riforme Treu e Biagi. In questi anni le imprese italiane sono riuscite a creare oltre tre milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro aggiuntivi, ma ciò che desta le maggiori preoccupazioni sono i dati sulla disoccupazione giovanile, che secondo Eurostat ruota attorno al 20%.
Ma quali sono le cause di questi risultati così scoraggianti? Un mercato troppo a misura di adulto o una legge che offre ai giovani solo lavori precari?
I realtà nessuna delle due: l’anomalia italiana, in accordo con i dati precedenti, sta nel fatto che molti dei giovani italiani, non hanno alcun contatto con il mondo del lavoro. L’età di accesso al lavoro é di minimo 25 anni e oltre se parliamo di laureati ed é interessante sottolineare in relazione a questa analisi che il tasso di dispersione scolastica é tra i più alti d’Europa.
La differenza con gli altri paesi sta nella mancanza di percorsi di formazione professionale e nel cattivo funzionamento o addirittura nell’assenza di centri di orientamento al lavoro nelle scuole e nelle università italiane. Secondo alcuni esperti é necessario lavorare sulla qualità del sistema educativo consentendo così un effettivo raccordo tra scuola e impresa ed un tempestivo ingresso nel mondo del lavoro.
Questi obbiettivi restano però di difficile attuazione non tanto per mancanza di volontà, ma quanto più per il radicamento di una concezione assai vecchia dei modelli educativi che porta a vedere nella scuola e nel lavoro due mondi separati.
A questo scopo la riforma del mercato del lavoro valorizzava il ruolo dell’apprendistato, come strumento formativo che garantisce il raccordo con il sistema dell’istruzione.
La legge 30/2003 (legge Biagi) aveva appunto lo scopo di “realizzare un sistema efficace di strumenti intesi a garantire trasparenza ed efficienza del mercato del lavoro e a migliorare le capacità di inserimento professionale con particolare riguardo alle donne e ai giovani”.
Per fare questo si definiscono le seguenti tipologie contrattuali a orario ridotto o flessibile (i contratti atipici):
- Lavoro ripartito
- Lavoro a chiamata
- Lavoro accessorio
- Lavoro a progetto
- Lavoro a termine o a tempo determinato
- Lavoro intermittente
- Lavoro occasionale
- Staff leasing
L’opinione più diffusa per quanto riguarda queste forme contrattuali, é che esse siano poco garantiste per i giovani, in un mercato del lavoro dove la flessibilità é spesso sinonimo di precarietà.
In realtà gli studiosi parlano di due tipologie di precariato:
- Percepito
- Reale
Con il primo che a forza di parlare di emergenza continua sarebbe molto più alto del secondo. Le difficoltà nell’ingresso nel mondo del lavoro non dipendono tanto dal mercato dell’occupazione, ma ancora sono da ricercare nel ritardo della formazione dei giovani italiani, nella mancanza da parte delle imprese della cultura del talento e del coraggio di valorizzarlo, nella mancanza di sacrificio e ambizione di alcuni e nella sfiducia e nell’accontentarsi di altri.
In ultima analisi, un’altra causa del difficile inserimento nel mondo del lavoro, sta nel mancato decollo di alcuni strumenti previsti dalla legge Biagi, come la Borsa continua nazionale del lavoro, nata per agevolare l’incontro tra domanda e offerta e che grazie al collegamento informatico avrebbe dovuto incrementare i canali di accesso al mercato del lavoro.
La ricerca del lavoro su internet é canalizzata tuttora anche da una moltitudine di operatori non autorizzati che nella indifferenza delle istituzioni operano contro la legge stessa.
Forse per limitare questa percezione di precarietà e la precarietà reale sarebbe utile adeguarsi di più alla flessibilità richiesta dal moderno mercato del lavoro, abbandonando quella concezione tutta italiana di un posto di lavoro “ a vita”.
FONTI:
- Buzzi C., Cavalli A., De Lillo A., Rapporto giovani. Sesta indagine dell’isitituto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Il mulino, Bologna 2007
- Tiraboschi M., Il lavoro dei giovani e il peso del mancato raccordo tra scuola e lavoro, bollettino Adapt
- Siti internet:
www.adapt.it
www.lavoroeformazione.provincia.pu.it
autore: Bosio Greta
Fonte: http://sunfire.jus.unibs.it/media/podcast/testo/Giovani_e_lavoro-elaborato%20greta%20bosio.doc
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