Mercato del lavoro

 

 

 

Mercato del lavoro

 

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Il mercato del lavoro

 

Il lavoro è in primo luogo una fonte di reddito: per i più è necessario lavorare per vivere; ma il lavoro è anche fonte di realizzazione degli individui.  Fino allo scoppio della crisi, cioè fino al 2008, la nostra società era sempre più ricca e continuava a crescere; tuttavia non era in grado di garantire un lavoro a tutti gli individui che avrebbero voluto lavorare.


A maggior ragione oggi, con la recessione in corso, i disoccupati sono in aumento e cresce il numero dei poveri. La nostra società non è dunque in grado di distribuire  la ricchezza in modo tale da evitare che ci siano individui che vivono sotto la soglia della povertà. Oggi nella maggior parte dei paesi industrializzati  la povertà non riguarda solo i disoccupati, ma anche un numero crescente di lavoratori precari e sottopagati.


Secondo le stime presentate nei Rapporti dell’International Labour Office (ILO), un’agenzia affiliata alle Nazioni Unite, a livello mondiale circa 212 milioni di persone erano disoccupate nel 2009 con un incremento di 34 milioni rispetto al 2007. Il numero dei giovani disoccupati nel mondo è aumentato  di 10,2 milioni tra il 2007 e il 2009, l’incremento più elevato dal 1991.


L’ILO stima che la disoccupazione globale tenderà a rimanere elevata anche nel 2010. Nelle economie avanzate si prevede per il 2010 un incremento dei disoccupati di 3 milioni di persone, mentre nelle altre regioni i tassi si stabilizzeranno ai livelli attuali o diminuiranno solo lievemente.
Questo capitolo presenta un quadro delle condizioni del mercato del lavoro in Italia e un confronto con i paesi dell’Unione Europea.

 

La classificazione della popolazione in base al lavoro

La definizione applicata nelle moderne economie e dagli istituti di statistica definisce occupati solo coloro che tramite il lavoro percepiscono un reddito monetario e disoccupati coloro che vorrebbero lavorare per percepire un reddito e sono attivamente impegnati nella ricerca di occupazione ma non la trovano. Sono dunque esclusi dalla categoria “occupati” coloro che svolgono attività non remunerate, ad esempio il lavoro domestico o il volontariato. Parimenti sono esclusi dalla categoria dei disoccupati coloro che vorrebbero lavorare, ma non cercano attivamente un’occupazione.
Date le difficoltà di raccogliere dati nei paesi meno sviluppati e le differenze nei metodi di rilevazione nei diversi paesi, è necessaria una certa cautela quando si confrontano i dati delle diverse economie. Per quanto riguarda i paesi dell’Unione Europea l’uniformità dei sistemi di rilevazione consente confronti abbastanza precisi.
I principali dati relativi al mercato del lavoro in Italia vengono rilevati dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) attraverso un’indagine campionaria svolta intervistando circa 175.000 persone in oltre 1200 comuni del territorio italiano.
Per cominciare, esaminiamo i principali aggregati che l’ISTAT prende in considerazione nelle sue rilevazioni sul mercato del lavoro. Le persone intervistate in età lavorativa (oltre i 15 anni) vengono suddivise dall’ISTAT in tre categorie:

 

       a)    Occupati. Il percorso seguito dall’ISTAT per la classificazione delle persone definite occupate è sinteticamente illustrato nella figura 1.
La categoria degli occupati comprende dunque le persone di 15 anni e più che nella settimana a cui si riferisce l’intervista:
- hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura,
- hanno svolto almeno un’ora di lavoro anche non retribuito nella ditta familiare in cui collaborano abitualmente
- sono assenti dal lavoro (ad esempio per ferie o per malattia), secondo i criteri illustrati nella figura 1.

 

 

                                                       Figura  1     

Fonte: Istituto Nazionale di Statistica “La nuova rilevazione sulle forze di lavoro. Contenuti, metodologie organizzazione” Istat, giugno 2004

C’è però una categoria di persone difficile da classificare, si tratta di coloro che lavorano nel sommerso, i cosiddetti lavoratori in nero. A rigore dovrebbero considerarsi occupati, l’intervistatore dell’ISTAT garantisce l’anonimato all’intervistato, ma i lavoratori occupati in attività sommerse temono denunce e spesso preferiscono dichiararsi disoccupati o inattivi. A maggior ragione questo discorso vale per chi è impegnato in attività illegali o criminali.

 

b)  Persone in cerca di occupazione. Il percorso seguito dall’ISTAT per la classificazione delle persone in cerca di occupazione è illustrato nella figura 2. Sono incluse in questa categoria le persone non occupate di età compresa fra i 15 e i 74 anni che:
- hanno effettuato almeno un’azione di ricerca di lavoro nei trenta giorni che precedono l’intervista e sono disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive all’intervista,
- oppure, inizieranno un lavoro entro tre mesi dalla data dell’intervista e sono disponibili a lavorare entro le due settimane successive all’intervista, qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro. Le persone in cerca di occupazione comprendono dunque i disoccupati, cioè coloro che hanno perduto il lavoro e lo cercano attivamente, nonché le persone alla ricerca della prima occupazione.

 

 

Figura 2


Fonte: Istituto Nazionale di Statistica “La nuova rilevazione sulle forze di lavoro. Contenuti, metodologie organizzazione”, Istat, giugno 2004

 

La somma dei lavoratori occupati e delle persone in cerca di occupazione (disoccupati) costituisce le forze di lavoro, ovvero la popolazione attiva.

c) Inattivi. Questa categoria include coloro che non fanno parte delle forze di lavoro, ovvero le persone non classificate come occupate o in cerca di occupazione.

I principali indicatori che descrivono le condizioni del mercato del lavoro sono:


- Il tasso di attività, che è il rapporto fra le persone appartenenti alle forze di lavoro e la corrispondente popolazione di riferimento.
- Il tasso di occupazione, che è il rapporto fra gli occupati e la corrispondente popolazione di riferimento.
Salvo diversa indicazione, il tasso di attività e il tasso di occupazione vengono calcolati facendo riferimento alla popolazione in età lavorativa (15-64 anni).
- Il tasso di disoccupazione che è il rapporto fra persone in cerca di occupazione e le forze di lavoro.
- Il tasso di disoccupazione di lunga durata che è il rapporto fra persone in cerca di occupazione da dodici mesi e oltre e le forze di lavoro.
Un concetto a cui talora si fa riferimento è quello di unità di lavoro standard (ULA), che rappresenta la quantità di lavoro prestata in un anno da un lavoratore a tempo pieno, o la quantità equivalente prestata da lavoratori a tempo parziale o che svolgono un doppio lavoro.  Questo concetto non è legato al numero di lavoratori occupati, ma al volume di lavoro impiegato.

 

(Per dati e tabelle sull’occupazione, disoccupazione, ecc. si veda sul sito la rilevazione dell’Istat.)
In Italia la forza lavoro, secondo i dati ISTAT, nel 2009 era pari a circa 25 milioni di persone, di cui circa 23 milioni di occupati e 2 milioni di persone in cerca di occupazione. Se teniamo conto che la popolazione residente in Italia è pari a circa 60 milioni, il 41,5% della popolazione residente italiana appartiene alla forza lavoro. La popolazione in età lavorativa (15-64 anni) era pari a  circa 40 milioni. Dunque circa 15 milioni di persone, pur essendo in età lavorativa erano fuori della forza lavoro, cioè non erano né occupati, né attivamente in cerca di occupazione. La maggior parte sono studenti, casalinghe/i, pensionati  o altre persone che non sono effettivamente disposte a lavorare (circa 12 milioni), ma circa 3 milioni sono in realtà disponibili a lavorare, ma non cercano attivamente occupazione. Molte di queste persone che, pur non cercando lavoro, sono disponibili a lavorare, possono essere definite “lavoratori scoraggiati”. Si tratta sia di lavoratori disoccupati che nei periodi di elevata disoccupazione, dopo aver tentato di trovare lavoro, abbandonano la ricerca, sia di quei potenziali lavoratori che rinunciano ad entrare nel mercato del lavoro a causa delle scarse probabilità di trovare occupazione. I "lavoratori scoraggiati" non sono inclusi dalle statistiche fra i disoccupati, ma fra i "non appartenenti alle forze di lavoro", tuttavia si tratta di persone pronte a cogliere nuove opportunità di occupazione, quando queste si presentano.


In effetti, quando diminuisce l’occupazione, diminuisce anche la forza lavoro e viceversa, perché molti disoccupati smettono di cercare lavoro se si convincono di non avere possibilità di trovarlo. Intorno alla metà degli anni novanta il calo dell’occupazione è stato accompagnato da un declino della forza lavoro. Negli ultimi anni prima dello scoppio della crisi in atto è aumentata l’occupazione e diminuito il numero dei disoccupati e parallelamente è aumentata la forza lavoro, perché, dato l’aumento delle opportunità lavorative, molte persone precedentemente “inattive” sono entrate nel mercato del lavoro.


Per questo motivo è importante considerare il tasso di occupazione, che ci dice qual è la percentuale di persone in età lavorativa che il sistema è in grado di assorbire. Un tasso di occupazione elevato è indice di un sistema che è in grado di utilizzare adeguatamente le risorse disponibili.

 

 In Italia il tasso di occupazione (15-64 anni) è fra i più bassi  dell’Unione Europea, nel 2009 era superiore solo a quello di Malta e Ungheria.
Si tenga conto che l’obiettivo fissato dall’agenda di Lisbona per il 2010 era di un tasso di occupazione pari al 70%. Ciò indica che in Italia il fattore produttivo “lavoro” è impiegato in misura nettamente inferiore alla maggior parte dei paesi europei e che perciò una risorsa importante non viene adeguatamente utilizzata e limita le possibilità di crescita del nostro paese. Il dato tuttavia cela anche una maggiore diffusione del lavoro sommerso, dato che, come abbiamo visto, i lavoratori in nero spesso dichiarano di essere disoccupati.


Un dato importante che viene rilevato dall'ISTAT è la percentuale di disoccupati di lunga durata sul totale della forza lavoro. In Italia quasi la metà dei disoccupati presenti sul mercato del lavoro sono disoccupati da un anno o più.  

 

La dinamica dell’occupazione in Italia

Se guardiamo all’andamento dell’occupazione e del tasso di disoccupazione negli ultimi cinquant’anni in Italia come in altri paesi Europei, notiamo che, dopo una discreta performance negli anni cinquanta e sessanta, la situazione occupazionale ha cominciato a deteriorarsi verso la fine degli anni settanta, quando, con le politiche di aggiustamento condotte dalle economie occidentali per far fronte agli shock petroliferi, il tasso di disoccupazione ha cominciato ad aumentare e l’occupazione ha registrato una flessione nel tasso di crescita. L’economia italiana, che già negli anni ottanta aveva mostrato una scarsa capacità di creare nuovi posti di lavoro rispetto alle economie più avanzate, nei primi anni novanta è stata investita da una grave crisi occupazionale, caratterizzata non solo da un aumento dei disoccupati, ma anche da una sensibile diminuzione nel numero degli occupati. Nella seconda metà degli anni novanta sembra essersi verificata una svolta, nel 1996 riprende a crescere il numero degli occupati, aumentano il tasso di attività e di occupazione e dopo il 1998 si registra un calo nel numero dei disoccupati e comincia a calare il tasso di disoccupazione. Dalla fine del 2002 si evidenzia un indebolimento della tendenza espansiva dell’occupazione. L’aumento nel numero di occupati verificatosi nel periodo 2003-2005 è attribuibile all’emersione del lavoro nero prestato dagli immigrati per effetto della regolarizzazione dei cittadini stranieri e non a un effettivo aumento dei posti di lavoro disponibili.


Peraltro la dinamica espansiva dell’occupazione della seconda metà degli anni novanta, che ha seguito con un anno di ritardo la tendenza in atto nell’UE, è apparsa più debole che nella maggior parte degli altri paesi europei.
I mediocri risultati dell’Italia sul piano occupazionale rispetto alle altre economie avanzate dipendono in larga misura dal modesto aumento del PIL che, dagli anni ottanta, ha mostrato una crescita più contenuta rispetto alla media degli altri paesi industrializzati. Le politiche di compressione della domanda globale adottate negli anni novanta per rispettare i criteri di convergenza necessari per entrare nell’Unione Monetaria hanno imposto una brusca frenata alla nostra economia e, di riflesso, hanno avuto un impatto negativo sull’occupazione.
Ma un ruolo di rilievo è stato giocato anche, come vedremo nei prossimi paragrafi, dalle specializzazioni settoriali dell’Italia e dal dualismo nord-sud che caratterizza la nostra economia.


Con la crisi, come ovvio, la situazione occupazionale in Italia è nettamente peggiorata. Nel quarto trimestre del 2009  il numero di occupati risultava in calo dell’1,8% rispetto al corrispondente periodo del 2008 (-428.000 unità). Calano soprattutto l’occupazione autonoma, i dipendenti a termine, i collaboratori. Il tasso di occupazione ha registrato nell’ultimo anno un calo di 1,4 punti percentuali. Alla crescita della disoccupazione si accompagna un incremento degli inattivi dell’1,7% (+253.000 unità), in particolare di coloro che non cercano attivamente lavoro perché pensano di non trovarlo e di coloro che rimangono in attesa dei risultati di passate azioni di ricerca di lavoro.

 

La distribuzione settoriale dell’occupazione

Nel corso degli anni novanta, nell’UE come in Italia, si è verificata una forte diminuzione degli addetti nell’agricoltura, una sostanziale stabilità dell’occupazione nell’industria e un notevole incremento nel terziario. Attraverso le rilevazioni dell’ISTAT, scopriamo che quasi due terzi dei lavoratori sono occupati nei servizi, poco meno di un terzo lavora nell’industria e circa il 4% nell’agricoltura. Questa distribuzione settoriale, in cui domina la quota di lavoratori occupati nei servizi e l’agricoltura assorbe una quota minima degli occupati, non è una peculiarità italiana, ma contraddistingue tutti i sistemi produttivi avanzati ed è dovuta alla crescente terziarizzazione e finanziarizzazione dei sistemi economici moderni.


Nei primi anni 70 l’agricoltura assorbiva circa un quinto degli occupati; il peso del settore agricolo è poi progressivamente calato.
Lo sviluppo del terziario in Italia come negli altri paesi industrializzati ha rappresentato la principale componente nel processo di crescita dell’occupazione negli ultimi decenni; mentre nel 1970 il terziario assorbiva il 40% dell’occupazione, ormai circa due terzi degli occupati lavorano nel settore dei servizi. Tuttavia l’Italia segue il trend europeo con un certo ritardo, soprattutto mostra una dinamica e un’incidenza assai più contenute rispetto agli altri paesi europei in settori determinanti per la crescita dell’occupazione, quali i comparti dei servizi alle famiglie e alle imprese che nella UE hanno esercitato un ruolo trainante per l’occupazione.


Per quanto riguarda l’occupazione industriale è importante sottolineare che il nostro apparato produttivo presenta alcune specificità rispetto agli altri paesi europei: una specializzazione produttiva prevalentemente nei settori tradizionali e un elevato numero di piccole e micro imprese. Quasi metà dell’occupazione manifatturiera è concentrata nei settori tradizionali (alimentari, tessile, abbigliamento, cuoio e calzature), mentre il peso dei settori a più alto tasso di ricerca e sviluppo risulta inferiore alla maggior parte dei paesi europei. Questo tipo di specializzazione produttiva ha progressivamente provocato un indebolimento nella posizione dell’Italia sui mercati mondiali ed incide negativamente sulla crescita occupazionale essenzialmente per due ragioni. In primo luogo, la crescita della domanda nei settori tradizionali è stata negli ultimi anni relativamente contenuta. In secondo luogo i settori tradizionali sono i più esposti alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, che sono più competitivi grazie al basso costo del lavoro e alle normative più tolleranti su inquinamento, sicurezza, ecc. Questa situazione ha causato fra l’altro uno spostamento verso l’estero di attività che non risulta più conveniente mantenere in Italia.

 

Come si è detto, un’altra specificità del settore manifatturiero italiano è la prevalenza di unità produttive di piccola dimensione. La struttura dimensionale delle imprese in Italia è da molti considerata un indice di arretratezza del nostro sistema produttivo; infatti ne condiziona negativamente la competitività con ovvi risvolti sull’occupazione, che tende a crescere più debolmente che negli altri paesi industrializzati. Peraltro si è assistito a un continuo ridimensionamento delle grandi imprese che, a partire dai primi anni ottanta, continuano a registrare un vistoso calo dell’occupazione. Basti pensare che dal 1995 al 2006 l’occupazione dipendente nelle imprese industriali con oltre 500 addetti è scesa circa del 20%.


1.4 Divari territoriali

         
La situazione italiana si caratterizza per una netta segmentazione del mercato del lavoro, sia a livello territoriale che per tipologie di lavoratori.
Le statistiche sull’occupazione in Italia evidenziano le forti differenze nella distribuzione territoriale delle forze di lavoro, degli occupati e dei disoccupati. Esistono divari territoriali considerevoli in molti paesi, ma difficilmente accentuati come nel nostro.


Tutti gli indicatori relativi al mezzogiorno si presentano decisamente peggiori rispetto alla media europea.
Viceversa il Nord (con l'eccezione di alcune aree metropolitane, quali Torino e Genova, particolarmente toccate dal declino della grande impresa) presenta tassi di disoccupazione e tassi di occupazione in linea con la media europea.


La discreta performance occupazionale nelle regioni del centro-nord fino allo scoppio della crisi deriva dal fatto che in tali regioni il declino della grande impresa è stato accompagnato dallo sviluppo di imprese di dimensione media e piccola. Particolarmente importante sono stati la creazione di molte imprese nel nord-est e nel centro, lungo la direttrice adriatica, e lo sviluppo dei distretti industriali . Si noti tuttavia che già prima della crisi la crescita dell’occupazione nel nord-est sembrava essersi arrestata e si evidenziava una fase di ristagno nell’attività di molte piccole imprese. Con la recessione ovviamente la situazione si è notevolmente aggravata.


Senza dubbio la situazione del Mezzogiorno deriva dalla sua debolezza economica e istituzionale. Per quanto riguarda gli aspetti economici, il sistema produttivo meridionale è caratterizzato da una dotazione scarsa di infrastrutture, da un limitato contenuto innovativo degli investimenti, da una specializzazione produttiva in settori tradizionali. L’aspetto istituzionale gioca un ruolo rilevante: l’incapacità delle istituzioni di fornire servizi funzionali allo sviluppo locale ha incentivato la crescita della corruzione e dell’illegalità (compreso il lavoro nero), creando così un terreno ostile allo sviluppo di nuove attività che comportino un aumento dell’occupazione ufficiale. Non è questa la sede per approfondire i problemi strutturali dell’economia meridionale, che sono stati trattati da una vastissima letteratura. Basta dare uno sguardo ai dati per rendersi conto che l’Italia appare un paese letteralmente spaccato in due. In numerose regioni del Nord la disoccupazione risulta relativamente contenuta, anche se nettamente in crescita, almeno per quanto riguarda l’offerta di lavoro maschile. Ma la situazione nel mezzogiorno è senz’altro allarmante.

 

Il mercato del lavoro femminile

 

Il mercato del lavoro femminile in Italia presenta aspetti contraddittori. Un aspetto senza dubbio positivo si può riscontrare nel fatto che la presenza femminile sul mercato del lavoro ha registrato un andamento crescente, nonostante la crisi occupazionale che ha investito l'Italia nell'ultimo quarto di secolo. In particolare, negli ultimi anni, gli ampi differenziali di genere si sono progressivamente ridotti.


La crescita dell’offerta di lavoro femminile dipende da vari fattori: le trasformazioni socio-culturali che hanno comportato mutamenti nella struttura della famiglia e nel ruolo della donna nel contesto famigliare, la diffusione del lavoro part-time, l’incremento della domanda di forza lavoro nel settore dei servizi. Ma, nonostante la crescita della partecipazione femminile, le differenze di genere si mantengono ancora molte elevate e non è ancora stato colmato il divario esistente con gli altri paesi industrializzati, né in termini di tassi di disoccupazione, né in termini di tassi di occupazione. Il tasso di occupazione delle donne è fra i più bassi dell'UE, e presenta un divario di oltre 20 punti percentuali rispetto a Danimarca, Finlandia, Svezia, Gran Bretagna, Paesi Bassi. L'Italia è stata superata anche dalla Spagna e dalla Grecia, che pure in passato presentava  una situazione ancora più critica. Fra i paesi della UE solo Malta nel 2009 presenta un tasso di occupazione femminile inferiore a quello italiano.


Non è più possibile oggi spiegare le differenze di genere attraverso il minore investimento delle donne in istruzione e formazione, in quanto le donne in Italia hanno una formazione e una cultura mediamente più elevata rispetto agli uomini. Va tuttavia sottolineato che le donne tendono a privilegiare gli studi in campo umanistico e la formazione umanistica appare meno spendibile sul mercato del lavoro di quella scientifica.
Notiamo invece che, oltre ai puri elementi discriminatori, una serie di provvedimenti volti a favorire le donne, hanno finito con l'avere un impatto negativo sul mercato del lavoro femminile; si pensi ai congedi di maternità, che portano ad una discriminazione in favore degli uomini (anche se oggi esistono i congedi per paternità, la loro diffusione è ancora piuttosto limitata), o alle deduzioni fiscali per il coniuge a carico che scoraggiano la partecipazione femminile regolare al mercato del lavoro, incentivando caso mai il lavoro nero delle donne o ancora il pensionamento per le lavoratrici anticipato rispetto agli uomini. Tali misure dovrebbero essere comunque compensate da politiche in grado di controbilanciarne gli effetti.


Un altro motivo che spiega il basso tasso di attività femminile è ovviamente costituito dalle attività di cura a cui le donne sono tradizionalmente  costrette a dedicare una parte del loro tempo. Sarebbe necessaria una politica di riequilibrio delle responsabilità familiari fra uomini e donne volta ad alleggerire le attività di cura attraverso la creazione di asili, dopo scuola, assistenza agli anziani, ecc. Si tratta di politiche che hanno dato ottimi risultati nei paesi scandinavi; in tali paesi si registrano, infatti, tassi di partecipazione alla forza lavoro molto elevati sia per le donne che per gli uomini, differenze minime fra generi sia per quanto riguarda il tasso di partecipazione, sia per quanto riguarda il tasso di disoccupazione e differenziali retributivi più contenuti della media europea. Tali politiche trovano tuttavia ostacoli di attuazione oggi nel nostro paese, che si muove in un'ottica di tagli alla spesa pubblica.


Uno studio sull'inserimento professionale dei giovani mostra inoltre la difficoltà di accesso delle donne ai lavori a tempo indeterminato; i maschi alla ricerca della prima occupazione risultano avere circa il 50% di probabilità più delle femmine di trovare un lavoro a tempo indeterminato. Viceversa un contributo significativo all'ampliamento della base occupazionale femminile è derivato dalle forme di lavoro atipico (part-time, lavori a tempo determinato) e dal lavoro autonomo. Resta però da verificare in quale misura l'avviamento al lavoro attraverso forme "atipiche" favorisce un inserimento stabile e in quale misura costituisce invece una forma di marginalizzazione delle donne nel mercato del lavoro.


Un altro problema relativo all’occupazione femminile è la cosiddetta “segregazione verticale” cioè la forma di discriminazione che impedisce alle donne di salire i gradini più alti della scala professionale, fino a raggiungere posizioni di vertice. Sia nel settore pubblico che nelle imprese private le donne raramente accedono ai livelli manageriali che a loro competerebbero per età, anzianità e qualifica. La situazione è decisamente migliore per le donne che decidono di intraprendere una carriera imprenditoriale, in cui il successo dipende dalla capacità e non dalla selezione  improntata a una discriminazione di genere. Basti notare, a questo proposito, che alla fine degli anni novanta le donne erano circa il 5% dei dirigenti e il 21,2% degli imprenditori.

 

Il lavoro dipendente e il lavoro autonomo.

 

Una peculiarità del nostro mercato del lavoro è rappresentata dall’elevata incidenza del lavoro indipendente sull’occupazione totale. Gli occupati dipendenti nel 2009 sono circa 17.282.000 e gli indipendenti 5.640.000 milioni. La quota dei lavoratori autonomi in Italia è decisamente più elevata rispetto alla media europea. Una possibile spiegazione di questo fenomeno può essere individuata nella struttura dimensionale delle imprese italiane, caratterizzata da un numero eccezionalmente elevato di piccole imprese. Infatti anche gli altri paesi europei a sviluppo tardivo, come Spagna, Portogallo e Grecia presentano una quota di lavoratori indipendenti superiore alla media UE. In questi paesi incide in larga misura anche il fatto che la quota di addetti in agricoltura è relativamente alta e che in agricoltura la percentuale dei lavoratori indipendenti è molto elevata. In Italia viceversa il peso dell’occupazione agricola è piuttosto contenuto.  Peraltro nel nostro paese l’alta percentuale di lavoratori indipendenti è rilevabile in tutti i settori e non solo in quelli tradizionali, normalmente caratterizzati da una maggiore presenza di imprese artigiane.


Indubbiamente la presenza particolarmente elevata di piccole e micro imprese in Italia ha un ruolo determinante nella spiegazione della elevata quota di indipendenti, ma è necessario anche considerare che il dato italiano è viziato dalla presenza di un numero crescente di collaboratori coordinati e continuativi e di collaboratori a progetto che, come vedremo nel prossimo paragrafo, formalmente sono considerati lavoratori indipendenti, ma che in molti casi mascherano forme di lavoro dipendente .

 

Il lavoro atipico

 

Negli ultimi anni si è verificata una accentuata tendenza alla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro. Sono nate nuove forme contrattuali che hanno consentito un crescente utilizzo del lavoro a tempo determinato e diverse tipologie di orario. Il lavoro atipico comprende le forme contrattuali diverse dal contratto di lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato e dalle forme tradizionali di lavoro autonomo. Si tratta di una categoria residuale ed eterogenea che include varie tipologie contrattuali, quali i lavori a tempo determinato, il lavoro parasubordinato, che occupa una posizione intermedia fra l’occupazione alle dipendenze e il lavoro autonomo, il part-time, il telelavoro. Le varie forme di lavoro atipico presentano aspetti e problematiche differenti e soddisfano esigenze diverse di flessibilità.


Nel nostro paese esistono numerose forme di contratti a tempo determinato. La legge 196/1997 (il cosiddetto pacchetto Treu) ha introdotto e regolato alcune forme di contratti a tempo determinato, ad esempio il lavoro interinale. Con la legge 30/2003, altrimenti chiamata riforma Biagi, le forme contrattuali atipiche si sono moltiplicate. Sono peculiari dell’indirizzo del legislatore forme contrattuali quali il job on call (lavoro a chiamata) lo staff leasing (affitto di interi reparti di lavoratori da parte di agenzie interinali), il job sharing (lavoro ripartito).


I contratti a termine sono rapidamente cresciuti passando dal 6,8% dell’occupazione dipendente nel 1994 a circa il 10% a partire dal 2000. Nel 2005 i  contratti a carattere temporaneo hanno interessato oltre due milioni di lavoratori dipendenti (quasi il 13%). Oltre la metà dei nuovi posti di lavoro creati dal 1994 al 2005 sono a lavori a termine. Con lo scoppio della crisi la quota di lavoratori dipendenti a termine è scesa a meno del 10%. I primi a subire l’effetto della crisi e ad essere estromessi dal mercato del lavoro sono stati infatti i lavoratori con contratti temporanei che alla scadenza non sono stati rinnovati.


Anche il part-time coinvolge un numero sempre più elevato di lavoratori e attualmente copre oltre il 15,1% dei dipendenti (oltre 2,6 milioni di lavoratori).
Al netto delle sovrapposizioni,  oltre 3 milioni di lavoratori è coinvolta in forme di lavoro atipico.


Contemporaneamente è cresciuto il lavoro dei collaboratori coordinati e continuativi e dei collaboratori a progetto che, pur collocandosi formalmente come lavoro autonomo spesso nasconde situazioni di lavoro dipendente, senza però le garanzie normalmente offerte al lavoratore dipendente (ad esempio la retribuzione in caso di assenza per malattia). I collaboratori sono legati da un contratto con un’azienda senza esclusività (ma nella maggior parte dei casi il legame è con una sola azienda). Si può stimare che circa mezzo milione di collaboratori siano in realtà lavoratori subordinati “mascherati” da autonomi.

 

         

Il lavoro nero

 

L’attività sommersa permette di aggirare le norme che regolano l’attività di produzione e l’utilizzo del lavoro; dunque consente l’evasione fiscale e contributiva, l’inosservanza delle norme relative alla sicurezza,  agli orari di lavoro e ai minimi salariali.


Le imprese che operano nel sommerso possono quindi abbassare i costi  e mettono perciò in atto pratiche di concorrenza sleale rispetto alle imprese regolari. In Italia il fenomeno del sommerso è molto diffuso e in aumento. Le nuove forme di flessibilità non sono state in grado di contrastare lo sviluppo del lavoro sommerso, che ha continuato a crescere per tutti gli anni novanta. Questo perché il sommerso è generato non tanto dall’esigenza di comprimere i costi diretti del lavoro, che con le nuove forme di flessibilità risultano notevolmente ridotti, ma dal desiderio di evasione fiscale e contributiva, nonché dalla volontà di eludere tutta una serie di norme atte a tutelare la sicurezza dei lavoratori. La crescita del lavoro irregolare fra i lavoratori dipendenti è probabilmente imputabile anche alla crescente presenza di stranieri nel nostro paese .


Naturalmente è difficile calcolare l’ampiezza del sommerso, per cui ci dobbiamo accontentare di valutazioni tutt’altro che precise.  Secondo le stime effettuate dall’ISTAT nel 2009 le unità di lavoro irregolari erano circa 3 milioni e le posizioni di lavoro dipendente non regolare superavano i superavano i 4 milioni.
La percentuale di lavoratori irregolari è in crescita fra i lavoratori dipendenti e ha raggiunto nel 2000 il 18% dell’occupazione dipendente, mentre risulta stabile (intorno all’8,3%) fra gli indipendenti. Fra il 1992 e il 1998, mentre l’occupazione regolare scendeva di quasi il 5%, quella irregolare aumentava di oltre il 10%. Il tasso di irregolarità nel 2000 risultava particolarmente elevato nel settore agricolo (32,1%), ma anche il comparto delle costruzioni (16%) e dei servizi (commercio, riparazioni e trasporti 18,6%, intermediazione monetaria e finanziaria 13,8%, altri servizi 16,2%) registravano tassi di irregolarità piuttosto alti, mentre l’industria in senso stretto non sembra utilizzare in modo consistente il lavoro irregolare (5,7%). L’incidenza di irregolari sulle unità di lavoro complessive è concentrata soprattutto nelle regioni meridionali (22,6% nel Mezzogiorno, 15,2% nel Centro, 11% nel Nord).


A questo punto ci si potrebbe chiedere qual è il tasso di disoccupazione al netto dei lavoratori in nero. I disoccupati in Italia sono circa due milioni e le unità di lavoro irregolari sono oltre i tre milioni; se valutiamo che una larga percentuale dei lavoratori in nero tende a dichiararsi disoccupata, saremmo tentati di pensare che in Italia siamo in una situazione di piena occupazione. Tuttavia, in primo luogo è dubbio che si possa considerare davvero occupata una persona sottopagata e non tutelata. Inoltre è necessario considerare che solo una parte dei lavoratori in nero sono persone che si dichiarano disoccupate (poco più di 1/3 secondo uno studio del Censis del 1998). I lavoratori in nero vengono infatti anche reclutati fra occupati (per il secondo lavoro), pensionati, cassintegrati e lavoratori in mobilità, immigrati extra-comunitari senza permesso di soggiorno e altre persone che non si dichiarano in cerca di occupazione. 


 

 

Per saperne di più

Segnaliamo qui alcuni siti internet utili per trovare dati e informazioni sul mercato del lavoro.
-Il mercato del lavoro nel mondo:
International Labour Office (ILO)  www.ilo.org
Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) www.unctad.org
Organizzazione internazionale di difesa di diritti umani contro la schiavitù www.antislavery.org

- Il mercato del lavoro nei paesi industrializzati:
Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici (OCSE) www.oecd.org

-Il mercato del lavoro in Europa:
Europa - L’Unione Europea in linea (sito ufficiale dell’UE) http://europa.eu.int  
European Employment Observatory www.etuc.org

- Il mercato del lavoro in Italia:
Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT)  www.istat.it
ISFOL www.isfol.it
Consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) www.cnel.it/
Europa Lavoro (sito ufficiale del Fondo Sociale Europeo in Italia)  http://www.europalavoro.it/
Istituto Nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL)  www.inail.it
Istituto Nazionale per la previdenza sociale (INPS) www.inps.it
Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori ISFOL  www.isfol.it
Ministero del lavoro e delle politiche sociali  www.minwelfare.it/default.htm

-Siti sindacali:
CGIL www.cgil.it
CISL www.cisl.it
UIL  www.uil.it
Confederazione europea dei sindacati www.etuc.org

-Siti di quotidiani :
Il Sole-24 Ore  www.ilsole24ore.com

 


La vera dimensione della crisi occupazionale
di Francesco Pirone*
da economia  e politica  –   www.economiaepolitica.it 
07 Dicembre 2009
L’impatto della recessione economica internazionale sul mercato del lavoro italiano è sempre più evidente com’è dimostrato dall’emergere di sempre nuove e più gravi crisi aziendali e occupazionali, dall’inasprirsi del conflitto sindacale – che rispetto ai mesi passati sta trovando un po’ più di spazio in quotidiani e telegiornali – e dal diffondersi di condizioni, spesso drammatiche, di disagio sociale. La situazione non migliorerà nei prossimi mesi, anzi le proiezioni economiche diffuse dall’OECD nelle scorse settimane segnalano che nel prossimo anno la disoccupazione per l’Italia continuerà ad aumentare, pur in un contesto di lieve ripresa economica[1].
Le statistiche sul tasso di disoccupazione, però, non colgono che una parte dell’attuale crisi occupazionale, sia per distorsioni tecniche nella misurazione della disoccupazione, come si avrà modo di chiarire, sia perché il disagio materiale dei lavoratori è anche legato alla precarizzazione dell’occupazione che s’intreccia all’assenza di lavoro. Il tasso di disoccupazione pertanto è un indicatore che sottostima il disagio economico ed occupazionale dei lavoratori che è un fenomeno a più dimensioni che riguarda lo scoraggiamento nella ricerca di occupazione, il ricorso alla cassa integrazione, la sottoccupazione e il lavoro a termine. È opportuno, quindi, soffermarsi con più attenzione sulle statistiche disponibili per meglio individuare le dimensioni della crisi occupazionale.
I dati più aggiornati e dettagliati ISTAT sul tasso di disoccupazione in Italia, riguardano il secondo trimestre 2009[2]. A quella data le persone in cerca di occupazione – alla base del calcolo del tasso di disoccupazione – erano oltre 1,8 milioni, un valore che è tendenzialmente cresciuto nei mesi seguenti, come dimostrano le recentissime stime mensili provvisorie diffuse dall’ISTAT, registrando che ad ottobre 2009 il numero dei disoccupati era salito a circa 2 milioni[3]. È noto, però, che si tratta di un calcolo che esclude un numero rilevante di persone che pure essendo senza lavoro e ritenendosi disoccupate vengono considerate come “non attive”, perché il conteggio tra i “disoccupati” è vincolato alla ricerca attiva del lavoro e all’immediata disponibilità a lavorare[4]. I lavoratori considerati inattivi perché non soddisfano tali requisiti possono essere considerati “scoraggiati”, cioè persone che hanno smesso la ricerca attiva del lavoro, nella convinzione di non poter trovare occupazione. A questi si aggiungono quelli che, invece, non sono incondizionatamente disponibili a cominciare un lavoro nelle due settimane successive all’intervista, come spesso capita a donne con figli o anziani a carico. L’effetto di questi fenomeni – lo scoraggiamento appunto – può essere stimato analizzando la composizione della popolazione non attiva. Sulla base dei già citati dati ISTAT, l’insieme dei lavoratori scoraggiati contava, a seconda degli aggregati che si includono, tra un minimo di 3,1 milioni persone, ad un massimo di 4,7 milioni di persone. Si tratta di lavoratori che solo per motivi definitori non sono considerati disoccupati e che possono essere conteggiati in aggiunta ai 1,8 milioni di persone ufficialmente in cerca di lavoro e che, se considerate ai fini del calcolo del tasso di disoccupazione, lo farebbero salire dal 7,4%, all’11,9% (calcolo restrittivo) o addirittura al 16,9% (calcolo allargato).
Guardando, d’altra parte, i dati sul numero degli occupati – circa 23,2 milioni – va sottolineato che non viene considerata la diffusione della cassa integrazione guadagni (CIG) a cui le imprese hanno fatto ampio ricorso nel 2009. È opportuno ricordare, infatti, che la CIG non incide sullo stato occupazionale dei lavoratori che, durante i periodi in cassa integrazione, rimangono ufficialmente “occupati”. L’INPS, relativamente al periodo gennaio-ottobre 2009, ha comunicato di aver concesso circa 716,8 milioni di ore di CIG[5]. In relazione a questi dati INPS, le elaborazioni dell’Osservatorio CIG della CGIL stimano un valore medio di 970.844 lavoratori interessati dalla cassa integrazione nei primi dieci mesi dell’anno[6]. In altri termini si tratta di circa un milione di lavoratori che, pur non avendo perso l’occupazione, hanno registrato una riduzione, più o meno rilevante, del reddito da lavoro.
Non tutti i restanti occupati, però, possono essere considerati a riparo dal bisogno materiale. Al contrario, tra i lavoratori sottoccupati, i lavoratori dipendenti a termine e i lavoratori autonomi parasubordinati, c’è una quota a basso reddito e a ridotte (o nulle) protezioni sociali che può essere assimilata a quella che nei contesti anglosassoni viene definita come l’area dei working poors e che, probabilmente, sono più di altri in condizioni di disagio economico e sociale, anche fuori dalla crisi occupazionale.
Tornando alle statistiche disponibili, una dimensione quantitativa indicativa della sottoccupazione emerge dai dati sugli occupati per ore lavorate. Poiché per essere considerati occupati dall’ISTAT basta aver lavorato anche un’ora nella settimana di riferimento, è opportuno scorporare dall’aggregato degli occupati i lavoratori con un orario estremamente ridotto. L’Istituto di statistica rileva che, al secondo trimestre 2009, circa 510 mila persone registrate come occupate hanno svolto meno di 10 ore di lavoro settimanale (circa il 2,2% degli occupati).
Bisogna infine considerare un’area più vasta di occupazione temporanea, più o meno esposta alla precarietà, ma sicuramente a forte rischio nell’attuale crisi occupazionale, cioè in una fase in cui le opportunità di rioccupazione a scadenza di contratto si riducono. Un primo aggregato di lavoratori a rischio occupazionale è quello dei lavoratori dipendenti a tempo determinato che, facendo riferimento alla stessa fonte ISTAT, erano pari a 2,2 milioni (il 9,5% dell’occupazione totale). A questi si può aggiungere una quota di lavoratori parasubordinati conteggiati tra i lavoratori autonomi. Non ci sono dati aggiornati sul lavoro autonomo parasubordinato, tuttavia per avere un ordine di grandezza è utile rifarsi ai dati disponibili di fonte INPS aggiornati al 2007. Analizzando il database INPS, senza considerare i professionisti, si osserva che circa il 58% dei collaboratori non va oltre i 10mila euro di reddito annuo e di questi il 92% ha un solo committente[7]. Questo gruppo di collaboratori a monocommittenza e a reddito basso che rappresenta la quota più debole dei collaboratori era pari nel 2007 a circa 984 mila lavoratori.
L’analisi dei dati statistici disponibili, per quanto artigianale e bisognosa di maggiori approfondimenti evidenzia che la crisi occupazionale, se letta in un’ottica multidimensionale, riguarda un numero di lavoratori che si pone in un ordine di grandezza che è almeno cinque volte l’ammontare della disoccupazione ufficiale. Si tratta di indicazioni di massima coerenti con le informazioni che giorno per giorno la cronaca registra sul malessere dei lavoratori e sul crescente conflitto sociale e che dovrebbero spingere per tempo le istituzioni di governo a mettere la crisi occupazionale e la condizione dei lavoratori al vertice dell’agenda politica, a livello nazionale e territoriale.
 

 

 *Assegnista di ricerca, Dipartimento di Sociologia e Scienza della Politica, Università di Salerno

[1] Cfr. OECD, Economic Outlook: Flash file - quarterly projections. Italy - Key economic projections, Parigi, 19 novembre 2009.
[2] Cfr. ISTAT, Rilevazione sulle forze di lavoro. II semestre 2009, Roma, 22 settembre 2009.
[3] Cfr. ISTAT, Rilevazione sulle forze di lavoro – Dati mensili. Ottobre 2009: dati provvisori, Roma, 1 dicembre 2009.
[4] Sono considerate in cerca di occupazione le persone non occupate tra 15 e 74 anni che hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nei trenta giorni che precedono l’intervista e sono disponibili a lavorare entro le due settimane successive all’intervista. Sulle distorsioni prodotte dalle definizioni alla base della Rilevazione sulle forze di lavoro, si veda quanto già pubblicato in questa sede: Pirone F., Di cosa parlano le nostre statistiche sul mercato del lavoro?, Economia e Politica, 17 Febbraio 2009.
[5] Cfr. INPS, Osservatorio sulle ore autorizzate di cassa integrazione guadagni, (aggiornato ad ottobre 2009).
[6] Cfr. CGIL, CIG ottobre 2009, a cura dell’Osservatorio CIG del Dipartimento Settori Produttivi, Roma, 2009.
[7] Cfr. INPS, Osservatorio sui parasubordinati. Contribuenti collaboratori, (aggiornato all’anno 2007).

 

                                                                                                                                     


Nel Consiglio Europeo di Lisbona, tenutosi nel marzo del 2000, erano stati fissati una serie di obiettivi per il 2010 in materia di occupazione, fra cui quello di un tasso di occupazione del 70%  un tasso di occupazione femminile del 60%.

Si intende per distretto industriale un’area delimitata in cui si raccolgono piccole imprese appartenenti allo stesso settore. Grazie alla sua omogeneità consente l’accumulazione e la trasmissione di esperienze e conoscenze.

  Istituto Nazionale di Statistica (1997), "Rapporto annuale ”,  Istat, Roma

Le rilevazioni dell’Istat non consentono di conoscere il numero dei contratti a termine stipulati né la loro durata, ma solo il numero di lavoratori occupati con tali contratti nella settimana in cui l’intervista dell’Istat è stata eseguita.

Si noti che il peso dell’economia sommersa sembra essere in crescita ovunque. Secondo lo studio di F. Schneider “Nuovi risultati sull'andamento delle dimensioni dell'economia sommersa in 17 paesi OCSE”, pubblicato dall’OCSE (1998) l’incidenza dell’economia sommersa sul PIL in Italia sarebbe pari al 28,2%, il che porrebbe l’Italia, a fianco della Grecia, nei primissimi posti fra le economie della UE, seguite nell’ordine da Spagna, Portogallo, Belgio (oltre il 20%); gli altri paesi UE si collocherebbero fra il 10 e il 20%, ad eccezione dell’Austria (9,6%)

 

Fonte: http://www.personalweb.unito.it/lia.fubini/capitolo_1_2010_MOD2.doc

sito web: http://www.personalweb.unito.it/lia.fubini/
Autrice: prof. Lia Fubini

Materiale didattico per il corso di “Politica economica e del lavoro”

 

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