Mobbing sul lavoro definizione

 

 

 

Mobbing sul lavoro definizione

 

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IL MOBBING: DEFINIZIONI E DISTINZIONI

1. Cenni storici
II termine mobbing deriva dall’inglese ‘to mob’ che indica essenzialmente due tipi di azioni: affollarsi, accalcarsi intorno a qualcuno; assalire tumultuando, attaccare, aggredire, malmenare, schernire.


Il termine è stato usato agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso dall'etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento di alcune specie animali che circondano un proprio simile e lo assalgono rumorosamente in gruppo al fine di allontanarlo dal branco. Ad esempio il mobbing è una reazione collettiva e aggressiva mediante la quale alcuni uccelli rispondono alla invasione del territorio ed al pericolo, attaccando in gruppo l’intruso e/o il contendente (es. rapace): l’emissione di gridi particolari, la formazione di volo o l’accerchiamento a terra intimoriscono e respingono l’avversario. E' dunque la difesa di un territorio, cioè, in termini sistemici, dei confini e della stabilità di un sistema.


Il primo a parlare di mobbing quale condizione di persecuzione psicologica nell'ambiente di lavoro è stato, alla fine degli anni '80, lo psicologo tedesco Heinz Leymann, emigrato in Svezia e considerato il fondatore di questa nuova direzione di ricerca di Psicologia del Lavoro. Leymann (1996) trovò una analogia tra l’aggressività degli uccelli e quella manifestata da certi lavoratori nei confronti di altri, così utilizzò il termine mobbing per indicare il fenomeno da lui studiato.
Negli ultimi anni l’uso del termine ha conosciuto un enorme sviluppo. È infatti particolarmente ricco di significato, in quanto racchiude in sé in modo efficace e conciso, il complesso mondo delle persecuzioni psicologiche nel contesto lavorativo. Lungo la strada aperta da Leymann si sono avviati psicologi, medici e legislatori, tanto che la problematica, in pochi anni, ha trovato sviluppi in tutta Europa.  


In Germania le ricerche su questo tema si sono talmente evolute da considerare l’opera di Leymann come semplice teorizzazione di base, ormai insufficiente da aggiornare. I sindacati hanno promosso campagne di sensibilizzazione e strategie di intervento, ed il Servizio Sanitario ha dotato le AOK (strutture pubbliche corrispondenti alle Unità Sanitarie Locali italiane) di strumenti per la diagnosi e la cura dei danni da mobbing. Attualmente in Germania i danni da mobbing rientrano nella casistica delle malattie professionali.


In Svezia, dal 1992, il mobbing è considerato una pratica criminale e socialmente dannosa, tanto che il Ministero del Lavoro ha emesso varie ordinanze per la tutela dell’ambiente di lavoro (provvedimenti contro il rischio di violenza e minacce sul posto di lavoro e contro la vittimizzazione e la persecuzione dei lavoratori).
In Italia si inizia a parlare di mobbing solo negli anni '90 grazie allo psicologo del lavoro Harald Ege, che nel 1996 ha fondato a Bologna “Prima”, la prima associazione italiana contro mobbing e stress.  Nel nostro Paese, pur essendo molto diffuso, il mobbing è ancora poco presente a livello di ricerca scientifica e di provvedimenti per combatterlo .  

 

2. Verso una definizione condivisa.
Con la parola mobbing si intende definire “una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori” (Ege, 1997, p. 31). La vittima di queste persecuzioni viene emarginata, calunniata, criticata, viene spostata da un ufficio all’altro e spesso le vengono affidati compiti dequalificanti. Lo scopo di tali comportamenti è sempre distruttivo e mira ad eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato licenziamento.


Leymann definiva il mobbing come un’azione (o una serie di azioni) ripetute per un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più attori (mobber) per danneggiare qualcuno (mobbizzato), in modo sistematico e con scopo preciso. Il mobbizzato viene letteralmente accerchiato e aggredito intenzionalmente dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale. Si tratta in definitiva di una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo, che è progressivamente spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa e lì relegato per mezzo di ripetute e protratte attività.


Attualmente il fenomeno viene definito come una forma di pressione psicologica sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte dei colleghi o superiori, attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno sei mesi. In seguito a questi attacchi la vittima progressivamente precipita verso una condizione di estremo disagio che cronicizzandosi si ripercuote negativamente sul suo equilibrio psico-fisico.  

 

3. Specificità dei comportamenti di mobbing. Mobbing, stress, straining.
Non si può classificare come mobbing qualsiasi forma di conflitto nel posto di lavoro. Fondamentale, per la comprensione del fenomeno, è la distinzione tra mobbing vero e proprio ed azioni stressanti. Queste ultime sono eventi magari traumatizzanti ma sporadici, spesso dovuti a fattori caratteriali o situazionali. Il mobbing ha radici più profonde, è caratterizzato da un’azione sistematica, premeditata consciamente o inconsciamente ai danni di una vittima ben precisa, con l’intento di danneggiarla o allontanarla. Quindi la condizione per parlare di mobbing è il requisito temporale: le violenze psicologiche devono essere regolari, sistematiche, frequenti e durare nel tempo (almeno sei mesi) (Ascenzi e Bergagio, 2000).  


Alla base del mobbing c’è sempre un conflitto. Non esistono rapporti professionali privi di un qualche tipo di conflittualità, spesso positiva: i conflitti generano innovazione, sbloccano situazioni senza apparente via d’uscita, conducono all’accordo su un’idea. Ma l’altra faccia del conflitto, quella che deriva da una cattiva organizzazione del lavoro, spesso degenera in mobbing. Un conflitto non risolto, risultato di rivalità, lotte di influenza e di potere, è la tipica situazione che spinge alla ricerca di un capro espiatorio.


Anche altri aspetti della vita sociale presentano situazioni simili, come l’isolamento a scuola degli alunni più bravi, o il nonnismo nella vita militare. Ma l’attenzione degli studiosi ricade maggiormente nella vita lavorativa per le dimensioni che il fenomeno ha qui raggiunto e per i grandi costi che provoca. In ogni caso siamo di fronte ad uno stato lesivo dell’individualità che nessuno può trascurare, aziende comprese, viste le serie ripercussioni sulla persona, sull’intera collettività e sulla produttività nel lavoro.
Una distinzione che occorre fare è fra il mobbing e il concetto generale di stress. Spesso non si distingue correttamente tra i due fenomeni, sebbene essi abbiano una natura ben diversa e specifica. Si può sicuramente affermare che tra lo stress e il mobbing esista un rapporto di causa-effetto (Ege e Lancioni, 1998).  Il mobbing è certamente causa di stress; non è vero il contrario, nel senso che lo stress può presentarsi indipendentemente dal mobbing.
Lo stress causato dal mobbing ha delle caratteristiche molto particolari in quanto crea un forte stato confusionale che disorienta la percezione degli attori, particolarmente della vittima (viene esagerata l’importanza del lavoro, viene ridotta la motivazione ad agire, aumenta l’incertezza per l’imprevedibilità del futuro). Lo stress da mobbing ha effetti molto gravi nel caso in cui le vittime siano ignare di essere tali; esse si trovano spiazzate di fronte ad eventi imprevisti e si attribuiscono responsabilità che non gli competono. Ma nel momento in cui la vittima individua e comprende la vera causa dello stato di mobbing, lo stress permette di trovare le forze e le idee necessarie per affrontare e sconfiggere il mobber.


Lo studio della relazione tra questi due fenomeni si può distinguere in due grandi filoni: le ricerche mirate a verificare come lo stress possa essere causa del mobbing, e le ricerche che vedono il mobbing come causa dello stress.


Nel primo caso si parla di un campo di indagine, ancora in gran parte inesplorato, che considera le persone stressate come più soggette all’assunzione del ruolo di mobber, al cambiamento radicale del proprio comportamento e all’adozione di strategie persecutorie anche molto gravi. Tali ricerche utilizzano un modello che prende in esame alcune metafore (valvola, vittima stressata, gioco) per indicare le diverse situazioni in cui un lavoratore stressato diventa mobber. Ciascuna situazione, inoltre, può essere ricondotta ad una dimensione individuale o di gruppo.


La dimensione individuale si riferisce ad una situazione in cui un individuo diventa mobber a causa di un forte stress provato sul lavoro. Qui il mobber è sottoposto ad una sollecitazione eccessiva e desidera sfogarsi attraverso delle persecuzioni, ma può anche derivare il suo stress da una sotto-attivazione; in entrambi i casi il soggetto può avvertire uno stato confusionale e sentire la necessità di sfogare la rabbia accumulata su un altro individuo.
In una dimensione di gruppo, il mobber (appunto, il gruppo) vuole sfogare, attraverso delle strategie persecutorie, la propria pressione da stress, dovuta, anche qui, a sovra o sotto attivazione. Nel primo caso il gruppo o riceve troppi ordini, o si trova in una fase di empasse o si mettono in discussione le posizioni gerarchiche. Nel secondo caso, il calo di impegno sul lavoro darà avvio alla caccia al colpevole, che sarà colui che continua a lavorare attivamente e che è continuamente occupato rispetto agli altri. La vittima viene stigmatizzata dal gruppo e il ruolo cristallizzato, divenendo bersaglio delle azioni di mobbing. La vittima non deve avere delle caratteristiche specifiche, basta che dimostri indifferenza per la situazione del gruppo o si dimostri opportunista. L’alleanza del gruppo non avviene per iscritto, ma si manifesta con uno sguardo o attraverso una simpatia e in ogni caso è deleteria per la vittima.


Un altro oggetto della ricerca psicologica sul mobbing è la ‘vittima stressata’. Quando un lavoratore è molto stressato, può accadere che riversi la propria pressione sui colleghi o i capi attraverso nervosismi, ansie e stati di panico, che suscitano risposte di persecuzione con il tentativo di porre fine alla situazione. In tal modo si attiva un circolo vizioso in cui il mobber realizzerà azioni che danneggiano la vittima procurandole stress ulteriore; quest’ultimo aumenterà il disagio generale  che si continuerà ad esprimere attraverso stati d’ansia e nervosismi riversati sui colleghi.  Il mobber, tuttavia, non si ritiene tale, non si rende conto che la vittima non sta bene e che avrebbe bisogno di aiuto. Egli interpreta il suo stato di allarme come una minaccia e intraprenderà azioni che per lui sono di difesa, ma per la vittima sono di attacco. Questo perché il mobber è convinto di essere una vittima e quindi giustifica ogni strategia di attacco finalizzata alla difesa.
A livello di gruppo il mobbing si verificherà nel momento in cui un lavoratore stressato disturbi o crei inquietudine nella stabilità del gruppo, causando una serie di azioni persecutorie. Il gruppo potrebbe non accettare un elemento che violi l’equilibrio interno e allora vorrà difendersi, attaccando l’individuo (minaccia) che si distacca, anche solo parzialmente, dalle regole condivise. In tale prospettiva ogni azione sembra giustificata dal fine (la stabilità e l’equilibrio del gruppo).
E’ stata messa in evidenza anche la situazione di mobbing come ‘gioco’. Il mobbing può essere attivato da un semplice gioco sadico dovuto a noia, invidia o gelosia nei confronti di un lavoratore verso cui si realizzano azioni persecutorie. Il mobber spesso si trova in una situazione di intoccabilità, ha poco lavoro da svolgere, gode della simpatia generale, ed impiega il suo tempo a sviluppare strategie persecutorie da cui trarrà un piacevole stato di euforia.
In una prospettiva di gruppo, la vittima prescelta si caratterizza per la sua diversità dagli altri (una donna in mezzo a uomini, uno straniero in mezzo a lavoratori locali) e serve a perpetuare il gioco scelto dal gruppo, per mantenere uno stato di euforia. Tra i membri del gruppo si crea un accordo tacito sull’obiettivo comune; la situazione è grave per la vittima perché i membri del gruppo si possono sostenere a vicenda.


Si è detto che il mobbing è sempre causa di stress, ma il più delle volte la vittima non si rende conto di ciò e si concentra esclusivamente sulle somatizzazioni (nel corpo, nel comportamento o nello stato d’animo), considerandole indipendenti dalle persecuzioni subite nel posto di lavoro. In questo modo, non focalizzando l’attenzione sulle vere cause dello stress, si rischia di far passare anche molto tempo, aggravando la situazione che diviene cronica.


Si possono individuare sei diverse situazioni in cui il mobbing diviene causa (diretta o indiretta) dello stress:
a) Nel momento in cui la vittima si rende conto di subire delle persecuzioni può essere esposta a una grave esperienza di stress , dovuta ad un perenne stato di allarme che provoca ansia, tensione e nervosismo. Il soggetto non si fida di nessuno, e si trova in uno stato di attivazione continua, dovuto alla ricerca di nuove strategie di difesa. Lo stress può derivare dal fallimento di tali strategie, dalla sensazione di perdere qualcosa di fondamentale (il posto di lavoro), dalla demotivazione e dalla perdita di fiducia in se stessi. Spesso, purtroppo, il risultato finale è una sconfitta debilitante, poiché il posto di lavoro è talmente importante che deve essere difeso a tutti i costi. 
b) La vittima spesso non è consapevole che lo stato di stress deriva dall’azione del mobber, e attribuisce la causa dei propri problemi a fattori esterni al lavoro o a fattori organizzativi. Lo stress è dato sia da una sovra-attivazione che da una sotto-attivazione; il mobbizzato è perennemente preoccupato dalle possibili reazioni dei superiori e ciò gli provoca tensione, ansia, se non terrore e depressione. In ogni caso le vere cause dei suoi problemi rimarranno celate, ad eccezione del caso in cui sia proprio il mobber a rivelare la situazione e a sbeffeggiare la vittima.


c) Può avvenire che sia l’azienda a mettere in atto delle strategie persecutorie ed umiliazioni per costringere alcuni dipendenti a dimettersi. La vittima si sente paralizzata e senza possibilità di difesa  poiché il mobber è un nemico estremamente più grande e forte di lei. Questa forma di mobbing è definita “bossing” e porta il lavoratore a subire uno stato di incertezza molto forte e di continua allerta. Il rischio di perdere il posto di lavoro fa crescere lo stress e la demotivazione. Lo stress subito è assoluto poiché si è impotenti e si rimane a subire le umiliazioni e le vessazioni per l’estrema importanza ricoperta dall’occupazione.


d) Il mobber che mette in atto volontariamente azioni persecutorie contro una vittima può incontrare situazioni particolarmente stressanti. Questo stress deriverebbe o da uno stato di euforia dovuta ai risultati delle sue azioni, o dall’indifferenza del mobbizzato che causerebbe frustrazione, o dal fatto che la situazione creata può sfuggire al controllo.
e) Vi sono casi in cui il mobbing viene causato inconsapevolmente. Il mobber viene allora disorientato dalle azioni di difesa della vittima, che lui non riesce a comprendere e ad interpretare. Il mobber inconsapevole vive un forte stato di incertezza dovuta all’improvviso cambiamento della vittima. Allora potrà vivere stati di sovra-attivazione nel tentativo di trovare una spiegazione. Se il conflitto non emerge e le responsabilità del mobber non vengono a galla, si potrebbe innescare un circolo vizioso in cui la vittima sarà sempre più perseguitata dagli attacchi del mobber.


f) Può verificarsi che il bossing risulti stressante per l’azienda, poiché rappresenta una situazione di paziente attesa che il lavoratore si licenzi. Lo stress deriva dall’importanza della situazione economica e dalla necessità di liberarsi di qualsiasi minaccia per l’azienda. Si può verificare una sovra-attivazione e un conseguente stato di euforia per la riuscita della strategia, o una sotto-attivazione dovuta a un fallimento inaspettato e alla conseguente ricerca di nuove strategie.
In conclusione si può affermare che il mobbing è legato allo stress nel momento in cui singoli individui (o un gruppo) accumulano una grande quantità di tensione che non riescono a gestire e la dirigono verso atti persecutori su un bersaglio, non riuscendo a trovare altra via di sfogo. Il mobbing, invece, è indipendente dallo stress quando l’individuo, più o meno consapevolmente, compie vessazioni non finalizzate allo smaltimento della tensione accumulata.

Di recente è stata introdotto un termine per definire un fenomeno è simile ma distinto dal mobbing: lo straining. Il termine significa "mettere sotto pressione". Gli aggressori, o strainers, possono essere esclusivamente il datore di lavoro e i superiori gerarchici. Le azioni tipiche dello straining sono spesso le stesse del mobbing, prive però di forte contenuto vessatorio o persecutorio ma piuttosto orientate a determinare discriminazione creando situazioni di stress forzato nel posto di lavoro. Si tratta soprattutto di isolamento sistematico e di cambiamento di mansioni, con il ricorso, in particolare, all'assegnazione a mansioni "prive di contenuto" o "irrilevanti"; al de-mansionamento; al confinamento in postazioni lavorative isolate, alla sottrazione degli strumenti di lavoro. Consiste sempre in una sola azione, ma con efficacia ed effetti perduranti. Lo straining è sanzionato da norme che consentono una difesa più puntuale degli specifici diritti lesi dei lavoratori, ed è regolato dagli stessi strumenti normativi applicabili anche al mobbing (Ege, 2005; Tronati, 2008).

 

4. Le fasi del Mobbing
  Il mobbing non è un evento stabile ed omogeneo; esso non si abbatte all’improvviso sulla vittima, ma è un processo articolato che comincia lentamente e in modo subdolo e che spesso si manifesta solo dopo una lunga incubazione. In quanto processo, il mobbing si può suddividere in fasi successive che i ricercatori hanno tentato di elencare con vari modelli, con lo scopo di facilitare il riconoscimento del mobbing e valutare più accuratamente le cause, così da permettere delle soluzioni adeguate. Tra tutti i modelli esistenti, uno tra i più completi ed esaurienti è il modello a quattro fasi di Leymann, il quale descrive il fenomeno mobbing attraverso uno schema sequenziale che differenzia i diversi stadi in cui si trova l’individuo mentre subisce le strategie di persecuzione del mobber.
La I Fase del modello si basa sul presupposto che il conflitto nasce normalmente in tutti i posti di lavoro a causa di scontri di caratteri, di opinioni ed abitudini diverse, a causa di invidia o competizione. Tale conflitto è latente poiché non viene ancora esplicitato da nessuna azione o frase. Esso diviene mobbing solo se non viene risolto e se comunque diviene continuativo per almeno sei mesi.


La II Fase prevede l’inizio del mobbing vero e proprio e del terrore psicologico. Il conflitto quotidiano matura e diviene continuativo, vengono definiti e cristallizzati i ruoli di mobber e di vittima, il mobber agisce in modo sistematico ed intenzionale con strategie persecutorie ed il mobbizzato subisce la stigmatizzazione collettiva.
La III Fase si verifica nel momento in cui il mobbing trascende i limiti dell’ufficio/reparto in cui è nato e diventa di dominio pubblico. La vittima comincia ad accusare problemi di salute e si assenta ripetutamente dal lavoro per malesseri o visite mediche. Inoltre, manifesta un calo di rendimento così da dare il via ad indagini da parte dell’Amministrazione del Personale. Quest ultima può arrivare a considerare l’elemento dannoso e dispendioso per l’azienda e decidere di eliminarlo anche attraverso azioni non propriamente legali, con l’obiettivo di portarlo alle dimissioni spontanee.
La IV Fase prevede l’esclusione della vittima dal mondo del lavoro, o per licenziamento o per dimissioni. Casi più gravi e violenti si verificano per suicidi (dovuto ad un crollo interiore e morale della persona) della vittima o invalidità permanenti (dovute a mancanza di concentrazione o sabotaggi). A volte capitano anche aggressioni verso il mobber. Il mobbing, in questa fase, ha raggiunto il suo scopo, cioè eliminare la vittima.


Il modello di Leymann è puramente descrittivo: esso presenta dei limiti, rintracciabili sia nella mancanza della dimensione soggettiva della vittima, sia nella mancanza di relazione logica tra le fasi (necessaria per parlare di “processo”). Inoltre, Leymann sembra basarsi sulla realtà svedese e tedesca, non permettendo l’applicazione del suo modello ad una realtà culturale e sociale come quella italiana, la quale presenta, rispetto agli altri paesi europei, delle peculiarità: in Italia per esempio un legame familiare molto forte può assorbire o al contrario enfatizzare le conseguenze del mobbing. In quest’ottica il modello di Leymann appare impreciso ed incompleto, lasciando aperti molti quesiti.
Per tale motivo Ege ha elaborato una variante del modello leymanniano, introducendo il punto di vista del soggetto che partecipa al processo e legando ogni singola fase a quella precedente e alla successiva. Il modello di Ege appare pertanto molto più ricco, chiaro e fluido e maggiormente adeguato alla situazione italiana. Qui, infatti, la conflittualità tra i lavoratori viene considerata una condizione normale di lavoro, per cui il conflitto quotidiano non può essere il punto di partenza del mobbing.
Ege aggiunge una pre-fase detta “Condizione Zero” in cui il conflitto è generalizzato (tutti contro tutti), senza la designazione di una vittima precisa. Il conflitto non è latente poiché si manifesta (saltuariamente) attraverso piccoli diverbi, discussioni o ripicche. Nessuna azienda italiana sfugge a questa situazione, che rappresenta pertanto la regola. Nella condizione zero nessuno ha la volontà di distruggere qualcun altro, ma solo di elevarsi sugli altri.
Fase I: Il conflitto mirato. In questa fase già si parla di mobbing. Infatti il conflitto quotidiano e fisiologico si trasforma, poiché l’obiettivo è quello di distruggere l’avversario. Viene designata la vittima e si dirige su di essa la conflittualità generale.


Fase II: L’inizio del mobbing. Gli attacchi da parte del mobber suscitano senso di disagio e fastidio. La vittima si interroga sul mutamento e sull’inasprimento delle relazioni lavorative. Questa fase corrisponde alla seconda fase di Leymann.
Fase III: Primi sintomi psico-somatici. Questa fase si colloca tra l’inizio del mobbing e la sua manifestazione pubblica. La vittima comincia ad avvisare problemi di salute (insonnia, problemi digestivi, senso di insicurezza) che si possono protrarre anche per lungo tempo.


Fase IV: Errori ed abusi dell’amministrazione del Personale. Il caso di mobbing diventa pubblico e spesso viene favorito da errori di valutazione dell’ufficio del Personale, spesso dovuti alla mancanza di conoscenza del fenomeno e delle sue caratteristiche. Quindi i provvedimenti presi il più delle volte risultano inadatti e dannosi per la vittima.
Fase V: Serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima. Il mobbizzato entra in una fase di vera disperazione, accusando forme depressive, credendosi la causa dei suoi problemi e avvertendo un senso di impotenza verso la situazione. Spesso si cura con psicofarmaci e sedute terapeutiche, ma queste hanno un effetto puramente palliativo, non eliminando il problema sul lavoro.
Fase VI: Esclusione dal mondo del lavoro. Questa fase rappresenta l’esito ultimo del mobbing e corrisponde alla quarta fase di Leymann (per cui valgono le stesse considerazioni esposte sopra).
Anche in questa elaborazione, come in quella base di Leymann, possono verificarsi variazioni, per cui alcune fasi possono mancare e il mobbing può concludersi prima della fase cronica, relativamente alla particolare storia di ogni vittima.

 

5. Le azioni del mobbing
Riconoscere le azioni mobbizzanti è di estrema importanza ma, allo stesso tempo, risulta molto difficile poiché bisognerebbe avere informazioni dettagliate dell’ambiente lavorativo, del livello culturale e professionale di chi compie tali azioni e di chi le subisce, dello scopo per cui sono state messe in atto, ecc.
Le azioni di violenza psicologica sul posto di lavoro possono essere:
- palesi e violente, se sono effettuate attraverso aggressioni verbali e fisiche, urla, commenti inopportuni alla sfera sessuale e privata;
- sottili e silenziose, se la vittima viene isolata ed esclusa dal gruppo;
- disciplinari, attraverso lettere di richiamo ingiustificato;


- logistiche, se la vittima viene trasferita in sedi periferiche, scomode e lontane dagli affetti;
- mansionali, se si affidano alla vittima compiti al di sotto delle sue competenze;
- paradossali, quando si affidano compiti superiori alle sue capacità con la speranza che la vittima sbagli (Menelao e al., 2001).
Come strumento di indagine per lo studio del mobbing possiamo citare il questionario LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terrorism), messo a punto da Leymann negli anni ’80. Il questionario si divide in cinque parti che analizzano diverse dimensioni della persona e categorizzano cinque diverse tipologie di azioni mobbizzanti:
a) Attacchi alla possibilità di comunicare (la vittima subisce dei limiti radicali alla possibilità di comunicare con altre persone e un isolamento totale);
b) Attacchi alle relazioni sociali (isolamento fisico, costante e continuo);
c) Attacchi all’immagine sociale (la vittima diviene bersaglio continuo di offese sul piano lavorativo e privato, riceve ordini contraddittori che la conducono all’errore e viene considerato un lavoratore inaffidabile ed incapace);
d) Attacchi verso la qualità della situazione professionale e privata, attraverso sabotaggi;
e) Attacchi alla salute (aggressioni fisiche, sabotaggi, lavori rischiosi).


In dettaglio ecco le voci previste dal questionario di Leymann:

1) Attacchi alla comunicazione

  • Il capo limita le possibilità di esprimersi della vittima
  • Viene sempre interrotto quando parla
  • I colleghi limitano le possibilità di esprimersi
  • Si urla o si rimprovera violentemente con lui
  • Si fanno critiche continue sul suo lavoro
  • Si fanno critiche continue sulla sua vita privata
  • E’ vittima di telefonate mute o di minaccia
  • E’ vittima di minacce verbali
  • E’ vittima di minacce scritte
  • Gli si rifiuta il contatto con gesti o sguardi scostanti
  • Gli si rifiuta il contatto con allusioni indirette

2) Attacchi alle relazioni sociali

  • Non gli si parla più
  • Non gli si rivolge più la parola
  • Viene trasferito in un ufficio lontano dai colleghi
  • Si proibisce ai colleghi di parlare con lui
  • Ci si comporta come se lui non esistesse

3) Attacchi all’immagine sociale

  • Si sparla alle sue spalle
  • Si spargono voci infondate su di lui
  • Lo si ridicolizza
  • Lo si sospetta di essere malato di mente
  • Si cerca di convincerlo a sottoporsi a visita psichiatrica
  • Si prende in giro un suo handicap fisico
  • Si imita il suo modo di camminare o di parlare per prenderlo in giro
  • Si attaccano le sue opinioni politiche o religiose
  • Si prende in giro la sua vita privata
  • Si prende in giro la sua nazionalità
  • Lo si costringe a fare lavori umilianti
  • Si giudica il suo lavoro in maniera sbagliata e offensiva
  • Si mettono in dubbio le sue decisioni
  • Gli si dicono parolacce o altre espressioni umilianti
  • Gli si fanno offerte sessuali, verbali e non

 

4) Attacchi alla qualità della situazione professionale e privata

  • Non gli si danno più compiti da svolgere
  • Gli si toglie ogni tipo di attività lavorativa, in modo che non possa più nemmeno inventarsi il lavoro
  • Gli si danno lavori senza senso
  • Gli si danno lavori molto al di sotto della sua qualificazione professionale
  • Gli si danno sempre nuovi compiti lavorativi
  • Gli si danno lavori umilianti
  • Gli si danno compiti molto al di sopra delle sue capacità per screditarlo

5) Attacchi alla salute

  • Lo si costringe a fare lavori che nuocciono alla sua salute
  • Lo si minaccia di violenza fisica
  • Gli si fa violenza leggera (esempio uno schiaffo) per dargli una lezione
  • Gli si fa violenza fisica più pesante
  • Gli si causano danni per porlo in svantaggio
  • Gli si creano danni fisici nella sua casa o sul suo posto di lavoro
  • Gli si mettono le mani addosso a scopo sessuale

 

Leymann ha altresì individuato una serie di 15 azioni che possono aiutare a diagnosticare se il soggetto è vittima di mobbing:

  • Improvvisamente spariscono o si “rompono” senza che vengano sostituiti, strumenti di lavoro come telefoni, computer, lampadine etc.
  • I litigi ed i dissidi coi colleghi di lavoro sono più frequenti del solito.
  • La vittima viene messa vicino ad un accanito fumatore pur sapendo che odia il fumo.
  • Quando entra in una stanza la conversazione generale di colpo s’interrompe.
  • Viene tagliata fuori da notizie e comunicazioni importanti per il lavoro.
  • Girano pettegolezzi infondati sul suo conto.
  • Le affidano da un giorno all’altro incarichi inferiori alle sue competenze.
  • Si sente sorvegliata nei minimi dettagli: orari di entrata e d’uscita, telefonate, tempo passato alla fotocopiatrice o alla macchinetta del caffè.
  • Viene rimproverata eccessivamente per delle piccolezze.
  • Non viene data alcuna risposta alle sue richieste verbali o scritte.
  • Superiori o colleghi la provocano per indurla a reagire in modo incontrollato.
  • Viene esclusa dalle feste aziendali o da altre attività sociali.
  • Viene presa in giro per l’aspetto fisico o per l’abbigliamento.
  • Tutte le sue proposte di lavoro vengono rifiutate.
  • Viene retribuito meno di altri che hanno incarichi inferiori.

In conclusione, fare un lista completa ed esaustiva di tutte le strategie e le azioni mobbizzanti risulta arduo se non impossibile; comunque sono indicativi tutti quei comportamenti che colpiscono l’individuo nella sua dignità personale, morale e professionale, oltre che quelli che minano il suo equilibrio psichico per indurlo in errore e renderlo inerme.

 

6.  Tipologie di mobbing
Chi si occupa di mobbing (psicologi del lavoro, psicologi clinici, formatori, delegati sindacali) deve assolutamente conoscere le svariate tipologie di violenza psicologica sul posto di lavoro, in modo da mettere in atto strategie e tecniche di intervento particolari per affrontare ogni singolo caso (Menelao, 2001). Possono esserci molti modi per mobbizzare un lavoratore, ma molti ricercatori concordano nel classificare alcune tipologie di mobbing.
Se si prendono in considerazione gli autori dei comportamenti vessatori, allora potremo distinguere tra mobbing verticale ed orizzontale.
Il mobbing verticale (discendente o dall’alto) consiste in violenze psicologiche messe in atto da un superiore ai danni della vittima. Tali azioni possono essere dirette o indirette (perpetrate con l’ aiuto dei colleghi della vittima) e mirano ad escludere dall’azienda un lavoratore “scomodo” o sgradito costringendolo al licenziamento. In questa situazione si può dire che l’azienda eserciti un abuso del suo potere e il mobbing si trasforma in vera e propria politica aziendale (mobbing pianificato).
Nella terminologia anglosassone, il mobbing verticale viene anche denominato “bossing” o “bullying”. Il bossing, introdotto in psicologia del lavoro da Brinkmann nel 1955,  può essere considerato una strategia aziendale che ha lo scopo di ridurre gli organici per contenere i costi del personale attraverso azioni mobbizzanti. Il bulling ha un significato più ristretto poiché indica i comportamenti vessatori messi in atto da un singolo capo per svariate motivazioni: idee politiche diverse, timore di veder minacciata la sua immagine sociale, per differenza di età, per antipatia personale, per invidia o raccomandazioni (Ascenzi e Bergagio, 2000). Il bullying non viene esercitato solo sul posto di lavoro, ma anche a scuola (dove è particolarmente diffuso), nelle carceri e in caserma (nonnismo), ma anche a casa tra fratelli o altri conviventi.
Il mobbing verticale può essere di tipo organizzativo (o strategico) o corporativo. Nel primo caso  l’azienda cerca di adattarsi ai cambiamenti del mercato utilizzando strategie mobbizzanti. Nel secondo caso sono i datori di lavoro che  esercitano comportamenti mobbizzanti come aumento delle ore lavorative, rifiuto delle ferie, ecc. Questo si verifica maggiormente nei paesi in cui il tasso di disoccupazione è molto elevato.
Il mobbing orizzontale si verifica quando le azioni vessatorie sono messe in atto dai colleghi pari grado ai danni della vittima. Anche qui le motivazioni possono essere molte, come la competizione, l’invidia, il razzismo, il campanilismo, la fede politica diversa, ecc.
Quando vengono utilizzati congiuntamente il mobbing verticale e quello orizzontale, allora si parla di mobbing combinato.
In base alle caratteristiche delle vittime del mobbing possiamo distinguere tra mobbing individuale, in cui è un singolo lavoratore a subire le vessazioni, e mobbing collettivo, se un intero gruppo di lavoratori viene colpito da azioni discriminatorie (gang mobbing).
Si può avere un mobbing diretto se le azioni sono indirizzate alla persona, o indiretto, nel caso i cui  gli atti vessatori siano indirizzati all’ambiente di lavoro, alla famiglia o agli amici della vittima. 
Il mobbing può essere leggero se gli atti persecutori sono sottili e poco appariscenti (ma non per questo meno pericolosi), o pesante, nel qual caso le azioni sono palesi e violente.
Altre classificazioni vedono la distinzione tra: mobbing involontario, che può derivare da uno stato di stress in cui si trova un lavoratore e pertanto è un mobbing passeggero  che si concluderà con la fine del periodo di stress (di solito tale tipo di mobbing è considerato normale sul posto di lavoro); mobbing del cliente,che avviene quando i lavoratori diventano vittime dei clienti per cui svolgono un servizio; serial mobbing, è quello più comune e si verifica quando un impiegato cerca di mobbizzare un lavoratore dopo l’altro.
Esiste anche una tipologia di mobbing più rara, che è il mobbing ascendente o dal basso. Esso si verifica quando un lavoratore con mansioni superiori viene reso vittima da lavoratori con mansioni inferiori. In tal caso, viene messa in discussione l’autorità di un superiore e pertanto, l’obiettivo è quello di esautorare la vittima.
Casi particolari di mobbing sono il doppio mobbing e il mobbing sessuale, che per la loro importanza e rilevanza saranno trattati in a parte.

 

7. Gli ‘attori’ del mobbing
Sulla scena del mobbing recitano tre tipologie di attori: i mobbers sono coloro che compiono le azioni vessatorie; le vittime o mobbizzati sono coloro che subiscono i comportamenti persecutori; gli spettatori sono coloro che non sono direttamente coinvolti nel comportamento vessatorio ma il cui comportamento può influire sullo sviluppo del mobbing.

Non è semplice definire con certezza e precisione le caratteristiche di un possibile mobber, anche perché tutto deve essere messo in relazione sia alle caratteristiche di personalità che all’ambiente di lavoro specifico.
Harald Ege ha invece delineato i seguenti 14 profili di mobber che si riscontrano con maggiore frequenza:

  • l’istigatore: è colui che è sempre alla ricerca di nuove cattiverie e maldicenze volte a colpire gli altri;
  • il casuale: è colui che diventa mobber per caso, quando trovandosi all’interno di un conflitto prende il sopravvento sull’altro;
  • il conformista: è un tipo di mobber spettatore, nel senso che è una persona che non prende direttamente parte al conflitto attaccando la vittima, però la sua non reazione equivale ad un’azione favorente il mobbing;
  • il collerico: è la persona che non riesce a contenere la rabbia e far fronte ai suoi problemi e solo prendendosela con gli altri riesce a scaricare la forte tensione interna;
  • il megalomane: è colui che ha una visione distorta di se stesso considerandosi sempre al di sopra, un senso di Io grandioso che lo autorizza a colpire gli altri ritenuti inferiori;
  • il frustrato: è l’individuo insoddisfatto della sua vita che scarica il suo malessere sugli altri, alla stregua del collerico;
  • il sadico: è colui che prova piacere nel distruggere l’altro e che non è disposto a lasciarsi scappare la vittima; questo individuo, identificato da altri come il perverso narcisista, rappresenta il modello più pericoloso in quanto è da considerarsi uno psicotico senza sintomi che rifiuta di prendere in considerazione i suoi conflitti interni e trova il suo equilibrio scaricando il dolore su di un altro;
  • il criticone: è la persona perennemente insoddisfatta degli altri che crea un clima di insoddisfazione e di tensione;
  • il leccapiedi: è il classico carrierista, che si comporta da tiranno coi subalterni ed ossequioso coi superiori;
  • il pusillanime: è colui che ha troppa paura per esporsi e si limita ad aiutare il mobber o, se agisce in prima persona, lo fa in maniera subdola, con cattiverie e sparlando della vittima;
  • il tiranno: è simile al sadico, non sente ragione ed i suoi metodi seguono uno stile dittatoriale;
  • il terrorizzato: è colui che teme la concorrenza e inizia a fare azioni di mobbing per difendersi;
  • l’invidioso: è colui che è sempre orientato verso l’esterno e non può accettare l’idea che qualcun altro stia meglio di lui;
  • il carrierista: è la persona che cerca di farsi una posizione con tutti i mezzi possibili, anche non legali, non puntando invece sulle sue reali capacità.

 
La vittimologa Hirigoyen sostiene che il modello più pericoloso di mobber sia il “narcisista perverso, un individuo che non può esistere se non demolendo l’altro. Il capo che in ufficio governa nella svalutazione dei sottoposti. Il genitore che confonde l’educazione con l’umiliazione. Il marito che non perde occasione per degradare la moglie”; “di perversi narcisisti ce ne sono tanti, ma non sempre è facile riconoscerli, visto che sono privi di patologie apparenti. Determinati, brillanti, intelligenti, di solito conquistano rapidamente il potere. A un passo dalla psicosi, sono seducenti quando va tutto bene, ma distruttivi se messi in discussione. E a ogni nuovo problema si scelgono una vittima” (Ascenzi e Bergagio, 2000, p. 48).
Field (2000) elenca 4 tipologie di tratti di personalità psicopatologicamente disturbate del possibile mobber :
1) Disturbo di personalità antisociale: mancata accettazione delle norme sociali, disonestà, impulsività, mancanza di empatia per gli altri, irresponsabilità, mancanza di rimorso. Spesso il disturbo antisociale è la conseguenza di un disturbo della condotta iniziato prima dei quindici anni.
2) Personalità paranoica: sospetto infondato che gli altri vogliano procurare danni o sfruttare, riluttanza a confidarsi, diffidenza verso la lealtà delle persone vicine, travisamento della realtà, mancanza di perdono per dubbie offese ricevute.
3) Disturbo narcisistico di personalità: sentimento di superiorità rispetto agli altri, desiderio costante di ammirazione, scarsa empatia, fantasie sconfinate di successo, esagerazione delle proprie qualità.


4) Disturbo borderline: relazioni instabili, sensazione di vuoto, senso di abbandono, incapacità di controllare la collera, comportamenti autolesionisti, mutamenti ricorrenti di umore, spese impulsive di denaro, comportamenti rischiosi.

Per quanto riguarda la vittima, non esiste una categoria più a rischio di altre. Ogni lavoratore potrebbe essere vittima di mobbing. Generalizzando, comunque, sembra che le persone più a rischio siano quelle o troppo passive o troppo aggressive nelle relazioni interpersonali (Ascenzi e Bergagio, 2000, p. 48).
Ege, sulla base di un’ampia casistica presente in letteratura, ha stilato un elenco di 18 tipologie possibili di persone mobbizzate:

  • il distratto: è colui che non si accorge che la situazione è cambiata attorno a sé e non riesce a fare una valutazione critica del nuovo contesto;
  • il prigioniero: è colui che seppur riconosciuto il fenomeno non riesce a tirarsene fuori e si lascia trascinare dagli eventi (è incapace di trovarsi un altro lavoro rimanendo così incatenato in quello attuale);
  • il paranoico: è colui che vede mostri dappertutto, non si fida di nessuno, tanto da creare un clima di tensione perenne al lavoro, che può culminare con delle azioni mobbizzanti dei colleghi nei suoi confronti;
  • il severo: è colui che ha delle regole molto rigide, il suo stile è autoritario tanto da creare problemi nei rapporti coi colleghi che possono finire per mobbizzarlo per “dargli in qualche modo una lezione”;
  • il presuntuoso: è il classico tipo che si sopravvaluta, così spesso i colleghi possono arrivare a mobbizzarlo per dimostrargli che invece non è il migliore di tutti;
  • il passivo e dipendente: colui che è molto servile e non dice di no a nessuno, tanto che può costituire un piacevole divertimento mobbizzarlo;
  • il buontempone: è una persona sempre allegra che fa divertire i colleghi, alla stregua del passivo; per questo suo modo di porsi rischia di diventare il buffone del gruppo;
  • l’ipocondriaco: è quello che tende sempre a lamentarsi, niente gli va mai bene ed esprime agli altri il peso della sua sofferenza, tanto da creare fastidio ai colleghi che possono isolarlo mobbizzandolo;
  • il vero collega: è la persona onesta, efficiente che tutti vorrebbero come amico, però questo suo modo troppo sincero di porsi può creargli dei problemi, specialmente se denuncia apertamente qualche azione scorretta di qualche collega;
  • l’ambizioso: è colui che è costantemente impegnato nella scalata al successo e cerca di conquistarsi una posizione attraverso le sue prestazioni (esempio chi si porta il lavoro a casa). Tale atteggiamento scatena l’invidia dei colleghi, specialmente del carrierista, colui che brama tanto il potere e si sente minacciato dalla personalità dell’ambizioso che dimostra di avere tante doti;
  • il sicuro di sé: è colui che crede nelle sue capacità e si muove con determinazione, tanto da scatenare l’invidia di molti colleghi;
  • il camerata: è colui che va d’accordo con tutti, è loquace, ama organizzare feste e riunire le persone: questa “sua socievolezza” può facilmente scatenare l’invidia dei colleghi meno dotati o più insicuri;
  • il servile: è colui che cerca sempre di fare contento il capo e per far ciò non esita ad accusare gli altri: in questo modo diventa una buona preda di mobbing;
  • il sofferente: è colui che tende alla depressione ed all’insoddisfazione, tanto da finire con l’essere una facile vittima come il paranoico, perché tutti si stancano di lui;
  • il capro espiatorio: è la valvola di sfogo di ogni gruppo e solitamente è rappresentato dalla persona più debole;
  • il pauroso: è colui che ha timore di tutto e di tutti e non riesce a percepire concretamente la realtà, tanto da infondere un clima di ansia attorno (come avviene per il paranoico anch’esso viene isolato, perché stare al suo fianco è molto difficile);
  • il permaloso: è una persona ipersensibile con la quale bisogna stare attenti a qualsiasi parola, perché può prendersela: alla fine si finisce per isolarlo;
  • l’introverso: è una persona con difficoltà nei rapporti interpersonali, tanto che il suo atteggiamento può venire travisato dai colleghi che pensano stia esprimendo un segno di ostilità nei loro confronti.

Gli spettatori sono rappresentati da un numero molto alto di persone, costituito dai colleghi, dall’amministrazione del personale e da tutti coloro che rifiutano di assumersi qualsiasi responsabilità preferendo la strategia del “lavarsene le mani”.Gli spettatori spesso hanno paura di diventare vittima del mobber e così non reagiscono e a volte aiutano il mobber nelle sue vessazioni.
Tra le tipologie di spettatori si possono citare:

  • il ruffiano: assomiglia alla vittima servile o al mobber leccapiedi che solitamente si comporta da fedele compagno del mobber, non volendo andare conto corrente rischiando di aiutare la vittima;
  • il diplomatico: è colui che cerca sempre un compromesso di fronte ad un conflitto, è l’intermediario delle situazioni: in questo modo il mobbing prolifera e lui non fa nulla per fermarlo;
  • il rinunciatario: è colui che odia mettersi in evidenza e cerca di non assumersi alcuna responsabilità, rispondendo sempre “non so” o assumendo un atteggiamento di totale indifferenza;
  • il falso-innocente: è una persona molto preoccupata della sua situazione, non vuole apparire ed arriva a negare di essersi mai accorta del mobbing, nel caso il fatto venga allo scoperto;
  • il premuroso: è colui che si preoccupa degli altri e continua a fare loro domande sullo stato di salute o sulla vita privata; questo tipo di persona induce la vittima a fuggire, perché si sente oppressa e non realmente aiutata.

Un’altra classificazione degli spettatori (Ege, 1996; Menelao e al., 2001) distingue tra:

  • side-mobber, coloro che aiutano concretamente il mobber nell’impresa,  vi rientrano i ruffiani, i falsi-innocenti, i premurosi secondo lo schema precedente;
  • gli indifferenti, coloro che favoriscono il mobbing con il loro non-intervento (i ‘rinunciatari’);
  • gli oppositori, coloro che cercano di aiutare la vittima, perché non accettano il clima di tensione e conflitto che si è creato (i ‘diplomatici’).

Un dato particolarmente interessante è quello che vede una netta differenza tra i due sessi nella reazione ad una situazione conflittuale. Una donna in crisi (sia sotto stress sia sottoposta a pressione da mobbing) reagisce aumentando la sua attività rispetto all’uomo, che al contrario tende a diminuirla. La donna in situazioni critiche tende a parlare più in fretta e a fare più gesti e movimenti: si comporta quindi più nervosamente e tende a essere più attiva sul lavoro. L’uomo, al contrario della donna, diminuisce notevolmente la sua attività gestuale e verbale: invece di dimostrare maggiore efficienza, tende a limitarsi sia nei rapporti interpersonali, sia nello svolgimento del suo lavoro. Queste differenze sono significative e rappresentano una testimonianza di due modi di essere e di percepire la realtà; tuttavia, ai fini del mobbing, va sottolineato che nessuna delle due reazioni ottiene un risultato. In entrambi i casi, infatti, la reazione stessa dà al mobber motivo per continuare la sua azione persecutoria.
Anche nel modo di fare mobbing si verificano differenze tra i sessi a causa della diversa educazione tra uomo e donna e del diverso sviluppo della persona. Anche Leymann ha trovato delle differenze significative ed in particolare il mobber uomo preferisce azioni passive, cioè azioni  che non puntano sulla cattiveria aperta ma su quella nascosta, come ignorare qualcuno, o dargli sempre nuovi lavori o metterlo sotto pressione. Il mobber donna invece in genere preferisce il mobbing attivo, cioè sparlare dietro le spalle, prendere in giro qualcuno davanti ad altri o fare girare voci su di lui.

 

8. Cause del mobbing


Diverse sono le teorie che sino ad ora hanno cercato di far luce sul fenomeno del mobbing e di spiegare le principali motivazioni per cui esso si verifica; questi modelli, pur affrontando il fenomeno da punti di vista differenti ed analizzando i vari aspetti della personalità e dell’ambiente di lavoro che possono favorirne la sua nascita, non riescono a delineare un’unica situazione a rischio, in quanto non esiste un ambiente tipo o una caratteristica di personalità che da sola basti per scatenare il mobbing, perché è dalla relazione tra le molteplici variabili in gioco che esso si sviluppa.
Leymann vede nel conflitto il presupposto essenziale alla nascita del mobbing ed individua 6 campi nei quali si può sviluppare il conflitto e di conseguenza il  mobbing:

  • L’organizzazione del lavoro: una carente organizzazione e distribuzione del lavoro è causa di stress e di tensioni che vengono scaricate su un colpevole.
  • Le mansioni lavorative: se un lavoratore svolge mansioni ripetitive, monotone e sottoqualificate è più probabile il ricorso al mobbing per sfuggire alla monotonia.
  • La direzione del lavoro: una direzione aziendale carente, che non tiene conto delle esigenze dei lavoratori è più facile che favorisca la nascita del mobbing all’interno della sua organizzazione: bisogna fare molta attenzione alla catena di montaggio ed al lavoro a turni che isolano le persone in quanto un ambiente con una carente socializzazione è più a rischio di mobbing.
  • La dinamica sociale del gruppo di lavoro: riguarda le relazioni intercorrenti tra i membri del gruppo di lavoro che possono essere più o meno tranquille a seconda del carico di lavoro che grava sul gruppo: è infatti noto che lavorare “sotto-pressione” porta gli individui a ritrovare l’equilibrio scaricando le tensioni all’esterno.
  • Le teorie sulla personalità: a questo riguardo Leymann sostiene che il mobbing è indipendente dal carattere delle persone, non dando alcun credito alle teorie che vogliono identificare dei gruppi maggiormente a rischio, in quanto sostiene che dipende sempre dalle circostanze e dall’ambiente.
  • La funzione nascosta della psicologia nella società: Leymann muove una critica contro tutti coloro che identificano le vittime come delle persone con “problemi psicologici” ritenendo estremamente pericoloso soffermarsi solo su di esse e trascurando invece l’aspetto peculiare del sistema entro cui avviene il Mobbing.

In questa lista sulle cause del conflitto sul luogo di lavoro si nota come Leymann identifichi delle cause esterne ed interne, in particolare modo pone l’accenno su un ambiente malato o conflittuale e sulle comunicazioni disturbate che avvengono tra i lavoratori.
Ege ha cercato di descrivere come i tre fattori che concorrono nel mobbing (aggressore, vittima ed organizzazione) possano incrociarsi tra di loro dando luogo a varie relazioni che ha formalizzato nel “sistema a cubo delle cause”:

  • comportamento (o reazione) del mobber: l’azione del mobber potrebbe essere causata dal suo carattere cinico o sadico che lo porta a perseguitare incessantemente la sua vittima oppure dallo stesso comportamento della vittima che provoca delle strategie mobbizzanti o ancora da un ambiente di lavoro distruttivo.
  • comportamento (o reazione) della vittima: il comportamento del mobbizzato potrebbe derivare da una sua tipica reazione verso il mobber che a sua volta potrebbe incrementare nel mobber le sue azioni distruttive, trovando una giustificazione nel comportamento anomalo della vittima.
  • ambiente (organizzazione, altri colleghi): l’ambiente di lavoro può essere anch’esso un contesto cruciale per lo sviluppo del mobbing, basti pensare a due diverse tipologie di ambiente organizzativo, uno che favorisce le azioni di mobbing e l’altro in cui vengono invece difese le vittime.

Ognuno di questi elementi può porsi in due modi di fronte ad una situazione mobbizzante: favorire e provocare direttamente il mobbing o combatterlo.
Incrociando le relazioni tra i vari fenomeni si ottiene il cosiddetto “sistema a cubo delle cause”.

 

  • La reazione del mobber favorisce il mobbing grazie al suo comportamento: è il caso di una persona litigiosa ed aggressiva che ha uno stile relazionale favorente il conflitto.
  • Il mobber provoca il mobbing per soddisfare un proprio bisogno personale: in questo caso la vittima viene usata come valvola di sfogo su cui riversare tutte le frustrazioni, per ridurre la tensione interna del mobber o per trarne una piacevole soddisfazione personale.
  • La reazione del mobber rispetto al comportamento della vittima favorisce il mobbing: la vittima può favorire il mobbing se possiede delle capacità simili al mobber (che quindi si sente minacciato dalla vittima) o se è troppo diversa dal mobber (e quindi  è impossibile la convivenza tra i due protagonisti).
  • La reazione del mobber rispetto al comportamento della vittima provoca il mobbing: è il caso in cui il mobber si sente minacciato dalla vittima e ritenendo di subire un danno da essa escogiterà delle strategie persecutorie che giustificherà in quanto sono messe in atto per difendersi.
  • La situazione ambientale favorisce il mobbing: l’ambiente di lavoro può essere descritto analizzando le persone, le strutture, gli oggetti ed i livelli aziendali:
  • persone: per esempio troviamo l’incompatibilità caratteriale, l’ambizione individualistica, l’indifferenza, la mancanza di comunicazione: è il caso del capro espiatorio utilizzato per alleviare tutte le colpe personali;
  • strutture: si intendono quelle strutture ove vige una forte burocrazia, dove le mansioni non sono definite con precisione o gruppi di lavoro all’interno dei quali le persone risultano incompatibili per carattere o professionalmente, ambienti disagiati in quanto piccoli, scuri o rumorosi;
  • oggetti: ci si riferisce all’architettura del luogo di lavoro, come i locali freddi, realizzati con ferro e cristallo ed attrezzature scomode, elementi che favoriscono il senso di non appartenenza ed anche il mobbing;
  • livello aziendale: ci si riferisce alla direttiva dei vertici aziendali, che da un lato può tenere conto delle contingenze del momento, oppure dall’altro perseguire la propria direttiva richiedendo costantemente un adattamento delle persone al momento.
  • Il mobbing viene provocato dalla reazione del mobber rispetto alla condizione ambientale: spesso sono le contingenze del momento a causare l’utilizzo di strategie aziendali, vedi ad esempio l’utilizzo del bossing, che si verifica in prossimità di crisi economica o di cambiamento tecnologico.
  • Il mobbing viene favorito dalla reazione della vittima rispetto al comportamento del mobber: sia che si tratti di mobbing intenzionale o no la vittima può favorire gli attacchi del mobber: nel primo caso il mobber studierà attentamente la personalità della vittima in modo da colpire a colpo sicuro, nel secondo caso si tratterà di azioni impulsive.
  • Il mobbing viene provocato dalla reazione della vittima rispetto al comportamento del mobber: è molto simile al punto precedente con la differenza che la vittima in questo caso non può controllare il corso delle azioni in quanto il conflitto è emotivo e potrebbe essere di questo tipo sia da parte del mobber che di entrambi: in questi casi sarà impossibile risolverlo.
  • La vittima favorisce il mobbing grazie alla reazione compiuta rispetto a proprie caratteristiche: purtroppo ci sono delle persone che inconsapevolmente attraggono il mobber verso di sé, a causa di un tipo di comportamento che deriva da alcune caratteristiche personali (ad esempio mi è capitato di incontrare una vittima di mobbing molto attenta alle uscite economiche dell’ufficio, per cui non soddisfaceva alcuna richiesta di acquisto di materiale di cancelleria mossale dai colleghi, in quanto riteneva che bisognasse risparmiare: così facendo si è attirata le loro antipatie).
  • Il comportamento della vittima nato da una reazione causata da proprie caratteristiche provoca il mobbing: è il caso di un ambiente in cui reciprocamente le persone non riescono ad esprimere le proprie esigenze, per esempio un fumatore che dà fastidio ai colleghi dove però nessuno si lamenta apertamente preferendo invece attaccarlo con azioni.
  • La reazione della vittima rispetto all’ambiente favorisce il mobbing: è il caso di una vittima che protesta per le condizioni in cui è costretta a lavorare, esempio il non fumatore che lavora con colleghi tutti fumatori:  se questa sua protesta verrà interpretata come un atto di ribellione nei confronti del resto del gruppo, gli causerà non pochi problemi.
  • La reazione della vittima rispetto alla situazione ambientale provoca il mobbing: accade quando la vittima cerca con tutte le sue forze di cambiare lo stato di certe cose, ma si riscontra sovente l’impossibilità del singolo di intervenire sulle decisioni aziendali.

Ulrike Brommer suddivide le cause del mobbing in 14 punti che delineano alcuni difetti del sistema e delle relazioni in cui avviene il mobbing, individuando due ordini di variabili, quelle intrapsichiche, che dipendono dalla personalità delle persone coinvolte e quelle prettamente di ordine strutturale che demandano la responsabilità al tipo di organizzazione: richiesta di prestazioni sempre più elevate, pensiero concorrenziale, paura di perdere il posto di lavoro, egoismo, incapacità di gestione del conflitto, difetti organizzativi, difetti produttivi, mancanza di spazi nella gestione del lavoro, sovra o sotto-occupazione, difetti nella gestione del personale, mancanza di orientamento dei colleghi, cattive condizioni di lavoro, mancanza di tolleranza, scarso livello etico dell’azienda.
Martin Resch identifica come cause del mobbing i difetti organizzativi del lavoro e l’errata conduzione direttiva da parte del superiore, come già identificato da Leymann; oltre a ciò parla anche della posizione sociale della vittima e del peso della morale nell’ambiente di lavoro. Oltre che su una conduzione difettosa del lavoro, Resch identifica anche i molteplici pregiudizi che sussistono all’interno della nostra società, a partire dal modo con cui vengono considerate o trattate le persone che svolgono lavori anomali secondo il genere di appartenenza (esempio l’uomo che fa l’infermiere) o i portatori di handicap fisici o mentali. Egli fa riferimento anche all’etica aziendale, in quanto è molto più probabile lo sviluppo del mobbing all’interno di quelle organizzazioni che non hanno una grande considerazione dell’elemento umano, i cui membri non esitano a ricorrere a subdole strategie pur di avanzare in carriera e guadagnare potere.

 

9. Le conseguenze del mobbing: danni personali e costi sociali.
Il mobbing provoca molti danni, principalmente alla vittima, ma anche all’organizzazione e, in misura minore, al mobber stesso.
La vittima presenta il maggior numero di problematiche, di tipo psichico, sociale, medico ed anche economico: queste ultime solitamente vengono trascurate, ma comprendono le spese sostenute per la psicoterapia, per i corsi di rilassamento, per le medicine, per le cure di riabilitazione, nonché per la riduzione dello stipendio (Ege, 1997).
I danni che il mobbing provoca a chi lo subisce sono talmente gravi che si parla di malattie specifiche da mobbing; molte ricerche hanno dimostrato come il mobbing abbia ripercussioni dirette sullo stato psico-fisico delle vittime, portando alla invalidità psicologica. La lunga serie di disturbi, somatizzazioni e malattie varie, spesso diventano cronici ed irreversibili. Gli effetti negativi del mobbing sul sistema psichico e nervoso della vittima non cessano con il venir meno della condotta, ma permangono per un periodo compreso mediamente tra i 12 e i 18 mesi (Monateri e al., 2000).
Sul piano fisico, è tutto l’organismo ad essere coinvolto. Il benessere della vittima si riduce notevolmente anche a causa delle preoccupazioni (o addirittura terrore) di incontrare il mobber, generando stati d’ansia e di panico costanti fuori dal controllo personale, che fanno si che la persona si concentri esclusivamente sulle problematiche lavorative (cause del conflitto, possibilità di uscita, difendere la propria incolumità). La vittima perde la capacità di concentrazione, accusa mal di testa, giramenti di capo, riduzione della capacità mnemonica. Lo stato di depressione che ne deriva porta la vittima a manifestare quasi delle manie di persecuzione. Un grave problema che spesso ostacola la lotta al mobbing è che spesso la vittima non riesce a collegare tutti questi sintomi con le violenze psicologiche subite nell’ambiente lavorativo.
Non bisogna dimenticare che spesso la vittima ricorre a sostanze esterne come alcool, droghe, fumo, caffè, nella speranza di ridurre la sensazione di malessere diffuso. Ma il risultato è un semplice stato di benessere momentaneo che non risolve il problema, ma lo amplifica.
Sul piano emotivo si può parlare di crisi esistenziale (si perde il ruolo di lavoratore e ciò provoca calo dell’autostima e senso di colpa), crisi relazionale (viene sconvolto l’equilibrio familiare con l’insorgenza di conflitti latenti e viene a mancare, con la perdita del lavoro, l’unica opportunità di instaurare relazioni extra-familiari), crisi economica (dovuta alla perdita del reddito) (Ascenzi e Bergagio, 2000).
Altra grave conseguenza del mobbing è l’aggravarsi della situazione familiare e delle relazioni personali con amici e parenti (separazioni, divorzi, allontanamento degli amici ). Alcune ricerche hanno ipotizzato che i figli dei mobbizzati possano avere dei comportamenti di imitazione del genitore e di conseguenza accusare problemi di somatizzazione (neurodermiti, anoressia, ecc.).


Nei casi più gravi la vittima, non trovando altra via d’uscita ai suoi problemi, medita il suicidio o, all’opposto, l’omicidio. La sovraesposizione di una persona al mobbing può portare la vittima a commettere reati per collera, per infrazioni, per reazioni violente o per aggressività o eccessi di difesa. Negli Stati Uniti circa 1.000 omicidi ogni anno avvengono nel posto di lavoro (Ascenzi e Bergagio, 2000).  
Una delle sindromi che più colpisce la vittima di mobbing è la sindrome di “attacco di panico”: è una sindrome che determina improvvise paure immotivate, con attacchi di panico violentissimi, con sensazione di morte imminente e contemporanea perdita del controllo di se stessi. La conseguenza disastrosa di tale sindrome è che il lavoratore perde totalmente la sua autonomia cosicché la sindrome risulta fortemente invalidante. Il motivo per cui il mobbizzato viene colpito dalle crisi di panico si spiega con il fatto che, per effetto delle iniziative persecutorie ed emarginanti poste in atto nella sede di lavoro, il mobbizzato inizia a macerarsi, pensa a cosa può aver fatto di male per meritarsi l'emarginazione e pertanto perde il senso dell'autostima e diventa vulnerabile, incapace di sostenere il confronto o addirittura il colloquio con un proprio simile.
Gli effetti del mobbing non producono danni solo ai lavoratori che le subiscono, ma hanno ricadute i termini di costi anche per le aziende. Il mobbing provoca una inutile dispersione di risorse (tempo, intelligenza, informazione). I danni creati dal mobbing sono concreti e oggettivi, e più i metodi utilizzati sono subdoli, più aumentano i danni, poiché richiedono dispendio di tempo e risorse (Monateri e al., 2000). In una situazione di mobbing, il gruppo di lavoro accusa una riduzione della capacità produttiva e dell’efficienza, le critiche verso il datore di lavoro si fanno più marcate, e il tasso di assenteismo per malattia cresce. Il gruppo va alla continua ricerca di capri espiatori e aumenta la tendenza ad ingigantire i piccoli problemi.
Le spese per l’azienda aumentano a causa dei sabotaggi messi in atto dal mobber, i quali provocano la perdita di grandi investimenti e di anni di ricerca. Un ulteriore aumento dei costi deriva dalla necessità di sostituire il lavoratore mobbizzato durante la sua assenza per malattia o incaricare qualcuno di portare a termine il lavoro incompiuto o errato della vittima. Se il mobbing è lasciato agire indisturbato, esso può giungere alla sua ultima fase, che vede la vittima costretta ad uscire dal mondo del lavoro, causando ancora gravi costi alla ditta, che deve trovare nuovo personale e predisporre nuova formazione. Quindi la sostituzione del lavoratore licenziato ha un costo per l'azienda in termini di know-how, per non parlare del prepensionamento forzoso e dei risarcimenti per cause civili dovuti ai lavoratori mobbizzati.
Per quanto riguarda i costi umani si verifica un netto calo del rendimento e di impegno sia del mobbizzato che del mobber, una perdita di personale specialistico, il crollo del clima sociale dell’organizzazione e una limitazione della fiducia e della collaborazione tra i dipendenti. Dovrebbero essere considerati anche quei costi non quantificabili, come la delusione dei clienti e l’influenza che essi possono avere su molte altre persone in riferimento ad un calo dell’immagine aziendale.  
Un lavoratore sottoposto a violenze psicologiche sul posto di lavoro ha un tasso di produttività ed efficienza inferiore del 60%. Egli, in oltre, graverà sul datore di lavoro del 180% in più  (Ascenzi e Bergagio, 2000). È evidente che le aziende dovrebbero prestare più attenzione alla gestione  delle risorse umane e delle relazioni all’interno dei luoghi di lavoro.


Anche il mobber potrebbe incontrare problematiche psichiche, tra cui forti stati di stress dovuti a un costante stato di allarme e di sovra-attivazione. Ma il costo più grave per il mobber deriva dalle cause non previste delle sue azioni: ad esempio quando il mobbing da lui creato porta l’azienda a compiere ridimensionamenti o licenziamenti su larga scala comprendendo il mobber stesso.
Dato che il mobbing presenta gravi problemi per l’equilibrio sociale, dato che fa lievitare la spesa sanitaria ed assistenziale, anche lo Stato è chiamato a fare i conti con tale fenomeno, predisponendo tutti gli strumenti normativi in grado di prevenirlo.
Tra i costi che ricadono sull’intera società troviamo gli oneri che il sistema sanitario nazionale deve sostenere per le lunghe assenze dal lavoro e per i frequenti periodi di malattia a cui è costretto il mobbizzato, spese a cui contribuiscono anche le aziende sanitarie locali.  Si aggiungono anche, nei casi di prepensionamento, sia il costo sostenuto dall’intero sistema sanitario che si vede costretto al pagamento di una pensione in anticipo rispetto alla normale età, sia la perdita dei contributi sullo stipendio prima versati dal lavoratore.


Gli effetti del mobbing


sulla società

sull’organizzazione

sull’individuo

Ritiri anticipati dal lavoro
Aumento delle spese sanitarie ed assistenziali
Disoccupazione

Deterioramento dell’ambiente di lavoro
Aumento dei costi
Aumento nel turnover del personale
Abbassamento del livello motivazionale
Calo di produttività ed efficienza

Irritabilità
Disturbi psicosomatici
Depressione
Suicidio

 

10. Il mobbing in Italia
Le statistiche europee pongono l’Italia all’ultimo posto nella classifica dei casi di mobbing, con il 4,2 %. Se si leggessero superficialmente questi dati, si potrebbe dedurre che il terrorismo psicologico nei posti di lavoro sia praticamente assente dagli scenari italiani. Purtroppo la realtà è ben diversa. In sostanza, nel nostro Paese risulta ancora particolarmente problematico stimare il fenomeno mobbing in termini quantitativi e questo per vari motivi che rendono il mobbing in Italia un fenomeno con connotazioni e caratteristiche talvolta mai riscontrate negli altri Paesi.
Ege (1997) parla di ‘mobbing culturale’, sostenendo che stereotipi, aspettative e valori propri di una società condizionano fortemente questo fenomeno. Quindi il mobbing risulta fortemente correlato all’ambiente culturale in cui ha luogo.


Questa peculiarità tutta italiana in fatto di mobbing può derivare dal fatto che lo studio della violenza psicologica sul posto di lavoro è iniziata con notevole ritardo rispetto ad altre nazioni. In Italia si è cominciato a parlare diffusamente di mobbing solo dal 1999, anno dei due primi convegni nazionali sul tema (uno a Milano organizzato dalla Clinica del Lavoro e uno a Roma a cura dell’ISPEL, l’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro). Non meraviglia che da noi la ricerca sul mobbing è ancora ben lontana dagli sviluppi raggiunti da altri paesi, e i lavoratori spesso non hanno neanche la sensibilità verso questa forma di terrorismo psicologico.
Inoltre, le vittime italiane difficilmente accettano di esserlo, magari per paura di peggiorare la propria condizione, e comunque tendono ad addossare la colpa interamente su se stesse, interrogandosi in modo quasi morboso e doloroso, con un attento esame di coscienza. Ege sostiene che una possibile spiegazione sta nel fatto che l’italiano è per natura individualista e non è portato per la cultura di gruppo.


“A differenza dei paesi nordici, in Italia non c’è ancora una cultura in grado di identificare in maniera chiara questo fenomeno. Cattiverie, pettegolezzi, vere e proprie malvagità di capi e colleghi sono ritenute molte volte regole del gioco e sdrammatizzati da parenti e amici a cui vengono raccontati. L’individuo, in questo modo, si ribella quando ormai è troppo tardi e il danno è fatto” (Ascenzi e Bergagio,  2000, pp. 65-66). In Italia il mobbing spesso non è conosciuto come problema a se stante e in genere viene vissuto come routine. Il lavoratore è convinto che le persecuzioni sul posto di lavoro siano la norma e così il problema non viene neanche percepito, trascinando la situazione per anni, fino a diventare pericolosa e spesso irreparabile. Infatti il lavoratore italiano si accorge dell’esistenza del problema solo dopo la fase del conflitto, nel momento in cui avverte i primi sintomi psicosomatici e comincia la lunga trafila delle assenze per malattia e delle visite mediche. In pratica, nel mobbizzato italiano l’allarme, che dovrebbe scattare al semplice conflitto, risulta tarato ad una soglia più alta, quella della malattia e quindi si trova a combattere un processo già iniziato e che ha già prodotto serie conseguenze (Ege, 1997).


Per quanto riguarda le azioni messe in atto dal mobber italiano, esse si concentrano principalmente sull’isolamento, il pettegolezzo e il sabotaggio. Quest’ultimo è favorito dal fatto che in Italia il mobber è principalmente un superiore della vittima (solo raramente un sottoposto).
Un dato interessante emerso dalle ricerche di Ege in Italia e non riscontrato in altre culture è il ricorso da parte del mobber a strumenti esterni attraverso cui creare fastidio e problemi alla vittima. Il conflitto di tipo tradizionale  agisce direttamente senza bisogno di mediatori per arrivare allo scopo. In tal modo la vittima avverte immediatamente il problema e riconosce il suo avversario. Lo svantaggio di tale strategia sta nel fatto che risulta troppo appariscente e impedisce al mobber di prevedere le reazioni della vittima e dell’ambiente. Se il mobber non gode di un rispetto incondizionato, l’attacco diretto è piuttosto rischioso. Nonostante ciò risulta il metodo mobbizzante più diffuso  e riscontrato dalla letteratura sull’argomento.
Il mobber italiano cerca di evitare i rischi insiti nell’attacco diretto attraverso una strategia più articolata e complessa, utilizzando mezzi esterni in modo da non scoprirsi del tutto e risultare estraneo alla vicenda. La vittima spesso crede che il problema non esista poiché potrebbe essere un evento casuale. La vittima scarica la sua rabbia inizialmente su tale mezzo esterno e il mobber riesce a guadagnare tempo, tanto che nel momento in cui la vittima si rende conto di chi sia il vero colpevole è troppo tardi per cercare alleati e per difendersi. Gli strumenti esterni che vengono maggiormente utilizzati dal mobber come “arma” sono il fumo (fumare in presenza di non fumatori), l’impianto stereo (alzare il volume con lo scopo di isolare la vittima e deconcentrarla) e l’aria condizionata (rendere il clima dell’ufficio insostenibile). In tutti questi casi la strategia mobbizzante è altamente subdola e praticamente infallibile e mira a rendere le condizioni di lavoro fastidiose o insopportabili per la vittima designata.  
In Italia pochi dirigenti considerano il mobbing un pericolo: esso viene vissuto come un fastidio o un problema scomodo che riguarda il personale e non l’azienda. Ancora la realtà italiana sembra ben lontana dal capire che i problemi del lavoratore sono anche problemi dell’azienda (Ege, 1997).

 

11. La variabile tempo nell’evoluzione del mobbing
Il tempo ha un ruolo fondamentale all’interno del fenomeno mobbing. Si è visto come le prime definizioni utilizzavano tale variabile per decretare se un conflitto fosse quotidiano oppure degenerasse in mobbing (durata di almeno sei mesi con frequenza settimanale). Oggi si ritiene che non si possa accettare un limite minimo di durata del mobbing, così si cercano criteri temporali più flessibili che tengano conto di altre variabili come l’intensità degli attacchi, il numero e la posizione del mobber, ecc. (Ege, 2001).
Ege sostiene che ogni conflitto quotidiano abbia una durata standard dipendente dal carattere delle persone che vi prendono parte, dal tipo di ambiente di lavoro in cui si verifica e dall’azione combinata di questi due fattori. Partendo da questa considerazione, quindi, si può parlare di mobbing se il conflitto sul lavoro supera il limite di durata di un conflitto tipico e abituale di quello specifico ambiente di lavoro. Pertanto risulta fondamentale acquisire il maggior numero di informazioni sull’ambiente di lavoro e sui colleghi della vittima per stabilire con precisione la durata del conflitto medio in quel determinato ambiente.
Ege, in una ricerca effettuata tra il 1999 e il 2000, si propose di verificare se esistesse o meno un gruppo maggiormente a rischio di mobbing in base a fattori temporali, così studiò un campione di lavoratori provenienti da tutta Italia utilizzando cinque parametri temporali mai utilizzati in precedenza (Ege, 2001): a) l’età delle vittime, cercando di capire se esisteva una fascia di età più a rischio delle altre; b) la durata del mobbing, utile per la determinazione del danno da mobbing; c) la data di assunzione della vittima, per capire se il mobbing ha più a che fare con i neoassunti o con gli impiegati anziani; d) il periodo di tempo intercorrente tra l’assunzione della vittima in quel posto di lavoro e l’inizio del mobbing; e) il sesso della vittima, unico parametro non temporale.
I risultati a cui l’autore pervenne sono molto interessanti. Innanzi tutto trovò che, sebbene non esistesse una età immune dal mobbing, gli uomini compresi tra i 30 e i 40 anni e le donne comprese tra i 40 e i 50 anni risultavano maggiormente esposti e su di essi necessitava iniziare un’opera di prevenzione e formazione. Trovò che gli uomini soffrivano per più tempo il mobbing delle donne, probabilmente per paura di perdere il posto di lavoro e per una minore propensione a riconoscere sintomi e segnali di malessere. Anche se le donne sembravano più esposte al mobbing (57%) bisogna considerare che i dati si riferiscono alle vittime che cercano aiuto per il loro disagio, e non alla percentuale effettiva dei mobbizzati. Pertanto è errato supporre che gli uomini siano meno a rischio.
Risultano più esposti a vessazioni lavorative i lavoratori più anziani, mentre i neoassunti sono più disposti a lasciare un posto di lavoro altamente conflittuale.  Inoltre i giovani, non avendo ancora grandi responsabilità familiari, sono più flessibili e disposti a trasferimenti o comunque sanno di poter trovare con più facilità un impiego alternativo.
Un altro risultato interessante è che se il mobbing non emerge immediatamente dopo l’assunzione, non si verificherà per almeno due anni, in quanto in questo lasso di tempo i colleghi metteranno alla prova il nuovo arrivato per saggiarne le capacità.  

 

12. Casi particolari di mobbing: il “Doppio Mobbing” e il “Mobbing Sessuale”.
  Il doppio mobbing, ossia la perdita del sostegno della famiglia da parte di un soggetto mobbizzato, è particolarmente diffuso nei paesi dell’Europa meridionale, e ancor di più in Italia, dove la famiglia acquista un ruolo sociale fondamentale. Qui, infatti, il legame tra individuo e famiglia e molto forte poiché quest’ultima partecipa attivamente alla definizione sociale e personale dei suoi membri (Ege, 1997), interessandosi del loro lavoro e della loro vita privata. In Italia il legame con la famiglia di origine praticamente non scompare mai, anche se con gli anni si fa più sfumato. La situazione è ben diversa nei paesi di cultura anglosassone o nord europea, dove i genitori e il sistema scolastico educano precocemente il bambino ad una maggiore indipendenza.


Questa diversità culturale diventa cruciale nel momento in cui un membro della famiglia viene colpito da mobbing. Infatti, nella maggior parte dei casi, il mobbizzato tenderà a cercare aiuto e conforto tra i suoi familiari, su cui sfogherà la rabbia, l’insoddisfazione o la depressione di una giornata di lavoro. Inizialmente, la vicinanza fisica e il coinvolgimento emotivo, che caratterizzano la famiglia, sono un grande vantaggio per la vittima che può ricaricare le sue energie grazie agli affetti e alla comprensione dei suoi cari. Lo sfogo in famiglia permette alla vittima di tranquillizzarsi e di sopportare più a lungo il mobbing sul lavoro.


Tuttavia, la situazione non è così rosea: infatti la vittima, sfogandosi, delega i familiari a gestire la rabbia e la depressione accumulati, i quali non si esauriranno, ma si sposteranno soltanto. La famiglia assorbirà tutta l’energia negativa solo fino a  quando ne sarà capace, fino al limite di saturazione, dopo il quale l’equilibrio viene spezzato. Questo è quanto avviene in quello che Ege chiama “Doppio Mobbing”. La famiglia ha senza dubbio molte risorse a sua disposizione, ma il mobbing non è un semplice conflitto. Esso trova la sua forza devastante nel lungo periodo e logora la famiglia fino all’esaurimento delle risorse. A questo punto il comportamento dei familiari cambia segno (inconsciamente) poiché subentra la necessità di difendere e proteggere il sistema famiglia. L’istinto di sopravvivenza prevale e la vittima si trova improvvisamente senza appoggio. Essa è ormai diventata una minaccia per l’esistenza e la salute della famiglia, la quale prima provvederà a difendere la sua integrità e successivamente passerà al contrattacco contro la stessa vittima. A questo punto, senza la possibilità di avere una valvola di sfogo, la situazione della vittima crolla, potendo giungere anche ad atti estremi come il suicidio.


Per quanto riguarda la cerchia di amici, assai difficilmente si trovano casi di mobbing al suo interno, principalmente perché gli amici ce li scegliamo noi (a differenza dei familiari) e secondariamente, nel caso in cui si verificasse un acceso conflitto, potremmo in ogni momento abbandonare la compagnia (a differenza del posto di lavoro). Con gli amici cerchiamo di trascorrere ore piacevoli, senza gli assilli ed i problemi della vita quotidiana. In ogni caso, la soglia di saturazione del gruppo di amici è notevolmente più bassa di quella familiare, per cui, se li assilleremo eccessivamente con i nostri problemi, potremo trovarci soli. 

Prima di parlare di “Mobbing sessuale” è utile fare una piccola premessa sulle molestie sessuali, che, di per se, non sono mobbing, ma sono legate ad esso da un doppio filo e ne possono costituire il preambolo.


Le molestie sessuali sono “una serie di comportamenti di avvicinamento a scopo sessuale portate avanti da una persona verso un’altra che evidentemente non desidera e rifiuta questo tipo di contatto. Le molestie non sono solo atti, ma comprendono la sfera ben più ampia del linguaggio: parole, battute, apprezzamenti, allusioni pesanti... oppure proposte, più o meno dirette, spesso accompagnate da minacce di ritorsione in caso di risposta negativa” (Ege, 1997, p. 84). Nella maggioranza dei casi la molestia di tipo sessuale viene perpetrata da un uomo verso una donna, ma i ruoli possono non essere rispettati e ci si può trovare di fronte a donne che, ad esempio per motivi di carriera, attuano molestie nei confronti di un soggetto maschile. In questo caso, però l’istinto sessuale passa in secondo piano, e si parla di volontà di seduzione.


Davanti ad un caso di molestia sessuale è difficile stabilire l’oggettività degli eventi, tranne nel caso in cui abbiamo di fronte comportamenti espliciti ed inequivocabili. Infatti, in culture come la nostra, il malinteso è sempre in agguato poiché la comunicazione si basa spesso su allusioni e doppi sensi.       
Si è detto che le molestie sessuali non corrispondono tout court al mobbing, principalmente per il fatto che lo scopo del mobber è quello di eliminare o allontanare la vittima. Il molestatore sessuale, invece, non ha alcuna intenzione di allontanare la vittima, ma vuole tenere il più possibile vicino a se l’oggetto dei suoi desideri. In questo caso è la vittima che desidera scappare, chiedendo trasferimenti o giorni di malattia, e il persecutore farà di tutto per ostacolare la “fuga”, obbligandola a lavorare quotidianamente insieme a lui, in modo che “potrà importunarla sistematicamente fin quando non si arrenderà alle sue pesanti ed ossessive lusinghe” (Hirigoyen, 2000). Tuttavia, nel momento in cui il molestatore subirà continui e ripetuti rifiuti il legame tra molestia sessuale e mobbing si può fare sottilissimo, trasformando il molestatore in vero e proprio mobber. Il mobbing, quindi diventa la ritorsione, la vendetta del molestatore respinto; se la vittima cede alle molestie, infatti, non verrà mai mobbizzata. Spesso il molestatore arriva a dimenticare l’iniziale attrazione per la vittima e agisce spinto da un puro desiderio di vendetta. A volte il mobbing viene usato come arma per costringere la vittima a cedere alle molestie.


Il mobbing sessuale può verificarsi anche senza una precedente situazione di molestie sessuali ed in questo caso viene scelto come arma dal mobber  anche senza una attrazione verso la vittima (in questo caso si parla di mobbing sessuale perpetrato attraverso vessazioni a sfondo sessuale). Ciò dipende dalla presenza di un ambiente favorevole in cui la strategia a sfondo sessuale risulta essere la più letale per eliminare la vittima. Gli attacchi del mobbing sessuale sono caratterizzati da calunnie, voci e diffamazioni (frutto di mera fantasia) sulle abitudini sessuali della vittima. Per crearsi degli alleati il mobber studia bene l’ambiente di lavoro e sceglierà le affermazioni e le calunnie che fanno più colpo sui colleghi vicini alla vittima.


Il mobber sessuale spesso è un soggetto frustrato e complessato, incapace di confrontarsi direttamente e paritariamente con l’oggetto del proprio desiderio, forse perché non ha mai superato i suoi retaggi infantili e ne diviene schiavo, ponendo in essere comportamenti, costantemente reiterati e violenti, con conseguenze dannose spesso irreparabili.
Di recente è nata la figura dello “stalker”, letteralmente “cacciatore di preda”, cioè di quel soggetto che molesta in modo persistente ed ossessionante la propria vittima, realizzando una serie di comportamenti (telefonate ed sms terroristici agli orari più strani, evidenziazione del numero telefonico della vittima in luoghi pubblici, distruzione delle quattro gomme dell’auto della vittima, ecc.) che mirano alla frustrazione e depressione della vittima sacrificale, per poi possederla.          
Di solito il mobbing sessuale è devastante perché la diffamazione che tocca la sfera sessuale della vittima è la più degradante (infatti nella nostra cultura l’identità sessuale di un individuo è fondamentale per definire la sua immagine sociale). Alcuni autori hanno addirittura parlato di “sabbie mobili” per definire tale situazione, visto che una reazione della vittima non fa altro che peggiorare la sua posizione. Spesso la reputazione e la credibilità della persona vengono definitivamente compromesse.

          


Testo della dott.ssa Lorena Vasta, revisionato e sintetizzato a cura di S. Di Nuovo.

Negli ultimi anni la produzione di testi e saggi sul mobbing si è molto incrementata anche nel nostro paese. Segnaliamo tra i più recenti i volumi curati da Tosi (2004), Favretto (2005), De Falco e al. (2006), Marini e Nonnis (2006), Gulotta (2006), Sprini (2007), Vaccani (2007), Cocco e al. (2007), Rupprecht (2007), Pozzi (2008); oltre al più recente volume di Harald Ege (2005). I riferimenti bibliografici, insieme ad un elenco di siti italiani e stranieri, possono essere reperiti nell’apposita sezione (Nota del curatore)

I più noti saggi di Leymann furono pubblicati nel numero 5 del 1996 della Rivista European Journal of Work and Organizational Psychology. Il suo questionario che sarà riportato più avanti (Leymann Inventory of Psychological Terror) era stato pubblicato nel 1992 dall’editore Violen a Karlskrona in Svezia.

Non sono da inserire in questa categoria coloro che risultano vittime di se stesse. Spesso accade cha un individuo percepisca nel comportamento del prossimo elementi di minaccia o persecuzione, credendo di essere una vittima. Ma il forte stress provato da queste persone è da correlare alla loro sfera interiore e alla loro incapacità di accettare gli altri (Ege e Lancioni, 1998).

Menelao e al. (2001) riportano dati secondo cui in Italia il 40-45% dei casi di mobbing è di tipo verticale, mentre solo nel 5% dei casi si tratta di mobbing orizzontale.

 

               http://www3.unict.it/mobbing/materialiformativi01.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Mobbing sul lavoro definizione

MOBBING: PREVENZIONE E INTERVENTO

 

 

1.  Come difendersi dal Mobbing: la prevenzione
Prima di parlare di prevenzione è necessario conoscere approfonditamente le cause del problema, in modo da rendere gli interventi (siano essi preventivi o risolutivi) più mirati ed efficaci. Questo è vero in ogni campo, e principalmente quando si parla di mobbing, dato che è un problema molto complesso. Non esistono formule magiche che liberino dal mobbing, e prima di dare qualsiasi tipo di consiglio è fondamentale attuare una analisi puntuale del fenomeno per far si che la diagnosi e la terapia siano il più possibile aderenti alla situazione. Se viene saltato questo passo, ossia l’analisi delle caratteristiche e delle motivazioni che hanno portato al mobbing, si rischia di peggiorare la situazione, invece che risolverla.


Poiché l’azione su un caso di mobbing in pieno svolgimento può risultare abbastanza ardua, è consigliabile attuare una valida opera di prevenzione che sia indirizzata da un lato all’azienda e dall’altro ai singoli individui, con l’obiettivo di impedire che un banale conflitto irrisolto possa diventare un vero caso di mobbing.
Nel caso dell’intervento mirato all’azienda, si dovrebbe attuare una formazione mirata che corregga ed indirizzi adeguatamente il lavoro dell’Ufficio Risorse Umane, oltre che creare la cosiddetta “cultura del litigio” (Ege, 2001). Ciò vuol dire intervenire sulla politica e sull’atteggiamento direttivo per migliorare la gestione delle situazioni critiche. La cultura del litigio è un programma formativo rivolto alle aziende che deve partire dall’alto ed essere diretto dall’ufficio risorse umane o dai vertici dirigenziali.
L’obiettivo della cultura del litigio è rendere trasparente e chiaro il conflitto in modo da poterlo riconoscere e averne una visione obiettiva ed imparziale. Questa strategia va a beneficio non solo dell’azienda ma anche dei singoli lavoratori. Il primo passo da fare per attuare la cultura del litigio è de-emozionare il conflitto (Ege, 2001), ossia togliervi ogni elemento emozionale che può risultare scomodo e fuori luogo in determinate circostanze. Anche se l’attuazione di tale cultura porta all’azienda benefici economici e relazionali, essa è pressoché assente dalle aziende italiane , dove il conflitto viene nascosto o ignorato, permettendogli di creare malumore, scontentezza ed insicurezza e di preparare il terreno ideale per l’istaurarsi del mobbing. Nelle aziende dove manca la cultura del litigio, il conflitto tradizionale logora e distrugge le energie dei contendenti, le quali sono rivolte le une contro le altre. Nella cultura del litigio, invece, le risorse dei contendenti lavorano insieme ed in sinergia, venendo impiegate per la creazione di nuove e creative soluzioni. Il punto di vista dell’altro non è più una minaccia, ma diviene una opportunità di crescita e di arricchimento personale, i problemi sono risolti più velocemente ed il clima organizzativo è più sereno, per cui i dipendenti lavorano meglio e sono più produttivi. Se si collabora con i colleghi (team feeling) i problemi possono essere risolti e i conflitti addirittura essere evitati.
Ege afferma che instaurare una cultura del conflitto in una azienda è relativamente semplice, per questo motivo consiglia alcune tappe attraverso cui procedere per gradi.

Programma schematico di instaurazione della ‘cultura del litigio’ (Ege, 2001).

I passo

Prendere coscienza dei danni che può causare il conflitto e della necessità di guidarlo, e non combatterlo o nasconderlo.

IV passo

Analizzare i conflitti esistenti (tipo di conflitto, persone coinvolte, argomento di discussione, ecc).

II passo

Informarsi  sulle modalità attraverso cui il conflitto ci danneggia. Si possono seguire dei corsi di formazione specifici.

V passo

Creare una “stanza del conflitto” o un apposito “ufficio gestione del conflitto” con uno staff di esperti.

III passo

Prepararsi al conflitto ancora con corsi di formazione mirati.

VI passo

Gestire il conflitto delineando le possibili soluzioni, attraverso la trasparenza della contrattazione.

 

I corsi di autodifesa verbale sono dei corsi di formazione personale che si rivolgono alle singole persone per insegnare ad affrontare e gestire meglio la conflittualità della vita quotidiana (Ege, 2001). Questi corsi vengono dal basso, da ogni individuo, ed intendono fortificare la persona dentro per cambiare il loro atteggiamento fuori. L’autodifesa verbale insegna le regole e le strategie fondamentali per difendersi dagli attacchi verbali (insulti, offese, risposte brusche, battute e scherzi di dubbio gusto, rimproveri e critiche infondate), bloccandoli e annullandoli. È indirizzata a tutti, uomini o donne, mobbizzati e non, per difendersi (e non per aggredire) dal conflitto in generale e dal mobbing in particolare.
Spesso il conflitto nasce dalla nostra incapacità di rispondere adeguatamente e di tamponare subito il colpo, oppure da una nostra reazione esagerata o inappropriata al contesto. E dal conflitto non risolto al Mobbing il passo è molto breve.
In una situazione di Mobbing, gli attacchi del mobber fanno male perché colgono impreparata la vittima, la quale non riesce a contrattaccare adeguatamente. E' fondamentale quindi non rimanere mai più senza parole, mai più senza risposte adeguate. In questo modo si può stroncare il conflitto subito, prima che si espanda e diventi Mobbing, oppure limitare i danni di una situazione di Mobbing già in atto.
La vittima, acquisendo la capacità di rispondere adeguatamente in qualsiasi circostanza, si sente più sicura di se stessa e nei rapporti interpersonali, ispirando rispetto e considerazione; in tal modo riesce a salvaguardare la sua dignità ed evita che gli attacchi costituiscano delle premesse per disturbi psicosomatici (l’aumento dell’autostima e della fiducia in se stessi risulta un ottimo immunizzante).
Il primo passo dell’autodifesa verbale è quello che Ege chiama “il pronto soccorso del conflitto”, in cui il soggetto impara a gestire l’attacco dell’avversario. Si tratta di una procedura rapida  e sequenziale costituita da sette passi (Ege, 2001):
1. valutare se l’attacco era rivolto a noi;
2. respirare profondamente;
3. prendersi spazio;
4. rilassarsi;
5. concentrarsi sull’avversario;
6. prendersi tempo;
7. rispondere il più semplicemente possibile.
I corsi di autodifesa verbale funzionano come una palestra in cui i soggetti si allenano a rispondere a situazioni conflittuali, imparano tecniche e strategie, scelgono quelle a loro più congeniali, si esercitano con simulazioni di attacco verbale e infine valutano l’andamento della prova. Lo scopo è quello di respingere gli attacchi verbali senza che sortiscano effetto, frustrare l’aggressore e metterlo fuori gioco togliendogli l’iniziativa, de-emozionare le critiche soggettive impedendo che il conflitto abbracci la sfera personale.
Ege ha sviluppato 17 tecniche di reazione adeguata a un attacco verbale. L’efficacia non è assoluta, ma dipende dal contesto situazionale, dal tipo di persona che attacca, della relazione tra aggressore e aggredito e della personalità di quest’ultimo.

 

Tecniche di autodifesa verbale (Ege, 2001)

1. Il gesto senza parola

Restare zitti e rispondere all’attacco con un semplice gesto (scrollare le spalle, un cenno col capo).

2. Saltare di palo in frasca

Non rispondere all’attacco e cambiare discorso, spiazzando l’aggressore.

3. Il proverbio fuori luogo

Rispondere con un proverbio che non ha nulla a che vedere con la situazione.

4. Il commento di due sillabe

Reagire con una risposta minima, di due o tre sillabe pronunciate in modo distaccato (si-si, di-ci).

5. La ritirata strategica

Fingersi d’accordo con l’aggressore.

6. La contro-domanda

Rispedire l’attacco al mittente usando le stesse parole.

7. La battuta

Rispondere con umorismo mettendo in ridicolo l’aggressore.

8. Il complimento imprevisto

Lodare l’aggressore quando meno se lo aspetta.

9. Il confronto risentito

Ripetere l’insulto mostrandosi offesi e pretendendo delle scuse.

10. La concessione parziale

Mostrare di capire il punto di vista dell’altro ma non cedere.

11. La minaccia

Minacciare una denuncia o una causa. Da usare solo se gli attacchi hanno superato un limite e da non ripetere eccessivamente.

12. Lo sfogo

Sfogare la rabbia con urla e minacce di denuncia (non usare la violenza) abbassa il livello di aggressività.

13. Parlare chiaro

Dire chiaramente cosa ci fa arrabbiare.

14. L’analisi oggettiva

Restare imperturbabili e descrivere oggettivamente e con molta calma i fatti.

15. La proposta sensata

Guidare la discussione in una direzione costruttiva che non disturbi la comunicazione.

16. Richiedere spiegazioni

Chiedere spiegazioni su ciò che viene detto per fare emergere la stupidità delle affermazioni.

17. La respirazione

Fare un bel respiro profondo, rilassandoci e prendendo tempo, per evitare una risposta affrettata. Può essere usata in combinazione con le altre tecniche.

           

I corsi di autodifesa verbale si completano con l’esperienza dell’ “M-group , una sorta di “campo di battaglia” dove si mettono in pratica le strategie, le tecniche e i modelli difensivi appresi, osservandone il funzionamento e gli effetti (Ege, 2001).


L’ M- group è strutturato come un classico T-group, quindi si svolge in un luogo isolato in cui partecipanti e formatori si trovano a contatto esclusivo e costante (quasi una sorta di convivenza forzata). Il gruppo viene così lasciato libero di evolversi senza alcuna influenza esterna. A differenza del T-group, ci troviamo di fronte ad una simulazione semi strutturata, in cui il conduttore impone una struttura di fondo per ricalcare una tipica situazione lavorativa. L’obiettivo è quello di simulare un conflitto lavorativo in modo che i partecipanti capiscano il suo funzionamento e una sua eventuale soluzione. 


I partecipanti vengono divisi in due gruppi in maniera mirata e motivata. Avremo un gruppo vero e proprio maggioritario e un microgruppo costituito da 2-4 persone. Durante il secondo giorno i due gruppi, che fino a quel momento non avevano avuto alcun contatto, vengono riuniti, creando una situazione di intrusione nel macrogruppo.
Ciò che emerge da un'esperienza di questo tipo è ogni volta diverso ed entusiasmante, poiché ogni singolo partecipante condiziona, con il suo proprio modo di essere e di comportarsi, l'andamento dell'intero M-group.
L’M-group permette di scoprire in se stessi le risorse adeguate per difendersi, evitare o prevenire le situazioni di Mobbing o di conflitto in genere.
Ege (2001) individua quattro principali tecniche di conduzione e gestione dell’M-group:

 

Tecniche:

Impostazione di partenza

Punti forti

Punti deboli

Difficoltà per il conduttore

Partecipanti

1) Gli ultimi    arrivati

Microgruppo scelto casualmente

Il conflitto nasce spontaneamente

Il conflitto può espandersi sempre a nuovi argomenti

Scarsa. Occorre soltanto mantenere il conflitto dentro i limiti dell’argomento

Chiunque, indipendentemente dalle sue caratteristiche personali e professionali

2) Gli imposti dall’alto

Microgruppo strutturato

Conflitto guidato

La riuscita dipende molto dalla fattiva collaborazione del microgruppo

Media. Occorre tenere sotto stretto controllo il comportamento del microgruppo

I membri del microgruppo devono essere motivati, volenterosi e affidabili

3) I diversi

Microgruppo scelto in base a certi criteri

Simulazione di situazioni di razzismo ed intolleranza

La conflittualità potrebbe crescere esageratamente

Elevata. Occorre perizia per gestire e controllare l’emotività che potrebbe essere forte

È necessario che una minoranza di persone sia ben distinguibile dagli altri

4) Tecnica
Combinata

Microgruppo strutturato scelto in base a certi criteri

Simulazione di problemi e conflitti di vario tipo

La presenza di tante e diverse emozioni potrebbe risultare insopportabile per qualcuno

Elevata. Occorre saper gestire più problemi contemporaneamente

Il microgruppo deve essere ben distinguibile, oltre che motivato e affidabile

 

Un’altra tecnica formativa e preventiva rivolta ai singoli è quella denominata da Ege “l’arte di essere egoisti”, anch’essa appresa attraverso un corso specifico. Il presupposto da cui si parte è che essere egoisti non vuol dire necessariamente essere cattivi e recar danno agli altri; non essere egoisti invece il più delle volte significa fare davvero del male a noi stessi (Ege, 2001). L’egoista pensa principalmente a se stesso ma non necessariamente deve nuocere agli altri. Così Ege distingue tra l’egoista morboso, il cui motto è “mors tua, vita mea” e che in sostanza è solo uno pseudo-egoista, in quanto sembra maggiormente preoccupato degli altri che di se stesso, dall’egoista “sano”. Quest’ultimo riesce a cancellare l’ambiente circostante senza preoccuparsene e pone al centro della sua vita se stesso e la sua soddisfazione personale. Egli non ha alcun interesse a danneggiare gli altri.
Nella nostra cultura però è estremamente difficile pensare a se stessi perché siamo stati educati in modo da pensare sempre agli altri e al loro giudizio.
Questo corso permette di imparare a gestire autonomamente ed in prima persona la propria vita, divenendo padroni di se stessi, incoraggiando a riconquistare se stesso e la padronanza dei propri pensieri ed atteggiamenti, rendendosi così indipendente dalle limitazioni e dalle influenze dell'ambiente circostante.
Ege individua nove regole per la realizzazione dell’egoismo sano; queste non sono intercambiabili e devono essere utilizzate tutte insieme:

 

REGOLA
OBIETTIVO

1. Renditi indipendente dall’ambiente

Diminuire l’influenza degli altri su di sé

2. Mettiti al centro della tua vita

Non delegare ad altri le proprie responsabilità

3. Non rispettare gli altri più di te stesso

Non inchinarsi più davanti a titoli

4. Fai autocritica e difenditi dalla critica altrui

Non dare troppo valore alle critiche altrui: saper valutare se stessi

5. Valuta la vera importanza di ogni cosa

Saper distinguere l’utile dall’inutile

6. Non smettere mai di chiederti che cosa è meglio per te

Valutare la necessità delle proprie azioni prima di eseguirle

7 Non credere negli altri più che in te stesso

Valutare correttamente le opinioni

8. Abbi il coraggio di realizzare i tuoi desideri

Ascoltare se stessi e realizzarsi

9.Goditi la vita

Vivere con maggiore consapevolezza

 

  In conclusione si può dire che fare formazione ed informazione è l’unica metodologia che consente di far prendere coscienza dei danni che il mobbing può provocare, in modo da riconoscere il fenomeno. Infatti la paura di un fenomeno ed i danni che gli sono connessi, si riducono enormemente quando si conosce ciò che si affronta. La formazione diventa quindi una missione che ha l’obiettivo di prevenire, curare, assistere ed intervenire sul mobbing in modo che questo causi il minor numero di danni possibili. Come dimostrano le ricerche effettuate all’estero, le aziende che hanno formato i loro dipendenti e collaboratori attraverso seminari sul mobbing hanno ottenuto un’enorme vantaggio in termini di soddisfazione sul lavoro e riduzione di costi aggiuntivi riguardo al personale (Ege, 1998). La conoscenza del mobbing deve essere inculcata ad ogni vertice e grado della scala gerarchica, e le aziende dovrebbero essere dotate di figure professionali in grado di mediare le situazioni di conflitto (Ascenzi e Bergagio, 2000).            
Considerato che all’interno della nostra legislazione non vige ancora una norma specifica anti-mobbing, la prevenzione sembra essere il mezzo più efficace: sensibilizzando il lavoratore, il datore di lavoro e l’intera società, bisogna cercare di far conoscere le reali ripercussioni negative del fenomeno, in modo da esortare le persone a starne lontano.

 

2.  Come difendersi dal Mobbing: l’intervento
Abbiamo visto nel paragrafo precedente come la formazione a tutti i livelli sia la parola chiave per risolvere o limitare i problema del Mobbing: essa vuol dire, soprattutto, corretta informazione, quindi prevenzione e strategie risolutive. Si può operare a vari livelli: a livello aziendale, con specifiche modalità formative di gestione del conflitto e del Mobbing; a livello professionale, rivolgendosi a quei professionisti (medici, psicologi, avvocati, etc.) e a quegli operatori del sociale che sono i primi punti di riferimento a cui si rivolge una persona con problemi sul lavoro; infine c'è la formazione individuale, ossia rivolta alle singole persone, mobbizzate o meno, e mirata a rinsaldare i principi dell'autostima.


Quindi è fondamentale essere informati sul problema e acquisire una nuova cultura del lavoro, per tanti versi diversa o addirittura opposta a quella a cui siamo abituati (Ascenzi e Bergagio, 2000).
Il mobbing va di paro passo con la variabile tempo, pertanto diventa indispensabile riconoscere il problema il prima possibile per poter intervenire con strategie mirate ed efficaci di difesa.
Ogni situazione di mobbing è unica nel suo genere, pertanto non è possibile dare delle indicazioni precise come se avessimo una bacchetta magica. Per questo Ege (2001) propone delle semplici norme generali di comportamento, adatte a qualsiasi persona, ma che vanno necessariamente affiancate ad altre forme di intervento risolutivo. Infatti è bene ricordare che per uscire dal mobbing è fondamentale l’aiuto esterno di un esperto che aiuti ed analizzi non solo la vittima ma soprattutto l’ambiente di lavoro in cui il mobbing si è sviluppato.


Una prima regola, già trattata nel precedente paragrafo, consiste nel de-emozionare il conflitto, in modo da affrontarlo con lucidità e sangue freddo. La reazione immediata è quella più emotiva ed istintiva, magari la più sbagliata, poiché si rischia di fare il gioco dell’aggressore.
Se il medico riscontra una situazione di ansia, stress o depressione è consigliabile assentarsi dal lavoro (la causa prima del nostro malessere) per recuperare le energie. Non bisogna sentirsi in colpa, è un nostro diritto, anche perché la nostra prima preoccupazione deve essere la nostra salute (e non magari la possibile perdita dell’impiego!).


Il mobber, quando è consapevole, non è stupido, e solitamente attacca in assenza di testimoni perché sa che ciò che fa non è lecito. Per questo motivo è buon consiglio mettere per iscritto tutto ciò che succede in ufficio raccogliendo la documentazione delle vessazioni subite: tenere un diario di ogni azione mobbizzante contenente data, ora, luogo, autore, descrizione, persone presenti, testimoni; tenere un resoconto delle conseguenze psico-fisiche che le azioni mobbizzati hanno avuto sul nostro organismo (questo  faciliterà la documentazione del danno biologico che il mobbing ha determinato per la richiesta di risarcimento dei danni psicofisici) e di tutta la documentazione medica e delle cure seguite; mettere in forma scritta e fare protocollare o spedire per raccomandata R.R. ogni richiesta,  trasformando qualsiasi ordine verbale ricevuto in interrogazione scritta ("a voce mi è stato detto di fare questo, chiedo conferma scritta") ed esigere l’ordine di servizio che attesti il cambiamento di mansioni, il trasferimento o lo straordinario. Molto spesso non si riceve risposta: ciò sarà un’ulteriore prova di azione mobbizzate.
Sarebbe molto utile cercare degli alleati, ma è forse la cosa più difficile. Infatti, non sempre i colleghi sono dei "cuor di leone". Spesso si ritirano in disparte per evitare che il mobbing messo in atto nei confronti della vittima possa estendersi anche ad essi. Spesso, nel mobbing trasversale, sono essi stessi i mobbers.
È fondamentale non isolarsi, ma coltivare le relazioni sociali, frequentare gli amici, rinsaldare i rapporti familiari. Si può andare a cena fuori, fare una bella vacanza, o dedicarsi ad un hobby; insomma, tutto ciò che può costituire una utile valvola di sfogo è ben accetto. Ad esempio scrivere ha dei grandi effetti terapeutici poiché rende i conflitti visibili a tutti . Si deve spiegare ai propri familiari cos'è il mobbing e quello che si sta subendo, non vergognandosi della propria situazione. Ma non si deve passare all'estremo opposto, parlando incessantemente del proprio problema e focalizzando l'attenzione unicamente sul proprio dramma. Si realizzerebbe così il fenomeno del "doppio mobbing".


Se si decide di ricorrere alle vie legali non bisogna essere impazienti. La durata di una causa di lavoro è lunga e anche in caso di vittoria in primo grado, ci si deve aspettare un ricorso in appello da parte dell'azienda; quindi si può calcolare da un minimo di quattro anni fino ad otto-dieci anni. Nella scelta tra procedimento penale e/o civile, (causa di lavoro, risarcimento del danno biologico), è meglio preferire dapprima il procedimento civile. Ci si deve rivolgere ad un buon avvocato cha abbia già trattato cause di mobbing, che sicuramente non abbia legami con la propria azienda. Bisogna chiarire subito gli obiettivi che si intendono raggiungere (danno biologico, demansionamento, reintegra nel posto di lavoro, patteggiamento, risarcimento dei danni, etc.) e cercare di coinvolgere il minor numero di persone (possibilmente solo l’azienda). In caso contrario il nostro avvocato si troverà a dover lottare contro eserciti di avvocati di controparte che si coalizzeranno contro di noi. Solo dopo si può procedere anche contro gli autori materiali del mobbing.

 


Consiglio comportamentale

Effetto sul posto di lavoro

Effetto sulla vittima

Vantaggi

1. De-emozionate il conflitto

I conflitti risultano  meno aggressivi

Minore aggressività

Viene evitato il piano personale

2. Assentatevi se state male

Ci si toglie
fisicamente dalla conflittualità

Si ha la possibilità di riposare la mente ed il  corpo

Si ha la possibilità di raccogliere prove documentate sul danno biologico

3. Provocate una corrispondenza scritta

Si formalizzano i rapporti di lavoro

Si ha maggiore sicurezza personale

Si ottengono prove documentate

4. Intensificate la vita privata

Maggiore prontezza nella difesa

Maggiore serenità

Ci si realizza nella vita privata

5. Scrivete

I problemi diventano visibili per tutti

Ci si libera la mente dal peso del conflitto

Il conflitto è reso visibile a tutti

6. Non sminuitevi mai

Si ha più rispetto per se stessi

Si è presi più sul serio

La comunicazione sul posto di lavoro è più seria e professionale



In conclusione si può affermare che, conoscere e intervenire adeguatamente sul fenomeno del mobbing porta indubbi vantaggi ai molteplici soggetti che vi sono implicati: le persone, divenendo maggiormente coscienti della loro situazione, potrebbero adottare migliori strategie difensive contro gli aggressori e combattere il loro malessere; le aziende potrebbero risparmiarsi onerosi costi di un personale così problematico con un loro aggiornamento culturale che le porrebbe in grado di affrontare o prevenire situazioni di mobbing mediante esperti consulenti che addestrino i dirigenti alla gestione del personale ed ai relativi conflitti; la mutua non dovrebbe caricarsi degli onerosi costi per terapie mediche e/o addirittura ricoveri nei casi più gravi; infine, lo Stato eviterebbe gravosi oneri sociali collettivi con premature pensioni di invalidità.

 

3. Il metodo cross-culturale di valutazione del mobbing
Nelle varie culture i problemi, oltre ad essere diversi, vengono anche affrontati e risolti in modo diverso. Si può dunque sostenere che la strategia risolutiva di un problema sia connotata culturalmente. Per quanto riguarda il fenomeno del mobbing, esso può essere circoscritto alle sole civiltà industrializzate, in cui il lavoro è tutelato dalla legge e si svolge secondo determinati parametri (Ege, 1997). Questo permette di delineare una strategia risolutiva che posa essere applicata, in linea generale, ad ogni caso di mobbing e al di là delle diversità tra le culture. Ege chiama questo metodo “cross-culturale” e si basa sul presupposto che il primo passo per una soluzione al problema deve essere una attenta analisi della situazione. Attraverso tale approccio si dovrebbe comprendere quali fattori, personali o culturali, entrano in gioco nel mobbing ed elaborare una adatta strategia.
Il metodo cross-culturale si articola in tre stadi, ma si deve ricorrere allo stadio successivo solo se il risultato ottenuto con il precedente non è soddisfacente. È opportuno rispettare la sequenza dei tre stadi, sebbene ciascuno possa avere una durata e una profondità diversa in base alla situazione e al contesto culturale circostante. L’obiettivo è quello di portare la vittima a un progressivo distacco dalla propria soggettività e ad un’analisi sempre più oggettiva.
I passo: l’analisi della vittima. Ci si deve chiedere chi è la vittima di mobbing e per quale motivo viene mobbizzata. Raramente la vittima è totalmente estranea alla causa che scatena la persecuzione, pertanto è opportuno fare una attenta autocritica e riscontrare se c’è qualche comportamento o qualche abitudine che infastidisce il mobber ed eventualmente passare alle contromisure. Ovviamente ciò non vuol dire arrivare all’annullamento di se. Comunque questa analisi spesso non è sufficiente ad una esaustiva spiegazione, anche perché la causa può non risiedere nel mobbizzato.
II passo: l’analisi del mobber. Ci si chiede chi è il mobber e perché perseguita la vittima. La vittima e le eventuali testimonianze dei colleghi possono aiutare a ricostruire i tratti del carattere del mobber e i motivi che lo hanno spinto ad agire. Si deve capire se il suo agire è casuale, intenzionale o abituale, capire se è disposto a trattare una negoziazione del conflitto. Se il mobber è intenzionale sarà quasi sicuramente necessario un aiuto esterno.
III passo: l’analisi della situazione. Ci si chiede cosa succede e cosa è successo. È la fase forse più difficile in quanto necessita di un’alta oggettività, e quindi si devono lasciare da parte emotività e coinvolgimenti vari. Di solito si fa compilare alla vittima un memoriale per la ricostruzione della storia del fenomeno (motivi, inizi,  crescita, intensificazione, situazione attuale). La trascrizione della vicenda agisce da terapia e le vittime riescono a accantonare l’emotività ed a trovare la via d’uscita da soli.
Il metodo cross-culturale serve  a fornire una strategia di comprensione e valutazione della situazione, delle dinamiche, delle motivazioni e delle cause. Quindi non si troveranno delle risposte di soluzione, ma delle domande da porsi  e da cui partire per una soluzione efficace.

 

4. Combattere il mobbing con il “marketing sociale”.
Ascenzi (2000) parte dal presupposto che una strategia di “salvezza” dal mobbing dovrebbe basarsi sulle persone e mirare alla educazione dei lavoratori ai valori dell’unità e della solidarietà. La centratura sulla persona presuppone una auto-formazione che parta da chi subisce effettivamente le vessazioni sul posto di lavoro e coinvolga gli altri interlocutori implicati. L’auto-formazione si basa su alcuni principi cardine (Ascenzi e Bergagio, 2000, p. 90), tra cui:

  • Non chiudersi in se stessi.
  • Prendere coscienza che ad essere in difetto sono gli autori delle violenze psicologiche.
  • Porsi domande come: perchè? Perchè a me? Perchè ora? Quanto durerà? Chi sono gli attori? A quali fini? Quali le possibili soluzioni?cosa posso fare subito e con quali alleati?
  • Cercare l’appoggio e il conforto negli affetti vicini.
  • Attaccare frontalmente il mobber ed i suoi eventuali complici (con il tentativo di separarli ed utilizzare la loro stessa strategia).

Detto questo, Ascenzi sostiene che il mobbing fondi la sua forza sul marketing classico, ossia quel marketing basato sulla competizione estremizzata, sul carrierismo sfrenato, sull’obiettivo e non sulla persona. In esso vengono utilizzate tecniche di destabilizzazione della persona e di “brain washing” (lavaggio del cervello) con l’obiettivo di eliminare la persona scomoda. È un marketing “inibente e plagiante” che usa strategie sporche (dirty strategy) per allacciare all’organizzazione il maggior numero di adepti.
Contro questo marketing “classico” Ascenzi propone il cosiddetto “marketing sociale”, basato sulla valorizzazione dell’individuo nella sua globalità, sulla sua priorità e unicità come presupposto per realizzare la solidarietà e il benessere della persona, nella famiglia, nella casa, nel lavoro, nelle relazioni sociali. Il marketing sociale difende dagli attacchi attraverso tecniche di “restituzione di se stessi” (ricomponendo la persona ed il suo habitat) (Ascenzi e Bergagio, 2000). Esso agisce su due linee guida: un marketing comportamentale che mira a ricostruire e riordinare le qualità e le certezze della persona messa in pericolo; l’altra linea guida riguarda l’intero sistema di comunicazione interno ed esterno all’individuo. L’obiettivo di questa seconda linea è quello di rendere sicuro e protetto il soggetto/vittima e di rendere pubblico il fenomeno, sia come denuncia sociale che come prevenzione e cessazione delle pratiche mobbizzanti. Lo strumento utilizzato comprende degli “slogan sociali” in cui appaiono concetti forti, diretti ed ironici:

 

5. La soluzione giuridica: il danno da mobbing
Il ricorso alle vie giuridiche, in genere attraverso la richiesta di risarcimento del danno subito, è una delle strade più battute e praticate dalle vittime di mobbing. Attualmente nel panorama giuridico italiano, nonostante i vari progressi che indubbiamente sono stati fatti negli ultimissimi anni, non vi è ancora alcuna norma che assicuri certezza di diritto e di tutela, soprattutto in tema di risarcimento e liquidazione del danno. Non è semplice trovare una definizione teorica del danno da Mobbing e dei criteri oggettivi di valutazione che, sul piano empirico, garantiscano una giusta e congrua tutela per chi ne è vittima
Il “Danno da Mobbing” si configura essenzialmente come “riduzione della capacità lavorativa della persona mobbizzata” (Ege, 2002). Questa viene calcolata in relazione a vari parametri, tra cui la durata, la frequenza e la fase attuale del Mobbing, il sesso, l'età e la fascia di reddito della vittima. Tale danno è di natura fondamentalmente patrimoniale, poiché le difficoltà sociali vissute dal mobbizzato hanno degli effetti su tutto il suo avvenire lavorativo. Basti pensare solo ad alcune delle azioni di Mobbing più comuni, come le decurtazioni dello stipendio o nel caso peggiore la perdita del lavoro, le lesioni all'immagine personale e professionale, le mancate promozioni, i trasferimenti illegittimi, le multe e le sanzioni disciplinari, il blocco di informazioni o i sabotaggi che ostacolano o impediscono il corretto svolgimento del lavoro, oltre alle conseguenze della perdita delle capacità psicofisiche, come le difficoltà di memoria e di concentrazione, la paralisi della creatività, l'annullamento dello spirito di iniziativa: si tratta di lesioni che investono soprattutto la sicurezza economica del mobbizzato e come tali hanno quindi ripercussioni prettamente patrimoniali e reddituali.
A questa base patrimoniale del danno da mobbing può aggiungersi una componente di natura esistenziale, che riguarda quelle conseguenze che fuoriescono dallo stretto ambito lavorativo ed investono la vita privata e personale dell'individuo (la diminuzione di interesse nella vita privata e nel tempo libero, il minor tempo dedicato ai figli, la perdita della fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, l'azzeramento delle aspettative e della progettualità per il futuro, fino alle crisi coniugali e ad altre fratture dolorose). Ege (2002) propone un metodo per la valutazione e quantificazione del danno da mobbing che comprende tre passaggi fondamentali: 1) riconoscimento del mobbing in una vicenda lavorativa in base all'individuazione di sette parametri tassativi; 2) valutazione della percentuale di danno da mobbing; 3) valutazione monetaria in base a specifiche tabelle.
Si è detto che il mobbing può incidere direttamente anche sullo stato di salute della vittima, rendendola più vulnerabile ai fattori di malattia psichica o fisica. Questa parte di danno è di natura prettamente biologica, cioè investe la salute, è di competenza esclusivamente medica e non deve essere confusa con il danno da mobbing così come è stato definito in precedenza: la richiesta di risarcimento di tale danno, se presente, può essere affiancata a quella relativa al danno da mobbing.
Il mobbing, se è causato da un comportamento di un terzo e se determina un danno  provabile ed economicamente valutabile, può far sorgere il diritto al risarcimento del danneggiato secondo le regole del diritto comune, ma non bisogna dimenticare che il nostro ordinamento prevede che “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” (art. 2697 c.c.). La legge, infatti, stabilisce che spetta a chi agisce in giudizio fornire la prova dei fatti costitutivi del medesimo, mentre l'altra parte deve provare gli eventuali fatti estintivi, impeditivi o modificativi da essa allegati.
Una sezione apposita del sito tratta in dettaglio gli aspetti giuridici e normativi del fenomeno del mobbing e delle sue conseguenze; in questa sede va ricordato che solo una azione complessiva (di prevenzione, di intervento diretto, di eventuale azione giuridica) può ridurre le conseguenze del fenomeno sull’individuo, sulle aziende, sull’intera comunità sociale.             

                          


La stesura del materiale è stata curata da Lorena Vasta e revisionata da Santo Di Nuovo.

In alcune aziende tedesche esistono delle vere e proprie Konfliktzimmer, ossia delle “stanze del conflitto”, in cui i dipendenti possono riunirsi per discutere e chiarire i problemi. Può anche essere interpellato un Konfliktmanager, ossia uno specialista del conflitto, un mediatore, interno od esterno all’azienda, appositamente formato, con il compito di evitare che il conflitto esca dai margini professionale per finire in quelli personali (Ege, 2001).

Sono corsi esclusivi dell’associazione PRIMA. Ege li ha elaborati sulla base del lavoro di Barbara Berckhan che conduce corsi simili in Germania. Questi però si rivolgono principalmente alle donne, affrontando temi legati alle molestie sessuali (Ege, 2001).

L’M-group (o gruppo di Mobbing) può anche essere affrontato da chi non ha mai seguito corsi di autodifesa verbale o di gestione del conflitto, quindi costituisce una esperienza formativa indipendente. Essa non si rivolge esclusivamente ai mobbizzati, ma a tutti coloro che vogliono imparare a capire se stessi e i propri rapporti conflittuali con gli altri (Ege, 2001).

Una condizione fondamentale per una efficace riuscita dell’M-group è che i partecipanti non si conoscano.

 

Fonte: http://www3.unict.it/mobbing/materialiformativi02.doc    

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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