liriche barocche

 


 

liriche barocche

 

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liriche barocche

 

William Shakespeare (1564-1616)

dai Sonetti

 

Per niente come il sole

 

Per niente come il sole son gli occhi di mia donna

e il corallo è ben più rosso che il rosso di sue labbra,

se è neve ad esser bianca, oscure ha le mammelle;

se i capelli sono crini, neri crini ha sul suo capo;

rose ho visto damascate, e rosse e bianche,

ma non simili rose ved' io sulle sue guance,

e v'è in certi profumi assai maggior diletto

di quel che si respira nel fiato di mia donna.

Mi piace se ascolto il suo parlare, ma so bene

che Musica possiede accordi assai più grati;

confesso che una dea andar non vidi mai,

mia donna quando passa ha i piedi sulla terra.

      Eppure, per il cielo, l'amata mia è sì rara,

      più di quella ch'è tradita da falsi paragoni.

 

Contempla in me quell'epoca dell'anno

 

Contempla in me quell'epoca dell'anno

Quando foglie ingiallite, poche o nessuna, pendono

Da quei rami tremanti contro il freddo,

Nudi cori in rovina, ove dolci cantarono gli uccelli.

Tu vedi in me il crepuscolo di un giorno,

Quale dopo il tramonto svanisce all'occidente,

Subito avvolto dalla notte nera,

Gemella della morte, che tutto sigilla nel riposo.

Tu vedi in me il languire di quel fuoco,

Che aleggia sulle ceneri della propria giovinezza,

Come sul letto di morte su cui dovrà spirare,

Consunto da ciò che già fu suo alimento.

            Questo tu vedi, che fa il tuo amore più forte,

            A degnamente amare chi presto ti verrà meno.

Commento di Giorgio Melchiori al sonetto "Contempla in me quell'epoca dell'anno".

 

    Considerato come uno dei più perfetti sonetti shakespeariani, svolge il tema dell'approssimarsi della vecchiaia e della morte. La straordinaria complessità sentimentale espressa in immagini essenziali eppur pregnanti (l'albero autunnale, il crepuscolo della sera, la cenere che copre il fuoco), con sottili variazioni interne, sta a dimostrare l'ecce­zionale capacità immaginativa di Shakespeare che sa proiettarsi con tanta intensità di partecipazione emotiva nella figura del vecchio alle soglie della morte; il Leishman fa os­servare che, forse, solo in Leopardi si ritrova una capacità simile. Il quarto verso è certo fra i più memorabili della poesia moderna: i rami su cui d'estate erano allineati gli uccelli a cantare sono paragonati a cantorie di chiese ormai in rovina (forse l'immagine si ispira alle abbazie, con i loro stupendi «cori» lignei, abbandonate e cadute in rovina dopo la Riforma di Enrico VIII): la pregnanza dell'immagine è stata messa bene in luce da W. Empson (Seven Types of Ambiguity, 1930, p. 2): «I1 paragone è efficace per molte ragio­ni: perché i cori di abbazie in rovina son luoghi in cui si cantava, perché suggeriscono l'idea di stare in fila, perché eran fatti di legno, perché erano contenuti in edifici che sem­bravano la cristallizzazione dell'aspetto esteriore di foreste, con pitture e vetrate policro­me imitanti i colori dei fiori e delle foglie, perché sono ora abbandonati da tutti tranne che dalle grigie mura del colore del cielo invernale, perché la grazia fredda e narcisistica dei coristi fanciulli ben si attaglia al sentimento che Shakespeare provava per il destina­tario dei sonetti e per varie ragioni sociologiche e storiche... Tali ragioni... devono tutte fondersi per conferire al verso la sua bellezza, e v'è una sorta di ambiguità nel non sape­re quale di esse tenere in mente con maggiore evidenza»

 

 

 


John Donne (1572 -1631)

 

Lezione sull'ombra

(A lecture upon the Shadow; trad. di Cristina Campo)

 

Ferma, amore: ti darò una lezione

sulla filosofia d'amore.

Tu ed io, queste tre ore,

passeggiammo e innanzi a noi due ombre,

opera nostra, andavano con noi.

Ma ora che il sole è a picco su di noi

siamo dritti sulle nostre ombre

e ogni cosa è ridotta a luce coraggiosa.

Così, mentre crescevano

i nostri amori bambini, crescevano

le finzioni proiettando ombre

su noi e su ogni nostra cura. Fino ad ora.

 

Ma non ha raggiunto un amore

l’altissimo grado, se ancora

ha cura di non esser veduto.

 

Se a questo mezzogiorno i nostri amori

non si arrestano, altre ombre getteremo

dall'altro lato; e se le prime furono

per accecare altrui, sopra di noi

queste da dietro getteranno il buio.

Se amore declina a ponente,

a me tu falsa occulterai

le tue opere, a te io celerò le mie.

Si consumano le ombre del mattino

queste si allungano su tutto il giorno.

Ma, oh, breve è il giorno

d'amore, se l’amore si corrompa.

 

Amore o cresce, o è piena e ferma luce:

il suo primo attimo d’ombra è la sua notte.

 

 

 

Congedo, a vietarle il lamento

(A valediction: forbidding mourning;

trad. di Cristina Campo)

 

Come quietamente i giusti spirano

e alle anime loro sussurrano di andare,

mentre alcuni dei tristi amici dicono:

si spegne il suo respiro, ed altri: non ancora,

 

sciogliamoci cosi, senza voce, né flutto

di lacrime muoviamo, nè furia di sospiri:

si profana la gioia

svelando ai secolari questo amore.

 

Il moto della terra porta mali e paure,

specula l'uomo il fatto e ciò che volle dire,

ma la trepidazione delle sfere

è innocente, seppur tanto maggiore.

 

L'amore degli ottusi amanti sublunari

(la cui anima è il senso) non intende

l'assenza, che rimuove

le cose che gli furono elemento.

 

Ma noi, grazie a un amore raffinato

al punto che noi stessi ne ignoriamo l'essenza,

nella mutua certezza della mente

meno curiamo perdere labbra, pupille, mani.

 

Le nostre anime, dunque, che sono una,

sebbene io debba andare, non patiscono

frattura ma espansione, come oro

battuto fino alla più aerea lama.

 

Siano pur due, lo sono come i rigidi

gemelli del compasso sono due:

la tua anima il piede fisso che, all'apparenza

immoto, muove al moto del compagno

 

e, se pure dimori nel suo centro

quando l'altro si spinge più lontano,

piega e lo segue intento

e torna eretto al suo tornare al centro.

 

Cosi tu sei per me che debbo, simile

all'altro piede, obliquamente correre:

la tua fermezza chiude giustamente il mio cerchio

e al mio principio mi riporta sempre.

 

 

 

Morte non andar fiera

(Death be not proud; trad. di Cristina Campo)

 

Morte, non andar fiera se anche t'hanno chiamata

possente e orrenda. Non lo sei.

Coloro che tu pensi rovesciare non muoiono,

povera morte, e non mi puoi uccidere.

Dal riposo e dal sonno, mere immagini

di te, vivo piacere, dunque da te maggiore,

si genera. E più presto se ne vanno con te

i migliori tra noi, pace alle loro ossa,

liberazione dell'anima. Tu, schiava

della sorte, del caso, dei re, dei disperati,

hai casa col veleno, la malattia, la guerra,

e il papavero e il filtro ci fan dormire anch'essi

meglio del tuo fendente. Perché dunque ti gonfi?

Un breve sonno e ci destiamo eterni.

Non vi sarà più morte. E tu, morte, morrai.

 

 

 


Giovan Battista Marino

(1569 - 1625)

 

dalla Lira

 

 

Pallore di bella donna

 

Pallidetto mio sole,

ai tuoi dolci pallori

perde l'alba vermiglia i suoi colori.

Pallidetta mia morte,

a le tue dolci e pallide viole

la porpora amorosa

perde, vinta, la rosa.

Oh piaccia a la mia sorte

che dolce teco impallidisca anch'io,

pallidetto amor mio!

 

Donna che cuce

 

È strale , è stral, non ago

quel ch'opra in suo lavoro,

nova Aracne d'amore, colei ch'adoro;

onde, mentre il bel lino orna e trapunge,

di mille punte il cor mi passa e punge.

Misero, e quel sì vago

sanguigno fil che tira,

tronca, annoda, assottiglia, attorce e gira

la bella man gradita,

è il fil de la mia vita.

 

Ninfa mungitrice

 

Mentre Lidia premea

dentro rustica coppa

a la lanuta la feconda poppa,

i' stava a rimirar doppio candore

di natura e d'amore;

né distinguer sapea

il bianco umor da le sue mani intatte,

ch'altro non discernea che latte in latte.

 

Occhi

 

Chi vuol veder, chi vuole

veder, amanti, al mezzodì più chiaro

le stelle in fronte al sole

venga a mirar del’idolo mio caro

gli occhi, onde ‘l sole ha scorno :

che portan notte altrui, mentre fan giorno.

 

Bella schiava

 

Nera sì, ma se’ bella, o di Natura

fra le belle d’Amor leggiadro mostro.

Fosca è l’alba appo te, perde e s’oscura

presso l’ebano tuo l’avorio e l’ostro .

 

Or quando, or dove il mondo antico o il nostro

vide sì viva mai, sentì sì pura,

o luce uscir di tenebroso inchiostro,

o di spento carbon nascere arsura ?

 

Servo di chi m’è serva, ecco ch’avolto

porto di bruno laccio il core intorno,

che per candida man non fia mai sciolto.

 

Là ‘ve più ardi, o sol, sol per tuo scorno

un sole è nato, un sol che nel bel volto

porta la notte, ed ha negli occhi il giorno.

 

 


Francesco Materdona

(1590-1650)

 

La zanzara

       

Animato rumor, tromba vagante,

che solo per ferir talor ti pòsi,

turbamento de l'ombre e de' riposi,

fremito alato e mormorio volante;

      per ciel notturno animaletto errante,

pon freno ai tuoi susurri aspri e noiosi;

invan ti sforzi tu ch'io non riposi:

basta a non riposar l'esser amante.

      Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza

vattene; e incontro a lei quanto più sai

desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza.

      D'aver punta vantar sì ti potrai

colei, ch'Amor con sua dorata frezza

pungere ed impiagar non poté mai.

 


Girolamo Fontanella

(1612-1644)

 

Alla lucciola

 

Mira incauto fanciul lucciola errante

di notte balenar tremola e bella,

che di qua, che di là, lieve e rotante,

somiglia in mezo al bosco aurea fiammella.

 

Va tra le cupe ed intricate piante,

stende la mano pargoletta e snella,

e credendo involar rubino o stella

va de la preda sua ricco e festante.

 

Ma poi che 'l nostro error l'alba disgombra,

quel che pria gli parea gemma fatale,

di viltà, di stupor gli occhi l'ingombra .

 

Così, bella parea cosa mortale;

ma, vista poi che si dilegua l'ombra,

altro al fine non è ch'un verme frale .

 

 

 

 


Ciro Di Pers

(1599-1663)

   

L’orologio de le rote

     

Nobile ordigno di dentate rote

lacera il giorno e lo divide in ore,

ed ha scritto di fuor con fosche note

a chi legger le sa: SEMPRE SI MORE.

     Mentre il metallo concavo percuote,

voce funesta mi risuona al core;

né del fato spiegar meglio si puote

che con voce di bronzo il rio tenore.

    Perch'io non speri mai riposo o pace,

questo, che sembra in un timpano e tromba,

mi sfida ognor contro all'età vorace.

     E con que' colpi onde 'l metal rimbomba,

affretta il corso al secolo fugace,

e perché s'apra, ognor picchia alla tomba.

 


Tommaso Stigliani

(1573-1661)

 

Desiderio di luna

 

Matarazzi del cielo, oscure nubi,

ch'or tenete celata

la celeste frittata:

scopritela, vi prego, agli occhi miei;

perch'al lume di lei

io scriver possa alcune rime sdrucciole:

non ho più gatta e non si trovan lucciole.

 


Tommaso Stigliani

(1573-1661)

 

Scherzo d'immagini


Mentre ch'assisa Nice
Del mare a la pendice
Stava a specchiarsi in un piombato vetro ,
Io, ch'essendole dietro
Affisati i miei sguardi a l'acqua avea,
L'ombra sua vi vedea
Con la sinistra man di specchio ingombra :
E ne lo specchio ancor l'ombra de l'ombra.

 

Analisi del madrigale di Tomaso Stigliani

“Scherzo d’immagini”

 

Scherzo d'immagini


Mentre ch'assisa Nice
Del mare a la pendice
Stava a specchiarsi in un piombato vetro,
Io, ch'essendole dietro
Affisati i miei sguardi a l'acqua avea,
L'ombra sua vi vedea
Con la sinistra man di specchio ingombra:
E ne lo specchio ancor l'ombra de l'ombra.

 

Il madrigale di Stigliani è formato da un solo periodo di otto versi, disposti a distici in rima baciata. L’andamento ritmico, pur nella brevità del testo, conduce ad un progressivo allargamento del respiro della poesia. Il primo distico è di due brevi settenari, il secondo e il terzo hanno un ritmo zoppicante che si allunga in un endecasillabo per rattrapirsi subito in un settenario; il quarto distico, infine, si distende in due endecasillabi. La metrica della poesia sembra essere pensata per dare una particolare solennità al verso finale.

L’unico periodo da cui è composta la breve lirica mira in sostanza a descrivere la situazione, nella quale compaiono due persone – il poeta e Nice – e due superfici riflettenti – lo specchio in mano a Nice e un breve tratto di mare fra i due.

Il linguaggio si mostra sobrio, privo di quell’ossessiva ricerca della metafora arguta che troviamo spesso tra i poeti barocchi. Solo due espressioni paiono uscire dal significato proprio: piombato vetro e ombra.

La prima è una perifrasi per specchio. Contrariamente a quanto accade di solito nella poetica barocca, questa figura retorica non sollecita voli della fantasia, ma spinge a scomporre l’oggetto nei suoi costituenti materiali: una lastra di vetro con un lato oscurato da una lamina di piombo. Per dirla con le parole di Emanuele Tesauro, qui è all’opera più la perspicacia, che va al fondo delle cose, che la versabilità, che unisce le cose lontane.

Ombra è una metafora per “immagine riflessa”, ma anche questa volta si tratta di  una metafora che sembra impoverire anziché arricchire l’oggetto significato (l’ombra è un’immagine immateriale, ma spogliata anche dei colori, creata non dalla luce, ma dalla sottrazione di luce). Non siamo dunque nel campo della lirica barocca smagliante e chiassosa. L’acutezza di questo madrigale andrà cercata altrove che non nei giochi di parole cari alla poesia di Marino.

Eppure, il titolo parla di scherzo: però, chi scherza qui è direttamente la Natura, grande costruttrice di arguzie, come notava ancora Tesauro nel suo Cannocchiale aristotelico, non l’estro linguistico del poeta. Il poeta si pone qui, alla lettera, come osservatore.

Il testo mette in scena due personaggi, tra i quali, però, non è espresso alcun legame di relazione; nessuna parola, infatti, allude ad un qualsiasi rapporto sentimentale, neppure nei termini dell’amore non ricambiato o del rifiuto. L’unico vincolo tra l’uomo e la donna è dato dallo sguardo del poeta che, attraverso una duplice riflessione ottica, giunge a cogliere il volto di Nice, altrimenti invisibile, perché lei gli volge le spalle.

Poiché tutta la poesia consiste nella descrizione della posizione reciproca dei due personaggi, vale la pena esaminarla con attenzione. Ci accorgeremo che la descrizione è estremamente precisa e che ogni parola fornisce un’informa-zione da non trascurare.

Nice è seduta sulla riva del mare, più esattamente sulla pendice del mare. “Pendice” indica di solito il fianco di un’altura, una superficie in pendenza; perciò dobbiamo immaginare Nice assisa su qualcosa di elevato, benché prospiciente al mare: per esempio uno scoglio. Dunque, Nice, vicina alla riva ma elevata sul pelo dell’acqua, stando seduta si sta specchiando.

Il poeta è posto alle sue spalle, fissa lo sguardo verso l’acqua e vi vede riflessa l’immagine (ombra) della donna. Dove si trova esattamente il poeta, per poter vedere Nice riflessa nell’acqua? Una conoscenza anche elementare ed empirica delle leggi dell’ottica chiarisce che il poeta non può trovarsi dalla stessa parte di Nice rispetto al mare, ma deve avere il mare tra sé e la donna. Per dare verosimiglianza alla situazione, si può immaginare che il poeta si trovi su una barca, oppure che la costa disegni una stretta insenatura, o anche soltanto un piccolo canale tra le rocce di una scogliera, e che i nostri due personaggi si trovino sulle sponde opposte. L’importante è sapere che il mare è tra i due: questa nozione è rigorosamente richiesta dalla fisica ed è, come vedremo, assai significativa sul piano poetico.

Il poeta, dunque, vede l’immagine di Nice specchiata nell’acqua, e vede che tiene nella mano sinistra uno specchio. La precisazione sulla mano sinistra è un’ulteriore conferma dell’estrema accuratezza della ricostruzione visiva della scena: è l’ombra di Nice ad avere la sinistra man di specchio ingombra. Il testo non lascia spazio a dubbi: se l’immagine riflessa tiene lo specchio nella sinistra, la Nice in carne ed ossa lo tiene nella destra. Mi sembra inutile cercare significati simbolici o nascosti; si tratta, da un lato, semplicemente di una puntigliosa esattezza nella descrizione dei fenomeni visivi, e da un altro lato, della constatazione che l’immagine della donna risulta ribaltata, e perciò ingannevole, identica ma non vera.

Il madrigale si conclude con la rivelazione culminante: nello specchio, l’immagine dell’immagine. Il lettore, che segue, sul filo delle leggi ottiche, il percorso razionale della poesia, la ripercorre a ritroso e vede il volto di Nice nello specchio in mano a Nice, riflessa di spalle nell’acqua. Ma il verso finale, in realtà, non nomina più né persone né oggetti, ma solo ombre.

Qui sta tutto il senso del madrigale, l’arguzia barocca di cui è costruito. La donna volge le spalle, il mare la separa dal poeta; sembra irraggiungibile. Eppure lo sguardo che indaga, che collega le cose lontane, riesce a trovare il giusto angolo di visuale che unisce lo specchio del mare e il vetro piombato, e tramite essi, incontrare il volto nascosto, incrociare quell’altro sguardo che si nega. Ma nel momento in cui il poeta raggiunge la meta, scopre che tutto è ombra, anzi ombra dell’ombra: cioè irrealtà, immagine fuggevole e immateriale, e per di più disegnata sull’acqua e rovesciata.

Se è vero che Scherzo di immagini è una lirica povera di metafore, l’intera situazione descritta si rivela come metafora dell’esistenza: vana contemplazione di immagini evanescenti.

In questo madrigale, troviamo condensato in un ristrettissimo giro di versi, come nelle più riuscite poesie seicentesche, il gusto barocco per la vista come scandaglio della realtà, il senso di precarietà di tutto ciò che esiste e il piacere dell’acutezza intellettuale, che vede ciò che comunemente passa inosservato.

GD

              Strale: freccia.

              Aracne: mitica tessitrice, osò sfidare Atena nella sua arte; la dea irata la tramutò in ragno.

              La lanuta: la pecora.

              Umor: liquido.

              Onde…ha scorno: a causa dei quali il sole patisce umiliazione.

              Appo: accanto a, a confronto di.

              Ebano: legno pregiato di colore nero.

              Ostro: porpora.

              Di spento… arsura: nascere ardore da un carbone spento.

            Scorno: vergogna, sconfitta, umiliazione.

            Un sol: si può intendere “un sole”, ma anche – continuando il gioco della polisemia – “solo uno”. In questo secondo caso, il significato del verso sarebbe: solamente la donna nera di cui si tesse l’elogio è degna di essere paragonata al sole.

            Nacque a Napoli intorno al 1610, e a Napoli morì nell’agosto del 1644. Era probabilmente figlio naturale di Girolamo Fontanella, appartenente a una nobile famiglia di Reggio Emilia. Nel 1633 a Bologna uscirono le Odi; nel 1640 a Napoli I Nove cieli; e, postume, nel 1645 a Napoli le Elegie.

            Involar: rubare.

            Ma poi… l’ingombra: ma dopo che il sorgere del sole sgombra (la nostra mente) gli inganni (della notte), quello che prima gli sembrava una gemma prodigiosa, gli riempie gli occhi di stupore deluso.

            Frale: fragile, effimero.

           Ciro di Pers nacque nel castello di Pers [Friuli] nel 1599. Di nobile casato, studiò a Bologna entrando in relazione con C. Achillini. Cavaliere gerosolimitano, nel 1627-1629 fu a Malta e prese parte a una spedizione contro i turchi. Visse poi quasi sempre nella sua terra, dedicandosi alla poesia e agli studi. Morì a San-Daniele-del-Friuli nel 1663.

            Ordigno: meccanismo.

            In un: insieme, nello stesso tempo.

              Stigliani cita qui ironicamente un sonetto di Torquato Tasso:

                A le gatte de lo spedale di S. Anna

                      Come ne l'ocean, s'oscura e 'nfesta

                procella il rende torbido e sonante,

                a le stelle onde il polo è fiammeggiante

                stanco nocchier di notte alza la testa,

                      così io mi volgo, o bella gatta, in questa

                fortuna avversa a le tue luci sante,

                e mi sembra due stelle aver davante

                che tramontana sian ne la tempesta.

                      Veggio un'altra gattina, e veder parmi

                l'Orsa maggior con la minore: o gatte,

                lucerne del mio studio, o gatte amate,

                       se Dio vi guardi da le bastonate,

                se 'l ciel voi pasca di carne e di latte,

                fatemi luce a scriver questi carmi.

            Assisa: seduta.

            Pendice: pendenza.

            Piombato vetro: specchio. La perifrasi è già dantesca: “s'io fossi di piombato vetro” (Inf XXIII,25. Cfr. anche Par II,88-90)

            Ombra: immagine riflessa.

            Ingombra: occupata. L'immagine riflessa mostra la mano sinistra che regge lo specchio.

 

Fonte: http://quattrosecoli.files.wordpress.com/2012/07/liriche-barocche1.doc

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