Giovanni Verga opere La roba, La lupa, I malavoglia, Rosso Malpelo riassunto

 

 

 

Giovanni Verga opere La roba, La lupa, I malavoglia, Rosso Malpelo riassunto

 

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Giovanni Verga opere La roba, La lupa, I malavoglia, Rosso Malpelo riassunto

 

GIOVANNI VERGA

LA VITA

Giovanni Verga nasce il 31 agosto del 1840 a Catania da una famiglia di nobili origini di Vizzini, un borgo agricolo presso Catania. Tra il 1856 e 1857, ancora giovanissimo, Verga scrive il suo primo romanzo storico, Amore e patria, intriso di romanticismo e amor di patria.

Accoglie con entusiasmo l'arrivo di Garibaldi nella sua città, subito dopo si arruola nella Guardia nazionale, prestandovi servizio per quattro anni.

Al maggio 1865 risale il suo primo viaggio a Firenze, allora capitale d'Italia; qui Verga compone Una peccatrice (1866), romanzo che non gli procura successo ma lo spinge a frequentare più da vicino i salotti mondani della letteratura e dell'editoria e inserirsi nell'ambiente artistico della città.

Un significativo cambiamento nella vita di Verga avviene nel 1872, quando lo scrittore si trasferisce per circa un quindicennio a Milano, richiamato dalla fama di capitale economica e culturale. In effetti la città presentava una vivace attività giornalistica ed editoriale e una più stimolante attività narrativa che mirava a conquistare il pubblico borghese. A Milano l'amico siciliano Salvatore Farina lo introduce nei salotti letterari più importanti della città.

Influenzato da queste nuove esperienze tra il 1873 e il 1875 compose tre romanzi erotico-sentimentali Eva, Tigre Reale ed Eros di ambientazione mondana: i personaggi agiscono coinvolti da forti ambizioni amorose, in brillanti ambienti cittadini che rispecchiavano poi quelli che lo scrittore frequentava a Milano.

Nel 1874 Verga scrive in soli tre giorni Nedda, un “bozzetto siciliano” ambientata nella natia Sicilia tesa a rivelare la povertà di vita della sua gente. Si avvia a tal modo la “conversione” di Verga al Verismo. I motivi che contribuirono a orientare sempre più l'arte di Verga verso una poetica del “vero” furono diversi: le suggestioni letterarie del programma naturalistico sostenuto in Francia da Emile Zola; l'arrivo a Milano di Capuano nel 1877, che a questo programma si era già avvicinato ; la noia sopraggiunta per gli ambienti mondani e insieme la nostalgia per la propria terra; l'interesse per la questione meridionale. Pochi mesi dopo, tornato a Catania comincia ad ideare il “bozzetto marinaresco” che si amplierà via via fino a divenire il romanzo I Malavoglia. Nel 1878 esce sul settimanale politico-letterario, il racconto Rosso Malpelo. Intanto Verga comincia la stesura di un nuovo romanzo, Mastro-don Gesualdo, che nel 1888 esce a puntate sulla rivista letteraria “Nuova Antologia”, poi profondamente revisionato e pubblicato in volume nel 1889.

Nel 1893 Verga rientra stabilmente a Catania dove muore il 27 gennaio 1922

CONTESTO STORICO E CULTURALE

Quando Verga nacque, nel 1840, l'Italia e l'Europa stavano vivendo un'epoca di profonde trasformazioni politiche e sociali. In Italia il malcontento sociale avrebbero portato, di lì a poco, alle guerre d'indipendenza nazionale. Il giovane Verga non solo crebbe in quel clima ma fu anche discepolo di Antonio Abate, maestro, più che di grammatica, di un fervente patriottismo.

I sentimenti patriottici con cui Verga era cresciuto emersero nel suo primo romanzo storico, Amore e Patria. Il lungo racconto storico s'impernia sui temi romantici in voga a quel tempo: l'amore, la morte, la patria. I miti risorgimentali dell'Unità d'Italia ispirarono i due successivi romanzi giovanili: I carbonari della montagna e Sulle lagune.

Dal punto di vista politico, i governi europei accentuarono la tendenza a soluzioni autoritarie utilizzate soprattutto per reprimere le spinte nazionalistiche dei diversi popoli appartenenti alla stessa nazione. Dopo la proclamazione del Regno d’Italia (1861), il potere fu gestito dalla Destra storica che attuò una politica di rigido accentramento. Uno dei più importanti avvenimenti di fine ‘800 fu la questione meridionale. Il divario dal nord fu determinato da vari fattori: assenteismo di grandi proprietari, carenza di una borghesia imprenditoriale, distaccata da campagne e città (Napoli, Palermo…).

Alcune crisi agricole aggravarono ulteriormente la situazione e il divario con l’industrializzato nord-Italia. Come risposta a tale situazione si verificarono nuove rivolte contadine e tendenze separatiste che accusavano di "rapina" la classe dirigente del nord. Il brigantaggio fu un ulteriore conseguenza e prese pian piano l’aspetto di una guerra civile tra esercito e contadini ribelli.

Verso la fine dell’800 venne pareggiato il bilancio statale e si verificò l’avvento al governo della Sinistra con Depretis, succeduto dieci anni dopo da Crispi. In questo periodo si modificò, inoltre, l’assetto della società industriale europea. In economia si passò dal liberismo al protezionismo, in cui lo Stato interveniva direttamente per regolare gli squilibri economici.

Dal punto di vista sociale il fenomeno più rilevante era costituito dall’emergere delle masse nella vita civile. L’ascesa delle classi medie lavoratrici e della piccola borghesia rivelarono la ristrettezza di un sistema in cui la partecipazione era limitata a pochi cittadini, benestanti e maschi. Nacquero pian piano organizzazioni partitiche in grado di mobilitare, attorno a programmi le masse; nacquero cooperative e sindacati, le prime molto presenti nelle campagne.

Fra i principali motivi che contribuirono all’affermazione del verismo vi fu prima di tutto la crescente attenzione verso lo sviluppo del sapere scientifico, che sembra fornire gli strumenti più adeguati all’osservazione e alla spiegazione dei fenomeni naturali e dei comportamenti umani. Il secondo elemento determinante fu l’emergere della questione sociale in genere e in particolare, il diffondersi dell’interesse per le condizioni di vita del Meridione, un argomento che costituiva la materia privilegiata per quell’analisi oggettiva della realtà che i nuovi orientamenti della cultura consideravano un’esigenza primaria. Un ulteriore motivo di diffusione fu la volontà di favorire la crescita del livello culturale dei ceti popolari.

La dottrina del Verismo fu elaborata nel centro culturale più vivace di quel periodo, l’ambiente milanese. Colui che ne enunciò per primo i canoni teorici fu L. Capuana e il suo romanzo "Giacinta", può essere considerato un vero e proprio manifesto programmatico della nuova poetica. Sulle sue teorie esercitarono il loro influsso i modelli del realismo inglese, ma soprattutto i romanzi del naturalista francese Emile Zola. Le idee del Capuana sul romanzo, ebbero una palese influenza in particolare su G. Verga, che fu spinto verso il definitivo abbandono della maniera tardo romantica.

Il Verismo che si diffonde in Italia, deriva direttamente dal Naturalismo, ma è fedele alla indicazioni provenienti dalla Francia più nella teoria che nell’applicazione concreta. Verismo e Naturalismo condividono una narrativa realistica, impersonale e scientifica, che non lascia trapelare nessun intervento né giudizio da parte del narratore, mentre differiscono per quanto riguarda i contesti dove sono ambientate le vicende. Il naturalismo si focalizzava di norma su ambienti metropolitani e classi (dal proletariato all’alta borghesia) legate alle grandi città e al loro sviluppo; il Verismo invece, privilegiava le descrizioni di ambienti regionali e municipali e di gente della campagna. La piccola provincia e la campagna, con la miseria e l’arretratezza, gli stenti e le ingiustizie sociali divennero i luoghi e i temi prediletti de esso e contribuirono in modo decisivo a svelare aspetti profondi o addirittura sconosciuti della realtà sociale.

LA QUESTIONE MERIDIONALE

Uno dei libri che rispecchia di più la situazione nata dopo l’unificazione d’Italia è “I Malavoglia”.

Il componimento, già dal primo capitolo, riflette la “ Questione meridionale”, cioè l’attenzione posta ai problemi delle regioni del mezzogiorno negli anni successivi al 1861.

I contadini del sud avevano sperato che la rivoluzione garibaldina avesse portato ad una riforma agraria che li rendesse proprietari della terra che lavoravano; invece si trovarono a dover affrontare altri e nuovi problemi, come la leva obbligatoria, che toglieva una gran parte della manodopera, e alcune crisi agricole ( 1886-87 , quella più pesante) che aggravavano la situazione.

La situazione meridionale tuttavia non fu solo un problema di tipo economico ma divenne anche un dibattito politico negli stessi anni in cui viene pubblicato il romanzo di Verga ( 1881). Questo problema nato nel meridione non fu trattato solo da Giovanni Verga, ma anche da altri poeti come Villari, Facchetti e Sonnino che esposero la situazione difficile dell’isola.

Queste problematiche si riflettono ne “I Malavoglia”; l’usura, le rendite parassitarie degli sfruttatori, la cattiva amministrazione , le imposte dei comuni, le opere pie, il mal o anche nullo intervento dello stato, il contrabbando, la coscrizione di massa sono aspetti che emergono nel Romanzo.

Già nel primo capitolo si parla della leva obbligatoria, istituita dai Savoia, accusati di piemontizzazione, che provocò effetti disastrosi per l’agricoltura. Nel secondo capitolo fa una distinzione tra i pescatori poveri del sud e le aziende della pesca del nord.

Nel terzo capitolo si parla della tassa sul sale e sulla successione.

Nel quarto si parla della tassazione inflitta dallo stato.

Nel sesto capitolo si parla del dazio sul pesce e della conseguente rivolta.

Il punto di vista di Verga è che l’onesto lavoro di padron ‘Ntoni e della sua famiglia è compromesso dal fatto che tale attività si fonda su un’unica fonte di approvvigionamento : la pesca.

Al confronto, zio Crocifisso può ben lavarsene le mani, tanto che nel capitolo due afferma che “ Giacche ci ho le mie chiuse e le mie vigne che mi danno il pane”. Egli è l’usurario che “ si pappava il meglio della pesca senza pericolo”, il simbolo delle forze sociali che oggi diremmo improduttive: come don Silvestro, segretario comunale e truffatore, Padron Cipolla, latifondista che implica ai suoi operai di pescare tutto il giorno, e Piedipapera, mediatore in combutta con i contrabbandieri.

Verga guarda con sospetto l’industrializzazione in atto a spese del Mezzogiorno italiano. Sin dalla Prefazione del romanzo è assente qualunque traccia di ideologia evoluzionistica in senso positivo: Il progresso per Verga è una “Fiumana” e può sembrare “ stupendo” solo per chi lo vede da lontano, ma se si osserva con molta attenzione si scoprono egoismi, lotte feroci, le conseguenti sconfitte dei deboli da parte dei grandi imprenditori.

L’IDEOLOGIA

Verga ritiene dunque che l’autore debba eclissarsi dall’opera perche non ha il diritto di giudicare la materia che rappresenta. Egli non ha il diritto di farlo perche secondo lui la società umana è dominata dal meccanismo della lotta per la vita, un cui il più forte schiaccia necessariamente il più debole. La generosità disinteressata, l’altruismo, la pietà sono solo valori ideali che non trovano posto nella realtà affettiva. Gli uomini sono mossi dall’interesse economico, dalla ricerca dell'’utili, dall’egoismo,dalla volontà di sopraffare gli altri. È questa una legge di natura universale e immodificabile.

Se è impossibile modificare l’esistente, ogni intervento giudicante, allora appare inutile e privo di senso, e allo scrittore non resta che riprodurre la realtà cosi com’è , lasciare che parli da sé,senza farla passare attraverso alcuna lente correttiva. La tecnica usata da verga non è dunque frutto di una scelta casuale, ma scaturisce coerentemente dalla sua visione del mondo pessimistica , ed è per lui il modo più adatto per esprimerla.

LA VISIONE DELLA VITA NELLA NARRATIVA DI VERGA

Nelle opere di Verga è possibile cogliere una precisa concezione dell'uomo e della storia, influenzate dalle maggiori correnti di pensiero dell' epoca:

  • Dal positivismo attraverso la quale la realtà può essere descritta solo con un approccio scientifico

  • Dal materialismo che assimila il comportamento umano a quello delle altre specie animali e ne individua l’origine nei suoi bisogni materiali primari

  • Dal determinismo basato sulla convinzione che l’uomo subisce l’influenza dell' ambiente, delle leggi economiche e del condizionamento ereditario

  • Dall’ evoluzionismo di Darwin

Il pessimismo verghiano si manifesta nell' accettazione fatalista di questa realtà immutabile al quali nessuno può sottrarsi.

Verga nega l’esistenza della provvidenza ed esclude ogni consolazione religiosa e ogni speranza di una vita migliore dell' aldilà. Gli unici valori in cui Verga dimostra di credere sono quelli di famiglia e degli affetti domestici.

Secondo la visione di Verga, la rappresentazione artistica deve possedere l’ “efficacia dell' essere stato”, deve conferire al racconto l’impronta di cosa realmente avvenuta; per far questo deve riportare “documenti umani”; ma non basta che ciò che viene raccontato sia reale e documentato: deve anche essere raccontato in modo da porre il lettore “faccia a faccia con fatto nudo e schietto”, in modo che non abbia l’impressione di vederlo attraverso “la lente dello scrittore”. Per questo lo scrittore deve eclissarsi, cioè non deve comparire nel narrato con le sue reazioni soggettive le sue riflessioni, le sue spiegazioni, come nella narrativa tradizionale. L’autore deve “mettersi nella pelle” dei suoi personaggi, “vedere le cose con i loro occhi ed esprimerle con le loro parole”. In tal modo la sua mano rimarrà assolutamente invisibile nell’opera, tanto che l’opera dovrà sembrare essersi fatta da sé.

Il lettore avrà l’impressione di non sentire un racconto di fatti, ma di assistere a fatti che si svolgono sotto i suoi occhi. A tal fine il lettore deve essere introdotto nel mezzo degli avvenimenti, senza che nessuno gli spieghi gli antefatti e gli tracci un profilo dei personaggi, del loro carattere e della loro storia, come se li avesse già conosciuti e vissuto con loro in quell’ambiente. Verga ammette che questo può creare una certa confusione alle prime pagine: pero man mano che gli attori si fanno conoscere con le loro azioni e le loro parole, attraversi di essere il loro carattere si rivela al lettore: solo cosi, evitando l’intromissione dell'’autore che spiega e informa, si può creare “l’illusione completa della realtà” ed eliminare ogni artificiosità letteraria.

LA TECNICA NARRATIVA

Verga applica coerentemente i principi della sua poetica nelle opere veriste composte dal 1878 in poi, e ciò da origine ad una tecnica narrativa profondamente originale e innovatrice, che si distacca sia dalla tradizione sia dalle contemporanee esperienze italiane e straniere.

A raccontare i fatti non è il narratore onnisciente , ma la voce narrante si mimetizza nei personaggi,adotta il loro modo di pensare, di esprimersi e i loro principi morali.

Il linguaggio delle opere veriste del Verga si presenta, pertanto, povero, ricco di modi di dire, paragoni, proverbi, imprecazioni popolari, dalla sintassi scorretta ed elementare, dalla struttura dialettale (Verga non usa direttamente il dialetto,ma un lessico italiano, tanto che quando deve citare un termine dialettale lo mette in corsivo).

PERIODO PRE-VERISTA

Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840. Compì i primi studi presso maestri privati, in particolare il letterato patriota Antonino Abate, da cui assorbì il fervente patriottismo e il gusto letterario romantico che furono i dati fondamentali della sua formazione, come testimonia il primo romanzo “Amore e patria” rimasto inedito.

Si dedicò al lavoro letterario e al giornalismo politico e nel 1861-62 pubblicò un secondo romanzo “I carbonari della montagna”. La sua fisionomia di scrittore si discosta dalla tradizione di scrittori letteratissimi e di profonda cultura umanistica: i testi su cui si forma il suo gusto in questi anni sono gli scrittori francesi moderni di vasta popolarità. Sono le loro letture d’intrigo o sentimentali e i romanzi storici italiani che lasciano un’impronta sensibile sui primi romanzi di Verga.

Nel 1865 si reca a Firenze consapevole del fatto che per diventare scrittore autentico doveva liberarsi dai limiti della sua cultura provinciale e venire a contatto con la vera società letteraria italiana. Nel 1866 pubblica il romanzo “Una peccatrice” e mentre si trova a Firenze termina anche “Storia di una capinera” (1871), romanzo sentimentale e lacrimevole, storia di un amore impossibile e di una monacazione forzata.

Nel 1872 si trasferisce a Milano dove entra in contatto con gli ambienti della Scapigliatura e finisce il romanzo “Eva” in cui protesta per la condizione dell’intellettuale, emarginato e declassato nella società borghese dominata dal principio del profitto.

A questo romanzo polemico seguono romanzi d’analisi di passioni mondane: “Eros” e “Tigre reale” riconosciuti dalla critica come esempi di “realismo”, di analisi di piaghe psicologiche reali.

PERIODO VERISTA E CICLO DEI VINTI

Nel 1878 esce un racconto che si discosta fortemente dalla materia e dal linguaggio della sua narrativa anteriore, dagli ambienti mondani, dalle passioni raffinate artificiose, dal soggettivismo esasperato: si tratta di “Rosso Malpelo”, storia di un garzone di miniera che vive in un ambiente duro e disumano, narrata con un linguaggio nudo e scabro, che riproduce il modo di raccontare di una narrazione popolare. È la prima opera della nuova maniera verista, ispirata ad una rigorosa impersonalità.

In realtà non esiste una frattura netta tra i due momenti del narrare verghiano: Verga si proponeva fermamente di dipingere il “vero” già ai tempi di “Eva” e di “Eros”.

Con la conquista del metodo verista Verga non abbandona gli ambienti dell’alta società per quelli popolari, ma si propone di tornare a studiarli con quegli strumenti più incisivi di cui si è impadronito: le “basse sfere” non sono che il punto di partenza del suo studio dei meccanismi della società perché in esse tali meccanismi sono meno complicati. Poi lo scrittore intende applicare via via il suo metodo anche agli strati superiori sino all’aristocrazia, alla politica e all’alta intellettualità.

La nuova impostazione narrativa è continuata da Verga in una serie di altri racconti pubblicati tra il 1879-1880 nel volume “Vita dei campi”: “Cavalleria rusticana”, “La lupa”, “Jeli il pastore”, “Fantasticheria”, “L’amante di Gramigna”, “Guerra di santi” e “Pentolaccia”. Anche in questi racconti spiccano figure caratteristiche della vita contadina siciliana, ma accanto alla scabra rappresentazione verista e pessimistica del mondo rurale, in queste novelle si può trovare ancora traccia di un atteggiamento romantico, di una nostalgia di un ambiente arcaico, autentico e innocente.

Parallelamente alle novelle, Verga, concepisce anche il disegno di un ciclo di romanzi in cui si propone la volontà di tracciare un quadro sociale passando in rassegna tutte le classi. Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza che lo scrittore ricava dalle teorie di Darwin: tutta la società, ad ogni livello, è dominata da conflitti d’interesse, ed il più forte trionfa, schiacciando i più deboli. Verga però non intende soffermarsi sui vincitori e sceglie come oggetto della sua narrazione i “vinti”.

Nel primo romanzo, “I Malavoglia”, si parla della lotta per i bisogni materiali; nei romanzi successivi sarà analizzata la “ricerca del meglio” nel suo progressivo elevarsi attraverso le classi sociali.

Tra il primo e il secondo romanzo del ciclo passano otto anni nei quali escono le “Novelle rusticane” (1883) e il dramma “Cavalleria rusticana” (1884) tratto da una novella di “Vita dei campi”.

Nel 1889 esce infine il secondo romanzo del ciclo dei “vinti”, “Mastro don Gesualdo”, in cui Verga resta fedele al principio dell’impersonalità, però il livello sociale, in obbedienza al piano del ciclo, si è elevato: non si tratta più di un ambiente popolare, ma di un ambiente borghese e aristocratico.

ULTIMO VERGA

Dopo il “Gesualdo” Verga lavora a lungo al terzo romanzo del ciclo, “La Duchessa de Leyra”, ma il lavoro non sarà mai portato a compimento.

Gli ultimi due romanzi del progetto iniziale, “L’onorevole Scipioni” e “L’uomo di lusso”, non saranno neppure affrontati.

Dal 1893 Verga torna a Catania e ciò testimonia una sostanziale rinuncia alla letteratura poiché aveva sempre sentito come fosse impossibile per lui scrivere nell’ambiente della provincia. Pubblica ancora raccolte di novelle, “I ricordi del capitano d’Arce” (1891) e “Don Candeloro & C.”: si tratta però di opere stanche che testimoniano un’involuzione.

Dopo il 1903 lo scrittore si chiude in un silenzio pressoché totale.

I MALAVOGLIA

GENESI:

Il romanzo I Malavoglia fu pubblicato nel 1881 (il primo abbozzo, intitolato Padron ‘Ntoni, è del 1874 e fu più volte ripreso e corretto), dopo un lungo lavoro di revisione condotto in parallelo con la stesura delle novelle della raccolta Vita dei campi, nelle quali Verga andava sperimentando le tecniche narrative del romanzo. Nella novella Fantasticheria (1879) Verga anticipa i personaggi dell’opera (il vecchio padron ‘Ntoni, suo figlio Bastianazzo e la moglie Maruzza, detta “la Longa”, e i loro cinque figli ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia), luoghi e temi che sviluppa in questo romanzo.

TRAMA:

Il romanzo narra le vicende di una famiglia di pescatori, i Malavoglia, composta da padron ‘Ntoni (il nonno), da Bastianazzo (il figlio), da Maruzza, detta La Longa (moglie di Bastianazzo) e dai cinque nipoti ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia.

La famiglia si avventura in un’impresa commerciale: il trasporto per mare di un carico di lupini infatti Padron ‘Ntoni compra a credito, indebitandosi con zio Crocifisso (l’usuraio del paese), un carico di lupini da rivendere in città, ma l’imbarcazione che trasporta il carico, chiamata eufemisticamente “Provvidenza”, fa naufragio, provocando la perdita dei lupini e la morte di Bastianazzo. Per i Malavoglia è l’inizio di una serie di sventure: Mena rompe il fidanzamento con Brasi Cipolla, figlio di un ricco proprietario terriero (la ragazza in realtà ama Alfio Mosca. Un povero carrettiere che abita dirimpetto ai Malavoglia); Luca muore nella battaglia di Lissa (1866); padron ‘Ntoni per pagare il debito, vende la casa del “nespolo” (così chiamata per un albero di nespolo, che si trova nel cortile inoltre esso è il simbolo dell’unità e dello stato sociale della famiglia). Anche Maruzza muore, di colera, mentre il giovane ‘Ntoni, dopo il servizio militare a Napoli, se ne va a cercar fortuna a Trieste. Ritorna in paese più povero di prima e si dà al contrabbando. Una notte, colto sul fatto, accoltella il brigadiere, don Michele, che è anche il corteggiatore della giovane Lia. Durante il processo, l’avvocato di ‘Ntoni, per attenuare la portata della colpa dell’imputato, cerca di giustificare il ferimento di don Michele come gesto scaturito da motivo di onore: il giovane avrebbe difeso la sorella insidiata dal brigadiere. La vicenda giudiziaria ha esiti disastrosi: ‘Ntoni viene condannato a cinque anni, Lia esce disonorata agli occhi di tutti, quindi lascia il paese e finisce per fare la prostituta a Catania. Mena, a causa della vergogna che ricade sulla famiglia, rinuncia a sposare Alfio. Padron ‘Ntoni si spegne in ospedale, ucciso dalla fatica e dal dolore. Sarà Alessi, l’ultimo dei fratelli, a ricostituire lo “spirito della famiglia”, riscattando la casa del nespolo e sposando Nunziata, una compagna d’infanzia. Quando ‘Ntoni, uscito dal carcere, ritornerà nella casa paterna, si renderà conto di non potervi più restare, perché ha violato le norme etiche della famiglia, e se ne andrà per sempre. I malavoglia più che celebrare i valori tradizionali, raccontano il loro progressivo e inarrestabile tramonto.

STRUTTURA NARRATIVA:

Capitoli

Sviluppo dell’azione

Tempo della storia e tempo del racconto

Prima parte (capp. I-IV)

L’azione comincia nel 1865 con l’affare dei lupini, il naufragio della barca con il carico (la Provvidenza parte un sabato sera di settembre), la cerimonia funebre per la morte di Bastianazzo.

Una premessa riassume gli avvenimenti tra il dicembre 1863 (‘Ntoni parte per la leva militare) e il settembre 1865. Il tempo della storia è breve (quattro giorni), mentre il tempo del racconto e dilatato: l’ambiente, i personaggi e le vicende sono rappresentati con un ritmo narrativo lento e graduale.

Seconda parte (capp. V-X)

Gli avvenimenti sono incentrati intorno a padron ‘Ntoni e ai suoi tentativi di far fronte alle disavventure che colpiscono la sua famiglia, compreso il secondo naufragio della Provvidenza, in cui rischia lui stesso la vita.

Il tempo della storia si dilata (circa due anni dall’autunno del 1865 all’estate del 1867) e il tempo del racconto si condensa. Mancano precise indicazioni cronologiche, sostituite da allusioni a eventi pubblici, come per esempio la battaglia di Lissa del 1866 in cui muore Luca.

Terza parte (capp. XI-XV)

In primo piano non è più l’ambiente della comunità paesana ma la storia dei personaggi e soprattutto del giovane ‘Ntoni.

Il tempo della storia copre un arco di circa dieci anni dall’epidemia di colera del 1867, in cui muore Maruzza, ai primi del 187, quando torna il giovane ‘Ntoni. Il tempo del racconto si condensa e il ritmo narrativo è serrato, soprattutto negli ultimi due capitoli che riassumono eventi di un certo numero di anni.


SISTEMA DEI PERSONAGGI:

Il narratore non presenta né descrive i suoi personaggi, ma li nomina, rendendoli riconoscibili. I malavoglia nella scala sociale occupano un gradino intermedio, in quanto piccoli proprietari, sono padroni della casa in cui vivono e della barca da pesca, la Provvidenza, che assicura loro un’esistenza decorosa. In realtà la famiglia si chiama Toscano e come ogni personaggio viene chiamata con nomignoli attribuitogli dal popolo che indicano una caratteristica opposta a quella reale del personaggio. I Malavoglia sono chiamati così paradossalmente per la loro volontà e la loro voglia di lavorare per poter sanare i loro debiti. La famiglia viene paragonata ad un pugno chiuso dove le dita della mano rappresentavano i componenti che si aiutano l’un l’altro:

  • Padron ‘Ntoni, il patriarca, è il punto di riferimento costante per coloro che gli ruotano intorno, parenti e conoscenti, parla quasi solo per proverbi in quanto sono le uniche forme di saggezza consentitegli dalla sua mancanza di istruzione.

  • Bastianazzo, il figlio definito “grande e grosso”, è un uomo di buon cuore e lavoratore. Muore ancora giovane in mare durante una tempesta.

  • Maruzza la Longa, moglie di Bastianazzo, una donna piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e a crescere i figli. La sua serenità svanisce con la morte prematura del marito, e poi del figlio Luca. Il dolore per le numerose perdite la invecchia precocemente. La sua vita viene spezzata da una grave malattia: il colera.

  • Ntoni il figlio maggiore di Bastianazzo e Maruzza, è un ragazzo giudizioso, anche se a volte troppo impulsivo. Col passare degli anni, la sua voglia di lavorare diminuisce, si ribella alla sua condizione di miseria e povertà, in un modo insolito: smette di lavorare e va a cercare guai all’osteria. Questa vita lo porterà a scontare cinque anni di galera. Dopo essere stato rilasciato, lascia il paese d’origine.

  • Luca l’altro figlio, il più giudizioso, un vero “Malavoglia”, muore prematuramente nella battaglia di Lissa.

  • Alessi fratello minore di 'Ntoni e Luca, all'inizio della vicenda è definito come un moccioso poi si presenta subito disposto ad apprendere il sapere antichissimo di Padron 'Ntoni, dimostrando interesse per i suoi proverbi, detti e per l'esperienza marinara dell'anziano. Alla fine toccherà ad Alessi il ruolo di "ponte" tra il passato idillico di Padron 'Ntoni e la modernità dei tempi post-Unitari infatti sarà quello che riuscirà a riacquistare la casa del nespolo, sposare la fanciulla che sin da ragazzino gli era piaciuta, la vicina Nunziata, e risollevare il buon nome dei Malavoglia.

  • Mena è la maggiore delle ragazze Malavoglia, è chiamata Sant'Agata perché sta sempre al telaio. Innamorata da sempre del vicino carrettiere Alfio Mosca, ma promessa al ricco Brasi Cipolla, a causa della povertà della famiglia resterà zitella. Dopo la morte della madre, sarà lei a doversi occupare della casa e soprattutto dell'educazione della sorella minore, Lia. Alla fine, pur avendo la possibilità di sposare Alfio, non lo fa perché teme che si torni a parlare della sorella Lia che era fuggita

  • Lia (Rosalia) la figlia più piccola, finisce sulle bocche di tutti dopo il processo del fratello, e per questo lascia Aci Trezza e diventa una prostituta. Nessuno avrà più sue notizie. Solo Alfio Mosca sa la verità.

SPAZIO:

Lo spazio in cui si svolgono le vicende del romanzo è quello interno di Aci Trezza con i suoi angoli pittoreschi. Una particolare connotazione affettiva ha la casa dei Malavoglia, la “casa del nespolo”, che rappresenta una sorta di “nido”, in cui consolidare i legami familiari, un rifugio, perduto il quali anche la famiglia si disgrega. In opposizione a questo spazio privato che si fa intimo e anche emotivo, c’è lo spazio “esterno”, vissuto soprattutto da ‘Ntoni e da Lia, nelle loro “fughe” verso le insidie della città. Tra questi due poli c’è il mare, percepito come spazio sia “interno” sia “esterno”, come luogo amico o nemico: assume una valenza positiva la “vicinanza” alla costa, mentre diventa un pericolo e un’insidia la lontananza, il mare aperto.

TEMPO:

La saga della famiglia Malavoglia attraversa tre generazioni (il nonno Padron ‘Ntoni, il figlio Bastianazzo e il nipote ‘Ntoni), e il racconto si sviluppa in quindici anni. Sul tempo della storia ufficiale prevale quello ciclico, basato, cioè, sull’alternarsi ciclico delle stagioni e delle costellazioni, della pesca, del lavoro dei campi e scandito dalle ricorrenze religiose che si ripetono ogni anno e regolano i ritmi della vita della gente di Aci Trezza. Il dramma matura quando gli echi della storia si riverberano in questo universo chiuso e apparentemente immutabile, causandone lo snaturamento e determinando conseguenze e lacerazioni traumatiche. Sullo sfondo c’è anche il tempo degli eventi storici, avvenimenti che condizionano e stravolgono l’esistenza dei protagonisti, come, per esempio, la battaglia navale di Lissa, del 1866 (terza guerra d’indipendenza) in cui troverà la morte il secondogenito Luca.

CARATTERISTICHE:

I Malavoglia possono essere definiti come:

  • Il romanzo della fedeltà alle proprie radici, perché Verga, attraverso le vicende dei protagonisti, dimostra che chi cerca di cambiare abitudini e ambiente, come ‘Ntoni, è destinato a perdersi e a scatenare la catastrofe, mentre chi rimane fedele alle tradizioni riesce a risollevare la famiglia, anche dalla più cupa desolazione;

  • Il romanzo della sconfitta eroica o “anti-idillico”, perché i protagonisti vengono vinti dal destino, ma solo dopo una dura lotta, condotta con un’abnegazione che fa grandeggiare i vinti.

TECNICHE NARRATIVE:

Il romanzo deve essere, secondo Verga, uno “studio sincero e appassionato” di una comunità di pescatori. Da qui l’adozione delle seguenti tecniche narrative:

  • La tecnica dell’IMPERSONALITÀ, che consiste nell’eclissi dell’autore, cioè l’esclusione di ogni intervento personale dell’autore nella narrazione;

  • I fatti sono presentati come indipendenti dalla volontà dell’autore;

  • La REGRESSIONE al livello culturale del narratore popolare e dei personaggi: la storia è raccontata da una voce collettiva, dal coro del paese;

  • Lo STRANIMENTO, cioè la presenza di un narratore capace di far apparire “strano” ciò che è normale e normale ciò che è strano;

  • Dialettismo espressivo: il modello dialettale fornisce la struttura e le modalità del discorso orale;

  • L’uso di un linguaggio che si abbassa al livello dei personaggi e del mondo rappresentato;

  • Il DISCORSO DIRETTO e il DISCORSO INDIRETTO LIBERO, che consentono di rappresentare la mentalità di ogni singolo personaggio e dell’intera comunità di Aci Trezza.


MASTRO DON GESUALDO

LA GENESI

L’elaborazione del romanzo fu lunga e complessa: la prima stesura si concluse nel 1884 e una prima redazione apparve a puntate sulla “ Nuova Antologia “ nel 1888, mentre quella definitiva, notevolmente modificata nella lingua e nella struttura, fu pubblicata in volume a Milano nel novembre 1889.

IL SIGNIFICATO DEL TITOLO

Gesualdo Motta è un “mastro” ossia un manovale, che con enormi sacrifici diventa un proprietario terriero e conquista il titolo di “don” riservato ai notabili. L'unione dei due prefissi Mastro – Don allude al fatto che il protagonista non è riuscito a far dimenticare le sue origini plebee e indipendente mentre dal successo economico, resta un “vinto”, destinato all'infelicità.



TRAMA E STRUTTURA

Il romanzo fu stampato a puntate sulla rivista “nuova antologia”. L'arco temporale è di circa 30 anni tra lo scoppio delle prime insurrezioni antiborboniche e la rivoluzione del 1848.

L'opera illustra i meccanismi socioeconomici su cui nasce e comincia a svilupparsi la società moderna. La struttura non è compatta e corale come quella dei Malavoglia, ma suddivisa in quadri distinti, che seguono le fasi decisive della vita del protagonista.

Fabula e intreccio non coincidono: quando inizia la narrazione, Gesualdo ha raggiunto un'individuale posizione economica come imprenditore; con i flashback recupera gli antefatti delle sue umili origini e il suo attaccamento alla “roba”.


1° PARTE

“ASCESA SOCIALE”

Scoppia un incendio alla casa dei Trao, famiglia nobile; Don Diego scopre che in camera della sorella Bianca c'è il barone Nini Rubiera.

Don Diego non acconsente il matrimonio con il barone, a sposare la donna aspira Gesualdo per collegarsi alla pari con i notabili del paese. Bianca acconsente alla proposta di Gesualdo, anche se era incinta del barone; le nozze però si celebrano tra l'incomprensione dei famigliari di Gesualdo

2° PARTE

“TRIONFO OPPORTUNISMO”

Riceve il titolo di don; diventa il più ricco del paese comprando all'asta tutti i terreni. Durante un moto popolare, viene nascosto in casa di Nanni l'Orbo in cambio di un terreno. Intanto il nobile Nini Rubiera si innamora di un'attrice e accumula molti debiti; Gesualdo gli presta i soldi così ha un'enorme credito nei suoi confronti

3° PARTE

“IL DECLINO”

Sua moglie dà alla luce Isabella, la quale si innamora di suo cugino e quando rimane incinta, Gesualdo decide di darla sposa ad un uomo ricco: qui si fa avanti un anziano gentiluomo duca de Leyra

4° PARTE

“LA SCONFITTA ESISTENZIALE E LA MORTE”

Ambientata nel 1848. Il matrimonio di Isabella porta in rovina Gesualdo, infatti il genero spende tutti i denari; poi la moglie muore di tisi. La rivoluzione mette in pericolo le proprietà di Gesualdo e Nanni l'Orbo muore forse a causa di Gesualdo. Infine si ammala di cancro e viene trasportato a Palermo dal genero che vuole controllare l'eredità. Muore nel 1849 nell'indifferenza generale




SISTEMA DEI PERSONAGGI

PERSONAGGI PRINCIPALI

MASTRO DON GESUALDO: protagonista

Uomo forte e robusto, dall'aspetto forse calmo e pacifico ma che nasconde in realtà il prototipo di self-made-man testardo e sicuro. Si è costruito la fortuna con le sue mani, ha guadagnato (a volte in modo disonesto) ed ora si trova attaccato alla "roba" e ai suoi campi fino al punto di diventare cattivo nei confronti di chi ostacola la sua ascesa. Non si preoccupa troppo della moglie e della figlia perché è troppo preso dai suoi affari; riesce a far studiare la figlia nelle scuole perché la gente parli bene di Isabella, educata e ricca. Il suo attaccamento alla roba sarà la sua rovina fisica e psicologica, la paura dello sperpero lo spaventa fino al punto di morire accorgendosi, forse, che in realtà non era mai stato felice veramente.


LA FAMIGLIA TRAO:

Don Diego e Don Ferdinando sono i tipici nobili del paese attaccati a certi valori e a certe tradizioni ormai passate che vedono nella nobiltà e nelle proprie ricchezze le ragioni principali di vita, per questo si sentono persi quando brucia il loro palazzo con i loro averi. Evidenziando questo loro modo di pensare anche quando non si dimostrano d'accordo con Bianca quando decide di sposarsi e di andarsene da casa. Bianca invece è la classica vittima delle situazioni negative. Debole, infelice e ammalata per tutta la vita sposa un uomo che ama solo la sua posizione nobile, che non è nemmeno il padre di sua figlia. E' dolce, sensibile, tranquilla, buona, calma, sincera; la classica ragazza brava e religiosa che tutti odiano e amano allo stesso tempo e così rimarrà fino alla morte.

DON NINI' E LA BARONESSA RUBIERA:

Sono i classici parenti ricchi di Trao, che si prestano a concedere favori soltanto in situazioni veramente tragiche. La baronessa è una donna arrivista, ricca, ambiziosa e molto attaccata alla roba, quasi come Gesualdo. Rimane senza parola e paralizzata solo quando viene a sapere della relazione del figlio con l'attrice perchè si sente ferita nella sua nobiltà di famiglia.

Don Ninì è il tipico scavezzacollo di paese a cui piace divertirsi senza pensare troppo ai problemi della vita anche se sembra cambiare quando si innamora di Bianca. Dopo l'amore improvviso per l'attrice (alla quale dà anche un figlio) si trova di fronte a molte difficoltà (la madre è paralizzata per causa sua) e quindi si trova di fronte a un matrimonio quasi obbligato che lo costringe a mettere la testa a posto, anche se forse in fondo in fondo rimane sempre lo stesso.

FAMIGLIA MARGARONE:

E' formata da mamma, papà Margarone, donna Giovannina, Donna Mita, Donna Bellania, Donna Fifi e dal piccolo nicolino. Una famiglia che riveste un gradino importante all'interno dei pettegolezzi di Vizzini, soprattutto per quanto riguarda donna Fifì e mamma Margarone. Sono due donne vanitose, orgogliose, permalose e si considerano superiori alle altre per ricchezza e aspetto fisico di cui amano andare molto fiere. Purtroppo sono cotrette a diventare meno superbe quando Fifì viene lasciata da Don Ninì e di fronte alla bontà e alla generosità della semplice e povera Bianca che si contende con Fifì e il Baronello.

L'ARCIPRETE BUGNO, IL MARCHESE LIMOLI, CANALI, CAV. PEPERITO, NOTAIO NERI:

Sono personaggi importanti all'interno della vita del paese; sempre presenti in ogni situazione e attenti a ogni avvenimento. L'arciprete e il marchese sempre pronti a consigliare Bianca in come comportarsi col marito e il suo denaro. Canali, Peperito, Neri, sono pronti a interessarsi a ogni tipo di affare pur di guadagnare denaro, quasi per emulare Gesualdo che invidiano per la sua ascesa dal nulla.

ISABELLA (FIGLIA DI BIANCA E GESUALDO), LA SUA AMICA MARINA DI LEYRA E IL MARITO DI ISABELLA:

Isabella non ha un buon rapporto con il padre che la considera e la tratta come una perla rara, perchè è erede del patrimonio e quindi è considerata un buon partito. La ragazza è un po' vanitosa ma in fondo buona e forse un po' ingenua a causa del padre. La madre le vuole molto bene anche se non la capisce, solo la zia riesce a tirala un po' su di morale. Cerca nel marito, il fratello della sua amica Marina, un motivo di felicità e di distacco dal padre che però disprezza la figlia perchè il genero sperpera tutto il denaro ereditato in feste ricche e sfarzose.

DON LUCA IL SAGRESTANO:

E' sempre pronto ad aiutare Gesualdo nei suoi affari e a consigliarlo in tutte le situazioni, cercando di essere più vicino alla famiglia per quanto gli è possibile.

NANNI L'ORBO, COMPARE COSIMO, PELAGATTI, DIODATA, BRASI, CAMAURO, GIACOLONE (DIPENDENTE DI GESUALDO):

Sono sempre pronti ad aiutare il padrone in ogni situazione lavorando duramente senza sosta. Diodata che è l'unica che riesce a dare veramente un momento di vera felicità al padrone del quale è innamorata, dal quale non è però corrisposta; semplice e buona sposerà Nanni l'orbo, lavoratore buono e onesto come lei, e riuscirà a renderla felice. Compare Cosimo, Pelagatti, Brasi, Camauro e Giacolone sono le persone più affezionate a Gesualdo, forse perchè sono le uniche che riescono veramente a capirlo.

LA FAMIGLIA DI GESUALDO:

E' formata da Mastro Nunzio (il padre), il fratello Santo, la sorella Speranza, il cognato Burgio e il loro figlio. Il padre, che contesta il modo di condurre gli affari del figlio, che considera uno spendaccione perchè sperpera gli averi di famiglia che in realtà sono solo i guadagni faticosi di Gesualdo. La sorella e il marito, che sono invidiosi della ricchezza accumulata da Gesualdo, con il quale sono solidali poche volte, e Santo nolta che passa le sue giornate all'osteria.

IL SIG. CAPITANO, L'AVVOCATO FISCALE, DON LICCIO PAPA, DON FILIPPO, BARONE ZACCO:

Persone importanti del paese con il quale Gesualdo si contende l'appalto di edifici e l'acquisto di alcune terre fruttuose e importanti. Il barone Zacco e don Liccio Papa che con il loro potere a Vizzini cercano di ostacolare Gesualdo con ogni mezzo, che sono sempre al centro dell'attenzione per quanto riguarda feste, manifestazioni e occasioni importanti. Avari attaccati alla roba cercano sempre di far colpo sulle persone con la loro personalità e modo di agire e comportarsi.

BARONE NENDOLA, IL CANONICO LUPI:

Personaggi influenti che cercano di aiutare Gesualdo nel guadagnare denaro e consigliarlo a proposito del matrimonio che gli potrà essere utile.

PERSONAGGI SECONDARI:

Aglea l'attrice, Grazia, Rosaria, Pirtuso, Alessi, Corrado, la zia Sganci, zia Macrì, Donna Sarina Cirmena, Donna Giuseppina Alosi, Donna Agrippina, Donna Mariannina, la sig.ra Capitana, zia Filomena.

LO SPAZIO E IL TEMPO

Il romanzo ha un’ambientazione diversa da quella dei Malavoglia rispetto allo spazio e al tempo. Le vicende si svolgono non solo a Vizzini (non un umile paesino di pescatori, ma un borgo agricolo di medie dimensioni non troppo distante dalla città di Catania), ma anche a Mangalavite, un podere in cui il protagonista si trasferisce per evitare il contagio del colera e a Palermo, dove Gesualdo muore. Pur mancando rimandi cronologici precisi, è possibile datare le vicende del romanzo lungo un arco di una cinquantina d’anni tra l’inizio e la metà dell’ Ottocento; vi sono infatti alcuni accenni a vicende politiche come la rivolta palermitana e la Costituzione di Francesco Duca di Calabria nel 1812 nell’Italia Meridionale o i moti rivoluzionari del 1820 e del 1848.



LE CARATTERISTICHE DEL ROMANZO

Mastro-don Gesualdo si fonda su due grandi momenti narrativi: nel primo viene descritta l’ascesa economica e sociale di Gesualdo che, dovendo affrontare e superare difficili prove, appare quasi come un eroe; nel secondo viene tratteggiato il suo declino e la sua sconfitta sul piano affettivo ed esistenziale. Questo romanzo può essere definito come:

  • romanzo della “morale eroica” dell’individualismo, perché il protagonista è pronto a dare <<l’anima al diavolo>>, pur di arricchirsi, di procurarsi e accumulare “roba”; arriva perfino a escludersi dalla vita, ad appartarsi, a rinunciare agli affetti per la ricchezza, sforzandosi di convincersi che i sacrifici sono il prezzo da pagare per diventare diversi da <<un povero diavolo senza nulla>>;

  • romanzo dell’”eroe della modernità”, perché Gesualdo rappresenta l’uomo dinamico e intraprendente che si costruisce da sé il suo destino;

  • romanzo della “sconfitta esistenziale”, perché il mito della >>roba>> porta Gesualdo a una totale sconfitta umana: egli muore consapevole di essere odiato da tutti, dai nobili, dai borghesi, dai popolani e anche dai propri familiari. Con la vicenda dell’umile <<mastro>>, che si è arricchito ed è diventato <<don>>, cioè un proprietario terriero invidiato e temuto, ma sconfitto negli affetti, Verga ribadisce il fallimento di ogni tentativo di riscatto sociale.



LE TECNICHE NARRATIVE:

L’autore adotta tecniche narrative diverse rispetto ai Malavoglia:

  • Il canone dell’IMPERSONALITA’, che vale in tutte le opere di Verga, viene talvolta tralasciato in Mastro-don Gesualdo, perciò non sempre si manifesta l’ECLISSI DELL’AUTORE; questo accade quando l’autore, sentendosi in qualche modo vicino al NARRATORE, non rinuncia a commentare e giudicare le vicende del racconto;

  • L’artificio dello STRANIAMENTO e quello della REGRESSIONE scompaiono perché il narratore non deve più adattarsi al livello sociale “basso” dei Malavoglia. Nel Mastro-don Gesualdo, in conformità con l’ambiente borghese-aristocratico che fa da sfondo alla vicenda, il narratore coincide talvolta con l’autore con Verga;

  • Viene meno anche la “coralità”che caratterizza I Malavoglia, dove il DISCORSO DIRETTO o quello INDIRETTO LIBERO danno voce ai personaggi di un’intera comunità; nel Mastro-don Gesualdo il DISCORSO INDIRETTO LIBERO mette in rilievo piuttosto il punto di vista di don Gesualdo o degli altri singoli personaggi, presi nella loro individualità; la medesima finalità è raggiunta grazie all’ampio ricorso ai DIALOGHI incalzanti, attraverso i quali i personaggi si affrontano spesso con aggressività.

La narrazione è prevalentemente “alta” in un linguaggio essenziale dai tratti talora lirici che tradiscono la mano del poeta.


VERGA FRA TEATRO E CINEMA

Prima del cinema, Verga si dedicò alle opere teatrali. Nel 1884 Cavalleria rusticana era stata ridotta per le scene conquistando grande successo.

Ad essa segue, l’anno successivo, “Il canarino del n. 15”, estratto questa volta da Per le vie, che avrà meno successo del dramma dell’amore rusticano. Tuttavia, la battaglia legale vinta nel 1893 contro Pietro Mascagni per i diritti d’autore della Cavalleria rusticana da lui musicata, convince Verga che il teatro può essere un’ottima fonte di sostentamento oltre che un interessante esperimento per addestrarsi alla riproduzione dei dialoghi. Nel 1896, La Lupa fece lo stesso successo de la Cavalleria rusticana. Lo scrittore compone cosi a stretto giro i “bozzetti” de La caccia al lupo e La caccia alla volpe, che vedranno anch’essi le scene nel 1901. Intanto, Verga progetta un’altra opera teatrale, Dal tuo al mio (1903) che, dopo un passaggio non fortunato presso il pubblico, viene pubblicata prima dalla «Nuova Antologia» (1905) e poi sempre da Treves(1906).

Nell'ultima parte della sua vita Giovanni Verga tralasciò la produzione di nuovi romanzi, novelle e opere teatrali per occuparsi sempre più di cinema. Tra il 1909 ed il 1921, adattò in forma di sceneggiatura alcune sue opere e strinse rapporti con molte case cinematografiche. Divenne anche socio delle Silentium Film di Milano. Egli però, non fu’ mai in grado di accettare completamente il cinema a causa dei limiti tecnici e dei suoi tempi. Non esitò quindi ad esprimere un giudizio negativo per gli stessi identici motivi per cui veniva criticato da tanti altri intellettuali e scrittori italiani: ‘’era plateale e adatto alle masse analfabete, per le quali andavano bene tutti quei soggetti comici o melodrammatici, o anche quei film storici ridotti e parodiati’’. Per questo motivo, si hanno poche opere cinematografiche.

Nonostante il disprezzo per l’arte cinematografa , lo stile delle sceneggiature rimane’ quello del classico Verga che aveva stupito. Lia Fava Guzzetta sottolinea come sin dalle prime opere il suo stile narrativo sia caratterizzato da “...un linguaggio imparentato con un dettato che oggi chiameremmo tranquillamente cinematografico, proprio in quanto basato sul succedersi delle inquadrature e realizzato mediante l'uso di significanti che oggi non esiteremmo a definire 'filmici', come la luce, l'ombra, la sapiente gestione delle distanze e della prospettiva, la tecnica dei piani, la sonorità in campo e fuori campo, le dissolvenze, la gestualità, vera costante stilemica del Verga maggiore”.

Oltre a qualche copia superstite dei film girati in quell'ultima stagione della sua vita, di Verga rimangono le seguenti sceneggiature: Caccia al lupo, Caccia alla volpe, Storia di una capinera, Storie e leggende (tratte da Storie del castello di Trezza) e Cavalleria rusticana.

Dopo la morte dello scrittore, vennero riadattate durante tutto il ‘900, alcune suo opere in forma cinematografica.

Ricordiamo ‘’La terra trema’’ di Luchino Visconti(1943) , ‘’Storie di una capinera’’ di Franco Zeffirelli(1993), ‘’La lupa’’ di Gabriele Lavia(1996) e ‘’Rosso malpelo’’ di Pasquale Scimeca(2007).


ROSSO MALPELO




La novella Rosso Malpelo è il primo testo propriamente verista di Verga. Pubblicata per la prima volta nell'agosto 1878, la novella Rosso Malpelo entrò a far parte della raccolta Vita dei campi, che comprende altre sette novelle, tra le più famose di Verga.

La novella, ambientata in Sicilia, narra la drammatica esperienza di un ragazzo emarginato e sfruttato, costretto a lavorare in una cava di sabbia in condizioni disumane. Nel rappresentare la dura realtà sociale della sua terra, tuttavia, Verga rinuncia ad ogni forma di denuncia sociale diretta, lasciando parlare i fatti e affidando la narrazione alla voce dei lavoratori della cava, induriti da una vita di stenti. In questo mondo privo di affetti e dominato dalla legge dell’utile economico, il protagonista matura una superiore consapevolezza delle leggi di sopraffazione che regalano la vita e, con una sorta di lucido orgoglio, va incontro senza esitazioni al proprio destino. La denuncia sociale resta del tutto implicita, ma risulta tanto più efficace in quanto nasce da una rappresentazione apparentemente oggettiva.

TESTO E ANALISI

__ concetti più significativi

__ frasi importanti

__ parole chiave

Da Vita dei campi, 1880

"Malpelo" si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano "Malpelo"; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.

Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era "malpelo" c'era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.

Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per "Malpelo", un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto "Monserrato" e la "Caverna", tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di "Malpelo"», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.

Era e dacché non serviva più, s'era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell'"ingrottato", carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu "Bestia", ed era l'asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. "Malpelo" faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -.

Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo "sciancato", aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l'avvocato.

Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la "morte del sorcio". Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava:

- Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo "appalto", il cottimante!

Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse "ohi!" anch'esso. "Malpelo" andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino.

Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! - oppure: - Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt'a un tratto, punf! "Malpelo", che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.

L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di "Malpelo" che aveva fatto la "morte del sorcio". Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L'ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu "Bestia" doveva già essere bell'e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo "sciancato" disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell'affare di mastro "Bestia"!

Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero.

- To'! - disse infine uno. - È "Malpelo"! Di dove è saltato fuori, adesso?

- Se non fosse stato "Malpelo" non se la sarebbe passata liscia... -

"Malpelo" non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.

Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse "grazia di Dio". Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l'asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di "Malpelo"; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava:

- Così creperai più presto! -

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso. Sapendo che era "malpelo", ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: - Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano "Bestia", perché egli non faceva così! - E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: - È stato lui! per trentacinque tarì! - E un'altra volta, dietro allo "Sciancato": - E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! -

Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome "Ranocchio"; ma lavorando sotterra, così "Ranocchio" com'era, il suo pane se lo buscava. "Malpelo" gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.

Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se "Ranocchio" non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: - To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! -

O se "Ranocchio" si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. "Malpelo" soleva dire a "Ranocchio": - L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -.

Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso -.

Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli "ah! ah!" che aveva suo padre. - La rena è traditora, - diceva a "Ranocchio" sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo "Sciancato", allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano "Bestia", e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -.

Ogni volta che a "Ranocchio" toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, "Malpelo" lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: - Taci, pulcino! - e se "Ranocchio" non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -. Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo -.

Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come "Ranocchio" spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono "malpelo"! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.

Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.

La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla "Plaja", a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e "Malpelo", certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.

Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come "Ranocchio", e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a "Ranocchio" del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. "Ranocchio" aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all'infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la "sciara" nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.

Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il "Bestia" di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra.

Dacché poi fu trovata quella scarpa, "Malpelo" fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l'aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt'ora che mastro "Bestia" avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte.

- Proprio come suo figlio "Malpelo"! - ripeteva lo "sciancato" - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.

Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di "carne battezzata". La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a "Malpelo", il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto.

"Malpelo" se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.

Ei possedeva delle idee strane, "Malpelo"! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella "sciara".

- Così si fa, - brontolava "Malpelo"; - gli arnesi che non servono più, si buttano lontano -.

Egli andava a visitare il carcame del "grigio" in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche "Ranocchio", il quale non avrebbe voluto andarci; e "Malpelo" gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del "grigio". I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il "Rosso" non lasciava che "Ranocchio" li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al "grigio"? Adesso non soffre più -. L'asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose! Anche il "grigio" ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non più!». Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.

La "sciara" si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta "Malpelo" ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato da giovane, e n'era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui s'era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni.

- Egli solo ode le sue stesse grida! - diceva, e a quell'idea, sebbene avesse il cuore più duro della "sciara", trasaliva.

- Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d'andare. Ma io sono "Malpelo", e se non torno più, nessuno mi cercherà -.

Pure, durante le belle notti d'estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla "sciara", e la campagna circostante era nera anch'essa, come la lava, ma "Malpelo", stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente - perché allora la "sciara" sembra più bella e desolata.

- Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava "Malpelo", - dovrebbe essere buio sempre e da per tutto -.

La civetta strideva sulla "sciara", e ramingava di qua e di là; ei pensava:

- Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli -.

"Ranocchio" aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il "Rosso" lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l'asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.

- Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, - gli diceva, - e allora era tutt'altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti -.

"Ranocchio" invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c'era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te l'ha detto? - domandava "Malpelo", e "Ranocchio" rispondeva che glielo aveva detto la mamma.

Allora "Malpelo" si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella -.

E dopo averci pensato un po':

- Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano "Bestia". Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -.

Da lì a poco, "Ranocchio", il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull'asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo "non ne avrebbe fatto osso duro" a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. "Malpelo" allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell'aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava "Ranocchio" sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, "Ranocchio" fu colto da uno sbocco di sangue; allora "Malpelo" spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l'aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure "Malpelo" non si mosse, e soltanto dopo che l'operaio se ne fu andato, aggiunse:

- Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! -

Intanto "Ranocchio" non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora "Malpelo" prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio. Ma "Ranocchio" tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c'era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. "Malpelo" se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l'occhio spento, preciso come quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava:

- È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! -

E il padrone diceva che "Malpelo" era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.

Finalmente un lunedì "Ranocchio" non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. "Malpelo" si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero "Ranocchio" era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.

Cotesto non arrivava a comprenderlo "Malpelo", e domandò a "Ranocchio" perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero "Ranocchio" non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c'erano sul tetto. Allora il "Rosso" si diede ad almanaccare che la madre di "Ranocchio" strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era "malpelo", e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.

Poco dopo, alla cava dissero che "Ranocchio" era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del "grigio", nel burrone dove solevano andare insieme con "Ranocchio". Ora del" grigio" non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di "Ranocchio" sarebbe stato così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di "Malpelo" s'era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa. D'ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il "grigio" o come "Ranocchio", non avrebbe sentito più nulla.

Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che non s'era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni. "Malpelo" seppe in quell'occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.

Da quel momento provò una malsana curiosità per quell'uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi.

- Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò "Malpelo".

- Perché non sono "malpelo" come te! - rispose lo "Sciancato". - Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! -

Invece le ossa le lasciò nella cava, "Malpelo" come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d'opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l'oro del mondo.

"Malpelo", invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.

Così si persero persin le ossa di "Malpelo", e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.


ANALISI

Il testo è prevalentemente descrittivo in quanto è finalizzato alla presentazione del protagonista delineandone il carattere e la personalità, quindi fissandone il profilo. Ciò non toglie che dentro il ritratto di Rosso Malpelo vengano inseriti alcuni episodi narrativi riguardanti un unico tema portante: la morte.


Titolo sequenza

Funzione

Malpelo e l’unico affetto

Descrittivo

La Morte del padre

Narrativo

Il rapporto fra Malpelo e Ranocchio

Descrittivo

Il ritrovamento di Mastro Misciu

Descrittivo

La morte dell’asino grigio e di Ranocchio

Narrativo

La scomparsa di Malpelo

Narrativo


In Rosso Malpelo troviamo un narratore che è esterno alla vicenda ed è un osservatore impassibile e oggettivo. Verga si limita a registrare solamente i fatti senza alcun tipo di commento e di intervento esterno, rendendo la realtà ancora più brutale al lettore.

Il narratore fa riferendo ai discorsi e ai pensieri dei personaggi indirettamente, utilizzando un discorso indiretto libero ma riportandone le medesime parole. La tecnica usata fa si che la scena sia cruda e reale conferendo così immediatezza al racconto.

Nell’opera viene usato uno stile denotativo, riportando fatti e situazioni in modo oggettivo.

Il linguaggio è risultato della fusione della lingua italiana con espressioni derivati dalla parlata regionale siciliana. Il lessico comprende vocaboli italiani o derivati dal dialetto accompagnati da vezzeggiativi e dispregiativi, usati per offendere Malpelo.

C’è una prevalenza di periodi piuttosto lunghi, composti da proposizioni collegate per coordinazione.

I personaggi vengono definiti in base a rapporti di forza e sono divisi in due gruppi nettamente distinti fra di loro: I soprafattori (l’ingegnere, il capocantiere, lo Sciancato) e le vittime (mastro Misciu, Rannocchio, l’asino grigio). Malpelo si rapporta solo con gli altri ‘vinti’, verso i quali ha tuttavia un atteggiamento ambiguo: è legato a Ranocchio da un sincero affetto, ma proprio per questo talvolta lo percuote, per insegnarli le dure regole della vita. Rispetto agli altri lavoratori della cava, Malpelo è chiaramente un escluso, crescendo impara a sue spese la dura legge che domina l’esistenza e vi si adegua con una lucidità intellettuale che lo porta a elaborare una vera e propria filosofia di vita: il mondo si divide in vittime e oppressori ed lui accetta il suo ruolo di vittima cercando di sopravvivere e di difendersi al meglio delle sue forze.


RIASSUNTO

Malpelo e l’unico affetto

Malpelo il cui vero nome era stato dimenticato persino da sua madre, viene chiamato cosi a causa della sua diversità di capelli e di carattere, in quanto secondo una leggenda popolare, questo nome veniva dato alle persone con i capelli rossi e di animo cattivo. Malpelo lavorava con suo padre,Mastro Misciu Bestia, in una cava di rena. Il “Bestia” era l’unico che gli dava affetti; sia in famiglia che al lavoro lo disprezzavano. Sua madre e sua sorella lo consideravano solo una fonte di guadagno mentre i suoi compagni, nonostante condividessero con lui le stesse disumane condizioni di lavoro, comunicavano con lui solo attraverso le botte e il disprezzo. Malpelo, per segno di gratitudine, prendeva le difese del padre ogni volta che egli veniva deriso dagli altri operai, a causa del sue mite e si accontentava persino di svolgere il lavoro degli altri pur di guadagnarsi il pane.


La Morte del padre

Un giorno Mastro Misciu e suo figlio restarono soli nella cava per terminare un lavoro preso a cottimo che consisteva nell’ eliminare un pilastro dalla volta della galleria. La sera tardi, mentre Malpelo stava sistemando gli attrezzi del padre, sentì un tonfo sordo e il pilastro cadde all’improvviso addosso a Mastro Misciu. Quando l’ingegnere della cava e zio Mommu vennero a sapere dell’accaduto, il padre di Malpelo era ormai già morto. Nel momento in cui andarono a cercarlo nessuno fece caso al figlio che scavava nella rena nella speranza di ritrovare il padre in vita. Da allora, Malpelo non si volle più allontanare da quella galleria e diventò crudele quasi volesse vendicare sui deboli tutto il male che gli altri avevano fatto a lui e al suo Babbo.


Il rapporto fra Malpelo e Ranocchio

Poco tempo dopo la morte del padre, nella cava venne a lavorare un ragazzino piccolo e gracile che prima faceva il manovale. A causa della sua camminata gli venne dato l’appellativo di Ranocchio e diventò subito oggetto di tirannia da parte di Malpelo che, dando sfogo alla sua rabbia lo picchia e lo insulta spronandolo a reagire in quanto vuole che Ranocchio impari la dura legge dell’esistenza. In realtà,Malpelo, prova un sentimento di pietà per Ranocchio e la sua amicizia lo porta a provare preoccupazione per la sua sopravvivenza in miniera. Per far si che non gli accada niente di grave nella cava, Malpelo aiuta Ranocchio nei lavori più pensanti e gli offre la sua razione di cibo perché che non muoia di fame, proprio come aveva Mastro Miscu aveva fatto con lui.


Il ritrovamento di Mastro Misciu

Con il passare del tempo venne ritrovata una scarpa di Mastro Misciu Bestia;, questa notizia sconvolse Malpelo tanto che volle andare a lavorare in un altro punto della cava. Una volta rinvenuto il corpo del marito, la madre di Malpelo rimpicciolì i calzoni e la camicia adattandoli al figlio il quale per la prima volta fu vestito quasi a nuovo. L’attaccamento morboso agli oggetti del padre dimostrava la continuità degli affetti che veniva esercitata attraverso il lavoro.


La morte dell’asino grigio e di Ranocchio

Due eventi luttuosi colpirono nuovamente Malpelo nei suoi affetti più cari e lo portarono verso una solitudine totale. L’asino grigio, sfogo di tutta la cattiveria di Malpelo morì di stenti e di vecchiaia

e non poco tempo più tardi, la stessa sorte toccò a Ranocchio che morì di tubercolosi.

Quando Malpelo andò a trovare a casa Ranocchio non capì perché la madre si disperasse tanto, non capì se il suo dolore fosse solo utilitaristico o propriamente affettivo. Malpelo non aveva mai conosciuto amore e non riusciva a comprendere una tale disperazione come se quel” figliuolo” guadagnasse 10 lire la settimana.


La scomparsa di Malpelo

Con la morte di Mastro Misciu, Malpelo viene completamente abbandonato: non ha più una famiglia poiché la vedova di Mastro Misciu e la sorella di sposano entrambe.

Senza niente più da perdere, la sua vita non vale più nulla e Malpelo decide di rischiare e va verso lo stesso destino che aveva avuto il padre:la cava non perdona e la morte sarà la fine della sofferenza e l’unica liberazione possibile.


CONTESTUALIZAZZIONE

La Novella è chiaramente ispirata ai canoni veristi che conobbero larga diffusione, in particolare, nella seconda metà dell’Ottocento. La conversione letteraria di Verga al Verismo si può datare al 1874, l'anno in cui fu pubblicata una novella intitolata Nedda, definita dall'autore un "bozzetto siciliano". L'ambiente non è più urbano ma rurale; la storia non è più ambientata al Nord ma in Sicilia; i protagonisti sono umili contadini. La protagonista della vicenda è una donna, la sua situazione è tragica e concreta, non astratta e sentimentale. Da quel momento in poi la Sicilia contadina con la sua antica cultura fu al centro del lavoro dello scrittore catanese, nella novella di Rosso Malpelo ritroviamo, infatti, tutti questi aspetti. L’opera di Verga va inquadrata soprattutto da un punto di vista socio – economico – politico, per comprendere appieno le sue tematiche: è il periodo della rapida industrializzazione, in un paese fondamentalmente agricolo. Nel sud corrisponde alla crisi agraria ed all’inizio dell’emigrazione. Verga è un intellettuale meridionale che mostra questi disagi: esprime l’estraneità della cultura meridionale alla industrializzazione del nord. Questo gli consente di vedere limiti e contraddizioni del tanto decantato progresso: perdita di valori umani, sopraffazione, corsa all’arricchimento sulla pelle degli altri. Nella conclusione: la "disperata rassegnazione" di Malpelo sembra essere la stessa di Verga; l’autore da al personaggio la sua stessa sfiducia sulla possibilità di cambiare la condizione umana (determinata dalla legge della sopravvivenza del più forte), il suo scetticismo nei confronti di ogni possibilità di progresso, si è "vinti" proprio nel tentativo di progredire.


LE NOVELLE RUSTICANE

La raccolta novelle rusticane, pubblicata nel 1883, comprende 12 novelle, tutte già pubblicate su rivista nei due anni precedenti, tra cui la roba, malaria, pane nero, libertà. Nel 1920 verga curò una nuova edizione della raccolta apportando sostanziali modifiche di struttura e di stile. L'ambientazione è la stessa di quella di vita dei campi, cioè la provincia siciliana della seconda metà dell'ottocento, che però nelle novelle rusticane appare meni primitiva, perché i personaggi e le vicende narrate appartengono a una classe sociale ed economica (contadini e piccoli proprietari, non piu braccianti e pescatori) un po' più elevate. Ciò, tuttavia, non comporta un vero miglioramento della loro vita: cambiano le circostanze e le situazioni, ma rimane inalterata la logica di sfruttamento che governa il mondo.
I racconti delle novelle rusticane si concentrano sui temi dell'ingiustizia e dell'impotenza delle azioni degli uomini: i protagonisti, infatti, sono inermi di fronte alla crudeltà delle leggi, alle continue occasioni di sopruso, così come all'inesorabile violenza e cecità della natura, che in un attimo può scatenare e rovinare ogni cosa.
A differenza di Vita dei campi c'è la scomparsa di eroi per lasciare spazio agli eroi titanici (= riscatto che l'uomo ha in sé ), come per esempio Mazzarò ne La Roba. I temi cambiano e ce n'è uno prevalente, la ROBA (= la terra) e la lotta per il suo possesso. Questa corrode i sentimenti e diventa l'unica religione. Le uniche leggi conosciute e rispettate sono quella dell'accumulo, l'economia e il successo economico. È presente anche il conflitto tra classi. Spariscono gli individui d'eccezione come Rosso Malpelo, la Lupa, che davano i titoli alle novelle e nei titoli entrano entità astratte come Libertà, Malaria, Roba. In queste novelle appare più accentuato il conflitto tra Italia del Nord e del Sud, così come appare più importane la lotta tra le classi sociali (La libertà, La Roba). LA LIBERTA' "La libertà" è un titolo amaramente ironico, perché tutta la novella muove da una rivolta per costruire la libertà, mentre questa non viene raggiunta e alla fine della novella dopo diversi anni che i rivoltosi erano in carcere, uno di questi che era uscito disse: " Ma se mi avevano detto che c'era la libertà". Nelle prime sequenze si parla della rivolta di Bronte, storicamente esistita e avvenuta dal 2 al 5 agosto del 1860. Infatti Verga ne descrive i tre giorni come un carnevale avvenuto in luglio. È una rivolta in cui i contadini si rivoltano ai "cappelli"; i contadini ce la fanno, uccidono molte persone. La novella inizia dicendo che il popolo riesce a conquistare Bronte e le terre in cui erano costretti a lavorare. Quando arrivano a spartirsi le terre, però, non riescono a farlo perché hanno ucciso il geometra, il notaio, il prete che suonasse le campane la domenica e così non sono capaci di gestire la situazione. Verga accenna anche ad un avvocato che partecipa alla rivolta. Nella realtà è la storia di due fratelli: Niccolò Lombardo e suo fratello che furono alla guida della rivolta, ma questa degenerò e sfuggì alle loro mani. Verga ci vuole dimostrare quella che è la sua ideologia che trova in un episodio storico la sua concreta dimostrazione. I contadini ce la fanno ad ottenere la libertà, ma non sono in grado di gestirla perché non si sfugge dalla propria classe sociale. Due giorni dopo "arriva un luogotenente", il tenente di Garibaldi, Bixio che riporta l'ordine a Bronte. Un problema storiografico che ci si pone dalla lettura è: ma perché i contadini si ribellano proprio mentre arriva Garibaldi, e perché lui manda Bixio a portare l'ordine? I contadini sperano che Garibaldi li appoggi e dia loro le terre e l'uguaglianza. Per Garibaldi questa rivolta è un intoppo perché lui pensava solo all'unità d'Italia. Per Manzoni gli umili sono coloro che si affidano alla Provvidenza e grazie a questa troveranno un riscatto. Nell'assalto al forno delle crucce vediamo personaggi del popolo che si ribellano. Per Manzoni i rivoltosi sono coloro che non agiscono rettamente e portano avanti la violenza, e Manzoni rifugge da ogni violenza perché secondo lui l'uguaglianza sociale si raggiunge solo attraverso la concordia tra le classi sociali. Verga afferma che è inutile che si si ribellino perché oltre alla violenza, non riusciranno mai a progredire socialmente e quando progrediscono hanno un destino più tragico. Manzoni affidava alla borghesia il fatto di far progredire la società. È un intellettuale organico alla borghesia che crede nel suo ruolo e che riuscirà a portare cambiamenti positivi. Verga non è organico a nessuna classe sociale, è un proletario che agisce solo per la propria classe di appartenenza.



La roba
Un viandante, che andava lungo il biviere di Lentini, per ingannare la noia del viaggio chiese ad un uomo: "Di chi è qui?", "Di Mazzarò!".
Proseguendo per quella strada vide una fattoria con depositi grandi come chiese, uliveti dove il raccolto dura fino a marzo e poi vigneti, aratri, mandrie: tutta roba di Mazzarò. Pareva che Mazzarò fosse il padrone di tutto il mondo. Mazzarò era un uomo molto piccolo che di grosso aveva solo la pancia, era ricchissimo ma mangiava solo due soldi di pane al giorno; l’unico suo vanto era un cappello di seta nera. Non aveva vizi: non beveva, non fumava, non amava le donne, non amava il giuoco delle carte.
Si ricordava del periodo in cui lavorava anche lui nei campi per quattordici ore al giorno, sempre sorvegliato da un uomo a cavallo pronto a frustarlo. Nei suoi uliveti non si contavano le donne che raccoglievano le olive e nelle sue vigne, ogni volta che si vendemmiava, c’erano gli uomini di tutti i villaggi dei dintorni. I mietitori dovevano essere mantenuti per tutta la giornata quindi Mazzarò li controllava molto severamente. Quando Mazzarò lavorava nei campi si sapeva sempre il giorno e l’ora dell’arrivo del padrone così nessuno poteva essere sorpreso ma egli, arrivava sempre nei suoi campi all’improvviso; a piedi o a cavallo della mula. Mazzarò si impossessò in breve tempo di tutti i possedimenti del barone, l’uomo per cui lavorava. Di una sola cosa si dispiaceva Mazzarò: ormai stava diventando vecchio e la terra la doveva lasciare li dov’era. Quando gli venne detto di abbandonare la sua roba egli uscì di casa e, ammazzando con un bastone tutti i suoi tacchini, gridò: "Roba mia, vientene con me!"


 

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