Divina commedia purgatorio riassunto

 

 

 

Divina commedia purgatorio riassunto

 

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Divina commedia purgatorio riassunto

 

PURGATORIO

PURGATORIO CANTO I

             

 

Dante e Virgilio, usciti dalla voragine infernale attraverso la natural burella, si trovano sulla spiaggia di un'isola situata nell'emisfero antartico, nella quale si innalza la montagna del purgatorio. Inizia il secondo momento del viaggio di Dante nell'oltretomba, durante il quale argomento del suo canto sarà la purificazione delle anime prima di salire in paradiso: necessaria è perciò la protezione delle Muse, che egli invoca prima che la sua poesia affronti il tema dell'ascesa alla beatitudine eterna. L'alba è prossima e i due pellegrini procedono in un'atmosfera ormai limpida e serena; dove brillano le luci delle quattro stelle che furono viste solo da Adamo ed Eva prima che fossero cacciati dal paradiso terrestre, situato per Dante sulla vetta del monte del purgatorio. Volgendo lo sguardo verso il polo artico Dante scorge accanto a sé la figura maestosa di un vecchio: è Catone Uticense, che Dio scelse a custode del purgatorio. Poiché egli li crede due dannati fuggiti dall'inferno, Virgilio spiega la loro condizione e prega che venga loro concesso di entrare nel purgatorio, promettendo a Catone di ricordarlo alla moglie Marzia, che si trova con Virgilio nel limbo. Ma, risponde il veglio, una legge divina separa definitivamente le anime dell'inferno da quelle ormai salve; del resto non è necessaria nessuna lusinga, dal momento che il viaggio è voluto da una donna del ciel. Infine ordina a Virgilio di cingere Dante con un giunco (simbolo d'umiltà) e di detergergli il volto da ogni bruttura infernale. I due pellegrini si avviano verso la spiaggia del mare per compiere i due riti prescritti da Catone.

 

Introduzione critica

 

La lettura del primo canto del Purgatorio segue, lungo l'arco della critica dantesca, un'oscillazione tra due poli: il polo della ricerca che il Croce avrebbe definito strutturale, attenta ad una esposizione problematica di tutte le implicanze storiche, mitiche e teologiche e il polo dell'esegesi attenta a definire il significato ritualistico e l'intelaiatura liturgica che sorregge tutto il canto. E due sono stati i motivi attorno a cui la critica ha sovrapposto strati di ricerche e di interpretazioni: il personaggio di Catone, osservato in rapporto al concetto di libertà e al concetto di salvezza e il rito finale della purificazione, celebrato in sul lito diserto. Questa analisi ci porta ad accostare ancora una volta il problema dell'allegoria in Dante e in un canto la cui struttura è tutta emblematica e che, sotto questo punto di vista, si offre efficace paradigma di tutta la seconda cantica. È stato giustamente osservato che anche gli interpreti più convinti della non poeticità dell'allegoria ammettono che nel primo canto "il simbolo è del tutto disciolto nella rappresentazione" (Bigi): la figura di Catone esprime la riconquista della libertà dopo l'esperienza del male, ogni gesto di Virgilio è un'officiatura liturgica nella riconsacrazione del suo discepolo al bene, il personaggio Dante appare nello stato del catecumeno che comincia il suo ciclo di iniziazione- purificatrice. Su questi tre perni poggia la vicenda dell'anima nel momento in cui si avvia verso la penitenza e la redenzione, attraverso - secondo la distinzione del Bigi - "tre fasi successive: quella in cui l'anima si abbandona con immediato senso di benessere alla sua nuova condizione; il sopraggiungere della consapevolezza delle responsabilità e dei doveri che tale condizione comporta; e infine, raggiunta questa consapevolezza, l'inizio, ansioso e raccolto, della penitenza". È un momento ancora drammatico, a torto dimenticato da molti critici che, sottolineando troppo l'atmosfera dolce e serena della spiaggia del purgatorio - atmosfera del resto necessaria perché il senso del divino si distenda "con un'intima potenza affinante e pacificatrice" (Malagoli) - dimenticano che "questo aprirsi dell'anima è strettamente avvinto al sentimento infernale: là è la sua humus" (Malagoli), non avvertendosi affatto "una diminuzione di tensione rispetto all'Inferno, quanto piuttosto una diversa tensione, meno disperata e convulsa e più controllata e solenne, ma pure anch'essa potentemente drammatica" (Bigi). Noi andavam per lo solingo piano non indica, come vorrebbero alcuni critici, il tranquillo procedere dei due pellegrini, ma la fuga da un incubo, (per l'Apollonio anzi questo motivo continua in tutta la seconda cantica: "se l'Inferno è l'ipostasi della città degli uomini, il Purgatorio è il viaggio da quella città, l'esilio alla ricerca di una più vera patria, la fuga, anche da una minaccia bestiale e paurosa... di non so che malvagio uccello") che si compone infine in due gesti semplici e armoniosi, che sembrano seguire il ritmo prestabilito di una cerimonia liturgica. Per il cristiano e per l'uomo medievale in particolare, erede diretto di tutta la letteratura patristica, che faceva della liturgia la sua matrice - rientrare nella Grazia significa rientrare nella vita liturgica - che della Grazia è l'espressione sensibile - cioè nella vita comunitaria della Chiesa: e non è fuori luogo ricordare che nel Purgatorio l'esistenza, delle anime e delle cose, è corale e concorde. La recente lettura di Ezio Raimondi, perseguita con solidità di impianto critico e con finezza di proposte interpretative, segue, lungo tutto il canto, l'intreccio tra rito e storia alla ricerca d'una convergenza di significati, di ricordi, di miti, di simboli vitali in ciascuna delle immagini del canto, da quella della navicella alla descrizione dell'umile pianta, di cui Dante é cinto da Virgilio. Dopo l'esordio, che segue le leggi retoriche delle artes dictandi, il tema sembra essere quello stesso di tutta la cantica, cioè l'antitesi morte-risurrezione, male-libertà, peccato-ritorno a Dio. Attorno a questo fulcro dimostrativo si raccolgono immagini ricche di risonanze classiche, bibliche, liturgiche e patristiche, ma tutte inscritte in una tensione verso il ritorno all'innocenza perduta, verso la purificazione totale. In effetti si può affermare, col Raimondi, che "con quel gioco multiplo di suggerimenti e di registri che fa del simbolismo dantesco una invenzione geniale, il discorso del Poeta corre su due piani, l'uno retorico e l'altro, se si passa il termine, esistenziale". Ancora una volta "l'interpretazione allegorica con cui la spiritualità medievale intende i fatti della cultura e gli aspetti del mondo e le vicende della vita, é un modo di pensare e di sentire: non si frappone tra l'intelletto e le cose, tra l'anima e i suoi movimenti, ma, anzi, ne agevola il contatto e la comprensione, ne suggerisce le vie per il possesso e l'unità" (Battaglia). La poetica del trascendente, intesa come ricerca e conquista dei supremi valori spirituali, ha avuto inizio e Dante vi si consacra separando per un attimo il poeta (l'invocazione alle Muse), smarrito di fronte alla difficoltà della a "visione", dall'uomo-personaggio, smarrito di fronte alla difficoltà dell'ascesa, ma legando inscindibilmente i due momenti, perché dal tema iniziale del "resurgere" (ma qui la morta poesì resurga) al rito lustrale della fine, il motivo unitario é la riconquistata libertà attraverso l'umiltà e in virtù della purificazione. E sono proprio Catone, l'eroe mitizzato perché magnanimo, e Virgilio, il poeta vate e guida, a fare da ministri al rito : segno d'una rottura, attraverso la Grazia, del rapporto tra gloria ed umiltà: "l'umiltà non contraddice più, ora, alla magnanimità" (Raimondi). L'umile pianta, divelta per cingere il Poeta, rinasce preludio alla totale rinascita spirituale che Dante avvertirà alla fine del purgatorio, quando si sentirà rifatto si come piante novelle rinnovellate di novella fronda.


PURGATORIO CANTO II

             

 

L'aurora sorge sull'orizzonte del purgatorio mentre i due pellegrini sostano, pensosi ed incerti del cammino, lungo la riva del mare. All'improvviso appare lontano, sulle acque, una luce rosseggiante che si avvicina velocemente alla spiaggia: Virgilio riconosce l'angelo nocchiere del purgatorio ed esorta il discepolo ad inginocchiarsi in segno di omaggio. L'uccel divino giunge su una veloce navicella ché trasporta più di cento anime, le quali, ad una voce, cantano il salmo "In exitu Israel de Aegypto". Dopo averle benedette con il segno di croce, l'angelo riparte lasciando sulla spiaggia le anime, le quali chiedono consiglio a Dante e Virgilio sul cammino da intraprendere. Allorché si accorgono che Dante è vivo, grande è la loro meraviglia, finché una di esse, che aveva tentato di abbracciare il Poeta, viene da questo riconosciuta: è l'anima di Casella, un musico e cantore amico di Dante. Dopo avere spiegato ché le anime destinate al purgatorio si raccolgono alle foci del Tevere in attesa dell'angelo nocchiere, su preghiera dell'amico, che ricorda quanto fosse per lui rasserenante il suo canto, Casella intona una canzone del Convivio. Tutti ascoltano intenti, ma Catone li scuote, rimproverando questo indugio nell'espiazione dei loro peccati. Le anime e i due pellegrini si dirigono correndo verso il monte come colombi spaventati da un rumore improvviso.

 

 

Introduzione critica

 

La lettura del canto secondo del Purgatorio deve essere condotta su un piano drammaturgico, il quale però rimandi costantemente, con la forza propria d'una rappresentazione morale, al piano spirituale di cui è simbolo visivamente esplicantesi. Le iniziali precisazioni astronomiche, preoccupate di rendere la situazione della luce e dell'ora; il lento avvicinarsi sull'orizzonte visivo del lume che prende via via forma fino ad assumere la limpida suggestione d'un primo piano; la presenza, sin dalla prima apparizione dell'angelo nocchiero, di un rapporto tra l'azione rappresentata e l'io del Poeta; le risonanze bibliche e la meditazione sulla condizione pellegrinante del cristiano, introdotte dall'inizio del salmo "In exitu Israel de Aegypto" ; l'intermezzo musicale che aduna un pubblico ed un coro attorno all'amico musico e cantore; il sovrapporsi della meditazione sull'amicizia alla meditazione sul mistero della vita come peregrinatio; l'intervento di Catone che disperde la cerchia animata dal canto per richiamare la preminenza e sollecitudine del fine supremo sulla precarietà del terrestre; il rompersi finale del pubblico e lo sciogliersi dell'azione, la cui resa visiva è affidata alla similitudine dei colombi: di drammaturgia si può parlare se si pensa allo svolgimento ritmico di questi quadri che si muovono con logica rapidità, rivelandola sapienza registica del Poeta. Nella ricchezza di movimento esteriore come significazione di una realtà spirituale il canto secondo è intimamente legato al primo, ma è soprattutto nella sua dimensione liturgica che costituisce il logico sviluppo dei due riti di purificazione officiati da Virgilio, attraverso i quali Dante è entrato nella "società delle anime". L'insistenza con cui il Poeta ritorna sul candore dell'uccel divino (m'apparìo un... bianco; i primi bianchi...; più chiaro appariva) non può non ricordarci che il bianco è il colore che predomina nella liturgia battesimale e in quella pasquale del giorno di Risurrezione, mentre il sacerdotale segno di croce, ieratìcamente solenne, dell'angelo, consacra il primo momento corale di tutto il Purgatorio e il primo incontro di Dante con l'umanità penitente. "Tutta la montagna del purgatorio ci appare come un'immensa basilica affollata di riti e risuonante dei canti e delle preghiere dei fedeli. In exitu Israel de Egipto è come l'introibo nel mondo dell'esaltazione della penitenza; è come l'antifona di un lungo ufficio divino, di cui gli angeli sono in certo senso gli officianti. "(Marti) In questa prospettiva liturgica, allorché termina il canto non può che iniziare un colloquio corale (se voi sapete, mostratene la via... voi credete forse che siamo esperti...), in cui si svela anche uno stato d'animo comunitario di umiltà e di smarrimento - di fronte al monte che nessuno ancora conosce. Le letture critiche di questo canto si sono accentrate o attorno alla ricerca d'una musicalità presente in tutto il canto ed espressa da Casella, oppure attorno alla meditazione sulla condizione di pellegrino del cristiano, significata dalle anime del vasello snelletto e leggiero e dal burbero intervento del veglio onesto. Il Ferrero e l'Albini seguirono ambedue la linea della ricerca musicale (la notazione del Boccaccio su un Dante che "sommamente si dilettò in suoni e canti nella sua giovinezza" e il famoso passo del Convivio [II, XIII, 24] nel quale si descrivono gli effetti della musica su un animo nobile, "musica trae a sé li spiriti umani... si che quasi cessano da ogni operazione" offrono l'occasione, se non altro, per un confronto fra l'ars nova della musica medievale e il contemporaneo stil novo), rilevando che la musicalità dei versi è, in questo canto, scandita dalla pittoricità delle apparizioni e dall'evanescenza un po' trasognata delle immagini e delle similitudini. Continuando su questa strada la Batard tenta addirittura una lettura delle immagini sul contrappunto di movenze musicali, affermando che anche l'effetto della sorpresa di Catone, che interviene a rompere la zona d'abbandono all'arte, è musicale: "l'intervento di Catone è anzitutto un elemento poetico: Catone fa il censore, ma, richiamando la similitudine dei colombi, fornisce il tema musicale del canto dell'amicizia". L'episodio di Casella, attraverso il motivo della solenne glorificazione dell'arte - nel rapimento della musica come mediatrice di spiritualità, costituisce un brano di autobiografia dantesca, secondo il Marti, nel quale il Poeta evoca nostalgicamente i miti culturali della lontana giovinezza, e lo sforzo amoroso e tenace con cui volle realizzarli in sé "all'epoca delle grandi speranze e delle grandi illusioni", in una Firenze "tanto politicamente vischiosa, quanto culturalmente aperta e luminosa". È questo un momento in cui chiara si avverte la dialettica fra Dante poeta e Dante personaggio, fra l'io poetico "che deve trascendere le limitazioni dell'individualità per conseguire un'esperienza di universale esperienza" e l'io empirico che è l'"occhio individuale necessario per percepire e fissare la materia d'esperienza"(Spitzer) : l'intervento di Catone restituisce a Dante la consapevolezza di sé, ché come uomo è in cammino verso la salvezza e come poeta agli altri si offre maestro di vita. Occorre perciò "correre al monte a spogliare lo scoglio". Del resto già prima di questo oblivioso abbandono la condizione di pellegrini era stata subito dichiarata dal Poeta: ma noi siam peregrin come voi siete. Se questa è la condizione umana, bisogna conservarsi come gente che pensa a suo cammino, e non sostare, adagiandosi nella contemplazione della realtà terrestre e nella meditazione dei valori umani. Per questo l'intervento di Catone è giustificato: "l'intransigenza - nota l'Apollonio - fa parte di ogni dignitoso e coerente esercizio ascetico, anche se contraddice quella aspirazione umanistica, cui Dante allude, della purificazione attraverso l'arte...".


PURGATORIO CANTO III

             

 

Dopo il rimprovero di Catone, mentre Dante e Virgilio si avviano verso il monte, il poeta latino in una lunga esortazione invita gli uomini ad accettare il mistero di cui avvertono l'esistenza: i saggi antichi che vollero spiegarlo, scontano ora nel limbo il loro folle desiderio. Mentre sostano ai piedi dell'erta. parete rocciosa, compare una schiera che avanza lentamente e verso la quale essi si dirigono, per chiedere informazioni. Sono le anime di coloro ché morirono nella scomunica della Chiesa, pentendosi solo in fine dì vita, e che devono restare fuori della porta del purgatorio, nella zona chiamata antipurgatorio, trenta volte il tempo durante il quale vissero scomunicati. Esse invitano i due pellegrini, a procedere davanti a loro, verso destra, mentre una si rivolge direttamente al Poeta: è lo spirito di Manfredi di Svevia, morto nella battaglia di Benevento nel 1266. Egli prega Dante di riferire alla figlia Costanza la vera storia della sua morte; ricevute le due ferite che ancora deturpano la sua figura, si affidò pentendosi, prima di morire, alla misericordia divina. Ebbe dapprima sepoltura sotto un cumulo di sassi, secondo l'uso guerriero, ma i suoi nemici guelfi; e in particolare il vescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli, legato del papa Clernente IV, vollero disseppellire il suo corpo e lo abbandonarono fuori del territorio della Chiesa (dove gli scomunicati non potevano essere sepolti), lungo le rive Garigliano. Chiede infine che Costanza preghi per lui, perché le preghiere dei vivi aiutano ed abbreviano il tempo della purificazione.

 

Introduzione critica

 

La giustapposizione di un motivo di meditazione morale (il discorso di Virgilio) ad un episodio individuale (l'apparizione di Manfredi) nella tematica del canto III ferma l'attenzione su un problema nuovo, la cui soluzione é possibile solo se viene prospettata nell'ambito della poetica dantesca. Già Dante aveva avvisato all'inizio del Purgatorio che la sua poesia sarebbe profondamente mutata, ma solo una lettura critica superficiale può fermarsi a cercare tale mutamento nel paesaggio o nella diminuita carica di passioni dei vari personaggi o nel superamento di ogni urgenza polemica, cioè nella tonalità elegiaca della nuova creazione, perché é sulla diversa posizione del Poeta di fronte alla sua materia che deve essere condotta l'indagine più utile per non isolare in un giudizio negativo le parti specificatamente morali e dottrinali. Nel mondo dell'acquisita salvezza l'animo si rinfranca, accentuando la sua missione profetica: se Dante nell'Inferno ha fissato entro misure assai ridotte ogni excursus didascalico, perché non poteva, chi era ancora immerso nel peccato, costituirsi maestro di salvezza, preferendo affidare ogni forma di ammaestramento al volto orribile del peccato, ora ha, piena consapevolezza che, iniziando il momento più difficile dell'ascesa spirituale, é necessario un intervento diretto, e pressoché continuo, per spiegare, chiarire, esortare. Il binomio profeta-poeta, maestro-poeta, che risponde a uno schema mentale familiare al Medioevo, si dispiega in tutta la sua forza - e la sua unità - proprio a partire dal canto III, attraverso l'intensa esortazione di Virgilio. La critica giudica questo canto fondamentale per capire il tono che caratterizza la seconda cantica, attraverso "l'altezza degli ideali e l'umanità del sentire, e, tecnicamente, la sapiente tonalità di fondo e il tratto sicuro e dinamico della biografia poetica nell'insieme del quadro" (Caccia). Volendo più chiaramente determinare il motivo che trasfigura la storia di un periodo avventuroso e violento in lirica purissima, esso va trovato in quello della "vanità dell'odio", che, fungendo da preludio in questo canto, diventerà il Leitmotiv della sinfonia del quinto. Manfredi, che rievoca con precisione, ma con accoratezza la sua vicenda terrena, é una anima pacificata con Dio, e quindi anche con se stessa e con gli uomini: "siamo nel Purgatorio; e dunque potrebbe sembrare che questa pensosa serenità sia imposta solo dalla materia, dalla necessità logica di rappresentarci anime pentite. Ma c'è qualcosa che nessuna materia astratta avrebbe potuto imporre: la pietà dell'artista, il suo senso dell'inutilità degli odi umani, la persuasività totale della poesia che esprime l'una e l'altro" (Bosco). Quella pietà che reggerà il racconto di Jacopo, di Bonconte e di Pia, sorregge anche "la rievocazione delle povere ossa di Manfredi bagnate dalla pioggia e mosse dal vento; il considerare, che il Poeta fa, l'inutilità dello scempio: inutile l'accanimento, inutile il trafugamento a lumi spenti, come si conveniva a uno scomunicato, a un dannato; ed era invece salvo, destinato al paradiso" (Bosco). Ciò non significa che Dante, abbandonata la sua funzione di giudice, si disponga ad un esame acritico della storia (contrario del resto alla mentalità medievale, che nella storia vede possibilità amplissime di ammaestramento), negandosi ogni facoltà di condanna in nome di un sentimento di indulgenza, perché orribil furono i peccati di Manfredi e tanto grave la sua colpa di fronte alla Chiesa e alla società da ripercuotersi - attraverso la scomunica - anche nell'al di là, ma chiarisce in tutta la sua evidenza quanto già alcuni episodi dell'Inferno avevano mostrato: che in Dante sussistono "due volti, quello del giudice del male e quello dell'uomo tristemente consapevole di non esserne immune; del giudice al di sopra e contro la comune umanità e del partecipe di questa umanità; del severo e del pietoso; dell'uomo di parte che sa amare quanto odiare, e dell'uomo che scopre la vanità dell'odio" (Bosco). Due momenti che non si susseguono in ordine cronologico (come ad esempio affermano V. Rossi e, in misura minore, il Porena), legati a vicende storiche e biografiche del Poeta, ma che sono sempre coesistiti nel suo animo, dove però prevale il volto pietoso al di sopra di ogni mischia e di ogni discordia, quando nel Purgatorio lo spirito si apre al divino. È su questa meditazione dolorosa della storia che si innesta l'episodio di Manfredi, liberandosi fin dall'inizio di ogni spirito faziosamente politico, e presentandosi - per usare una terminologia critica moderna - come aperta proclamazione della libertà della poesia di fronte alla storia, allorché la poesia si dispone a studiare la vicenda umana non avulsa da ogni contatto con il sovrannaturale, ma nel suo rapporto con la realtà divina. Per questo della figura di Manfredi - che per l'eccezionalità della vita e degli eventi di cui fu protagonista, occupò a lungo l'interesse del suo tempo e di quello seguente - Dante coglie il momento più tragico e religioso insieme, quando la creatura umana prende coscienza della gravità dei suoi errori e invoca l'intervento divino. È una ricostruzione spirituale, che esige da parte del Poeta la capacità di scendere nel proprio personaggio, per riviverlo in tutta la sua dimensione interiore. Senza condividere la posizione della critica di ascendenza romantica, che analizza il personaggio di Manfredi fino ad identificarlo con il Poeta stesso, laddove la figura del re svevo ha una sua singolarità, che, nell'aristocratica bellezza, nella regale dignità, nel magnanimo coraggio ne ricollega l'immagine ad un mondo eroico e cavalleresco, é indubbio che Dante rivive in Manfredi la sua dolorosa vicenda personale nell'ambito della crisi politica provocata dall'intervento temporale della Chiesa, e soprattutto la sua personale esperienza di peccato e di redenzione.


PURGATORIO CANTO IV

             

 

Più di tre ore sono trascorse dall'apparizione dell'angelo nocchiero quando Dante e Virgilio, in seguito all'indicazione delle anime degli scomunicati, iniziano la salita lungo uno stretto sentiero, la cui ripidità è tale che solo il grande desiderio di purificazione può aiutare a percorrerlo. Durante l'ascesa Dante può rendersi conto, meglio che non quando si trovava ancora lungo la spiaggia, dell'altezza e dell'asperità del monte del purgatorio: ha un momento di scoraggiamento, dal quale il maestro lo scuote esortandolo a raggiungere un ripiano sul quale potranno riposare. Qui giunti, Virgilio spiega al discepolo perché i raggi del sole nel purgatorio provengono da sinistra, mentre nell'emisfero artico chi guarda verso levante vede il sole salire nel cielo alla sua destra. Ma Dante teme l'altezza del monte e Virgilio lo rassicura: l'ascesa è difficile solo all'inizio, quando si è ancora sotto il peso del peccato, poi si presenterà man mano sempre più facile ed agevole. Non appena il poeta latino termina di parlare, si leva improvvisamente una voce verso la quale i due pellegrini si dirigono, finché si trovano davanti a una grande roccia alla cui ombra giacciono le anime dei negligenti, che, per pigrizia, si pentirono solo all'estremo della vita e che, per questo, devono restare nell'antipurgatorio tanto tempo quanto vissero. Chi ha parlato è il fiorentino Belacqua, che Dante conobbe e con il quale il Poeta stabilisce un affettuoso colloquio finché Virgilio gli ingiunge di proseguire il cammino.

 

Introduzione critica

 

Le distinzioni psicologiche che aprono il canto, le successive designazioni astronomiche, il senso di fatica dell'ascesa, l'ironia familiare che circola nell'incontro con Belacqua, essendo momenti sovrapposti in ritmi e tempi diversi, parrebbero negare la possibilità d'una lettura unitaria del canto, limitando l'interesse alle singole parti. Invece esso si dispone nella linea di quei canti la cui validità è da cercarsi nel rapporto dei momenti informativi e dottrinali con gli episodi umani e più chiaramente poetici, e nell'analisi dei precisi scopi che attraverso questo canto Dante si propone di raggiungere. Anzitutto la figura del Poeta si impone come protagonista, spostando il polo di interesse dalla pensosa immagine di Virgilio e dalla regale apparizione di Manfredi, che occupano tutto il canto IlI, su se stesso: parla più che ascoltare, interroga più che tacere, agisce più che smarrirsi, nella raggiunta certezza della purificazione, laddove nell'Inferno essa gli pareva quasi impedita dalla continua visione del peccato nelle sue forme più aberranti. Pur faticosamente, in lui si fa luce uno stato d'animo nuovo, quello dell'uomo che si prepara a godere della sua conquista spirituale, che riprende coraggio nei suoi mezzi umani, che riaccosta con fiducia i misteri dell'anima e del mondo. Il dottrinalismo che occupa tanta parte del canto, ben lungi dall'opporsi alla poesia, nasce dalla stessa radice, cioè dal bisogno di accostarsi al sovrannaturale, contemporaneamente studiando e sistemando il cosmo nel quale il sovrannaturale vive e si esprime: il canto IV, nel quale è diffusa quest'ansia di conoscere e questa ricerca di saggezza e di virtù nel cerchio della redenzione, costituisce l'esplicita risposta del mondo cristiano-medievale di Dante all'ammonimento del pagano Virgilio, state contenti, umana gente, al quia, e all'amara conclusione finale, disiar vedeste sanza frutto. Il Fergusson, commentando i canti dell'antipurgatorio, afferma che essi costituiscono il prologo al dramma della crescita spirituale che inizia a questo punto e culminerà alla fine del terzo giorno nella visione di Dio, prologo nel quale Dante desidera che il lettore senta la forza di un'aspirazione che non si può ancora realizzare, presentando anime che, fuori del vero mondo del purgatorio, devono tuttora scoprire come cominciare la loro crescita spirituale. Tuttavia il critico americano non sembra rilevare l'importanza di questo canto posto proprio al centro degli otto dedicati all'antipurgatorio, poiché il Poeta, resosi conto dell'orgoglio che si era insinuato nella sua scienza e nella sua baldanza, trova nella calma lentezza di Belacqua un "provvido invito all'umiltà per il pellegrino mortale, ansioso quasi di anticipare all'anima sua le gioie di un processo purificatore stabilito dall'eterno consiglio, e dal quale consiglio l'anima non può che accettare rassegnatamente e perciò serenamente, il ritmo esterno, il rituale della purificazione" (Romagnoli). L'equilibrio raggiunto - difficile ma non precario - non frena il "volo" del pellegrino, ma lo inserisce in quella zona di attesa propria di tutte le anime penitenti, aiutandolo nello stesso tempo ad allontanare man mano le vicende e i ricordi della vita in una penombra che vela l'asprezza delle forme ma non la chiarezza dei contorni. Secondo il Fergusson Dante si trova ora nella condizione psicologica di un bambino: le sue conoscenze letterarie, filosofiche, storiche, teologiche dopo la visione del mondo dannato servono a ben poco; egli deve ricominciare e "nel suo candore, nell'obbedienza all'impressione immediata, nella libertà del sentimento è come un bambino... Ciò che il pellegrino vede, guardando fuori di sé, è il mondo naturale come l'occhio dell'innocenza lo percepisce". In realtà questa interpretazione appare troppo semplice, o meglio, si oppone ad un'attenta lettura del canto IV, perché se Dante scopre con gioia, attraverso le parole di Virgilio, la legge del corso del sole nel purgatorio, non si limita ad accettare, come è sempre avvenuto finora, la verità propostagli, ma vuole completare egli stesso e concludere la spiegazione del maestro (versi 76-84): non l'accoglimento passivo, ma la fattiva penetrazione sostenuta da una profonda saldezza intellettuale - per spiegare la quale è insufficiente l'immagine del fanciullo. Se il canto è impegnativo da un punto di vista dottrinale e si presenta estremamente importante dal punto di vista psicologico, da alcuni critici è stato però considerato privo di quel movimento drammatico che, dopo aver contraddistinto il canto di Manfredi, ritorna con la stessa intensa commozione nel quinto: una pausa narrativa che culmina nel gioco scherzoso di battute dell'episodio di Belacqua. Il giudizio è esatto solo in parte, potendosi definire pausa il fatto che Dante sembra raccogliersi in se stesso dopo il primo lungo incontro con un'anima del purgatorio, quasi volesse esaminare le proprie reazioni, e studiare la sua nuova dimensione spirituale dopo l'affannoso susseguirsi di fatti in sul lito diserto. Ma tale esame non avviene attraverso una lenta e distesa esposizione, bensi attraverso l'angustia e l'asprezza di una salita che impegna all'estremo i due pellegrini in una rappresentazione che ha tutto il vigore della realtà, vigore che non si disperde nello scherzo di due battute finali, ma da esse prende forza nuova. Perché, infatti, il valore dell'episodio di Belacqua è sì nel richiamo all'umiltà e all'ubbidienza paziente delle leggi del purgatorio e nella funzione di antitesi, affinché dall'immagine della pigrizia meglio venga esaltato lo sforzo morale del Poeta, ma anche nella tonalità indulgente, nella bonarietà affettuosa del dialogo, nella voce del ricordo associata a luoghi e tempi passati. Occorre perciò non vedere l'episodio solo in una visuale allegorica, ma cogliere in esso un altro momento autobiografico di Dante, dopo quello di Casella, fatto di consuetudine di affetti e di conversazioni.


PURGATORIO CANTO V

             

 

I due pellegrini, procedendo sempre nell'antipurgatorio, lasciano la schiera delle anime negligenti, una delle quali, mostrando vivacemente la sua meraviglia nell'accorgersi che Dante è vivo, fa volgere il Poeta, che rallenta il suo passo. Virgilio lo invita a non perdere di vista la propria meta, consacrando ad essa tutte le energie. Intanto lungo la costa del monte avanza, cantando il salmo «Miserere», un gruppo di anime, che notano subito l'ombra proiettata dal corpo di Dante: due di esse, come messaggeri, si accostano ai poeti per chiedere spiegazioni intorno alla loro condizione e infine tutta la schiera si lancia verso di loro in una corsa sanza freno. Sono coloro che furono uccisi con la violenza e che si pentirono solo all'ultimo istante di vita: ora chiedono preghiere per affrettare la purificazione. Nella seconda parte del canto tre di queste anime narrano come avvenne la loro morte: Jacopo del Cassero fu ucciso dai sicari di Azzo VIII d'Este, signore di Ferrara, del quale era stato fiero avversario; il ghibellino Bonconte da Montefeltro scomparve durante la battaglia di Campaldino e le potenze infernali, non avendo potuto impadronirsi della sua anima, si vendicarono sul suo corpo, suscitandogli contro le forze della natura, che trascinarono il cadavere di Bonconte nell'Arno, dove fu coperto dai detriti del fiume; Pia dei Tolomei fu fatta uccidere dal marito.

 

Introduzione critica

 

Vari sono i punti prospettici dai quali la considerazione critica del canto può prendere avvio, puntualizzando l'esortazione moraleggiante di Virgilio (il cui richiamo alla necessità di non indugiare nel cammino amplia quello del canto precedente, costituendo un nesso di collegamento), il rapporto psicologico fra Dante e la schiera dei morti violentemente che invocano preghiere (rapporto di particolare intensità che si prolunga nell'inizio del canto sesto), il frangersi -di tale incontro in tre figure, che esemplificano - attraverso la loro personale esperienza - la passata vicenda terrena e la presente disposizione spirituale dei loro compagni di penitenza. Ed è l'analisi del rapporto fra il mondo del peccato e quello della conversione, che per queste anime, pentitesi in punto di morte, si identifica con il mondo del purgatorio, che centralizza l'attenzione della critica, della quale una parte sottolinea il progressivo perdersi - nella speranza dell'ascesa definitiva - della presenza della vita terrena, e un'altra la persistenza di un ricordo angoscioso di violenze: concorre a mantenere questa incertezza di giudizio il linguaggio stesso, che, dopo il primo concitato colloquiò fra Dante e le anime, assume un ritmo narrativo, in cui però il tono sospeso e distaccato della rievocazione si mescola alla notazione realistica e cruda. La soluzione è dà cercarsi stella prospettiva particolare dell'antipurgatorio, dove si aggirano anime la cui vita spirituale é ancora all'inizio, il cui atteggiamento "é come quello della creatura umana in generale, spogliata dì una vivida tradizione, o come quella di ogni bambino o ragazzo che non ha ancora trovato sé stesso nel mondo" (Fergusson) : esse, passando in un solo istante dal male al bene (peccatori infina all'ultima ora), non esperimentarono neppure un breve periodo di conversione, non ricordano, nella loro esistenza, nessuna tormentosa scelta di fronte al peccato, nessun dolce momento. trascorso nella preghiera, né possiedono uno spirito fortificatosi nella drammatica visione del mondo della dannazione. Per loro esiste solo la sacralità della morte, anche se essa è arrivata dall'agguato dei sicari, dalla violenza dei nemici, dalla perfidia di un marito: la storia, raccontata tre volte, è sempre la stessa, resa drammaticamente esplicita ed esaltante la maestà della morte. Il tema della morte é l'elemento « terreno » presente nel canto ed esprime una conquista che ha a suo fondamento un dono della Grazia, ma un dono che non diventa efficiente se non per un'accettazione attiva della creatura umana. II Poeta ha voluto fermare in loro per sempre il momento in cui la creatura si apre alla Grazia, arrestando ogni ricordo del passato all'istante in cui rifluisce in essa, con lo scorrere di nuovi sentimenti, la vita spirituale, in cui inizia la riscoperta di se stessa al di sopra di ogni odio, laddove le anime dei dannati - per sempre immobilizzate nella loro tragedia terrena - vedevano la propria storia irrigidita nell'atto del peccato, trasformata in cosa, non in principio vitale, per cui la dimensione umana, ancora presente in Jacopo, Bonconte, Pia, serve ad intensificare il desiderio della espiazione. L'innestarsi del sovrannaturale non provoca in loro uno smemorante abbandono, ma li aiuta a determinare con suprema limpidezza lo svolgersi della loro esistenza, che ha trovato il suo motivo di essere solo nell'attimo in cui è stata stroncata: Manfredi si preoccupa ancora di far sapere al mondo la verità intorno alla sua morte (vadi a mia bella figlia... e dichi il vero a lei, s'altro si dice), mentre l'atteggiamento di queste tre anime rappresenta, rispetto a quello, un più fiducioso abbandono al tempo - al tempo della Provvidenza - che farà durare lungo tutte le balze del monte del purgatorio l'istante in cui hanno avvertito, attraverso la violenza subita, la presenza del sovrannaturale: esse non fuggono «dall'incubo e dallo strazio della loro fine», come afferma l'Apollonio, essendo quell'incubo e quello strazio indissolubilmente legati alla loro salvezza. Ma l'attenta psicologia di Dante, che presuppone tutta l'esperienza del dolce stil novo nelle sue direttrici fondamentali - lo studio approfondito dei moti dell'animo umano e la capacità di spiritualizzare quanto é fatto oggetto dì quell'analisi - non nasconde in una indistinta sospensione l'umanissimo reagire di queste creature di fronte all'innaturale, distruzione del legame anima-corpo, rivelando anzi, in un mesto, triplice decrescendo, la loro lotta, il loro affanno, il loro abbandono, in un bisogno di dare sfogo ad un ricordo, sotto certi aspetti, ancora doloroso. Con molta chiarezza il Sacchetto afferma che "mentre nell'Inferno l'umanità tende all'imbestiamento, e nel Paradiso alla trasfigurazione, nel Purgatorio essa vive nella compresenza del peccato e insieme del riscatto. Solo nel Purgatorio le anime, come sulla terra, soffrono e godono, alternano turbamenti e nostalgie a speranze ed elevazioni; espiano e pregano, nell'attesa trepida della liberazione. Solo nel Purgatorio il loro dramma - che è il dramma della colpa - non si esaspera, come nell'Inferno, nella tragedia della dannazione; non si dissolve, come nel Paradiso, nella quiete immutabile della beatitudine; ma si consuma, pateticamente, in un'ombra di pianto, attraverso di cui si compie il processo consolatore della purificazione". Ancora una volta Dante riesce ad innalzare sul piano della poesia i fatti di cronaca del suo tempo, fissando in una ricchissima gamma di accenti, in cui il tono dominante è quello singolarissimo della malinconia, i due momenti essenziali dell'anima cristiana, il peccato e la redenzione, e "perciò, più che nel realismo dell'Inferno o nella metafisica del Paradiso, il tono più segreto ed autentico della poesia di Dante è, forse, nel Purgatorio, dove la particolare situazione delle anime che patiscono il castigo nella luce della salvezza dà una naturale tensione all'arco del canto» (Sacchetto).


PURGATORIO CANTO VI

             

 

Le anime dei morti violentemente si stringono, per chiedere suffragi, intorno a Dante, che ha ripreso il suo cammino e che riconosce fra di loro molti noti personaggi del suo tempo. La richiesta di preghiere da parte dei penitenti provoca un dubbio nel Poeta, il quale ha presente l'affermazione da Virgilio fatta nell'Eneide circa l'inutilità della preghiera per mutare un decreto divino: ma, spiega il maestro, vana è solo la supplica non rivolta al vero Dio, mentre nel mondo cristiano essa, con il suo ardore; può muovere a misericordia la volontà celeste. Virgilio poi si accosta a un'anima isolata dalle altre perché venga loro indicata la via migliore per salire: ma quella risponde chiedendo notizie della patria e della vita dei due pellegrini. Non appena Virgilio pronuncia il nome di Mantova, l'ombra si protende verso di lui, rivelandosi: « lo sono Sordello e sono della tua stessa terra » e abbracciandolo. Dante di fronte a questa manifestazione di amore patrio inizia una violenta invettiva contro l'Italia, i cui cittadini hanno dimenticato ogni virtù e ogni concordia, combattendosi come nemici. Invano Giustiniano ha riorganizzato le leggi della vita civile, se la Chiesa, intervenendo in campo politico, impedisce all'imperatore di governare. Del resto gli ultimi imperatori, presi dai problemi della Germania, non si sono più curati né dell'Italia né della città imperiale per eccellenza, Roma. L'apostrofe termina con la visione di Firenze dilaniata dalle lotte interne e incapace di darsi uno stabile governo.

 

Introduzione critica

 

L'impulso costante che sollecita Dante a trasferire entro un arco più vasto e in un'atmosfera superiore, la rappresentazione del reale, contrapponendo la rivelazione del mondo eterno allo scandaloso disordine della realtà storica terrena, si realizza compiutamente nella drammaticità articolata e piena dell'apostrofe all'Italia, dove ancora una volta l'autobiografismo del Poeta, che inserisce nella narrazione del viaggio d'oltretomba le passioni e gli sfoghi della sua anima, si fonde con la missione profetica che egli si attribuisce per legittimare la sua «visione », ponendosi, quale riformatore morale e politico, al centro della storia e del mondo. Perciò la sua analisi storica assume uno svolgimento per cerchi concentrici, inquadrando il problema particolare, la vicenda biografica, il fatto isolato in considerazioni più largamente prospettiche. Dalle singole apparizioni dei morti violentemente - che sono stati protagonisti di cronache locali, concorrendo nella quasi totalità a fomentare lotte familiari, politiche e civili - attraverso l'appassionato abbraccio di Virgilio e Sordello, che ricompone quel ricordo di violenze in un'armonia dimentica di differenze di tempo e di civiltà, il Poeta attinge il centro di articolazione di quel disordine, l' Italia, non intellettualisticamente studiata per tradurne in freddi termini analitici la situazione politica, ma fervidamente persa con lo sguardo dell'esule che vede ripetersi in ogni città; in ogni borgo, la storia dolorosa della sua Firenze. Per questo nell'ultima parte l'apostrofe che si era allargata nella considerazione dell'Impero, e della Chiesa, e dei loro complessi rapporti, s'incurva improvvisamente (Fiorenza mia, ben puoi esser contenta di questa digression che non ti tocca), denunciando, ché da un motivo particolare, autobiografico - il dramma del Poeta esule e il dramma della sua tormentata città - aveva avuto origine quella vigorosa accusa contro la società del tempo. Il Malagoli osserva molto giustamente che questo modo di sentire la storia, mescolandovi il proprio sentimento e il proprio giudizio personale, "per la sua ricchezza e intima coerenza, è nuovo" e, si può aggiungere, del tutto rispondente allo spirito profetico che anima la Commedia, simboleggiando ogni profeta con la propria vita anche la vita del suo popolo, per cui nella redenzione di Dante é l'immagine prefiguratrice della redenzione religiosa e politica di tutto il mondo. Questa affermazione porta necessariamente a sottolineare la significazione biblica dell'apostrofe, rilevabile non per una vicinanza verbale, come a volte può avvenire, ma per una comunione di sentimenti: dalla passione più biblica e insieme più dantesca, l'ira, allo sdegno che ne consegue, capace, con la sua asprezza, di distruggere ogni riguardo umano (O Alberto tedesco... giusto giudicio dalle stelle caggia sovra 'l tuo sangue... vien, crudel, vieni... a vergognar ti vien della tua fama; ahi gente che dovresti esser devota), al disprezzo che trova le voci più mordenti e allusive e il gusto più realistico (non donna di provincie, ma bordello), al sarcasmo tanto più lampeggiante quanto più l'anima è irritata dinanzi ai sottili e perversi accorgimenti della mente umana (tu ricca, tu con pace, e tu con senno), in una gamma spirituale ricchissima, che trova la sua interna unità nel ritmo spezzato e variato dello stile per seguire più rapidamente il corso dei moti interni. "L'apostrofe Ahi serva Italia è tutta travolta da succedenti flutti di passioni; e per la pressura dei motivi la famosa pagina ci tocca più nel particolare che nell'intero svolgimento. Pagina oratoria, che in quelle circostanze val più di una raccolta armonia, non idonea ad accogliere la voce immediata del cuore, cioè la protesta del cittadino contro la forsennata politica del suo paese. Satira, ironia, sarcasmo guizzano e fremono per tutta l'apostrofe." In essa "gli elementi storici sono offerti da personaggi e avvenimenti contemporanei, collocati sul quadro della regione Italica che, nella fervida immaginazione, si rimpicciolisce per poter tutta dispiegarsi allo sguardo del Poeta, dall'una all'altra proda, dall'interno alle marine, sicché nulla sfugga al suo spirito indagatore e persecutore. Per questa capacità di sintesi storica e topografica..: .e per la luce apocalittica che scende dall'alto a percuotere i potenti e i responsabili e si protrae minacciosa nel futuro, l'apostrofe ha pur essa una suggestione biblica; poiché anche nella Bibbia c'è questa semplicità e ampiezza di visione: un occhio che guarda acuto; e una mente che giudica spietata" (Marzot). L'apostrofe, la cui violenza trova riscontro solo in quella rivolta alla simonia della Chiesa nel canto XIX dell'Inferno, non è un semplice artificio stilistico, assunto per convenienza o per necessità didascalica. Essa trova la sua origine in una dimensione psicologica e fantastica, che l'anima di Dante acquista quando avverte più violento dentro di sé lo spirito di ribellione al suo tempo, quando l'orrore e il disgusto del presente sono cosi forti da "scuotere le sue fibre di uomo, di credente e di cittadino" (Marzot), dissolvendo ogni linguaggio piano e composto - perché insufficiente a restaurare l'ordine morale e politico a cui egli mira - in uno stile epico ricco, secondo l'osservazione del Marzot, del tremore e della agitazione di chi è posseduto dalla sua materia e vi si dibatte, e nello sforzo vittorioso la domina e la esprime. Il passaggio dal termine proprio Italia a quello figurato fiera e giardin dello 'mperio, (da Roma all'immagine della donna vedova e sola) avviene senza soluzione e senza sforzo, perché le "cose" sono investite di un nuovo significato e su di esse fantasticamente si muovono, i pensieri e le passioni del Poeta: regioni e città diventano persone vive, bersagli animati della sua polemica in un discorso scorciato e vibrante, nel quale tuttavia resta la chiarezza di delineazione degli avvenimenti e dei problemi storici, dovendo gli uni e gli altri essere capiti e interpretati per potersi costituire come motivi di insegnamento.


PURGATORIO CANTO VII

             

 

Sordello, dopo il primo momento di commozione nell'udire il nome della patria, vuole notizie precise sui due pellegrini: Virgilio risponde rivelando la propria identità al poeta mantovano, che si rivolge allora a lui chiamandolo gloria de' Latin. Dopo aver spiegato che il loro viaggio è permesso da Dio e che egli proviene dal limbo, Virgilio chiede la strada più breve per giungere al vero purgatorio, ma Sordello ricorda che la legge del mondo della penitenza vieta di salire il monte durante la notte. Occorrerà cercare un luogo dove attendere l'alba. I tre poeti si avviano verso la "valletta fiorita", dove si trovano i principi negligenti; coloro che, troppo presi dalle cure mondane, si pentirono solo alla fine della vîta. Circondati da una natura splendente di fiori e di profumi, essi cantano l'inno "Salve, Regina", mentre Sordello, rimanendo sull'orlo della valle, indica ai due pellegrini i personaggi più noti: l'imperatore Rodolfo d'Asburgo, al quale Dante rivolge l'accusa di avere trascurato la situazione politica italiana, Ottocaro II di Boemia, Filippo III di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III d'Aragona con il figlio Pietro, Carlo I d'Angiò, Arrigo III d'Inghilterra, Guglielmo VII di Monferrato. Sottolinea infine la degenerazione dei loro discendenti, perché raramente la virtù si tramanda di padre in figlio, volendo Dio che tutti capiscano che essa non si riceve per eredità, ma proviene direttamente dal cielo.

 

Introduzione critica

 

Nell'invettiva all'Italia l'interna armonia delle venticinque terzine - che si frangono di continuo in immagini e in quadri che mutano rapidamente con una sottile gradazione di tempi e di tensione emotiva - è acquisita attraverso l'eliminazione di ogni sosta narrativa e di ogni tessuto ragionativo, mediante una sorta di impulso drammatico, che nasce non più da un attaccamento doloroso e polemico alle proprie vicende terrene, allontanate anzi nell'ansia di rinnovamento spirituale, ma dalla coscienza di una investitura conferita dalla fede e perciò di origine straordinaria. Ed è questo impulso drammatico, spogliato delle sue forme più agitate e dure, e venato di una profondissima malinconia, che sorregge nel canto settimo la rassegna dei principi. La domanda apparentemente blasfema dal Poeta rivolta a Dio (son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?) aveva denunciato, accanto all'indignazione, una stanchezza estrema di fronte al dilagare del male, un confidente abbandono non nelle risorse umane per una, sia pure lontana, rinascita, ma nella invocazione del soccorso divino, anch'esso però proiettato in un momento lontano nel tempo: o è preparazion... per alcun bene? Non la fede vacilla in lui, ma la speranza di vedere realizzato, di fronte alla violenza di quel male, il sogno di un'Italia giardin dello 'mperio, di una Roma non più vedova e sola, di una Firenze veramente ricca... con pace... con senno. L'inno liturgico del canto settimo, « Salve, Regina », invocante l'intervento divino per la debolezza umana, conclude questo momento di meditazione politica, perché l'animo, raggiunta una sfera tutta ideale e sicuro ormai nella presenza di un provvidenziale soccorso, si accinge a contemplare l'ordine in un mondo più vero e più alto, trovando, nel gruppo dei potenti della terra, non il motivo per una nuova, dura protesta dinanzi a ciò che l'intelletto umano non sopporta, perché lo ritiene assurdo, ma la disposizione ad una mitezza di giudizio di fronte a chi la giustizia divina ha già reso consapevole del male compiuto. L'animo del Poeta, che sembrava essersi allontanato non dallo slancio di purificazione e di ascesa che lo guida nella seconda cantica - e che gli ha dettato il movimento polemico e l'urgenza irrequieta dell'apostrofe - ma dalla intonazione elegiaca con la quale viene costruendo le caratteristiche del secondo regno, gravita di nuovo verso la preghiera. Recupera attraverso la pietà liturgica della « Salve, Regina », la coscienza di appartenere a quella società che aveva respinto da sé in un momento di ribellione, e, attraverso la malinconia della sera e il divieto di salire lungo il monte senza la luce, il senso della instabilità umana che colpisce Dante e le anime penitenti nella certezza di un esilio dalla vera patria. Il colloquio fra Virgilio e Sordello, la descrizione della "valletta", il momento liturgico, la rappresentazione dei principi non sono episodi distinti, capaci di spezzare l'unità del canto, anche se spesso l'indagine dei critici ha voluto farlo - rivelando come punto chiave ora l'esaltazione di Virgilio da parte del trovatore mantovano ora la continuazione del tema politico del canto precedente come vagheggiamento di un'ideale concordia fra i signori sotto la guida dell'imperatore (colui che più siede alto) - laddove i motivi si svolgono gli uni dagli altri con perfetta dipendenza. L'immagine di Sordello, esaurito il suo motivo poetico vitale - surse ver lui del loco ove pria stava sfuma nel contrappunto alla figura di Virgilio, la cui dolente rievocazione dello stato spirituale del limbo imposta un pacato discorrere che gradua il passaggio dallo stile dell'invettiva a quello della rassegna. Ed è ancora il poeta latino con le sue domande che porta Sordello, nello spiegare la legge del purgatorio intorno alla salita, a una vera e propria metafisica della luce e della tenebra, che si giustifica non solo come motivo didascalico, ma anche come anticipazione, nel crepuscolo della sera, del miracolo di luce e di colore della "valletta". Ma è soprattutto il tono della poesia virgiliana, il ricordo della commossa rassegna del canto sesto dell'Eneide che serve da mediazione tra l'invettiva e il catalogo dei principi esemplato sul Compianto di Sordello, ma privo della violenza di parole e di giudizio di quello. Infatti "in questa atmosfera, in questa luce, nel canto che invoca salvezza e dice speranza, anche il catalogo storico dei principi negligenti non può esser tracciato che con serenità, con pacatezza di giudizio: l'invettiva sarebbe fuor di luogo di fronte al canto della «Salve, Regina » ; ed ecco la violenza, lo sdegno e l'ironia del pianto di Sordello collocarsi, ambientarsi in un tono più piano" (Seroni). Tuttavia, se d'accordo col Vossler occorre rilevare la delicatezza di rappresentazione "nelle stanche posizioni; nei gesti dei principi, nell'ombra serale che s'avvicina, nei misteriosi bagliori e profumi dei fiori, nel pio canto corale di voci maschili, nei pensieri che riescono a commuovere i due pellegrini che guardano da lontano", questa presenza non deve disperdere in un'atmosfera vagamente romantica l'attenzione di chi legge, essendo chiaro il proposito del Poeta di costruire una storia per ritratti, "ch'è quasi una iconografia a tinte popolari, in cui le caratteristiche fisiche e i tratti morali tipici concordano a formar le immagini di una storia contemporanea, di una storia viva" (Seroni), anche se nella considerazione della degenerazione del potere temporale, della vicenda delle dinastie, del decadere, per li rami, delle virtù, nasce spontanea in Dante la riflessione intorno al « perché » di questi avvenimenti. Il Poeta, osserva il Seroni, risponde naturalmente alla luce della sua dottrina, e, pur restando il giudizio sulle colpe degli uomini, non può non intervenire una considerazione sistematica, dottrinaria: senza la volontà divina tanta degenerazione non è possibile. È una visione teologica della storia, dalla quale nasce appunto la pacata sicurezza del tono della rassegna dei principi.

 

Divina commedia purgatorio riassunto


PURGATORIO CANTO VIII

             

 

Mentre scende il crepuscolo una delle anime della "valletta fiorita" intona l'inno «Te lucis ante terminum», subito seguita da tutte le altre, che volgono i loro occhi verso il cielo. Dante, seguendo la direzione di quello sguardo, scorge due angeli splendenti che si dirigono verso l'orlo della valle, ciascuno con una spada fiammeggiante e priva della punta. Sordello, dopo avere spiegato ai due pellegrini che essi provengono dal cielo per difendere quel gruppo di penitenti dall'assalto del demonio che fra poco li tenterà, invita Dante e Virgilio a scendere in mezzo ai principi. Un'anima osserva fissamente il Poeta: è il pisano Nino Visconti, al quale egli fu legato da affettuosa amicizia. A lui Dante rivela di essere ancora vivo, suscitando l'attonito stupore di tutte le anime, mentre Nino invita uno dei principi ad avvicinarsi ai due pellegrini, per osservare da vicino quel prodigio; poi, rivolto all'amico, lo prega di ricordarlo alla figlia Giovanna, dal momento che troppo presto la moglie si è dimenticata di lui, passando a seconde nozze. Ad un certo momento Sordello indica a Virgilio il serpente tentatore che avanza nella valle, ma i due angeli, calando come sparvieri, lo mettono in fuga. Parla poi l'ombra che Nino aveva chiamato accanto a sé. È Corrado Malaspina, signore della Lunigiana, che chiede notizie della sua famiglia, offrendo a Dante l'occasione di esaltarne la liberalità e la prodezza. Il canto si chiude con la solenne profezia dell'esilio del Poeta fatta dal Malaspina.

 

Introduzione critica

 

La molteplicità di sentimenti e di immagini, di cui è ricco il canto, appare spontaneamente orientarsi verso un motivo centrale, con un processo di chiarificazione nel quale quei sentimenti e quelle immagini acquistano una loro organica e vivente unità, perché alla soglia del purgatorio vero e proprio l'anima si abbandona a una trepida e delicata rievocazione della vita passata, unita ad una rinascente e profonda gioia di vita spirituale, scandita dall'intervento delle potenze celesti. Queste, aiutando il generoso sforzo delle anime penitenti, iniziano un preludio circondato di mistero che introduce al mistero della visione e del sogno del canto seguente. Il motivo della vita umana come peregrinatio, che aveva avuto non uno sviluppo marginalmente didascalico o episodicamente lirico, ma una sicura e vivida tensione fin dai primi canti (cfr. in particolare il richiamo di Catone nel canto II, versi 120 sgg.), si arricchisce particolarmente, nel canto VIII, del sentimento dell'«esilio » dalla vera patria - il cielo - sentimento colto e descritto non nella sua immediatezza più inquieta e più tormentosa, ma attraverso la lucida proiezione nelle anime dell'antipurgatorio. Il desiderio di ritrovare sulla vetta del monte l'innocenza di un tempo, l'ansia di rigenerazione spirituale che anticipa l'ardore di carità dei beati, il concetto di speranza che informa tutti i gironi del purgatorio costituiscono, infatti, lo specchio della disposizione interiore di Dante, nel 'quale l'idea di questo esilio celeste si fonde con quello dalla sua patria terrena, in una rispondenza sentimentale che aderisce perfettamente al continuo alternarsi di attaccamento e di distacco dalla vita, che è uno dei motivi propulsori della seconda cantica. La similitudine iniziale, la preghiera dei principi, il sopraggiungere degli angeli e del serpente, l'incontro con Nino Visconti e Corrado Malaspina sono momenti sagacemente costruiti dal Poeta. Il suo occhio è fisso sulla bellezza letteraria dell'espressione e la sua mente si prepara ad alimentarsi delle sublimi conoscenze del purgatorio, senza abbandonare le care immagini della vita passata, senza respingere le esperienze di un tempo, distendendo anzi i suoi ricordi nella concretezza dell'esistenza terrena, ma accrescendoli e ampliandoli in una tonalità nuova, che nasce da quel particolare sentimento del tempo nel quale, secondo il Sanguineti, si cela e si esprime, insieme, il respiro stesso della poesia della Commedia. Nel marinaio e nel viandante, nei quali il passato e il presente si sovrappongono in una spirituale vibrazione, nell'anima che da sempre pare ripetere "d'altro non calme", nel canto liturgico che da secoli la Chiesa innalza, nella lotta fra le potenze del bene e la forza del male che riassume in un breve episodio il dramma continuo dell'umanità, il tempo sensibile si trasforma in tempo morale, in una misura cioè che non segna più il trascorrere degli anni, il susseguirsi delle generazioni, l'alternarsi della vita e della morte, ma definisce il ritmo di stati d'animo, di verità assolute che si manifestano nella realtà temporale per rimandare costantemente a quella eterna. Un canto dunque "il cui fascino più segreto e profondo è, forse, questo: una irreale sospensione fra la terra e il cielo, l'una ancor « presente e viva » e l'altro, già imminente, ma solo intravveduto e non ancora attinto. Un momento inesprimibile, in cui l'anima sta come tra due età: quella da cui si è distaccata e quella verso cui si muove; così che del mondo da cui si è dipartita reca ancora il ricordo; e forse il rimpianto; e del mondo al quale si avvia non ha che il presentimento dolce e, oserei dire, l'ineffabile sgomento. Un attimo, trepido e supremo, in cui le cose terrene stanno per venir meno per sempre e di quelle divine c'è solo nell'aria il misterioso preannuncio" (Sacchetto). L'accostamento e l'accordo dei diversi momenti del canto sono realizzati più con una combinazione di motivi musicali e figurativi che con un commento sentenzioso o moralistico, perché anche la profezia dell'esilio, rivelata attraverso l'ampia visione del sol che non si ricorca sette volte nel letto che 'l Montone con tutti e quattro i piè cuopre ed inforca, allontana ogni motivo più terreno e urgente - la visione del capo reo che porta il mondo verso il mal cammin - in una sfera di contemplativa e ascetica severità, dove la realtà delle debolezze umane e l'ostinato chinarsi dell'uomo verso il suo avversano rivelano la povera meschinità di una terra che ha come termine di confronto l'orizzonte del cielo con l'armonia delle sue rotazioni. Alcuni critici, pur rilevando l'estrema varietà di motivi di questo canto, tendono a considerarlo staccato dai due che lo precedono, perché la meditazione politica è dimenticata, mentre le quattro stelle, simbolo delle virtù cardinali, lasciano il posto alle tre facelle, emblema di quelle teologali, invitando il Poeta "a salire dal mondo della rettitudine naturale e delle virtù morali a quello presieduto dalla Grazia" (Fallani). Così il Croce afferma che "fresca risorge la poesia del cuore, quando Dante, rendendo vano l'udire di cose politiche, distornandosi dai discorsi di Sordello, s'immerge nella scena che gli si forma attorno e assiste a un mistero dell'anima, dell'anima che trepida e prega e invoca da Dio l'aiuto nelle tentazioni del male". In realtà si attua - attraverso il tono accorato della rassegna di Sordello - non un rovesciamento di contenuto, ma un passaggio ad un motivo di più scoperto colore sentimentale, dal mondo della violenza, della discordia, dell'errore alla pensosa figura dell'esule che quel mondo giudica e supera, perché si è ormai identificato nell'anima che giunse e levò ambo le palme... come dicesse a Dio: "D'altro non calme": "tra le modulazioni più intense, i toni acerbi e mordenti della rampogna trovano un correttivo e corrispettivo specialmente nell'elegia, nel rimpianto e compianto, in note di pathos niente affatto retorico, di nostalgica rammemorazione" (Grana).


PURGATORIO CANTO IX

             

 

Al termine del primo giorno di viaggio nel secondo regno, Dante si addormenta nella "valletta" dei principi. Poco prima dell'alba, quando i sogni, secondo una credenza medievale, sono più veritieri, al Poeta appare la visione di un'aquila dalle penne d'oro che scende improvvisa su di lui, trasportandolo nella sfera del fuoco, posta tra la sfera dell'aria e il cielo della luna, dove entrambi bruciano in un unico, grande fuoco. Destatosi pieno di paura, viene rassicurato da Virgilio, il quale gli rivela che durante il sonno era sopraggiunta una donna, Lucia, che aveva trasportato Dante dalla "valletta", dove erano rimaste tutte le altre anime, alla porta del purgatorio propriamente detto. I due pellegrini scorgono, sull'ultimo dei tre gradini che portano all'ingresso, un angelo splendente, armato di una spada, il quale rivolge loro la parola per chiedere che cosa vogliono e quale è stata la loro guida. Poiché (uguale fu la risposta a Catone) è stata una donna del ciel a condurli, l'angelo li invita a salire i tre gradini, dei quali il primo è bianco, il secondo quasi nero, il terzo rosso, ad indicare i successivi momenti del sacramento della confessione. A Dante, che si era inginocchiato, l'angelo incide sulla fronte sette P, come simbolo dei sette peccati capitali che dovrà espiare in ciascuna delle sette cornici del purgatorio. Dopo aver loro spiegato la funzione delle due chiavi, una gialla e una bianca, che ha ricevuto da San Pietro, apre la porta: si ode dapprima un suono cupo, che si trasforma poi nel canto dell'inno «Te Deum laudamus».

 

Introduzione critica

 

Pochi canti come il nono si presentano secondo i canoni medievali di una poesia risolutamente tesa a vivere tutte le risorse della sua fantasia in un quadro teologico. liturgico e in una struttura allegorica. A questi il lettore si accosta con una certa difficoltà dopo essere passato attraverso la semplice linea costruttiva dei canti dell'antipurgatorio. L'impegno del Poeta di fronte al mistero del sovrannaturale che si schiude all'anima - non solo libera dal peccato, ma sciolta da quella incertezza che l'aveva fatta vagare nell'antipurgatorio alla ricerca di se stessa, in quel momento di smarrimento che prende dopo la conversione dal peccato (segnata dai due riti comandati da Catone) e prima del voluto adeguamento alla volontà divina - è totale e trova testimonianza nell'incisione dei sette segni: "la cerimonia conferma quanto già sappiamo, [che è] dovere del pellegrino compiere il nuovo viaggio, non come semplice spettatore, non ponendo in gioco il suo intelletto solamente, ma l'intera sua umanità, tutto il suo sentire e il suo volere" (Vossler). Tale impegno si afferma nel canto nono attraverso un discorso grave e solenne, fortemente allusivo, il quale vuole tradurre la suggestione di un'emozione intensa che nasce dalla stupita contemplazione di un mondo ancora sconosciuto, e che è capace di manifestarsi solo emblematicamente, senza peraltro intorbidare la rappresentazione poetica, ma comunicandole anzi una più ampia luce. La figura della Notte, che copre con le sue ali e attraversa con il suo silenzio metà dell'universo, non è meno grandiosa e magica di quella dell'Aurora che si dispiega attraverso un incrociarsi di richiami mitologici e astronomici, che ne accrescono la misteriosità: non sono più una «notte» e una «aurora» comuni, perché, pare avvertire il Poeta (versi 70-72), tutto ciò che è a contatto con l'Assoluto, dilata i suoi confini secondo una misura non più umana. Infatti tutti i momenti iniziali del canto, che è il primo contatto con l'Assoluto, saranno comunicati dopo essere stati messi in relazione con eventi straordinari (versi 13-15; 22-24; 34-39), cosicché il racconto, iniziatosi con immagini così vaste e musicalmente così profonde e lontane, crea un senso sacrale di aspettazione. Esso non verrà certo deluso né dalla visione dell'aguglia - la cui imperiosa apparizione si distende fra la malinconica figura della rondinella e la commossa evocazione di Lucia, che temperano la violenza di quel volo terribil come folgor in un'alternanza di toni, ora forti, ora attenuati attraverso e per mezzo dei quali si viene schiudendo il primo, trepido incontro dell'umano con il divino - né dalla celebrazione liturgica che chiude il canto, ricca di minuziose allegorie non sempre individuabili con assoluta certezza, "ma appunto nell'essere questi simboli un mistero, che può venire unicamente presagito (in ultima analisi è il mistero di Dio), sta la loro efficacia poetica. La veste solenne crea qui la poesia. Onde l'intero canto ha uno stile di ambiguità sublime e, oscuro nel profondo, riesce alla superficie per virtù di lingua e d'immagini, splendido di evidenza" (Vossler). Tutto il discorso fluisce, logico e serrato, senza nulla concedere agli indugi contemplativi, essendo, come abbiamo detto, le immagini caricate in modo singolare di significato analogico e ricondotte tutte al motivo dell'anima che entra nella Grazia, attraverso il rito finale della confessione. Questo, di nuovo, con fermissima coerenza stilistica, si richiama ad elementi figurativi, ad un linguaggio ricco dì valori tattili, ad un gusto vivo di osservazioni e, quasi, di sensazioni, dove i gesti dell'angelo e di Dante o i colori diversi dei tre gradini, sono immagini "fisiche e corpulente non già soltanto per un espediente retorico di evidenza espressiva, per tradurre in metafora un'umbratile esperienza, ma proprio per adeguare la parola all'intensità dell'esperienza" (Getto). Dante nel canto nono spiega cosi i criteri in base ai quali istituisce uno spontaneo, perpetuo richiamo metaforico fra il mondo sovrannaturale, in cui sta entrando, e il mondo della natura (non a caso l'importanza del canto è sottolineata, e proprio a metà del suo svolgimento, dall'avvertimento del Poeta al lettore), perché si può realizzare lo sforzo di rendere intuitivo il graduale, congeniale e funzionale consenso con la rivelazione divina, martellandolo nel ritmo limpido e coerente dei versi, come lo sbalzo di un disegno geometrico. Se già il lettore ha accostato nel Purgatorio alcune zone liturgiche, dove la fantasia del Poeta si è accinta al rischioso compito di chiudere in un gesto e in poche terzine una tradizione secolare, diventata prezioso possesso della vita ufficiale della Chiesa, è però del tutto nuovo l'incontro con la « visione » (versi 19-33), perché quando al Poeta vengono a mancare i dati e i pesi materiali, cui abbiamo accennato e sui quali la sua fantasia può agire per rappresentare il movimento ascensionale dell'anima, interviene l'uso frequente di questa forma poetica prettamente medievale. Il Fallani, riassumendo osservazioni di altri critici, nota che "il Poeta, più di ogni altro scrittore del tempo, fu affascinato dalla tematica sacra risolta in forma di visione: il linguaggio bizantino dell'arte apriva sempre sullo sfondo un riquadro di cielo e l'atto umano si rivestiva di un non so che di trascendente... Il Giotto di Assisi e di Padova si affiancava alla grande tradizione musiva, con l'esperienza di quei contatti semplici e popolari degli affreschi, e liberamente il racconto si articolava di figure, di alberi, di cieli, di angeli, di demoni, di apparizioni. Dante colse dalle arti l'avvertimento, che lo aveva già sollecitato nelle visioni della Vita Nova... e pose nel suo Purgatorio le visioni per chiarire la presenza misteriosa di Dio, per un bisogno di esternare la meditazione e il suo frutto religioso, e per predisporre il lettore all'ultima ascesa".


           

 

PURGATORIO CANTO X

             

 

Dopo essere entrati nel purgatorio propriamente detto, Dante e Virgilio iniziano una dura salita attraverso un sentiero stretto e ripido, che li conduce infine su un ripiano deserto, dove la parete del monte appare di marmo bianco, adorno di artistici bassorilievi. Sono rappresentati esempi di umiltà, che le anime dei superbi, i penitenti di questa prima cornice o girone, devono meditare prima di quelli di superbia punita, che appariranno scolpiti sul pavimento. La prima scultura presenta l'arcangelo Gabriele che annuncia la nascita di Cristo alla Vergine, la quale sembra rispondere con le stesse parole del testo evangelico: «Ecce ancilla Dei». Il secondo esempio ricorda un episodio biblico, il trasporto dell'arca santa ordinato, da Davide, che precede la solenne processione cantando e ballando in segno di umile gioia. L'ultima scena è tratta dal mondo romano e riprende una leggenda molto diffusa nel Medioevo, l'incontro di Traiano e della vedova che invoca da lui giustizia contro gli uccisori del figlio prima che egli parta per la guerra: alla fine l'imperatore, riconoscendo giusta questa richiesta, accontenta la donna. Mentre Dante è ancora intento ad osservare queste opere, create direttamente dalla mano di Dio, avanza verso di loro una schiera di anime oppresse da pesanti massi: sono coloro che in vita si abbandonarono alla superbia, contro la quale il Poeta prorompe in una fiera invettiva.

 

Introduzione critica

 

Nella triade dei canti dedicati ai superbi il decimo è stato trascurato dalla critica, che lo ha considerato, quasi unanimemente, il più debole quanto all'ispirazione poetica e il più povero quanto a motivi umani, anche se non privo, qua e là, di alcune scoperte espressive (specialmente nel tono aspro e tormentato di molti versi della parte finale), che rivelano il Poeta duramente impegnato di fronte alla sua materia, alla ricerca di una nuova situazione spirituale e poetica che gli permetta di esprimere con la congruenza necessaria il passaggio dal purgatorio dell'attesa a quello della pena. Un largo filone esegetico, la cui posizione fu pienamente consacrata dal Croce, ha ridotto il fulcro del canto alla parte centrale dedicata agli esempi, spiegandolo come altissima esaltazione dell'arte, al di là di ogni altra preoccupazione ("l'effetto - secondo il Croce - piuttosto che di una mortificazione e compunzione per le cose ritratte, è di ammirazione per l'arte trionfatrice, che sopr'esse si dispiega"): interpretazione non priva di fascino, ma certamente avulsa dalla più genuina significazione di quei versi. Altrettanto interessante, anche se di limitato approfondimento, può essere una ricerca che esperimenta i significati storico-allegorici dei tre esempi, derivati dal mondo giudaico-cristiano e da quello pagano, e creanti una simmetria suggestiva, "nella quale le due civiltà si appalesano ancora una volta concordemente dirette a portare ciascuna nel mondo la sua parte di redenzione" (Sacchetto), cosicché "noi potremmo comprendere anche più persuasivamente perché la figura di Traiano, augusta incarnazione delle virtù dell'aquila, venga qui singolarmente ricordata sul candido marmo della prima cornice, poco lontano da Maria, augusta annunciazione delle virtù della croce": Ma è in una direzione psicologica-stilistica che la lettura del canto potrebbe offrire indicazioni e apporti interessanti, liberandolo da un giudizio negativo forse non sufficientemente motivato, e recuperandolo al gruppo di quei canti nei quali è più avvertibile, perché non sempre perfettamente realizzato, lo sforzo di esprimere e far vivere uno stato di ascesi, la cui ampiezza e la cui profondità, tuttavia, non impediscono l'indagine analitica dei fatti e degli stati d'animo momentanei. Il preludio polifonico della seconda terzina vuole sottolineare l'importanza e la particolarità del canto, che segna una nuova esperienza spirituale - l'inizio vero del pellegrinaggio dopo la riconquista della libertà e, in particolare, il momento ineffabile e solenne in cui il Poeta avverte il godimento di questa liberazione - e che propone come suo motivo propulsore l'esaltazione dell'umiltà. In tal modo i tre famosi esempi scolpiti nel marmo, l'esortazione agli uomini perché ricordino chi sono e qual è il loro vero fine, la lunga e lenta teoria dei superbi trovano unità poetica in questo centro ideale, ed è unità di pensiero, che determina via via le immagini. Benché ogni terzina consegni un significato chiaramente allegorico (e sotto questo punto di vista il canto appare strettamente unito a quello precedente), l'interpretazione dantesca non rinuncia affatto al valore emotivo delle immagini scelte, potenziandole anzi e arricchendole di intimità con una trama sapiente di parole tematiche dal "muoversi" del sentiero lungo il quale i due pellegrini salgono, che suscita subito l'idea della loro debolezza e del bisogno dell'aiuto divino, al loro atteggiamento di creature finalmente "libere" e "aperte", che dispone subito alla gioia e alla speranza; dalla improvvisa apparizione del piano solingo, che pare soverchiare con una fissa staticità la vita dello spirito dopo lo sforzo della salita, al visibile parlare dei bassorilievi marmorei, sui quali l'interesse di Dante si concentra, diventando immediatamente vivo e operante attraverso l'azione di Dio, lo fabbro loro; dalla visione di Maria, che ad aprir l'alto amor volse la chiave, al tormento dei penitenti oppressi dai macigni, dove il penoso viluppo delle anime e dei massi viene inasprito da certe parole e suoni di plastica evidenza (rannicchia, disviticchia, picchia), in "una linea di poesia verticale che dal cielo scende a precipizio sulla terra, come in un crescendo drammatico" (Sacchetto). Il canto si struttura appunto in una precisa contrapposizione di note drammatiche alla materia elegiaca, risolvendo le allusioni simboliche in un sapiente chiaroscuro di motivi, come ad avvertire che la letizia e la speranza del Poeta, lungi dall'essere già una tranquilla effusione del sentimento, comportano in fondo uno stato di contrasto, un senso visibile della fatica e dell'asprezza che attendono l'uomo quando egli si dispone alla chiamata della Grazia, creando nella memoria del lettore l'immagine più sensibilmente spontanea di questa singolare poesia. Il momento lirico culminante di questa contrappuntata orchestrazione emerge non tanto negli esempi, anche se in ognuno di essi viene fissata attraverso figurazioni di suprema essenzialità una forte tensione spirituale, quanto nell'incontro con i primi penitenti del purgatorio. Ora al tono elegiaco e patetico dell'antipurgatorio, che aveva toccato lo spirito di Dante, senza penetrare in esso, si sostituisce uno stato drammatico, al quale il Poeta aderisce perfettamente attraverso una più intensa commozione morale. Lo spirito, non più immobilizzato nell'attesa, sviluppa ora tutte le sue forze potenziali, in una dimensione interiore meditata e sofferta: l'umano e il divino (come Dio vuol che 'l debito si paghi) si dispongono e si dialetizzano nell'intimo di queste anime, che espiano e ricordano un peccato terreno per attingere una vita ultraterrena, continuando, nella loro lunga schiera, su un piano ancora più concorde e unitario, quella coralità di rappresentazione iniziata già sulla spiaggia del purgatorio con l'arrivo del vasello snelletto e leggiero.


           

 

PURGATORIO CANTO XI

             

 

Divina commedia purgatorio riassunto

 

Nel primo girone, dove si sconta il peccato di superbia, i penitenti recitano la preghiera del « Pater Noster », invocando l'aiuto di Dio per sé e per coloro che sono rimasti sulla terra. A Virgilio, che ha chiesto la strada più breve per giungere al passaggio che porta al secondo girone, risponde una delle anime, che, in un secondo tempo, rivela di essere Omberto Aldobrandeschi, appartenente ad una delle più note famiglie nobili della Toscana: l'orgoglio per l'antichità della sua stirpe e la grandezza delle azioni dei suoi antenati gli fecero dimenticare che la terra è la madre comune di tutti, spingendolo a disprezzare il suo prossimo. Intanto un altro penitente, girandosi con penosa fatica sotto il masso che lo opprime, riconosce Dante, che ritrova così, nella prima cornice, l'amico Oderisi da Gubbio, famoso miniatore del tempo, Dopo avere ricordato che la sua fama è ora stata oscurata da un altro artista, il bolognese Franco, Oderisi enuncia una legge alla quale nessuno si può sottrarre: vana è la gloria alla quale gli uomini tendono con tutte le loro forze, perché essa scompare subito se non è seguita da un periodo di decadenza. Così nella pittura Giotto ha sostituito Cimabue, e nella poesia Guido Cavalcanti è ora più famoso di Guido Guinizelli, ed è forse già nato chi sovrapporrà la sua alla loro voce. Un altro esempio storico della brevità del mondan romore è offerto dalla vicenda di Provenzano Salvani, un tempo signore di Siena e ora pressoché dimenticato. Il canto si chiude con il ricordo di una grande azione di umiltà compiuta da Provenzano per salvare la vita di un amico.

 

Introduzione critica

 

È facile - di fronte a canti che, come l'undicesimo, portano in primo piano la presenza di amicizie, interessi e problemi personali del Poeta - rilevare lo sfondo autobiografico, analizzare l'articolarsi narrativo di una confessione che, con forza irresistibile, rivela l'antinomia fra il Dante reale, proteso ancora nel mondo contingente (nel desiderio della gloria o nella dura critica politica per il caso particolare dell'XI) e il Dante ideale, abbandonato ad un anelito religioso che esige il superamento di quel mondo. Nonostante la vastità e l'intensità di questa esperienza umana, tuttavia, sarebbe sempre un limite necessariamente angusto e povero quello entro cui verrebbe chiuso uno svolgimento poetico, che trova il suo lievito vitale nell'esperienza vissuta e nella sofferta partecipazione di Dante, per trasfigurarle in quel valore universale che all'arte si richiede perché sia tale. "Anche qui - afferma il Grabher che ha dedicato un'acuta analisi al canto XI - il particolare è trasceso da una visione che attinge la sua altezza da un senso eterno e universale dell'umana vita; senso a cui ha dato alimento la personale sofferenza del Poeta, uomo tra gli uomini, peccatore tra i peccatori; ma nella superiore, distaccata rappresentazione dell'arte, l'individuale esperienza dell'uomo non lascia altra traccia che quella di una passione e di un patimento, che danno lo stesso accento umano alla rappresentazione di tutti gli umani peccati". In altri termini, accettando la definizione del Montano, secondo la quale è la vicenda dell'anima l'essenza della poesia del Purgatorio, nel canto XI ogni incontro costituisce una nuova apertura, un altro momento del cammino per la conquista della salvezza, durante il quale l'anima ripassa attraverso l'esperienza del male, ne riconosce la natura e se ne libera, osservando questo suo processo come qualcosa di passato, di staccato, che è rimasto nella sua memoria e che deve essere riprodotto come qualcosa di reale. Infatti "nella nostra mentalità moderna un processo come questo è riconosciuto e ritratto attraverso una analisi interiore, una ricerca più o meno sottile nei vari confusi moti della coscienza. Nel Medioevo le fasi e le forze del dramma personale apparivano e potevano essere obiettivate in figure e conflitti reali" (Montano). Perciò le figure di Omberto, Oderisi e Provenzano hanno una loro vita autonoma, un'interiore coerenza drammatica secondo le manifestazioni della propria indole, configurandosi in gesti, parole, reazioni, che appartengono a loro soltanto, che si presentano come note peculiari della loro personalità, indipendentemente da quella del Poeta, anche se a questa - per il rapporto fra creatore e creatura - strettamente unite. Nell'ambito di questa trama interpretativa è cosi possibile seguire l'alternarsi - con una funzione dialetticamente drammatica dei momenti di rappresentazione vasta e corale con quelli in cui la visione si restringe al particolare e al concreto, cosicché il continuo passaggio dalla legge all'esempio e dall'esempio alla legge si dispone in modo che il particolare conferisce maggiore concretezza all'universale e la legge universale arricchisce di valore e senso eterno il particolare. Al tono generale della preghiera del "Pater Noster" segue l'immagine delle anime disparmente angosciate, all'esortazione perché i vivi preghino per i penitenti succede la richiesta da parte di Virgilio del varco... che men erto cala, al motivo della gloria passeggera degli uomini, la dimostrazione storica. Nelle parole di Omberto si profila, al di là della casata degli Aldobrandeschi, il mondo feudale con il suo orgoglio di stirpe, contrapposto alla grande immagine della terra, madre comune, mentre il senso dell'effimero e dell'eterno si dispiega a sorreggere il grave discorso di Oderisi e la figura di Provenzano, nella quale al di sopra di Siena, di Firenze, delle lotte del mondo, appare la visione della giustizia divina, che, dopo essersi mostrata attraverso la pena dei superbi nel suo aspetto più severo, trapassa in quello della bontà infinita, salvatrice, dopo Manfredi, Bonconte e tanti altri spiriti, anche di Provenzano in virtù di un gesto di carità. Infine il canto termina con una umanissima digressione, nella quale il Poeta si ferma decisamente alla sua storia, al suo particolare dramma. Queste situazioni illustrano, esemplificandola, la distesa tematica della superbia al limite estremo in cui tale motivo si viene convertendo in quello della vanità della gloria, con una cadenza estremamente funzionale e di fortissimo rilievo nell'economia, non solo del canto XI, ma di tutto il Purgatorio: nel procedimento antitetico e nella densità epigrammatica del discorso di Oderisi, che costituisce il centro prospettico del canto, si svolge una costruzione concettuale che nulla perde della sua logica serrata per il fatto di essere, da un lato, un problema drammaticamente attuale nell'animo di Dante e di subire, dall'altro, un travestimento riccamente immaginoso. Il Poeta sviluppa l'affermazione dell'Ecclesiaste - fatta propria dal pensiero medievale a partire da Boezio che "il tutto è vanità e inutile affanno" (I, 14) di fronte all'eterno, apparentemente opponendosi a quanto aveva dichiarato nell'Inferno (canto XXIV, versi 47-51), dove il perseguimento della fama era una delle più nobili mete da raggiungere. Tuttavia là essa era additata, in contrapposto all'ignavia di chi si abbandona ad una vita senza ideali seggendo in piuma o sotto coltre, come testimonianza e misura dell'altezza a cui l'uomo può giungere grazie alla sua azione, mentre nella dimostrazione di Oderisi la gloria terrena è contemplata e negata come valore assoluto ed eterno, senza nulla togliere, in validità, all'opera di chi si sforza, proponendosi una meta, di meglio realizzare le proprie capacità, ma mostrando l'inutilità di tale sforzo allorché la ricerca affannosa del mondan romore sostituisce o nasconde la visione eterna di Dio.


PURGATORIO CANTO XII

             

 

In seguito all'invito del maestro, Dante, che finora aveva camminato al fianco di Oderisi, lascia la schiera dei superbi e procede oltre, osservando sul pavimento del primo girone numerosi bassorilievi, che rappresentano esempi di superbia punita e nei quali gli episodi sono presi alternativamente dal mondo ebraico-cristiano e da quello pagano: da Lucifero, che dopo il suo atto di ribellione precipita dal cielo, alla città di Troia, che a causa dell'orgogliosa superbia dei suoi cittadini fu dagli dei punita con la distruzione totale. Dopo aver ammirato l'arte somma con la quale le raffigurazioni sono state eseguite, Dante rimprovera con durezza la superbia degli uomini, che impedisce loro di vedere il male che compiono. I due pellegrini continuano il cammino, finché appare loro, splendente di luce, l'angelo dell'umiltà, che indica la scala per accedere al secondo girone, cancellando dalla fronte di Dante il primo dei sette P incisi dall'angelo guardiano alla porta del purgatorio, e intonando, mentre i poeti salgono una ripida scala, la prima delle beatitudini: "Beati pauperes spiritu!" Poiché Dante avverte meno fatica di prima, chiede spiegazione di questo fatto al maestro: man mano che egli avanza nel regno della penitenza, dice Virgilio, la volontà di purificazione aumenta e scompare ogni senso di difficoltà e di pena; ma il Poeta, per essere sicuro che il primo P è scomparso, ha bisogno di toccare la sua fronte, quasi incredulo di tanto miracolo.

 

Introduzione critica

 

Nel canto XII le situazioni di pura fantasia e i rilievi di sostanza morale non si presentano come separate orientazioni del racconto, ma come complementari cadenze costruttive, come due aspetti tematici di un medesimo nucleo narrativo, il quale continua a riproporre, sia pure con invenzioni spirituali e stilistiche diverse, l'elogio dell'umiltà già tessuto nei due canti precedenti, con i quali il XII ha in comune anche un persistente stato d'animo di amarezza e di malinconia, che la luminosa apparizione della creatura bella, bianco vestita riuscirà solo in parte ad attenuare. La problematica della superbia, che si configura nella dolorosa storia della follia umana, quale sovvertitrice di ogni ordine morale e politico, porta il Poeta ad una ricerca dottrinale, il cui impegno gli preclude, in questo canto, ogni contatto con le singole anime, allargandosi il suo sguardo ad un esame generale delle vicende umane (la ricchezza e la varietà degli esempi ne é chiara testimonianza), per tradursi nei termini risentiti e sarcastici delle due apostrofi - riflessioni (versi 70-72 e 95-96), che concludono, con richiami precisi e con espressioni ancora più ferme e risolute, quelle del X e dell'XI canto. La presenza dell'umano, che aveva trovato una poetica individuazione nei personaggi del canto precedente, tende ora a dissolversi in due esperienze la cui sostanza non ha alcun rapporto con il contingente, se non nella misura in cui essa é percepita da Dante: la visione della volontà superiore di Dio, che con il suo intervento ristabilisce nel corso delle cose un ordine che gli uomini hanno tentato di distruggere e la visione dell'angelo che di quella volontà é, agli occhi del pellegrino, la più vistosa manifestazione. È dunque una poesia che non si regge su alcuna figura caratteristica, ma che cerca il valore rappresentativo ed emotivo su un piano misterioso, su una realtà di immutabile ed imperscrutabile giudizio con la quale l'animo del Poeta si pone in rapporto per osservare, con precisa attenzione (versi 7-9; 13-15; 70-72; 77-78; 94-96; 127-135), le reazioni della sua vita spirituale a contatto con il trascendente. Ogni scena, infatti, si deve disporre in modo coerente e rigoroso a delineare la compiuta rappresentazione di un momento particolare della storia morale dell'uomo, quello in cui scompare definitivamente il primo peccato, per intervento diretto della Grazia, preceduto però, da parte della creatura, da uno sforzo di consapevole e razionale correzione (i continui, pressanti inviti di Virgilio, la ragione naturale, sono volti, infatti, a questo fine preciso). La vera espressività del canto XII é dunque di sostanza dottrinale, alla quale conferiscono ricchezza di rilievi, di atteggiamenti e di toni le immagini e il racconto della varia vicenda, segnata, inoltre, dalla ritmata presenza di versi aspri o modulati o martellati o vigorosi che quasi ne sottolineano e ne scandiscono i tratti essenziali. Dal verso folgoreggiando scender da un lato, il quale risolve in una repentina movenza drammatica il momento di mesta commozione scaturita dalla puntura della rimembranza (che pareva costituire un incisivo, anche se fugace accenno autobiografico), a quello or superbite, e via col viso altero, nel quale trascorre, con una cadenza popolaresca, la tonalità polemica di tutta la dimostrazione; dall'ammonimento di Virgilio pensa che questo dì mai non raggiorna !, nel quale vengono sapientemente amplificate tutte le precedenti esortazioni, congiungendo la concreta storicità della figura umana di Dante con il valore perenne ed universale dell'exemplum, al contemplante indugio di fronte all'angelo nel cui volto par tremolando mattutina stella, dove il lungo procedimento narrativo degli esempi si dissolve in una ineffabile visione poetica, ricca di richiami dolcestilnovistici, nel modo prezioso e trasumanante in cui il Poeta aveva un tempo ornato l'immagine della donna amata. Il XII si presenta perciò come un canto di una notevole complessità di sviluppo e di stile, rilevabile nel prodigio delle sculture, il cui sintetico valore le rende più vive del fatto stesso che illustrano, nella esattezza minuziosa della descrizione, nel fresco abbandono all'estro della loro invenzione, nella suggestione figurativa-liturgica dell'angelo, nella varietà sottile dei passaggi, nella sapienza degli spunti, nella potenza, infine, del suo significato spirituale, che é oltre il velo di tutte quelle scene e parole, scaturendo da una visione sostanzialmente negativa della storia umana (a questo invito vegnon molto radi) e della possibilità di resistenza della creatura di fronte al peccato (perché a poco vento così cadi?). Questa pagina dantesca, che pareva, a prima vista, sostanziata solo dal virtuosismo dell'arte, diventa cos? un documento di come il Poeta riesce a chiudere, nel breve arco di un canto, il motivo della meditazione penitenziale, insistentemente condotto - secondo la formula medievale dell'insegnamento - su esempi visivi, il gusto rituale che percorre tutta la seconda cantica, il passaggio da Dante personaggio lirico, che soffre e riflette con la stessa umiltà delle anime penitenti, a Dante personaggio drammatico, che, proprio in nome di quella umiltà che potrebbe ristabilire la pace nel mondo tormentato dalla tracotanza, con l'asprezza e la epicità del profeta giudica e condanna gli uomini (versi 70-72 e 94-96), il rapporto continuo, dialetticamente vivissimo, e non marginale ed estrinseco, fra maestro e discepolo. Tale rapporto chiarifica, ravvivandoli con l'affetto del dialogo, i diversi momenti spirituali del canto fino al dolce sorriso finale di Virgilio, che sembra riacquistare solo nel XII una più decisa funzione di guida, dopo l'indecisione dell'antipurgatorio e lo smarrimento nell'accostare le prime realtà del purgatorio.


           

 

PURGATORIO CANTO XIII

             

 

Nel secondo girone, dove sono punite le anime degli invidiosi, i due pellegrini odono gridare, da voci misteriose che attraversano l'aria, tre esempi di carità: il miracolo di Cristo alle nozze di Cana, l'amicizia profonda che legava due famosi eroi greci. Oreste e Pilade, il comando evangelico all'amore fraterno. I penitenti, addossati a una nuda parete e coperti da ruvidi manti, si sorreggono gli uni alle spalle degli altri: i loro occhi appaiono chiusi, cuciti da un filo di ferro che impedisce loro di scorgere la luce del ciel. Dante, che teme di mostrarsi scortese passando dinanzi alle anime senza rivelare la sua presenza, chiede se in mezzo a loro c'è qualche italiano: ma, risponde una voce, ogni uomo ha una sola patria, che è quella celeste. Dante avanza verso l'ombra che ha parlato per conoscerne il nome o il luogo di nascita; appare così la figura della nobildonna senese Sapia, la quale confessa il suo peccato di invidia, che la portò a gioire più del male altrui che del proprio bene personale, spingendola a chiedere a Dio anche la rovina della sua patria. Alla fine della vita si convertì, ma solo le preghiere di un umile venditore di pettini della sua città le evitarono una lunga sosta nell'antipurgatorio. Durante il colloquio con Sapia, che non rinuncia a colpire, anche nell'al di là, con dura ironia i suoi concittadini, il Poeta riconosce che il suo animo è occupato non tanto dal peccato di invidia, quanto da quello della superbia, che egli sconterà sotto il peso dei macigni del primo girone.

 

Introduzione critica

 

I due canti dedicati agli invidiosi si configurano in strutture esteriormente differenti - presentandosi il XIII diviso nella parte dedicata alla descrizione della pena e in quella dominata dalla singolare figura di Sapia e il XIV accentrato intorno al personaggio di Guido del Duca, impegnato nella dura requisitoria contro la degenerazione morale del tempo - ma sostanzialmente dipendenti: nell'ambientazione esteriore, dove la natura povera ed opaca sembra vivificata dal misterioso trasvolare delle voci e la smarrita desolazione che percorre il gruppo dei penitenti ciechi crea, tranne che nell'episodio di Sapia, un penoso disorientamento nell'animo di Dante, e nella forte motivazione politíco-morale, che colpisce nel peccato dell'invidia una delle cause fondamentali della corruzione civile. Tuttavia il XIII non è costruito con lo stretto nesso logico e l'intensa concatenazione degli stati spirituali che caratterizzeranno il canto seguente, essendo avvertibile, nonostante il parere contrario del Momigliano, una certa frattura fra il tono tenue e malinconico dei versi 1 - 93, che nulla perde del suo pacato distendersi per l'intervento di forti punte realistiche (versi 37-39 e 70-72), e quello sbalzato con linee decise e rilevanti per dare volto al personaggio di Sapia, come se la moltitudine delle anime espianti le facesse da bassorilievo. Si opera un brusco stacco, senza che il lettore sia preparato, fra il pietoso protendersi di Dante verso le anime così duramente punite e il linguaggio aspro e tagliente che apre e chiude il discorso di Sapia, cosicché di fronte all'evidenza di questa figura di donna non ancora domata nel suo peccato di invidia e nel suo carattere bilioso, non solo passa in secondo piano il gruppo di coloro ai quali un fil di ferro i cigli fora e cuce, ma si spegne anche quel sentimento di pietà al quale il Poeta aveva fatto appello (versi 52-54). "Se ci ricordiamo di un altro canto, il V del Purgatorio, non possiamo non rilevare che colà la pietà che comincia a sentirsi per quelle anime di uccisi - Jacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro continua a sentirsi, e più profonda, per Pia dei Tolomei, così triste e rassegnata, così soave e riserbata : anch'essa senese, ma quanto diversa da Sapia! Mentre di quella, alla fine del canto, ci resta ancora l'eco di quella voce soave e dolente, in cui sembra esalare la pietà di tutto quel canto ch'è la dolorosa rassegna di tante vite miseramente uccise, di quest'altra senese, Sapìa, ci resta invece l'eco stridula di un carattere riottoso e invidioso, che non ci tien desto quel senso di pietà che avevamo provato per quella folla di ciechi prima descritta: anzi lo distrugge e lo cancella. " (Biondolillo) La critica ha accentuato questa mancanza di unità rigorosa, preferendo prendere in esame, del canto XIII, la figura di Sapia, in omaggio al criterio esegetico che accentra l'interesse sul personaggio protagonista del canto, scarsamente lumeggiando quello che, ad una prima lettura, potrebbe apparire come elemento di sfondo, o, tutt'al più, come valido accompagnamento della vicenda principale. Invece, in questo caso, è interessante sottolineare il meditato procedimento narrativo, attraverso il quale è più facilmente percepibile la compiuta capacità di delineare la complessa psicologia di Sapia, la quale con l'impeto ed il rilievo crescenti delle sue parole rompe l'uniformità spirituale dei suoi compagni di pena, vela per un istante il livido grigiore del secondo girone per riportarci all'animata vita senese del tempo, dimentica l'orrore della pena per riprendere il peccaminoso atteggiamento di un passato non ancora lontano, scuote da sé le lagrime che per l'orribile costura premevan sì, che bagnavan le gote, ritornando all'antico carattere, scontroso, invidioso, sarcastico, combattivo, in quel voluto gioco - sul quale poggia la varietà poetica e strutturale di tanta parte del Purgatorio - che accosta stati d'animo diversi, gli uni ancora legati all'esperienza umana del penitente, gli altri solo ora suggeriti dal vitale accostamento alle realtà sovrannaturali. Mai una vita è stata così nettamente delineata e lucidamente rivissuta, quasi la cecità alla quale Sapia è costretta avesse concentrato ogni sua forza spirituale in una tensione interiore che le permetta di ripercorrere l'arco dei suoi anni con la stessa precisione assoluta con la quale lo sguardo del Poeta si è prima disteso sulla lunga fila delle ombre con manti al color della pietra non diversi... di vil cìliccio... coperti, dove l'un sofferìa l'altro con la spalla, con la stessa tragica lentezza con la quale egli ha osservato il fil di ferro che i cigli fora e cuce e l'orribile costura. La veemenza del carattere di Sapia è poeticamente realizzata e rilevata dall'opposizione con l'anonima schiera compenetrata alla roccia, dove ogni persona fisica appare annullata. La voce di Sapia, la prima e la più pronta a rispondere alla richiesta di Dante, rivela, pur nel rifiuto di applicare al mondo della penitenza le categorie puramente umane, una forza repressa che aspetta solo un'occasione propizia per manifestarsi, per riprendere, con una mordacità dettata non solo dal suo temperamento, ma anche da una superiore visione degli uomini, da una coscienza più elevata, acquistata dopo la salvezza, un'analisi che dentro di sé non ha mai interrotta, perché - ed è uno dei motivi che rendono singolarmente indimenticabile quell'ombra che lo mento a guisa d'orbo in su levava - lo spirito di Sapia si mostra curioso indagatore di ogni moto della sua anima, attento giudice di ogni suo atteggiamento, capace di un'autocondanna che rischia di annullare la sua personalità nel satirico accostamento alla figura del merlo.


PURGATORIO CANTO XIV

             

 

Il secondo canto dedicato agli invidiosi si apre con un dialogo fra le anime di due nobili romagnoli, vissuti nel secolo XIII, Guido del Duca e Rinieri da Calboli. Il primo, avendo notato che Dante è ancora vivo, lo prega di rivelargli la patria e il nome: il Poeta, per mezzo di una lunga perifrasi, spiega che la sua città di nascita è situata lungo le rive di un fiumicel che per mezza Toscana si spazia, ma tace il suo nome che non è ancora sufficientemente conosciuto. Guido del Duca pronuncia contro gli abitanti delle località (il Casentino e le città di Arezzo, Firenze e Pisa) percorse dall'Arno una dura requisitoria, accusandoli di avere abbandonato ogni virtù e, di avere trasformato la valle del fiume in un covo di malizia. Per sottolineare la gravità della degenerazione dilagante in questi luoghi, il romagnolo inizia una fosca predizione intorno al nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli, che tiranneggerà la città di Firenze spargendovi il terrore. Dopo aver confessato il proprio peccato e dopo aver rivolto una breve apostrofe all'umanità che si lascia traviare dall'invidia, Guido, nell'ultima parte del suo discorso, ricordata la corruzione presente della Romagna, rievoca con nostalgia e rimpianto il tempo passato, nel quale le virtù, il valore e la cortesia guidavano la vita di ciascuno. Quando i pellegrini riprendono il viaggio, voci misteriose ricordano due esempi di invidia punita.

 

Divina commedia purgatorio riassunto

 

Introduzione critica

 

Nell'Inferno la polemica politica - anche se, nello stesso momento in cui veniva posta, si allargava in una prospettiva morale, ergendosi a condanna del male diffuso nel mondo, perché ad una costante preoccupazione etica Dante é condotto dalla sua naturale predisposizione e dalla decisa influenza del suo tempo, che tutto sottoponeva al vaglio della morale - si risolveva nel duro giudizio contro il peccatore, nell'inflessibile condanna del vizio, nella situazione drammatica che, attraverso l'orrore della pena, reintegrava la giustizia, quasi che l'animo del Poeta, in continua, recisa antitesi con il suo mondo, in nome di un superiore ideale di virtù e di giustizia, venisse appagato dalla "vendetta" con la quale, trasformando il suo giudizio nel giudizio divino, dannava ai tormenti dell'inferno i responsabili delle lotte e delle discordie civili. Nella seconda cantica, allorché la mutata situazione spirituale schiude l'anima al divino, allontanandola dall'urgenza del peccato, la possibilità di un giudizio sul mondo e di un confronto, doloroso, fra il mondo reale e il mondo ideale, si propongono con ben più vasta ampiezza di prospettiva. "Nel Purgatorio - rileva con acutezza il Grana - il necessario atto giudicativo (insopprimibile affermazione di coscienza del poeta-giudice) supera la dura deliberazione di una condanna delle anime e non incide più inflessibilmente sui - singoli affrancati da una sentenza di espiazione salvifica, di gioia-dolore ansiosa di bene e di vita eterna; ma allora si riversa sui viventi, e però si risolve in una visuale più larga e se si vuole più astratta, nel giudizio morale sulle genti, sull'umanità peccatrice perciò la condanna del mondo nel Purgatorio infierisce sempre (e sempre assai grave sarà anche nel Paradiso), ma anziché essere «-attuata » nella pena eterna, come nei cerchi del baratro infernale, è pronunciata e conclamata dai giudici-testitnóni (le guide, il pellegrino) e dai personaggi stessi..." L'esemplificazione di queste parole, da cercarsi nel discorso di Guido del Duca, che ben presto supera i limitati confini della Toscana e della Romagna, trascendendoli in una inflessibile sentenza morale, spaziando dovunque virtù.. per nimica si fuga, risolvendo il contenuto aspro e mordente della sua invettiva in una tonalità elegiaca che chiede le sue note più vere al rimpianto e alla rievocazione di un mondo ormai trasfigurato in un clima di epopea e di mito (versi 109-111). Una lettura in chiave contenutistica del canto si presenterebbe ricchissima di risultati, poiché nel breve arco di 95 versi é possibile evidenziare tutta una concezione politico-storica densa di problematicîtà (il grande sogno medievale di una palingenesi che, attraverso la purificazione degli animi, dovrebbe riportare nel mondo la felicità, l'urto insanabile fra un presente -corrotto è un- passato pieno, di virtù, fa possibilità di redenzione solo attraverso un ritorno, ai nobili ideali di un tempo), ché si riproporrà in termini ancora più fermi nella meditazione di Marco Lombardo e, nel Paradiso, nei tre canti dedicati a Cacciaguida. Tale lettura, però, trasformerebbe in una pagina di meditazione e di oratoria quella che è soprattutto una creazione di poesia, nella quale la politica diventa, "affetto di tutta l'anima" (Croce). Attraverso, una calcolatissima tripartizione di motivi e di stili, l'invettiva esamina il triplice ritmo del tempo, distendendosi dallo sdegno e dal sarcasmo iniziali, che elaborano un linguaggio simbolico denso di passione morale (versi 294) per flagellare il presente, alla visione apocalittica della parte centrale (versi 55-66), che svolge attraverso un registro profetico la predizione del futuro, alla elegia finale, che conferisce una forma epico-drammatica al vagheggiamento del passato (versi 88-123). Il motivo centrale, l'ispirazione profonda dell'apostrofe - l'invidia configurantesi come superbia e cupidigia fomentatrici di odi e violenze - sorregge la costante tensione emotiva nella quale questa diversità di temi e di cadenze sentimentali trova unitaria disposizione, risolvendo in efficace integrazione i due poli lirici di questi versi: il dolore con il quale il Poeta guarda alla realtà storica del suo tempo e l'amore attraverso il quale vorrebbe redimerla, i due sentimenti che giustificano l'intransigenza del moralista (nella misera valle dell'Arno la virtù per nimica si fuga da tutti come biscia, il paese tra 'I Po e 'l monte e la marina e 'l Reno é tutto ripieno di venenosi sterpi) e il pessimismo dell'indagatore che giunge a negare la continuità stessa della vita (ben fa Bagnacaval, che non rifiglia). Soprattutto giustificano i modi della satira e del sirventese - che percorrono, sia pure son modulazioni più attenuate, anche la parte dedicata al rimpianto del passato "cortese" - riportandoci al gusto realistico della tradizione letteraria europea del tempo, all'uso della metafora vigorosa e concreta che fa pensare al Dante delle Rime petrose o realistiche, che dichiara di volere parlare aspro per esprimere uno stato d'animo iracondo, duro, a volte esasperato. Allorché il pianto spezza le parole di Guido del Duca, chiudendo la sua figura in un virile ed eroico silenzio, la linea drammatica caverà del canto, la sua solennità contenutistica ed espressiva, continua nelle voci degli esempi di invidia punita, che prorompono improvvise con la violenza di un tuono. Contenuti ciascuno in un breve e veloce verso, i due esempi hanno una drammatica concisione epigrafica, "si scoscendono procellosamente per l'aria" (Momigliano), lasciando nel pellegrino un'eco paurosa, finché il commento sentenzioso e il monito di Virgilio, nella ricomposta serenità della scena, in una solitudine circondata di silenzio (già era l'aura d'ogne parte queta), perfezioneranno "il motivo religioso, sollevando il tono passionale e terrestre del cauto, oltre il suo culmine tempestoso, in una sfera di astrazione contemplativa e di ascetica severità, con un richiamo dalla terra alle bellezze dell'universo creato" (Grana).


           

 

PURGATORIO CANTO XV

             

 

Mancano tre ore al tramonto del sole e i due pellegrini procedono sempre nel secondo girone, allorché una luce improvvisa colpisce con particolare intensità gli occhi di Dante: appare l'angelo guardiano del terzo girone, quello degli iracondi, il quale indica ai due poeti la scala per salire, e li accompagna con il canto di « Beati rnisericordes » e « Godi tu che vinci! ». Dante, per mettere a profitto il tempo del cammino, chiede al maestro chiarimenti intorno all'uso dei due termini, divieto e consorte, fatto da Guido del Duca nel canto precedente. Ha inizio una lunga spiegazione filosofica, nella quale Virgilio dimostra che l'invidia nasce dall'amore dei beni terreni, mentre coloro che ormai hanno conquistato, in paradiso, quelli spirituali, sono uniti da un profondo affetto reciproco, nel quale si riflette l'infinita carità di Dio verso le sue creature. Giunti nel terzo girone, appaiono in visione a Dante tre scene di mansuetudine:- il ritrovamento di Gesù nel tempio mentre discute con i dottori, l'episodio che ha per protagonisti il tiranno Pisistrato e la moglie, la lapidazione di Santo Stefano. Il canto termina con un'esortazione di Virgilio al discepolo, affinché questi, dopo essersi riscosso dalle visioni, affretti il suo passo, mentre avanza sempre più verso di loro un denso fumo, quello che avvolge le anime degli iracondi.

 

 

 

Introduzione critica

 

Il canto XV, dopo essere stato giudicato nel suo complesso di scarso rilievo ai fini di una considerazione dei valori poetici, in quanto prevalentemente dottrinario - attinente alla struttura didascalica del poema più, che alla sua poesia - è stato fatto oggetto, segnatamente da parte del Marti, di un'analisi volta a temi che questa struttura vìvificano, ponendola come inscindibile dal momento lirico che la pervade. Entro tale prospettiva il XV del Purgatorio è stato definito il canto della luce. "Nella continua e sempre rinnovantesi - scrive il critico - prospettiva di luci é di ombre - dalla spera che a guisa di fanciullo scherza, alla luce abbarbagliante dell'angelo; dalla luce d'ardore e di carità del primo paesaggio paradisiaco a quella tutta interiore delle visioni estatiche; dalla luce serotina e trepida di tramonto al preannunziato buio d'inferno - la cosiddetta struttura dimostra tutta intera la sua natura poetica, mitologica, fantastica, insomma; e il canto riacquista una sua funzione ed una sua autonomia." Anche una considerazione tuttavia che, come quest'ultima, insista prevalentemente sull'elémento sensibile e metaforico della luce, assunto a momento determinante la complessiva fisionomia poetica del canto, rischia di apparire in fondo ancora astratta e di esaurirsi in una serie di citazioni isolate. Essa infatti convalida il diffuso preconcetto secondo il quale, ovunque nella Commedia affiori in maniera esplicita il pensiero filosofico o teologico dei tempi del Poeta, ci troviamo in presenza di passi aridamente scolastici, i quali, per essere accetti al nostro palato, avrebbero bisogno una integrazione lirica. Questo equivale a perdere di vista che, a mano a mano che la mente del protagonista si avvicina al regno dell'assoluta evidenza, le discussioni teoriche acquistano una dimensione sempre più eminentemente drammatica e tesa, a prescindere, dalle oasi liriche, dense di un più circoscritto peso di affetti, che in esse si schiudono. È stato scritto in proposito (Montano) che nella Commedia "i vari personaggi, e Dante e Virgilio prima di tutti, si esprimono ed agiscono in conformità con le diverse situazioni di peccato e di redenzione", onde "la discussione teologica non è minimamente nel poema; il frutto di un intendimento didascalico e di un intervento del teologo nella storia, ma nasce, anche essa, sempre dall'interno della rappresentazione e ne esprime uno dei momenti" ed in particolare, per quanto riguarda il gruppo dei grandi canti dottrinali dal XV al XIX della seconda cantica, che questi ultimi, mentre rappresentano l'apoteosi del lumen naturale impersonato da Virgilio, al tempo stesso ne denunciano gli insopprimibili limiti. Già a partire dal XV, infatti, la ragione si mostra imperfettamente capace di far propri i motivi che la realtà del secondo regno le propone. Virgilio spiega ricorrendo a poetiche analogie; il suo insegnamento si commisura con temi, come i paradossi della carità (com'esser puote ch'un ben distributo in più posseditor faccia più ricchi di sé, che se da pochi è posseduto?), che la sua crepuscolare, serena sapienza non è in grado se non di illuminare suggestivamente, da lontano (com'a lucido corpo raggio vene). L'amore di cui egli parla adombra, come in un mito; la vissuta concretezza della carità; non è ad un'esperienza sofferta in prima persona che egli fa riferimento, ma soltanto ad un postulato, esigenza insoddisfatta dell'essere dell'uomo, fermo, all'apogeo della cultura classica, nei limiti della suprema tra le facoltà naturali. Presago della dimensione del trascendente, ma sanza speme, in perpetuo; insaziato disio, non è dato a Virgilio di accedere ad -essa. Di qui, in armonia con quella ché è l'intonazione generale del Purgatorio, il colore trepido, l'arcana malinconia delle sue parole, nota grave, ovunque percepibile in queste pagine. Il trascendente si mostra, tuttavia prefigurato qui, non meno che negli altri gironi del monte, anche per via non razionale, entro la percezione diretta del pellegrino, nelle visioni che lo mettono in presenza di esempi di mansuetudine. Assai più che negli esempi di virtù fin qui apparsi è sottolineato, nelle visioni del canto XV - quasi in risposta alla discussione teorica che ne occupa la parte centrale è nella quale la guida razionale del poeta latino ha svelato un principio di difficoltà inerente alla sua stessa finitezza (com'esser puote) - il carattere miracoloso, gratuito. I bassorilievi del girone dei superbi, al confronto, albergavano già in sé il miracolo, ma miracolosa era in essi soltanto la perfezione della esecuzione artistica, non le caratteristiche materiali (marmo) o formali (arte del rilievo) che li definivano come prodotti dì una tecnica sostanzialmente ancora umana. Qui Dio si serve invece, per rivelarsi, di uno strumento che é esso stesso inspiegabile, sacro: la visione che folgora profeti e santi. Essa impone alla nostra percezione una verità che non consente quegli .apprezzamenti critici e quei confronti che il Poeta era stato ancora in grado di formulare di fronte agli esempi scolpiti del canto XI. Donde l'immediatezza nella resa stilistica di queste visioni: essa poggia su mezzi elementari (il nesso paratattico, la ripetizione di parole e forme grammaticali, l'impiego dell'annominatio, il frequente uso di sostantivi scarsamente individualizzanti o del pronome indefinito), che avvicinano questo brano del canto al realismo dei libri sacri o di certa umile epica medievale. Gli esempi di mansuetudine vengono così a pausare felicemente l'elaborata struttura strofica e sintattica caratterizzante il canto nel suo complesso, dalla determinazione astronomica iniziale, attraverso la complessa fenomenologia della luce (assunta ora in senso naturalistico ora in senso metaforico), che commenta il tema itinerale e il teorizzare. di Virgilio, fino alla decisa risoluzione di quest'ultima nel verso di chiusura, che ormai individua con fermezza la tematica del canto successivo.


           

 

PURGATORIO CANTO XVI

             

 

Il terzo girone appare avvolto da un fumo densissimo e acre, che circonda le anime degli iracondi, secondo una evidente legge di contrappasso. Dante, che avanza guidato da Virgilio, ode la preghiera dell' "Agnus Dei", che viene recitata in armonico accordo da tutti i penitenti, uno dei quali si rivolge improvvisamente al Poeta, essendosi accorto che egli si comporta come un vivo: è Marco Lombardo, il quale dichiara la sua profonda conoscenza del bene e del male degli uomini e il suo amore per la virtù. Poiché Marco ha ricordato la corruzione morale che si è diffusa nel mondo, Dante chiede che gli venga risolto un dubbio nato in lui durante il colloquio con Guido del Duca: il male che dilaga sulla terra è dovuto a malefici influssi degli astri o all'azione umana? Attraverso una lunga esposizione, Marco dimostra che i cieli muovono nell'uomo gli istinti, ma nulla possono contro la ragione e la libera volontà di cui egli è dotato e che dipendono direttamente da Dio, loro creatore. Perciò la causa del male risiede negli uomini stessi: infatti l'anima, che esce dalle mani di Dio senza nulla conoscere, viene attirata solo da ciò che dà gioia e incomincia a seguire i beni terreni, se non è frenata da una guida (l'imperatore e le leggi che egli ha il compito di far osservare). Ma l'intervento in campo temporale della Chiesa ha provocato una confusione di poteri che è all'origine dell'attuale degenerazione, la quale è particolarmente avvertibile nell'Italia settentrionale, dove pochi sono i rappresentanti rimasti della nobile generazione passata.

 

Introduzione critica

 

Il secondo dei canti dottrinali che occupano la parte centrale del Purgatorio, si contrappone idealmente per più motivi a quello che lo precede: nel XVI, infatti, temi e modulazioni del XV sono ripresi quasi in dialettica antitesi, per cui il complesso di queste pagine può introdurre ad un discorso critico non privo di prospettive feconde. Alla presenza costante di una fenomenologia della luce lungo tutto l'arco del XV - intesa a caratterizzare tanto un discorso agevolmente risolubile in termini di racconto, di oggettivo succedersi dei fatti, quanto l'arduo tendersi del pensiero, per via di metafore, ai domini di una verità remota ancora e per troppo fulgore abbacinante - fa riscontro, nel XVI, il motivo di una passione che offusca il pensiero e ostacola il cammino, rende incerti i passi del viandante e della sua guida, ne paralizza il fervido dialogare. Proposta, analogamente a quanto avveniva per quella della luce nel canto precedente, nell'orchestrazione complessa dell'esordio, la tematica delle tenebre dell'ira ricompare - prima di tradursi nello sviluppo alto e metafisico della cecità dei vivi, dal quale la trattazione ampia di Marco Lombardo prenderà l'avvio - a determinare anzitutto le circostanze concrete degli eventi narrati, nei versi 25, 28, 35, 36. Il buio d'inferno determina sia l'organizzarsi spontaneo dell'invenzione epica, in quelle che ne sono le componenti più fertili di sviluppi (la sorpresa rappresentata dal fatto di udire voci senza poterle attribuire a figure umane, donde la domanda a Virgilio del verso 22, le modalità complesse dell'incontro con l'uomo di corte ghibellino), sia la tonalità più segreta e vibrante, folta di riferimenti ad una tradizione augusta di pensiero e di stile (dalla Bibbia ai Padri della Chiesa, ai dottori della Scolastica), del colloquio con l'anima espiante. Il grosso velo di tenebre suggerisce così fin dall'inizio, per via di analogici rimandi, la perplessità della mente di Dante di fronte al problema delle responsabilità umane, quella cecità dolorosa che Marco Lombardo additerà poi in lui per definirla inseparabile dalla condizione del vivere, non meno della brusca, risentita impazienza dell'uomo di corte ghibellino, spirito che, espiando l'ira, nei modi dell'ira ancora si esprime, per quanto questa affezione dell'animo non alteri in lui la compostezza che al dignitario di corte compete e si definisca come ira riscattata da una profonda sollecitudine per le sorti del mondo sviato. Il personaggio di Marco Lombardo risulta profondamente permeato dei motivi morali e simbolici che presiedono alla composizione del canto; se, come ha notato il Cosmo, è vero che esso non si isola nella compattezza statuaria e tragica del vincitore di Montaperti, ciò discende direttamente dalle diverse realtà che i due primi regni dell'oltretomba dantesco propongono. La passione, che nei dannati appare come irrigidita in una negazione sterile di ogni alterità o comunicazione, nel rifiuto pervicace di considerarsi imperfetta, parziale (la considerazione politica di Marco Lombardo, pur motivata dall'ira, ha un'ampiezza pacata di visuale ed una solidità di motivazioni logiche del tutto assenti nel disperato insistere del magnanimo eretico del sesto cerchio sulle costanti del suo vivere terreno), è invece nel Purgatorio colta nel vivo, temporale dispiegarsi di un processo d'integrazione in quella realtà sovrannaturale che le comunica la consistenza dell'essere e del significato. Ancora per un altro verso si stabilisce un legame e come un armonico contrappunto - tra i canti XV e XVI. L'insegnamento di Virgilio nel XV aveva per oggetto uno di quei problemi di natura eminentemente teorica, che lo spietato agire mondano o ignora o esclude dall'ambito delle sue interrogazioni, un tema che il diffondersi immateriale e casto della luce allontanava, per virtù di un complesso dispiegarsi di analogie, dalla sostanza opaca del nostro percepire terreno. La parola del poeta latino era essa stessa, non meno dell'oggetto del suo discorso, fervida e luminosa, schiusa ad una pura dedizione, che la sua malinconia di esule nel limbo rendeva dolente e consapevole senza offuscarla. L'argomentare di Marco Lombardo invece, volto alla denuncia di uno stato di cose nel mondo - ove l'errore è non soltanto possibile e accidentale (versi 103-105), ma risulta sostanziale alla definizione del mondo stesso - si carica dello sdegno che dalia visione dell'umano errare nel mondo scaturisce, per cui la metafora del fummo dell'ira risulta ricca di implicazioni feconde per il definirsi del carattere di questo- personaggio, per la stessa cadenza amara delle sue parole. Indipendentemente da quello che è il pregio formale di queste pagine, il canto XVI è di grande interesse per la definizione del punto di vista del Poeta sui rapporti tra Chiesa e Impero, sempre che si accetti la tesi, avanzata dalla maggior parte degli interpreti ed accuratamente svolta in uno studio del Maccarrone, che le idee di Marco Lombardo coincidano con quelle di Dante al momento della composizione della Commedia. Questa tesi è stata combattuta dal Montano, per il quale il punto di vista di Marco Lombardo rispecchierebbe soltanto la mentalità di questo personaggio ancora parzialmente immerso nell'errore: "È chiaro che Marco Lombardo... è lontano dalle posizioni puramente ghibelline. Ma quello che egli dice non è certamente la voce della fede di Dante, la cui prima espressione troveremo nella rappresentazione simbolica del paradiso terrestre". Appare tuttavia difficile non considerare Marco Lombardo essenzialmente un portavoce delle idee dell'autore, sia per la corrispondenza di espressioni e modi stilistici del suo discorso con passi della Monarchia e del Convivio, sia per la forte carica emotiva che ne lievita le parole, sia infine per le considerazioni nostalgicamente orientate verso un passato di luminose virtù (soleva Roma... solea valore e cortesia trovarsi) che il Poeta gli attribuisce.


           

 

PURGATORIO CANTO XVII

             

 

A Dante, uscito con Virgilio dal denso fumo che avvolge le anime degli iracondi, mentre è ormai prossimo il tramonto, compaiono in visione tre esempi di ira punita, che gli presentano per prima la vicenda di Progne, mutata in uccello per aver imbandito al marito le carni del figlio in un eccesso di folle gelosia. Appare poi la figura di Aman, ministro del re persiano Assuero, che fu crocifisso dopo aver tramato la distruzione totale degli Ebrei, contro cui era adirato, e subito dopo Dante vede Lavinia che piange sul cadavere della madre Amata, suicidatasi in un impeto d'ira, per non vedere la figlia andare in sposa ad Enea. Scomparse all'improvviso queste visioni. il Poeta ode la voce dell'angelo della pace che indica la strada per salire al quarto girone e che gli cancella dalla fronte la terza P, cantando la beatitudine evangelica «Beati pacifici ». Frattanto i due pellegrini giungono sul ripiano deserto della quarta cornice, e Virgilio, in seguito a una domanda precisa del discepolo, spiega le caratteristiche del peccato che, lì viene espiato, l'accidia. L'ultima parte del canto è occupata dall'esposizione, da parte del poeta latino, della dottrina dell'amore nella sua duplice forma - naturale (o istintivo) e voluto con libera scelta dalla volontà e dall'intelletto - e della struttura morale del purgatorio.

 

 

Introduzione critica

 

È possibile individuare nel canto XVII, non diversamente che nel XV, due nuclei di spiccato interesse ai fini del definirsi della complessa poesia della parte centrale del Purgatorio: quello delle visioni e quello dell'esposizione didattica di Virgilio. Nel canto XVI invece, al dialettico contrapporsi dell'insegnamento razionale, impartito dal poeta latino, all'immediatezza delle verità infuse, per intervento della Grazia, nell'anima itinerante si era sostituito un interesse esclusivo per le cose del mondo: guida di Dante era stato, nelle tenebre avviluppanti dell'ira, un uomo di corte, fervente seguace, come lui, dell'idea imperiale: al magistero di Virgilio si era sostituito il teorizzare - sfociante nella concitazione di una passione non ancora rischiarata, in acerbi accenti polemici - di Marco Lombardo sui rapporti tra spada e pasturale. Nel canto XVII Dante si affida nuovamente a Virgilio per saziare la sua sete di conoscere, sete che la ragione, impersonata dal poeta latino, potrà solo parzialmente placare. Virgilio ha sempre dato voce, fino a questo punto, ad un superiore principio razionale, reso caldo di umano fervore da una illimitata dedizione al suo compito di maestro. Tuttavia, data l'immaturità del discepolo a penetrare i sensi meno ovvii che presiedono al dispiegarsi apparentemente dispersivo delle cose, questo principio razionale si é fin qui manifestato in interventi di ancora angusta portata, in formule gnomiche ed ostative, per cui l'insegnamento del mantovano é potuto apparire - a chi non avesse tenuto conto delle necessità postulate dalla narrazione di quell'itinerario spirituale che é la Commedia - qua e là irrisorio e banale, inadeguato alla drammaticità delle prospettive che si aprono agli occhi del protagonista. A partire dal canto XV, invece, Virgilio affronta i temi di una meditazione organica e superiore, per lui, tuttavia, lontana dalla possibilità di tradursi in esiti di indiscussa evidenza, data la sua estraneità nei riguardi di un pensiero che la fede definisce e rischiara. L'esposizione della topografia morale del secondo regno (versi 91-139) é stata concordemente giudicata positiva dalla critica, che ne ha messo in rilievo l'ampio, sereno respiro, entro il rigoroso concatenarsi delle deduzioni, che una terminologia astrattamente scolastica avrebbe rischiato, in un poeta di meno ricco sentire, di precludere ad ogni forma di trasfigurazione in senso lirico. Il procedere della dimostrazione, ricondotta ad un unico motivo ispiratore, al fondamento luminoso e centrale dell'amore - concepito come principio motore di ogni manifestazione del reale e del quale sono partecipi le creature non meno del loro Creatore - esprime un sicuro equilibrio, quasi un senso di trionfo per l'immancabile scaturire di ogni singola proposizione da quelle che, in funzione di premesse, la precedono. L'impalcatura scolastica che appesantiva la digressione didascalica del canto XI dell'Inferno non nuoce qui al ritmo limpido che scandisce il succedersi delle argomentazioni. Ciò é dovuto forse proprio all'emozione che, illuminando, interiorizza il dire di Virgilio ogni volta che torna a proporsi il motivo dell'amore, nel quale tutti gli svolgimenti concettuali che da esso discendono tendono a riassorbirsi, dopo aver enunciato ciascuno la propria verità parziale, quasi diretti ad un fulcro di verità ancora insondata, ad una scaturigine per troppa luce fasciata del proprio mistero. Nel canto XV il discorso di Virgilio sull'amore che aumenta in proporzione diretta al numero di coloro che ad esso partecipano, si era sollevato a canto nello svolgersi metaforico e sublime del tema della luce. Qui il suo dire si distende in cadenze più riposate, ma non si può in alcun modo parlare in proposito di astratto didascalismo, bensì di una poesia animata da un forte, anche se contenuto, pathos metafisico, da un'ansia profonda e segreta di penetrare nei moventi concettuali e morali che presiedono all'ordinata architettura delle cose. Gli esempi di ira punita, costituenti il momento di più accesa e ricca individuazione poetica del canto, presentano - se, considerati nella staticità dei singoli quadri proposti, vengono messi a raffronto con gli opposti esempi di mansuetudine del canto XV - una chiusura alla dimensione dell'infinito, una limitatezza nel definirsi dei sentimenti di quelli che ne sono i personaggi, chiusura e limitatezza che si traducono in una meno intensa evidenza lirica nella resa di queste scene. Ciò é dovuto al fatto che l'interesse del Poeta nel canto XVII é incentrata soprattutto sulle modalità del proporsi delle visioni, sul loro immotivato accamparsi al centro dell'anima in se stessa raccolta - evasa, sia pure per la durata di attimi, dagli orizzonti del mondo - sul loro improvviso svanire, per cui i momenti più alti della rappresentazione poetica non sono espressi dai quadri successivi che le visioni stesse presentano, ma riguardano la dinamica del loro prorompere nella coscienza del soggetto. All'ancora generico nell'imagine mia apparve l'orma, che suggella il proporsi del primo esempio, fanno seguito, nell'intensificarsi del rapimento interiore, il poi piovve dentro all'alta fantasia, che introduce - fermata in una eternità ottusa e statica - l'ira grandiosa di Aman, e infine, in contrapposizione logica non meno che tonale a quest'ultimo verso, il surse... piangendo forte dei versi 34-35, anticipato dal concretissimo "rompersi" riferito all'astratta imagine, e riecheggiante nella similitudine della bulla. Il motivo del rompersi della bulla é ripreso in quello del "frangersi" del sonno (verso 40), svolto secondo le linee di un incontenibile dinamismo (si frange... percuote) che riesce ad una fortissima animazione del dato generico. II sonno acquista qui una vitalità animale (guizza), quasi un sussulto atterrito prima di essere abolito dal tempo che gli prescrive di "morire". Da quest'attenzione portata dal Poeta sulle modalità del vedere interiore scaturisce la travolgente apostrofe iniziale all'imaginativa.


           

 

PURGATORIO CANTO XVIII

             

 

Virgilio, sempre rimanendo nel quarto girone, continua la trattazione del tema dell'amore per chiarire al suo discepolo in che modo questa affezione possa essere inizio di ogni bene e di ogni male. L'animo per natura è disposto all'amore, e ogni volta che la facoltà conoscitiva gli presenta una cosa piacevole, si dirige verso di essa: questa inclinazione è amore. Nasce tuttavia, in Dante un dubbio intorno alla libertà dell'uomo, guidato da impulsi che vengono dall'esterno e spinto da forze naturali; non soggette alla sua volontà. Ma Virgilio afferma che nella creatura umana agisce anche la ragione, che ha il compito di studiare, scegliere e guidare le tendenze naturali. Intanto la luna è già comparsa nel cielo e Dante, preso da improvvisa sonnolenza, viene riscosso dal sopraggiungere di una turba di anime che avanzano in corsa affannosa: sono gli accidiosi, che per contrappasso devono ora mostrare lo zelo che non ebbero in vita. Gli esempi di sollecitudine, che ricordano la visita della Vergine ad Elisabetta e la fulminea rapidità delle imprese militari di Cesare; sono gridati da due anime, come quellî di accidia punita, anch'essi ispirati dal mondo ebraico-cristiano e da quello romano. Dante in questo girone presenta un solo penitente: l'abate del monastero veronese di San Zeno, che rimprovera ad Alberto della Scala di aver ora concesso quella carica ad un figlio degenere.

 

Introduzione critica

 

Nel canto precedente Virgilio ha chiarito l'ordinamento morale del purgatorio, fondando il suo argomentare sul principio dell'amore, da lui inteso, razionalisticamente, nel suo mero proporsi naturale - quale, fin dai primordi della speculazione greca, era apparso -: tendenza estesa ad ogni ordine di esseri,. impulso denso di un proprio gravame di ineliminabile fisicità, qualità oggettiva del mondo, di per sé suscettibile di tradursi in esiti moralmente non meno positivi che negativi. La definizione dell'essenza di amore (che mi dimostri amore...), svolta dal poeta latino nella prima parte del canto XVIII (versi 16-39 e 49-75), lascia insoddisfatto il suo discepolo: configurato in tali termini amore sembra infatti negare ogni sussistenza al problema delle responsabilità umane, ogni considerazione di ciò che é bene e di ciò che è male (versi 43-45). Il punto che Dante chiede al suo maestro di determinare è quello focale fondante il regno dei fini e dei valori - in cui, nella ineluttabilità della legge naturale, si inserisce la scelta dell'uomo, la libera elezione che rende quest'ultimo, pur partecipe della realtà naturale - in quanto unione indissolubile di anima e corpo (forma sustanzial, che setta è da matera ed è con lei unita) - un essere spirituale, schiuso a traguardi che la natura, in quanto creata, contiene in sé impliciti, ma ignora. Virgilio chiarisce la possibilità di controllare il volgersi d'amore verso l'oggetto da esso, secondo la terminologia scolastica, «intenzionato», ricordando la necessità di un freno da parte della ragione (virtù che consiglia, e dell'assenso de' tener la soglia). Ma, una volta posto amore come principio ineluttabile, legge operante con la cecità di una forza della natura, quali sono le possibilità reali che ha la ragione di controllarlo e dirigerlo? Soltanto se svincolato dal determinismo che esprime il succedersi degli eventi naturali, soltanto se concepito nel suo aspetto sorgivo, spirituale - in quanto origine e giustificazione luminosa del mondo stesso - l'amore può assurgere a principio di spiegazione di ogni aspetto del reale, conferendo in tal modo la positività che ad esso compete anche all'amore naturale, teorizzato dai Greci come indiscriminata attrazione che lega e separa gli esseri secondo gli arbitri del caso. Opportunamente osserva il Montano che, per la saggezza "aristotelica" di Virgilio "il problema è quello soltanto della virtù che consiglia e dell'assenso de' tener la soglia. Virgilio non può sapere che questa scelta può valere assai poco se non c'è un'altra libertà, quella dal male. Il mondo cristiano può aver accettato il libero arbitrio classico come ha accettato la moralità che ne è derivata (però moralità lasciaro al mondo dice con giusto orgoglio Virgilio). Ma la moralità antica - aveva detto fra gli altri, splendidamente, Ugo di San Vittore - è costituita di "membra della virtù staccate dal corpo della bontà; ma le membra della virtù non possono essere vive senza il corpo della carità di Dio»". Con riferimento alla risoluzione del discorso di Virgilio nel silenzio e nel buio signoreggiato dalla incombente, onnipresente luce lunare (versi 76-87), il Montano aggiunge: "Quando Virgilio avrà parlato, Dante ritroverà sotto la sua penna un'altra delle immagini splendide... così cariche di senso simbolico... : la luna, quasi a mezza notte tarda... È come un grido che si leva dall'anima del pellegrino che ascolta ed è qui giunto - alla metà giusta del cammino - alla più alta conquista della ragione. Ma è anche vero che Virgilio, pure qui, al culmine delle umane possibilità razionali, è soltanto al livello di una limitata, parvente luce riflessa. La sua ragione vince col lume tutte le altre stelle; ma la notte è intorno". In altre parole, amore non può essere assunto a principio legittimante la totalità del reale se non viene rapportato ai temi della Grazia e del peccato, della creazione e della redenzione, nel punto folgorante in cui l'eternità vivifica il tempo, là dove l'uomo, dopo la caduta dallo stato di innocenza, si trova nella necessità di scegliere tra il bene e il male, di trascendere, proprio per giungere alla salvezza, l'amore naturale, il principio limitatore del piacere (ad ogni cosa è mobile che piace). II discorso di Virgilio - che il vincolo di una comune aspirazione a superare ogni singola certezza acquisita per un più vasto orizzonte di certezze, nonché una costante, trepida sollecitudine legano al suo discepolo - offre aspetti di notevole interesse sia in ordine alla definizione di un tema (quello dell'amore) dal Poeta in prima persona vissuto e liricamente trasfigurato fin dai tempi della Vita Nova, sia per le risoluzioni formali cui dà luogo e nelle quali culmina quel pathos dell'intelligenza come incessante ricerca della verità, che aveva anticipato l'ampia gamma dei suoi motivi fin dal canto XV. Le definizioni, pur se ineccepibili dal punto di vista della terminologia filosofica dell'epoca, sono permeate ovunque di un fervore lirico prima che raziocinante. Un semplice aggettivo, un giro sintattico che nulla in apparenza sembrerebbe dover allontanare dalle cadenze della prosa sono sufficienti a sollevare a poesia temi ed argomentazioni che nella trattatistica medievale e negli stessi scritti teorici di Dante restavano involuti e pedantescamente astratti. Basti ricordare, a titolo di esempio, un verso come l'animo, ch'è creato ad amar presto, nel quale il concetto della innata mobilità dell'anima umana si alleggerisce del peso di ogni dottrina nell'aggettivo che quasi festosamente lo suggella; in questo verso, al tempo stesso, la presenza nell'orizzonte mondano di amore nella sua forma irriflessa è limpidamente ricondotta alla sua scaturigine sacra, riallacciata senza termini interposti al dono della creazione. Di formulazioni analoghe, dense di una interiore, compatta pregnanza di echi concettuali risolti in musica, è intessuto l'intero dialogare dei due poeti sui temi dell'amore e del libero arbitrio.


           

 

Divina commedia purgatorio riassunto

 

PURGATORIO CANTO XIX

             

 

Dante si trova nella cornice degli accidiosi allorché, mentre l'alba è ormai prossima, riceve in sogno una visione: gli appare l'immagine di una donna deforme, che in un secondo tempo si trasforma, agli occhi del pellegrino, in una bellissima sirena, che cerca di attirarlo con il fascino del suo canto. Ma un'altra figura femminile, comparsa all'improvviso a fianco del Poeta, rivela il male nascosto in quella femmina balba, riscuotendo Dante dal suo sonno. I due pellegrini possono così riprendere il cammino, guidati verso il passaggio che porta al girone superiore dalla voce dell'angelo del quarto girone, che assolve Dante dal peccato di accidia. Subito dopo Virgilio spiega al discepolo che la mostruosa apparizione del sogno era simbolo dei peccati di avarizia, gola e lussuria, che vengono espiati negli ultimi tre gironi del purgatorio. Nella quinta cornice, dove le anime degli avari giacciono bocconi a terra, legate nelle mani e nei piedi, Dante incontra l'ombra di Ottobuono dei Fieschi, che fu papa col nome di Adriano V: dopo aver rivelato al pellegrino la sua dignità di un tempo, il pontefice confessale proprie colpe, dichiarando però di essersi convertito subito dopo essere asceso alla cattedra di Pietro; solo allora, infatti, comprese che nessun possesso terreno può placare la sete di conquista dell'uomo e che la vera felicità è data solo dai beni spirituali.

 

Introduzione critica

 

Nonostante i suggerimenti dei critici, ricchi di considerazioni inedite sul canto XIX del Purgatorio, appare di scarsa utilità tentare di stabilire un raccordo fra la prima parte di esso, occupata dal sogno antelucano di Dante e dominata dalle inquietanti metamorfosi del personaggio-emblema della femmina balba; e la seconda, nella quale il protagonista, ormai sfuggito alle brume di quella magia impura, ascolta contrito il resoconto che del proprio tacito, interiore volgersi al bene fa un romano pontefice: conversione dalle catene di una brama mai sazia alla pace di una, rinuncia liberatrice. Nemmeno il sommo tra gli splendori mondani - quel gran manto che sembrava dovesse coronare, placandola alfine, la sua sete di avere e di dominio - si riveli, allorché egli fu in grado di vedere, al di là deglì oggetti e della sete di conseguirli, la loro sostanziale vanità, tale da poter soddisfare il suo anelito a partecipare a tutt'altra sorta di beni: quelli dello spirito. Anzi, il successor Petri, nel dichiararsi umilmente conservo del pellegrino ancora gravato del peso della carne, sottolinea in modo esplicito il gravame di affanni, di responsabilità, di sollecitudini costanti, che si abbatté sulla sua anima - stanca all'improvviso e volta a più serene pause - allorché ricevette, lui, uomo fallibile e spento, l'investitura del sommo sacerdozio. Né le proposte avanzate dal Tonelli, al fine di istituire criticamente una unità, poetica, oltre che strutturale e narrativa, del canto, risultano convincenti, e neppure, quelle del Marti, assai più puntuali e sfumate. Rileva il Marti che, se al Tonelli non é sfuggita "l'esistenza di un saldo legame tra l'episodio di Adriano V e l'orchestrazione onirica intorno alla femmina balba...", tale legame "egli credeva di poter cogliere, avvicinando la conversione di Adriano V all'altra, in verità assai diversa, della femmina balba in dolce sirena, in modo... fittizio e del tutto esteriore; là dove una più persuasiva corrispondenza é da cogliersi, invece, nel valore interiore, nel richiamo insomma alla legge morale, nella sintesi drammatica della lotta tra il bene ed il male, fra il peccato e la virtù, operanti insieme nel primo e nel secondo episodio". Più che il raffronto fra la prima parte del canto e l'incontro di Dante con il pontefice espiante potrebbe forse riuscire istruttivo il paragone, proposto già in una nota del suo commento dal Momigliano, fra la conversione di Ottobuono dei Fieschi e quella di Guido da Montefeltro. Un altro raffronto, marginale ma non per questo meno indicativo di certe costanti del pensiero del Poeta, potrebbe istituirsi tra l'incontro del XIX del Purgatorio e il colloquio, ispirato da ambo le parti a satanico cinismo, tra Dante e il capovolto papa simoniaco, nel XIX dell'Inferno: nella terza bolgia Dante s'inginocchiava accanto alla buca del pontefice quasi ad afferrarne, in tutta la loro estensione d'infamia, le parole come l frate che confessa lo perfido assessin -: nella cornice degli avari l'atto dell'inginocchiarsi esprime invece riverenza non soltanto per la dignità sacerdotale rivestita in vita da Adriano V - le somme chiavi con tanta leggerezza schernite, nel XXVII della prima cantica, da Bonîfacio VIII - ma per la persona stessa del penitente, considerato nella sua più segreta umanità. Ma il raffronto con la «conversione» di Guido da Montefeltro risulta più ricco, investe una zona più ampia del sentire del Poeta: La conversione di Guido da Montefeltro é stata inautentica: questo processo interiore e di progressiva conquista dell'interiorità dovrebbe esprimere una spontaneità assoluta, priva di fini che non siano assorbiti e come annullati nella considerazione di un fine ultimo e sacro, in virtù del quale sussistono tutti gli altri. Ma, dalle sue stesse parole, abbiamo appreso che l'uom d'arme si era fatto cordigliero per coronare quasi, con un supremo implacabile inganno, una vita che nell'inganno aveva trovato le sue sufficienti difese. Come hanno sottolineato sia il Tonelli sia il Marti, la conversione di Adriano V é veduta dal Poeta nel pudore del suo approfondirsi: dal sommesso accenno ad una felicità edenica perduta (intra Siestri e Chiaveri s'adima...), barattata in seguito col vano inseguire false apparenze di bene (la vita bugiarda), alla fase del suo saldo rito-. stituirsi, attraverso la preghiera e il sacrificio di sé. Laddove la conversione di Ottobuono dei Fieschi ci appare - nel prorompere irresistibile eppure lento, meditato (goccia a goccia preciserà nel canto successivo il Poeta) delle lagrime - limpida, sincera, espressione di un ripensamento dolente, quella del Montefeltrano si configura invece come il risultato di un calcolo duro e superbo; di una sollecitazione incontenibile del suo « io » accentratore e rapace: estremo inganno teso, alle soglie della vecchiaia, a se medesimo e, nell'interiorità profanata della sua anima, a Dio. Guido da Montefeltro volle « forzare » la mano del cielo, imporre anche ad essa (ultima beffa e bestemmia) la sua volontà implacata, quell'astuzia che lo aveva fasciato di corruschi, temibili bagliori agli occhi del mondo. Non chinò il capo, non ebbe l'intuizione che la sua intelligenza avrebbe acquistato peso reale, calore, ricchezza di orizzonti nell'atto che l'avrebbe integrata entro l'intelligenza che ritma il respiro del mondo, non concepi la propria redenzione come sottomissione ai decreti di un volere che non fosse il suo. Ignorò l'umiltà; come nella ferrea armatura da lui indossata nel primo periodo della sua vita, restò murato - anche, dopo aver rivestito il saio francescano - nell'immagine contraffatta che di se stesso si era voluta orgogliosamente foggiare e che con tanta crudeltà e clamore l'inganno mondano - corrispondendo ai suoi inganni - aveva riverberata su di lui: quella dell'uomo che seppe li accorgimenti e le coperte vie, quella dell'anima che in seguito, sottratta ai miraggi del tempo, si vanterà ancora della riuscita di un cupo, miserabile consiglio frodolente.


GIOVANNI BOCCACCIO

           

 

La vita e la personalità

             

 

Nato nel 1313 a Certaldo, nei pressi di Firenze, da una relazione del padre, Poccaccio di Chellino, con una donna rimasta ignota, a soli dodici anni fu inviato a Napoli per esercitarsi nella marcatura, arte del padre, e dedicarsi agli studi del diritto canonico. In entrambe le attività non diede buona prova perché attratto dagli studi letterari e forse proprio per questo fu ammesso a frequentare la corte del re Roberto d'Angiò, ove visse alcuni anni di spensieratezza, dedito alla composizione delle sue prime opere ed a vari amori, fra cui quello per Maria d'Aquino, figlia naturale del re, che egli chiamò Fiammetta. Dopo il fallimento commerciale del padre, tornò a Firenze, ove continuò gli studi e l'attività letteraria, dovendo però anche accettare numerosi incarichi pubblici fertili per il proprio sostentamento. Fra gli altri, ebbe quello di recarsi a Padova, nel 1351, per comunicare al Petrarca che il governo di Firenze aveva revocato la confisca dei beni paterni e gli offriva una cattedra presso lo studio cittadino. Del Petrarca divenne amico e con questo convisse per tre mesi a Venezia, nel 1363, afflitto da una crisi di coscienza seguita ad una visita fattagli l'anno prima dal monaco Gioacchino Ciani, il quale gli annunciava prossima la morte e la dannazione eterna se non avesse distrutto tutte le sue opere di argomento profano: fu proprio il Petrarca a distogliere l'amico da una tale soluzione, facendogli capire il grande valore artistico di quelle opere e come la vera arte, in qualunque forma espressa, non possa assolutamente offendere Dio. Dopo altre missioni condotte per conto della Signoria di Firenze, fu da questa incaricato di commentare la "Divina Commedia" nella chiesa di S. Stefano di Badia, ma dovette fermarsi al XVII canto dell' "Inferno" per motivi di salute. Ritiratosi a Certaldo, qui morì nel 1375.

 

Spirito indipendente, non si schierò in politica con alcun partito; gioviale, ma riservato, fu attento osservatore dei costumi del suo tempo e, in particolare, della sua città, quella Firenze in cui si andava sempre più affermando il ceto medio, intraprendente nelle iniziative commerciali e già ricco di mezzi economici, che iniziava ad elaborare una propria cultura laica. Di questo fermento di pensiero e di azione egli fu grande ammiratore e in tutte le sue opere non fece altro che "narrare", con interesse disincantato e cordiale, la vita "reale" del suo tempo.


PURGATORIO CANTO XXI

             

 

Dante prosegue il viaggio nel quinto girone, ma è tutto preso dal desiderio di conoscere la causa del terremoto che ha scosso il monte del purgatorio e del canto del «Gloria » che le anime hanno innalzato subito dopo. All'improvviso compare alle spalle dei due pellegrini un'ombra che rivolge loro un augurio di pace: a quest'anima Virgilio chiede spiegazione dei fatti misteriosi prima avvenuti. Il monte del purgatorio - spiega quello spirito è soggetto a leggi ben precise, diverse da quelle che regolano la vita della natura sulla terra, perché, al di sopra dei tre gradini sui quali si apre la porta del mondo della penitenza, non si formano più grandine, neve, rugiada, brina, nuvole, lampi, arcobaleni, né tanto meno, terremoti. Il monte del purgatorio viene scosso solo in una occasione: quando una anima ha compiuto la sua purificazione ed è diventata degna di entrare in paradiso; contemporaneamente tutti gli spiriti penitenti ringraziano Dio con il canto del «Gloria». L'ombra, a una domanda di Virgilio, rivela finalmente il suo nome: è Stazio, il famoso poeta latino, autore della Tebaide e della Achilleide, vissuto nel I secolo d. C. Subito dopo aver spiegato che a Roma ebbe la consacrazione a poeta, Stazio inizia una commossa esaltazione di Virgilio e della sua opera, affermando che l'Eneide non solo alimentò ed educò il suo spirito poetico, ma ne f u anche mamma: ignaro di essere davanti a colui che considera il suo maestro, dichiara che egli acconsentirebbe a restare un anno di più nel purgatorio, pur di essere vissuto al tempo del grande mantovano. Dopo queste parole Dante, vincendo l'umiltà e la ritrosia di Virgilio, rivela il nome della sua guida.

 

Introduzione critica

 

L'episodio che ha per protagonista Stazio è il più lungo della Commedia: esso si distende, infatti, per ben due canti, il XXI e il XXII del Purgatorio. È per questo (ricordiamo inoltre che Stazio compirà, dalla cornice degli avari in poi, il cammino insieme ai due pellegrini) che alcuni critici hanno creduto di dover individuare in questo episodio una tappa fondamentale dell'itinerario spirituale di Dante, quando non addirittura la chiave di volta dell'intero poema, e nel personaggio dell'autore della Tebaide, secondo una precisa indicazione del Porena, "una guida intermedia fra Virgilio e Beatrice una specie di anello di congiunzione fra la scorta umana e quella divina". Per il Montanari, uno dei critici che con maggior acume ha saputo delineare il senso dell'itinerario spirituale che portò Dante dal misticismo vago ed ancora decisamente orientato, verso una realtà profana della Vita Nova, attraverso l'esperienza razionalistica del Convivio, alla decisa preminenza accordata al sacro nel capolavoro della maturità, l'unica spiegazione plausibile dell'ampio sviluppo dato all'episodio di Stazio dal Poeta è "che, giunto all'ultimo terzo del Purgatorio, in prossimità del momento in cui dovrà separarsi da Virgilio (alla fine del canto XXVII) Dante vuole glorificare nel modo più ampio ed organico il suo maestro, rappresentando, in persona di Stazio, quella che era stata una vicenda personale sua, di Dante... ". Perciò la "funzione gradualmente redentrice di Virgilio è in realtà la rappresentazione di come Dante interpretò il suo incontro con la poesia di Virgilio, che si rivelò via via a Dante prima come maestro di stile poetico, poi come maestro di morale naturale, da ultimo come profeta inconscio e sacrificato della Rivelazione cristiana". Per quel che concerne il significato simbolico di Stazio, in quanto guida del protagonista, il Montanari concorda con molti dei più autorevoli interpreti contemporanei nell'accogliere le conclusioni del Landi, secondo le quali "Stazio, di fronte a Virgilio che è la ragione (o forse meglio la sapienza) puramente naturale, sarebbe la ragione naturale, ma illuminata e aiutata dalla Rivelazione per ciò che riguarda la sfera del sapere naturale, dove, in conseguenza del peccato originale, così facile è l'errore, se la ragione non sia aiutata dalla vigilanza della Rivelazione". Aggiunge tuttavia il critico che tale interpretazione della funzione svolta da Stazio nell'economia del poema "nulla toglie alla natura precipuamente autobiografica dell'episodio. Si inserisce anzi nella rievocazione dell'esperienza culturale di Dante come figura [da intendersi qui nel senso dato a questo termine dall'Auerbach, sul fondamento di uno dei significati da esso assunti nel Medioevo: in quanto evento reale, storicamente documentabile, adombrante in sé il significato di un altro evento, esso pure reale e storicamente avvenuto] del superamento della sola filosofia (o meglio della filosofia come indistinta dalla teologia), quale era stata sentita da Dante durante la composizione del Convivio: non la filosofia da sola, e neppure la filosofia in quanto utilizzi la Rivelazione senza tener conto delle due ben distinte sfere di competenza, può salvare il mondo; ma solo la teologia in quanto solo essa può dare risposta ai supremi principi, e può illustrare la necessità che resti un margine di insuperabile mistero" L'intera vicenda dell'iter dell'anima promessa alla beatitudine è come emblematicamente ricostituita nella duplice vicenda terrena occorsa a Stazio (nelle due successive « conversioni » operatesi in lui, sotto l'influsso di Virgilio, e nel passaggio drammatico dalla prima di esse, ancora puramente letteraria e mondana, che gli meritò in terra il nome che più dura e più onora e che è oggetto del suo discorso nel canto XXI alla seconda, di cui Stazio tratta nel canto XXII, dalla idolatria al cristianesimo). Essa è anche riscontrabile nella presentazione della sua figura - in termini di un miracolo che accorda il motivo della nascita corporale (attraverso il mito di Apollo e Diana) a quello della risurrezione (attraverso la risurrezione di Cristo), che è la nascita seconda e definitiva - al momento esatto in cui si mostra degna di sciogliersi, espiato il male compiuto, dai vincoli della penitenza. Il tema del libero arbitrio - dottrinariamente affrontato fra maestro e discepolo, in questi canti centrali del Purgatorio, nel corso di discussioni appassionate, ma vibranti di un pathos in primo luogo ancora intellettuale - diventa, nell'episodio di Stazio, il movente segreto e decisivo, quello che dall'interno anima (pur mo sentii libera volontà di miglior soglia) l'azione, il distendersi stesso naturalissimo e piano del racconto in cadenze di attonito stupore di fronte alla più glorificante manifestazione del sovrannaturale fin qui apparsa ai due pellegrini, non meno che il successivo ascendere della narrazione medesima in una più accesa drammaticità, nell'ansioso interrogare del pellegrino in carne ed ossa, nella contrastata vicenda che alle sue domande viene opposta dall'anima liberata. Ed è vicenda contrastata per il coesistere, nelle parole di questo spirito redento, del tema della cultura - di cui suprema espressione è la poesia - e della gloria terrena che da essa discende (dove mertai le tempie ornar di mirto) e del tema (affrontato nel canto XXII) dell'insoddisfazione nei riguardi di qualsiasi perfezione meramente umana, di un'aspirazione a beni i quali, ponendosi decisamente al di là della sfera in cui si conchiude qualsiasi acquisto poetico o culturale (quella stessa aspirazione che indusse la femminetta sammaritana - menzionata in apertura di canto - a « dimandar » la grazia), sfolgorano in quanto patrimonio dei soli poveri di spirito o di coloro che hanno saputo intravedere, come Stazio - oltre i tesori accumulati dallo spirito umano - le scaturigini inesauste di quelli sovrannaturali.


           

 

PURGATORIO CANTO XXII

             

 

Virgilio interroga Stazio mentre, in compagnia di Dante, stanno salendo verso il sesto girone. Vuole sapere il motivo per il quale un'anima di grande nobiltà, come la sua, può essersi macchiata della colpa dell'avarizia. In realtà l'autore della Tebaide e dell'Achilleide è rimasto più di cinquecento anni nel quinto girone per essere caduto nel vizio contrario, in quello della prodigalità: infatti - chiarisce Stazio - nel purgatorio vengono puniti nello stesso luogo i due tipi opposti di peccato. La seconda spiegazione richiesta da Virgilio riguarda il modo nel quale avvenne la conversione di Stazio dal paganesimo al cristianesimo. Un passo delle Bucoliche virgiliane, che accennava al rinnovamento del mondo, coincideva con il messaggio della nuova fede che veniva diffusa dovunque proprio in quel tempo; questo fatto spinse Stazio ad avvicinare i predicatori cristiani, che, con la santità della loro vita, lo convinsero ad abbandonare ogni altra posizione religiosa o filosofica per diventare cristiano attraverso il battesimo. Tuttavia, per timore delle persecuzioni, tenne sempre nascosta la sua conversione: per questo motivo dovette rimanere più di quattrocento anni nel girone degli accidiosi. Infine è Stazio che interroga Virgilio, per sapere in quale cerchio dell'inferno si trovano alcuni poeti latini. Il cammino dei tre viandanti continua finché essi incontrano, posto in mezzo alla strada, un albero carico di frutti odorosi, dalle cui fronde una voce ignota grida alcuni esempi di temperanza.

 

Introduzione critica

 

Il momento di maggiore accensione poetica del canto XXI era coinciso con l'appassionata rievocazione del magistero formale ed estetico dell'Eneide. Stazio, nel prorompere di una incontenibile gratitudine, aveva definito il poema virgiliano in primo luogo attraverso un riferimento al mondo della natura, rischiarato tuttavia già da un barlume del sovrannaturale. Divina fiamma gli si mostra nel ricordo l'epopea dell'eroe predestinato a porre in Italia, dopo innumeri peregrinazioni, le fondamenta della gloria romana, e, con ciò, a condurre a termine una fase essenziale del disegno provvidenziale da Dio fissato per il cammino dell'umanità. L'Eneide divampò nel suo animo con la furia barbara di un grande incendio, ma, umanizzandosi, questo incendio non tardò a manifestarsi non devastatore, bensì educatore, maternamente benefico: le sue faville lo scaldar, non diversamente da come una madre scalda, stringendoselo al petto, il suo bambino; e infatti l'Eneide, configurata in un primo momento come vorace fuoco immesso per volontà divina nel mondo, assume, immediatamente dopo, caratteri più affettuosi e umani, nella ripresa chiastica mamma fummi e fummi nutrice (canto XXI, versi 97-98). La portata sovrannaturale dell'insegnamento di Virgilio viene tuttavia esplicitata, in tutte le modalità del suo manifestarsi, nel canto XXII, in cui l'episodio di Stazio trova la sua alta legittimazione nel quadro delle prospettive etico-religiose che hanno presieduto alla composizione del poema. L'aggettivo divina, qualificante l'Eneide in quanto prodotto non del solo operare umano, ma quasi espressione in terra della volontà che presiede - al di là delle singole volontà degli uomini - al maestoso, imperscrutabile decorso della storia, sottintendeva un germe provvidenziale nella creazione di quest'opera. Virgilio, infatti, nella celebrazione che Stazio ne fa nel canto XXII, appare non più quale maestro di sublime poetare, ma, in riferimento ad un passo del terzo libro dell'Eneide, portavoce di una esigenza morale, e infine, con riferimento alla IV Egloga, nelle vesti quasi di un novello Battista, pagano inconsapevole dello splendore della Rivelazione che la sua parola seminerà, germoglio di vita incorrotta, nel declinante, ineluttabile crepuscolo degli dei falsi e bugiardi. La sua opera pertanto non é più presentata, in questa seconda parte dell'episodio di Stazio, in termini anzitutto naturali ed umani - quali erano quelli proposti dallo sviluppo metaforico che traduceva il rogo rigeneratore della parola poetica (la divina fiamma) nell'emozione trepida e calda di una maternità e di una educazione dolcissime - ma in termini che si riallacciano direttamente alle metafore della letteratura cristiana. La divina fiamma del canto XXI si trasforma, nel XXII, in pura luce priva di furore, nel lume (versi 67-69) casto e discreto della fede, quello che rischiarò nelle tenebre pagane gli ancor timidi passi dei primi cristiani, che li portò a riunirsi nell'umiltà sepolcrale ed intima delle catacombe. Nella terzina 82-84, infatti, la serie radiosa dei martiri si configura come l'elemento decisivo che indusse Stazio, attraverso il lavacro battesimale, a rinascere a nuova vita - il tema del battesimo ripropone qui, sul piano di una meditazione dei significati più intimi di questo sacramento, quello della risurrezione (canto XXI, versi 7-9) anticipante, nell'esordio, il senso dell'episodio medesimo nel suo insieme - completando in tal modo, attraverso la sacralità di un rito, quella lenta, graduale conversione al cristianesimo, iniziatasi nelle sue prime, timide fasi nel segreto di una contrastata coscienza, a seguito della illuminante penetrazione della IV Egloga. Tale lume più nulla possiede del tempestoso agitarsi di una fiamma: é incendio calmo e consolatore, che l'imperitura gloria degli umili - quella che splenderà sul capo dei poveri di spirito nel regno dei Cieli - di continuo alimenta e protegge. Il lume che indirizzò, sulle orme del cieco Virgilio, i passi di un'anima ancora esitante verso la vera fede, é un evangelo di pace, non conduce - a differenza della divina fiamma del canto precedente - a fastigi di fama tra gli uomini, ad incoronazioni effimere in terra. Esso infatti non fu volto a far partecipi del proprio fuoco i pochi eletti che le Muse nutrirono di cibi privilegiati, ma illumina il cammino della umanità in ciò che questa possiede di più intimo, di più autentico e, oltre ogni altezza di ingegno o di opere, di imperituro: il dolore, non già quello sublimato nelle linee ritmate di un'opera d'arte, ma l'umile, improbo dolore quotidiano, non riconosciuto né dagli uomini ricompensato. È questo dolore che, nella seconda cantica, trova la propria espressione - trascendendo lo stesso splendore dell'immagine poetica - nel ricorrente e melodico rituale della preghiera, espressione tradizionale e modesta se concepita nelle sue linee generali, ma di una ricchezza inesausta di significati, di limpidi rimandi al futuro, al tempo che concluderà i tempi, se messa in rapporto al soggetto. Questi la assimila a una fede elementare e saldissima, a quel bisogno di certezza circa l'infinito che appare ineliminabile in noi e pone domande non già all'esistenza oggettiva delle cose, al causale susseguirsi degli eventi, ma alla nostra sorte ultima, al mistero del nostro inarrestabile fluire nel tempo, verso il punto che, arrestandoci, dovrà collocarci per sempre in quella che l'Auerbach con felice espressione ha chiamato - in rapporto al suo definirsi nell'ambito della Commedia - la "dignità del giudizio divino".


           

 

PURGATORIO CANTO XXIII

             

 

La schiera delle anime dei golosi procede nel sesto girone cantando un versetto del Salmo L, "Labia mea, Domine". L'aspetto di questi penitenti è tale da suscitare in Dante la più profonda compassione: nel volto pallidissimo spiccano, profondamente incavate, le orbite degli occhi, il corpo appare di una magrezza spaventosa, tanto che la pelle, disseccata e squamosa, modella il loro scheletro. Mentre il Poeta sta cercando di individuare la causa di tanta magrezza, un'anima lo riconosce e lo interroga: è Forese Donati, l'amico più caro durante il periodo della vita dissoluta di Dante. Dalla sua voce il pellegrino viene a sapere la causa del dimagrimento delle anime dei golosi. Il Poeta tuttavia si stupisce di trovare l'amico, morto da appena cinque anni, già nel purgatorio vero e proprio, senza alcuna lunga sosta nell'antipurgatorio fra le anime che si pentirono solo alla fine della vita. Ad accelerare la sua ascesa sul monte della penitenza furono le preghiere di Nella, la sua dolce sposa, che Forese ora ricorda con amore, contrapponendone la virtù alla corruzione delle sfacciate donne fiorentine,- per le quali aggiunge lo spirito penitente - il cielo già prepara durissime punizioni. Dante, per soddisfare un'affettuosa preghiera dell'amico, rivela che solo da pochi giorni egli ha lasciato la vita viziosa alla quale si era abbandonato anni prima con lui: la sua guida verso il bene è ora Virgilio, in attesa della futura venuta di Beatrice.

 

Introduzione critica

 

L'incontro di Dante con Forese Donati, il compagno di dissipazioni giovanili, musicalmente si inserisce - dopo i due canti dedicati alla celebrazione della poesia (nel caso particolare non soltanto simboleggiata, ma presente in carne ed ossa davanti ai nostri occhi nel personaggio di Virgilio) - nel tessuto nostalgico ma, al tempo stesso, non scevro di asprezze, duramente penitenziali, che caratterizza l'atmosfera delle cornici del sacro monte, dopo i tempi più miti e trepidamente sospesi dell'antipurgatorio. L'episodio di Forese non può, infatti, essere isolato, e quasi reciso dal clima morale del girone dei golosi che ne determina i toni e gli esiti, né d'altro lato possiamo tener conto del solo aspetto più domestico ed autobiografico in cui esso trova la propria radice, senza por mente alle cadenze, non più calde di intimo e sofferto ripensamento, ma incitanti quasi all'odio ed alla vendetta, in cui questa pagina si risolve e che, nella sua seconda parte - quella volta all'antiveder, alla percezione angosciata ed esaltante di un tempo buio ai mortali - accostano singolarmente il dire di quest'anima penitente a quello infuocato e svolto per araldiche metafore del capostipite della mala pianta che la terra cristiana tutta aduggia nel canto XX. L'episodio di Forese risulta tuttavia assai più complesso di quello che ha per suo protagonista Ugo Capeto, per il coesistere e l'armonico fondersi in esso di tonalità varie e più intensamente sentite (ove l'elemento autobiografico, riscattato da ogni angustia municipalistica, da ogni gravame del contingente, splende come puro canto), laddove la grandezza del ricordare prima, del profetare poi, dell'angustiato figliuol... d'un beccaio di Parigi appare rivestita di tragica dignità nella unicità di un dolore selvaggio, nell'isolamento della sua figura in virtù del suo stesso monocorde sentire, tutto teso a cogliere, in vicende che sono di dominio pubblico, la traccia del germe malefico da lui medesimo immesso nel mondo, l'attivo diffondersi di un male inspiegabile altrimenti che in termini di destino, di peccato ereditato e trasmesso. L'episodio autobiografico che ha il suo centro nel mutuo ridar vita al passato ad opera dei due amici-nemici di un tempo, é collocato sullo sfondo della descrizione riguardante la condizione delle anime dei golosi. Essa si esprime - rispetto alle descrizioni svolte nelle cornici precedenti - in una scansione più vibrante, più dibattuta e sofferta, scansione che trova il suo apice nel contrasto tra l'enunciazione dell'aspetto fisico dei golosi - culminante nelle metafore delle anella sanza gemme e della emme che spicca sul loro volto (versi 31-33), priva delle due o che su quello dei viventi le appaiono afancate - ed il sentimento che anima questi spiriti nell'atto in cui liberamente soggiacciono alla punizione che li restituirà alla patria celeste. Scrive in proposito il Sapegno: "La descrizione... dello squallido aspetto dei golosi, pur nella precisione che sembra distaccata e crudele dei particolari, resta tutta soffusa di [un] senso di trepido stupore; e sottolineando, nella deformità delle fattezze, l'estraneità e la totale irriconoscibilità delle ombre, dà rilievo per contrasto alla tenerezza dolente dell'inatteso riconoscimento; con un effetto in parte simile a quello che il Poeta otteneva nell'Inferno, facendo scoprire da Dante la cara immagine di Brunetto nel volte irreparabilmente devastato dalle fiamme di un violento contro natura (ma la situazione, che là era drammatica, qui si risolve in toni di alta religiosa elegia)". Questa limpida osservazione del Sapegno puntualizza - nel quadro di un riferimento divenuto consueto all'episodio del XV dell'Inferno - i fattori che rendono diversa, pur nell'unicità del motivo ispiratore (il riandare col pensiero ad un passato, che mai più potrà proporsi sereno, nel tempo che incalza e - agli occhi del senza casa, senza più patria, che lo riconosca per figlio - sospinge il mondo, di sventura in sventura, verso un'apocalittica palingenesi). Nell'episodio la resa artistica, la tonalità specifica dei due incontri, di Forese, infatti, trova espressione ed armonico compimento una complessità di voci a volte acerbamente divergenti, la quale mancava nella definizione della figura (come pacificata e resa tollerante - entro l'ambito di una rassegnata saggezza - del male che la divora) di ser Brunetto. La voce di Forese, invece, é di quelle che, di fronte ad un chiuso, gelosamente custodito passato, proiettano un futuro senza pietà, riassunto, con tragica evidenza, nel grido di orrore delle sfacciate donne fiorentine, di cui al verso 108, nello stile delle profezie bibliche. L'episodio che ha per suo protagonista Forese Donati risulta pertanto più variato, più arduo da ridurre ad un denominatore comune nel campo delle definizioni critiche, più difficile da interpretare nella sua sfumata singolarità. Il punto in cui esso si differenzia nettamente da quello del XV dell'Inferno va individuato tuttavia non nella rievocazione del tempo che non potrà più riproporsi attuale, quanto nello svolgimento del motivo dell'antiveder. In consonanza infatti con la spiritualità sollecita degli umani destini, caratterizzante gli stati d'animo ansiosamente orientati al futuro di color che son contenti nel foco, la figura di Forese appare rivestita di uno splendore profetico assai più luminoso e permeato della presenza. del divino che non quello - più limitato e terrestre, esprimentesi per sentenze e volto a tracciare le linee di una sorte singola - il quale aureola e ferma sul piedestallo della gloria la cara e buona imagine paterna dell'autore del Tesoro.


           

 

PURGATORIO CANTO XXIV

             

 

I tre poeti percorrono il sesto girone in compagnia di Forese Donati, il quale, rispondendo a Dante, rivela che la sorella Piccarda é già tra le anime beate del paradiso, e che tra i suoi compagni di pena nella cornice dei golosi ci sono alcuni nobili, alcuni ecclesiastici e un poeta lucchese, Bonaggiunta Orbicciani. Quest'ultimo profetizza a Dante che a Lucca, durante il periodo del suo esilio, una donna di nome Gentucca gli dimostrerà una profonda gentilezza e una delicata amicizia. In un secondo tempo Bonaggiunta affronta con Dante il problema della nuova poesia - quella del dolce stil novo - che si sta diffondendo, la quale ha una sola guida, il sentimento d'amore che fornisce l'ispirazione. Continuando nel cammino, poiché il Poeta ha ricordato la triste situazione in cui si trova la città di Firenze a causa delle lotte interne, Forese preannuncia l'imminente morte violenta del fratello Corso, capo del partito dei Neri e uno dei principali responsabili delle discordie civili. Subito dopo l'ombra del goloso fiorentino si allontana dai tre poeti per rientrare nella sua schiera, mentre appare un albero carico di frutti verso i quali gruppi di anime tendono con impaziente avidità le mani: allorché Dante si avvicina, una voce misteriosa grida dalle fronde alcuni esempi di golosità punita. I due pellegrini e Stazio, tutti assorti nella meditazione di quanto hanno appena udito, giungono alla fine del sesto girone, dove l'angelo della temperanza assolve Dante dal peccato di gola.

 

Introduzione critica

 

Quel nodo inestricabile di memorie dolci e di spietato antiveder, il quale caratterizza in maniera inconfondibile la poesia dell'incontro di Dante con Forese Donati, trova nei canto XXIV la sua ferma conclusione, in toni non dissimili da quelli che ne avevano definito il dispiegarsi nella cornice del canto precedente, e quasi un'esplicita consacrazione. Quest'ultima risalta in modo particolare nel rapporto istituito fra l'incontro di pochi attimi con l'amico e la necessità, per il Poeta, di dover tornare ad affrontare gli affanni di un vivere sempre più duro e spicca soprattutto nella confessione, ad opera del protagonista, della sua sazietà di vivere non meno che del suo indefettibile attaccamento a Firenze, il loco ove egli fu a viver posto, loco che di giorno in giorno più di ben si spolpa. È una confessione in risposta ad una domanda postagli da Forese Donati (quando fia ch'io ti riveggia?), che introduce di colpo la familiarità di un discorrere quotidiano nelle dimensioni atemporali di un universo dal quale ogni forma di sorpresa, di imprevisto, di rinnovantesi quotidianità è esclusa, e che riassume in sé il significato dell'intero episodio, la religione delle memorie patrie e domestiche santificata nella religione di un volontario, cosciente espiare. Qui la manifestazione di un soggettivo, stanco desiderio di approdare quanto prima alla riva promessa alle tempeste del vivere fa tutt'uno con la constatazione di un dato di fatto che amaramente si ripercuote nell'animo dell'esule: il progressivo tralignare della città che a lui e a Forese fu madre premurosa e calda d'affetti e ne vide le giovanili inesperienze, gli impeti, gli errori, perdonabili perché dovuti ad un sovrabbondare di inesperto vigore, ad una volontà ancora alla ricerca dei fini alti che ad essa sarebbero stati proposti. Giova a questo proposito osservare come il desiderio di morire non si configuri mai in Dante nei termini dell'assolutezza tenebrosa e disperata di un romantico cupi o dissolvi: Esso - è sempre motivato sia dall'attesa del vivere vero, quello dell'anima ormai insediata in una certezza raggiunta, che nessun moto del mondo potrà più alterare, sia, sul terreno di una concreta esperienza etica, dal trionfo - che appare ai suoi occhi ormai inarrestabile sul piano dei soli mezzi ed interventi umani - del male nel mondo o in quel cuore del mondo e dei suoi affetti che è costituito per lui dalla città fatta oggetto di amore disperato pur nell'odio: quella città che ha sostituito, lui vivente, agli esempi di un agire moderato e semplice, l'esibizione sfrontata delle ricchezze, il prepotere e l'arbitrio resi norma dell'operare di ogni giorno. Inquadrano, rilevandone gli aspetti più salienti; questa seconda parte dell'episodio, l'accenno fatto da Forese alla sorella Piccarda, vista - quasi in tonale contrapposizione al quadro denso di soli affetti terrestri che aveva avuto, nel canto precedente, il suo punto focale nel pianger dirotto della giovane moglie - cinta della corona che premia le virtù nella luminosa pace dell'alto Olimpo, e l'immagine, squillante di giovanile ardore, nella quale risuonano la fedeltà ed il senso dell'onore che furono propri della Cavalleria, e delineante per un'ultima volta, sullo sfondo anonimo e mite della folla dei golosi, la figura alta dell'amico, nobilitata nei modi di una similitudine (qual esce alcuna volta di gualoppo...). In particolare 'notiamo come nella similitudine che ne accompagna il perdersi nella folla delle anime, Forese grandeggi per il generoso traboccare in lui di un sentimento di incondizionata dedizione ai valori proposti dall'amicizia e dall'amor patrio, smentendo così la dolorosa impressione iniziale che di lui avevamo avuto nel canto precedente (ed ecco del profondo della testa...). Come ha finemente notato il Sapegno, entro la cornice dell'episodio maggiore "si inserisce, secondo un modo consueto della tecnica dantesca", quello minore che vede quali suoi personaggi da un lato Bonaggiunta Orbicciani, il rimatore lucchese rimasto nella sua produzione letteraria di qua dal dolce stil novo che ebbe in Dante la sua più autorevole espressione, dall'altro lo stesso Poeta, registratore fedele dei moti del suo animo, resi persona autonoma, oltrepassante i dati di ogni individuale intendere o volere, nella figura di Amore. Tralasciando ogni più o meno autorizzata inferenza che, in sede di storiografia letteraria, alcuni critici hanno voluto trarre dalla famosa terzina 52, proverbiale ormai per densità di implicazioni - suscettibile ognuna di un divergente svolgimento interpretativo - occorre ricordare che anche in questo caso, non meno che in riferimento all'episodio principale di Forese, l'interpretazione del Sapegno risulta tra le più persuasive. Il critico considera la professione di fede del Poeta nelle qualità sovrannaturali di Amore come "intonata ad umiltà", e la pone in relazione con altri momenti del dispiegarsi della poesia della seconda cantica, tutti incentrati sul problema del valore dell'esperienza artistica. Qui Amore "è certamente inteso in un senso che trascende la comune materia erotica della lirica tradizionale e acquista il valore ,di un'esperienza intima e quasi religiosa". In riferimento a quello poi che il Sapegno, con terminologia di derivazione esplicitamente crociana, definisce un "punto di vista strutturale", lo scambio di parole tra il protagonista e Bonaggiunta Orbicciani "avvicina e contrappone due momenti distinti della biografia spirituale del Poeta; dopo l'amareggiata e compunta commemorazione di un periodo di dissipazione e di traviamento, è come se Dante ritrovasse in sé la memoria di una fase più remota di docile abbandono al richiamo di un'ispirazione celeste, quasi preannunzio e presentimento, troppo a lungo trascurato, della sua condizione presente di ripiegamento interiore e di ascesi".


PURGATORIO CANTO XXV

             

 

Sono circa le due pomeridiane mentre Dante, Virgilio e Stazio continuano l'ascesa dal sesto girone, quello dei golosi, all'ultimo, dove subiscono la loro pena i lussuriosi. Il Poeta, tuttavia, è tormentato da un dubbio, che il timore di riuscire fastidioso ai suoi due maestri gli vieta di esprimere. Ma, in seguito a una paterna esortazione di Virgilio, egli chiede come avviene il dimagrimento delle anime dei golosi, se esse non hanno bisogno di cibo. Virgilio, dopo un primo tentativo di chiarire questo problema attraverso due esempi, prega Stazio di fornire una dimostrazione più completa e convincente del fenomeno. Questi accosta il problema in modo ampio e generale, iniziando una sistematica dissertazione che possiamo dividere in quattro parti. 1) Teoria della generazione umana: formazione dell'embrione dall'unione dell'uomo e della donna e, nell'embrione, formazione dell'anima vegetativa e sensitiva (versi 37-60). 2) Infusione dell'anima razionale nel corpo: quando nel feto la struttura del cervello è completa, Dio, con un atto creativo diretto, vi infonde l'anima razionale, che assimila le altre due, formando una sola anima (versi 61-78). 3) Modo dell'esistenza dell'anima dopo la morte: l'anima, uscendo dal corpo dopo la morte di questo, porta con sé le tre facoltà - vegetativa, sensitiva, razionale - e si dirige alle rive dell'Acheronte, se è dannata, o alla foce del Tevere, se è destinata alla salvezza (versi 79-87). 4) Genesi e condizione delle ombre: l'anima, giunta nel luogo assegnatole, opera nell'aria che la circonda e si costruisce con questa aria una specie di forma corporea, che è dotata degli organi dei sensi e può esprimere tutta la gamma dei sentimenti. Questa è la ragione per cui può avvenire nei golosi il dimagrimento. Appaiono poi, in mezzo a un grande fuoco, le anime dei lussuriosi, che cantano « Summae Deus clementiae » e gridano alcuni esempi di castità.

 

Introduzione critica

 

Non fu in primo luogo una esigenza artistica quella che indusse Dante a trattare, nel canto XXV del Purgatorio, il difficile problema della consistenza fisica delle anime nell'al di là, problema nel quale l'elemento attinto alla nostra esperienza richiede di essere interpretato al lume di un dato della fede, per cui l'embriologia appare sottoposta ad una giurisdizione la quale, pur non essendo contenuta nell'insieme delle leggi naturali, su di esse opera, modificandole ed imprimendovi il soffio di una superiore volontà. Scrive in proposito acutamente il Mattalia che l'intera spiegazione di Stazio ascende, come verso il proprio culmine, verso la commozione solenne delle espressioni che ci mostrano lo motor primo nell'atto in cui, lieto, volge la sua attenzione alla complessa organizzazione che la natura, attraverso l'operare della virtù ch'è dal cor del generante ha mirabilmente predisposto ad accogliere un principio - l'anima razionale - che sfugge ad ogni qualificazione in termini naturalistici: per questo "il processo naturale-formativo dell'essere umano ha la sua suprema risoluzione e integrazione nel sempre rinnovantesi prodigio della creazione del primo uomo, mediante il diretto intervento di Dio". Per quel che riguarda in particolare la motivazione che ha indotto Dante ad inserire nel suo poema una spiegazione intorno alla possibilità della sofferenza o della gioia fisica nelle anime, cioè intorno al fondamento oggettivo e scientifico dell'invenzione che è alla base della Commedia, il critico così si esprime: "L'esigenza da cui muove Dante, del quale Stazio assume qui la rappresentanza, è la massima conciliazione tra razionalità scientifica e dato teologico o di fede, che significa poi, se mal non intendiamo, la maggior possibile riduzione del secondo alla prima. Dante, infatti, non è pago della semplice spiegazione analogica ed extra-razionale offertagli da Virgilio... Né la dottrina ufficiale della Chiesa, pur affermando che le anime nell'oltretomba possano patire o godere fisicamente, impegnava poi il cristiano a credere de fide che la cosa avvenisse in un certo modo e per una ragione particolare piuttosto che per l'altra. Né era necessario limitarsi a una spiegazione trascendentale; che si trattava di «corpi» cosi disposti da Dio e che le vie di Dio sono razionalmente imperscrutabili: se c'era una spiegazione scientifica della generazione dell'uomo, non era detto che da questa non si potesse e dovesse dedurre, entro i limiti delle possibilità dell'intelletto umano, una ragionata spiegazione del fenomeno. Poiché l'anima dell'uomo, ad esempio, è infusa da Dio nel corpo a vivere simbioticamente con esso, come suo principio attivante ed organizzatore, e le anime patiscono fisicamente, è logico e necessario inferirne che il separarsi dell'anima dal corpo, al momento della morte, non è un suo ridursi a sostanza « separata dalla materia » come gli angeli; e che l'originario nesso anima-corpo, posto e voluto da Dio, deve in un modo o nell'altro continuare a sussistere, ed essere concepito in termini tali da poter razionalmente spiegare tanto la momentanea separazione dell'anima dal corpo, quanto il loro ricongiungersi il giorno del Giudizio Universale ". Non quindi essenzialmente da "ovvie esigenze di rappresentazione e di racconto" (Sapegno) deriva in Dante la necessità di render conto della condizione che, dotandole di un'apparenza corporea, assoggetta le anime nell'al di là ai tormenti della dannazione e dell'espiazione non meno che alle gioie della beatitudine (per quanto riguarda lo stato delle anime del paradiso, tuttavia, il Poeta insisterà sul fatto che la loro consistenza di ombre è mero riflesso, nei nove cieli ancora sottoposti agli imperativi della natura, della loro spiritualità raggiunta nel pensabile, ma non rappresentabile Empireo): in tale necessità si trova in quanto autore, a causa dell'approssimarsi ai domini della verità rivelata, che a lui, come personaggio, si mostrerà in tutta la sua severa luce sulla sommità del monte della penitenza nella persona di Beatrice. Questo aspetto del problema è fondamentale ai fini di cogliere la tonalità di queste pagine severe, in cui il ritmo della vita umana è abbracciato con vigore di scorci e lucidità di espressioni dal suo primo originarsi negli antecedenti biologici (i generatori) al suo destino finale, caratterizzato da un deciso prevalere delle facoltà spirituali su quelle meramente fisiche (terzina 82) ed espresso in versi che accentuano il lato miracoloso dell'esistenza individuale, messo in pieno risalto dalla separazione dell'anima dal corpo (terzina 85). Il Nardi rileva tale aspetto con una penetrante osservazione, volta a cogliere in tutta la sua estensione il divario che separa una poesia concepita in termini di mera finzione - quale fu quella che caratterizzò la produzione letteraria dell'antichità pagana - da una poesia che ha le sue basi nella più assoluta oggettività, come in Dante: "E qui si noti anche un'altra cosa: un problema come quello che qui Dante si è posto, Virgilio nell'Eneide non avrebbe potuto porselo; perché tutto quello che l'eroe troiano vede sotto la guida della Sibilla, del tracio Orfeo e dello stesso padre Anchise, è pura rappresentazione poetica, per il poeta romano, finzione immaginaria, anzi « falsa insomnia » che i Mani ci mandano dall'oltretomba per la porta d'avorio dei sogni. Per Dante invece quello che gli appare è realtà e non finzione. La sua non è visione di cose favolose, ma di cose che egli ritiene vere. Si che il dubbio che egli si pone, e il tentativo di trovarne una soluzione che lo appaghi, non sono vana disquisizione intorno a un problema inesistente, ma vero dubbio suscitato nella sua mente di filosofo da quel che ha veduto, e sforzo di appagare il suo desiderio di conoscere la verità sulla vita nell'oltretomba, alla quale non solo egli crede al pari di ogni vero credente, ma che Dio gli ha concesso di vedere coi propri occhi mortali prima della morte ".


           

 

PURGATORIO CANTO XXVI

             

 

Il settimo e ultimo girone del purgatorio è occupato da un grande fuoco, nel quale purificano il loro peccato le anime dei lussuriosi. L'attenzione del pellegrino è attirata dal sopraggiungere improvviso di una turba di anime, procedenti in direzione opposta rispetto a quella della prima schiera apparsa ai tre viandanti alla fine del canto XXV. Quando i due gruppi si incontrano, le anime, senza fermarsi, si baciano festosamente fra di loro; allorché si separano, le ombre della seconda schiera gridano il nome delle due città bibliche di Sodoma e Gomorra, quelle della prima ricordano la lussuria della regina cretese Pasifae. Dopo aver rivelato di essere ancora vivo, Dante chiede che gli venga spiegata la duplice divisione delle anime dei lussuriosi. Superato il primo momento di stupore, l'ombra che già precedentemente si era rivolta al Poeta, riprende a parlare: la schiera che si allontana gridando « Sodoma e Gomorra » è quella dei sodomiti, l'altra è quella dei lussuriosi secondo natura, i quali però non seppero frenare con la ragione i loro istinti. Soltanto ora Dante ci fa conoscere il nome del suo interlocutore: Guido Guinizelli, il famoso iniziatore della scuola poetica del, dolce stil novo, il quale presenta il poeta che, a suo giudizio, seppe usare ancora meglio di lui, nei suoi versi, la lingua materna al posto dell'ormai superato latino. Appare così la figura del maggiore trovatore provenzale, Arnaldo Daniello, che, parlando nella lingua della propria terra, chiede a Dante di ricordarlo nelle sue preghiere..

 

Introduzione critica

 

Dopo la sobria energia che ha caratterizzato una delle pagine più ardue, dal punto di vista concettuale, della Commedia - quella riguardante, nel canto XXV, il concepimento dell'essere umano - il canto XXVI si presenta alla nostra attenzione con una ricchezza inusitata di motivi e risoluzioni, per cui riesce problematico il tentare di ridurlo entro una formula critica perentoria ed esclusiva. Ritroviamo in esso il tema dell'amicizia - costante nella seconda cantica, ma di particolare rilievo nel gruppo dei canti che preludono all'incontro del protagonista con Beatrice sulla sommità del sacro monte - al quale appare indissolubilmente legato quello dei problemi attinenti alla poesia, o, più generalmente, all'espressione artistica. Questo tema è affiorato fin dall'inizio del Purgatorio (nell'episodio di Casella) e poi, dopo l'incontro con Sordello, nelle parole pessimistiche, eppur ricche di ritrovata speranza, sulla fragilità di ogni gloria umana (degradata a romore), attribuite a Oderisi da Gubbio. Nella prima parte del canto il tema delle pene redentrici ha un particolare risalto accanto a quelli dell'amicizia e delle memorie letterarie; i quali, nella seconda parte di esso, ripropongono entro una prospettiva più ampia il motivo già introdotto nell'episodio di Bonaggiunta sul conflitto tra i seguaci di un modo di poetare in volgare ancora legato ad una tradizione provinciale, e coloro che, sulle orme del Guinizelli, concepivano, come Dante stesso, il volgare come una lingua non inferiore al latino nella possibilità di modellarlo anche nelle forme dello "stile sublime ". Il motivo delle fiamme che detergono dal peccato di lussuria è denso di implicazioni simboliche (il Roncaglia fa notare come sul tema del fuoco "ch'è tra le metafore più banali dell'ardore amoroso, e che qui in Dante ne diviene l'ovvio contrappasso, insistono... con particolare energia fantastica" sia il Guinizelli sia Arnaldo Daniello nei loro componimenti), ma il Poeta lo sviluppa nel senso di una grande concretezza, conferendo evidenza ad una situazione irreale per mezzo di notazioni che riportano gli aspetti sovrannaturali di questa zona dell'oltretomba all'esperienza più comune che abbiamo della natura. La presentazione iniziale dello spettacolo delle fiamme risulta persuasiva proprio in virtù di particolari realistici (come quelli dei versi 7-8: e io facea con l'ombra più rovente parer la fiamma), mentre, d'altro canto, il mutarsi lento delle tinte del cielo all'ora del tramonto (evocato nei versi 5-6 con quel trionfale raggiando che conferma, nell'attimo della sua imminente sparizione, la forza inesauribile del principio di ogni vita) richiama ai grandi ritmi dell'universo ed impedisce in tal modo che questa poesia, cosi naturale, ceda alle lusinghe del naturalismo. Assolvono sostanzialmente alla medesima funzione - riconducendo alla semplicità di un'esperienza che é di tutti quanto di alto e di elaborato é nelle parole rivolte da una delle anime a Dante (versi 16-24) e in quelle che il pellegrino indirizza alla schiera dei lussuriosi secondo natura (versi .53-66) - anche le similitudini, frequenti nella prima parte del canto: quella delle formiche, cosi lontana dal descrittivismo delle fonti classiche cui il Poeta forse l'attinse, così densa di affetto e carica di rimandi ad una situazione umana (particolarmente nell'ipotesi formulata dall'osservatore circa il motivo dell'ammusarsi": forse ad espiar lor via e lor fortuna); quella che ha per termine di raffronto il volo delle gru, nella quale la tristezza di una separazione traspare in modi che tendono a dar risalto alla coordinazione simmetrica dei movimenti delle due schiere di uccelli (onde, nei versi 44-46, la bilanciata rispondenza, in termini di lessico e di sintassi, dei due emistichi); quella che colpisce in un atteggiamento di vergine stupore il montanaro inurbatosi, e quella esprimente (versi 94-95) in maniera indiretta, "quasi pudicamente, attraverso il filtro d'una reminiscenza letteraria, che, brevemente allusa, permette di non diluire la concentrazione del pathos" (Roncaglia), la devozione filiale di Dante verso il Guinizelli. Nella seconda parte del canto - articolata nei due episodi del Guinizelli e del Daniello - i temi dell'amicizia e della gratitudine per un magistero letterario che agli occhi del pellegrino assunse le dimensioni di un insegnamento morale, di una iniziazione religiosa, si risolvono, dopo le appassionate, intransigenti condanne dei guittoniani, nella limpidità della presentazione che di se stesso fa il trovatore provenzale, nella dolcezza di un inserto arcaico. Quest'ultimo, mentre da un lato testimonia di un tributo di riconoscenza da parte del Poeta verso il rappresentante più cospicuo di quel « trobar clus » che ebbe forse la sua più alta consacrazione nelle sestine delle Rime petrose, dall'altro rende insussistente, in presenza di un dilagante sentimento di carità, il senso dell'isolamento sdegnoso perseguito nella sottigliezza dei costrutti e delle rime che caratterizzò il « trobar clus » medesimo: ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. "Perciò - scrive il Roncaglia - la aspra sensualità e il chiuso stile propri del trovatore perigordino, che Dante ben conosceva ed aveva imitato nelle Rime petrose, cedono il posto a semplici parole di canto e di pianto." Il Sapegno dal canto suo osserva: "L'uso del linguaggio forestiero e aulico, sottolinea il tono distaccato della risposta del trovatore, serve a stilizzare in una formula vaga il contrasto fra l'esperienza terrena e lo stato presente di penitenza, fra le contrite memorie e le luminose speranze; mentre al ripudio delle passioni mondane (la passada folor) s'accompagna, appena accennato, il rifiuto anche di un gusto già caro di rime arcane e chiuse (ieu no me puesc ni voill a vos cobrire)".


           

 

PURGATORIO CANTO XXVII

             

 

Il sole sta tramontando sul monte del purgatorio quando l'angelo della castità, dopo aver cantato la sesta beatitudine evangelica « Beati mundo corde! », invita i tre poeti ad entrare nelle fiamme che occupano il settimo girone, per poter proseguire il loro viaggio, Ma Dante esita, pieno di paura, e Virgilio deve intervenire per far presente al discepolo che nel purgatorio le pene possono tormentare, ma non uccidere. Tuttavia solo quando il maestro gli ricorda che al di là di quel muro di fiamme egli potrà finalmente vedere Beatrice, Dante si decide e segue la sua guida nel fuoco, mentre Stazio chiude il piccolo gruppo. Virgilio, per esortare il discepolo e sostenerlo nel difficile momento, continua a parlar di Beatrice finché, guidati da un canto, i tre poeti escono dalle fiamme, trovandosi davanti a un angelo, che li invita a salire prima che sopraggiunga la notte. Poco dopo, tuttavia, essendo tramontato il sole, essi si coricano su tre gradini tagliati nella roccia, per aspettare il nuovo giorno. Il Poeta, mentre osserva il cielo stellato, viene preso dal sonno; quando l'alba è vicina egli sogna una giovane donna, bella e leggiadra, che percorre la campagna cogliendo fiori e che, cantando, rivela il proprio nome: è Lia, che fu la prima moglie di Giacobbe e rappresenta il simbolo della vita attiva, mentre Rachele, che fu la seconda moglie del patriarca ebraico, è simbolo della vita contemplativa. Ogni tenebra è scomparsa quando Dante si riscuote dal sonno; subito dopo il maestro gli spiega che è ormai vicina quella felicità che tutti i mortali cercano ansiosamente e che è simboleggiata dal paradiso terrestre. Virgilio, dopo aver accompagnato Dante fino al termine della scala che conduce all'Eden, si congeda da lui: il suo compito si è concluso, il discepolo ha raggiunto la totale purificazione e non gli resta che attendere la venuta di Beatrice.

 

Introduzione critica

 

Con la vista dei lussuriosi che si purificano nel fuoco ha termine l'esperienza compiuta da Dante nei primi due regni dell'oltretomba. A partire da questo momento fino alla fine della seconda cantica la vicenda itinerale del pellegrino assumerà un colore più decisamente *allegorico, venendo a mancare ad essa lo sfondo storico, determinabile attraverso il riferimento a personaggi e fatti realmente accaduti in terra, che ha sin qui caratterizzato gli incontri del protagonista con le anime dei dannati o dei promessi alla beatitudine. Uno studioso americano, il Singleton, distingue nel personaggio che parla in prima persona nella Commedia un "io-individuo", storicamente identificabile in Dante Alighieri, e un "io" più generale, a carattere simbolico: un "io-umanità" che egli definisce, richiamandosi ad un celebre dramma medievale, "Chiunque". Per il Singleton, i canti proemiali del poema avrebbero quale loro protagonista questo secondo "io", questo "io" che non si identifica storicamente nella concretezza di una persona vissuta, ma che agisce sul lettore con la portata vasta e suggestiva di un riferimento diretto al destino umano. Considerazioni analoghe possono essere svolte anche in rapporto ai canti successivi, poiché sempre, nella presentazione che il Poeta fa di sé in quanto protagonista dell'opera, coesistono queste due forme di intendere la soggettività, prevalendo ora l'una ora l'altra a seconda delle esigenze della narrazione. Così, se nei dialoghi con le anime ha il sopravvento, sul Dante-simbolo, il Dante storico, ricco di una personale esperienza e di un sentire che questa esperienza traduce sempre in travaglio morale, nei momenti in cui l'elemento umano é messo in ombra da quello sovrannaturale il protagonista della Commedia tende a coincidere con l'uomo assunto nella sua tipicità, onde talvolta il suo sentire sembra contraddire quello, esprimente la volontà ferma e il coraggio, del Dante personaggio storico. Basti pensare, ad esempio, al tema ricorrente della paura, il quale chiaramente allude ad una condizione generica, propria dell'uomo non ancora libero dal peccato e bisognoso di un soccorso per diventarlo. Questo tema, trattato dall'autore con effetti a volte di indubbia comicità, come in certe inflessioni dell'episodio davanti alle porte di Dite o della pagina dedicata al volo sulla groppa di Gerione o in tutto il movimentatissimo episodio della bolgia dei barattieri, acquista un notevole risalto nella prima parte del canto XXVII del Purgatorio. Ivi, "cessata la rivista delle anime purganti (o delle dannate e delle purganti), dove domina l'individualità storica e dei visitati e dello stesso visitatore», ricompare "l'intelaiatura affabulatrice del viaggio, dove il protagonista é l'« io » che é altresì «noi»" (Contini). La critica ha cercato per diverse vie di annettere alla poesia solenne che contraddistingue la seconda parte del canto (poesia dei silenzi e delle meditazioni notturne, poesia della piccolezza dell'uomo nelle dimensioni dell'universo, poesia del risveglio in una natura vergine, ignara del peccato) e che culmina nel congedo tragico di Virgilio, anche l'episodio che ne occupa la prima parte: quello che ci mostra Dante - (e io pur fermo e contra coscienza) - riluttante ad affrontare l'ultima prova dolorosa che attende le anime prima che possano accedere al paradiso terrestre. Tentativi del genere non riescono tuttavia a persuadere. Quando il Momigliano, ad esempio, in merito all'espressione sopra riferita, parla di un verso "unico, incrollabile sotto i colpi reiterati delle parole di Virgilio", non tiene conto del contesto indubbiamente orientato verso il comico, in cui tale endecasillabo si trova inserito. L'aspetto bonario di questa rappresentazione della paura del protagonista cui il riferimento alla vista di cadaveri (verso 15) o di bruciati vivi (verso 18) non riesce a conferire la consistenza di un sentimento provato in prima persona - si rende palese nella sua conclusione (terzina 43), a proposito della quale il Contini rileva: "la situazione infantile di Dante sottolineata da quella sottilissima spia linguistica che é il pronome allocutorio di prima plurale, volenci star di qua? (non si dice infatti ai bambini: «Come siamo belli oggi!» ?), é indicativa del prevalere in lui dell'istinto contra coscienza". Ora nessuna situazione caratterizzata dall'affermarsi dell'istinto in quanto tale é mai presentata nella Commedia in termini di un dramma che non sia puramente simbolico, e pertanto, là dove questo dramma vuole affermarsi come reale, si determina una sproporzione fra i due piani fondamentali (quello letterale e quello allegorico) della rappresentazione, con esiti tendenti al comico. La seconda parte del canto isola le figure dei tre viandanti sullo sfondo di una notte viva di inespressi presagi, in accordo con la grandiosa determinazione astronomica dei versi dell'esordio, nei quali l'impassibilità del decorso degli eventi naturali inquadra la passione del Dio fatto uomo (verso 2). Rimandare in proposito, come fa il Momigliano, all'atmosfera che caratterizza un componimento come L'infinito del Leopardi, può riuscire utile nei margini di una larghissima approssimazione, ma allora tanti altri riferimenti potrebbero risultare ugualmente validi. Ciò che distingue il respiro cosmico che anima questa pagina commossa, dalle meditazioni notturne degli scrittori più vicini a noi nel tempo, é il senso di fiduciosa attesa che la pervade, l'armonia che si istituisce tra il soggetto contemplante e la natura di cui si sente parte, oltre che osservatore. Dante non esprime un desiderio di « naufragare» nel mare dell'essere, di sfuggire in tal modo al tormento della coscienza, ma, assorto (si ruminando e sì mirando in quelle) nella contemplazione di astri che gli indicano senza errore il cammino che deve seguire, cede ad un sonno apportatore, per via di prefigurazioni simboliche, di verità.


           

 

PURGATORIO CANTO XXVIII

             

 

Dante, lasciato da Virgilio alla soglia del paradiso terrestre, sì dirige verso il bosco, folto e ricco di verde, che occupa gran parte dell'Eden. Entrato nella selva, il Poeta si trova la strada interrotta da un ruscello, le cui acque, benché prive di ogni impurità, appaiono tutte scure sotto l'ombra perpetua della divina foresta. Sulla sponda opposta appare una figura di straordinaria dolcezza: una donna cammina sulla riva del fiumicello cantando e cogliendo i fiori più belli. Dante la prega di avvicinarsi di più a lui, affinché gli sia possibile udire le parole del suo canto, e la donna, muovendosi con la stessa grazia di una figura danzante, ne esaudisce la richiesta. Matelda, questo è il nome (che sarà rivelato solo nel canto XXXIII, verso 119) della dolce apparizione, dichiara di essere giunta per soddisfare ogni domanda di Dante, il quale subito le chiede una spiegazione: come possono esserci nel paradiso terrestre l'acqua e il vento, dal momento che al di sopra della porta del purgatorio non esistono alterazioni atmosferiche? Il monte del purgatorio - incomincia Matelda - fu scelto da Dio per essere la dimora dell'uomo, il quale ne fu privato dopo il peccato originale; esso fu creato altissimo, affinché le perturbazioni atmosferiche non nuocessero alla creatura umana, ma la sfera dell'aria, che si muove con il muoversi dei cieli, colpisce gli alberi della selva facendoli stormire. Questi ultimi impregnano dei loro semi l'aria intorno, la quale, muovendosi, li sparge dovunque sulla terra. Quanto al ruscello che Dante ha visto, esso non nasce da una sorgente alimentata dalle piogge, ma da una fonte che riceve direttamente da Dio tanta acqua, quanta ne perde. Infatti due sono i fiumi del paradiso terrestre: il primo, già incontrato dal Poeta, è il Letè, la cui acqua dona l'oblio dei peccati commessi, il secondo è l'Eunoè, che fa ricordare solo le opere buone compiute.

 

Introduzione critica

 

Lo stacco che si avverte tra la fine del canto XXVII e il principio del XXVIII esprime il mutamento che si verifica nella vicenda dell'anima del pellegrino e separa, come un complesso a sé, il gruppo dei canti finali del Purgatorio dalla parte precedente della cantica. Le parole con cui Virgilio ha dichiarato assolto il proprio compito (canto XXVII, versi 127-142.). riassumevano il significato dell'intero itinerario del pellegrino nei due primi regni dell'oltretomba. Esse rappresentavano il coronamento degli sforzi da lui compiuti sotto la guida della ragione per riacquistare la sua libertà e, in quanto tali, avevano un tono di trionfo, ma non di serenità. Lungi dall'essere smorzato, vibrava in esse, pienamente consapevole, quel sentimento che aveva caratterizzato l'intero magistero del poeta latino nel corso delle due prime cantiche: un modo di concepire la vita in termini di rinuncia ad ogni indugio contemplativo - giudicato ozioso - di traduzione immediata di ogni dato elaborato dalla teoria in prassi morale, in virtù attiva ed impaziente di trascendersi per un più alto grado di perfezione. Giustamente il Sapegno scrive a proposito di questo ultimo discorso rivolto da Virgilio al suo discepolo: "la nota malinconica e patetica del congedo é appena accennata, con virile pudicizia. L'accento batte sull'importanza dello sforzo compiuto e sulla grandezza dell'acquisto, che ne consegue". L'esordio del canto XXVIII propone invece una condizione dello spirito dalla quale ogni traccia di sforzo, di difficoltà, é sparita. Restaurata nel pellegrino la natura umana quale fu in Adamo prima del peccato di origine, il sentimento che lo anima, di fronte allo spettacolo che gli si apre davanti, non é quello del dolore e della sua necessità, ma quello di un appagamento che nessun cruccio incrina. La divina foresta rappresenta una proiezione sensibile dello stato di innocenza che fu proprio dell'umana radice prima del peccato. Essa si contrapporre esplicitamente nella definizione datane dal Poeta non meno che nella funzione simbolica attribuitale nell'economia generale della Commedia - alla selva del peccato del canto proemiale dell'opera. In entrambe una condizione della presenza umana nel mondo é suggerita in termini i quali, pur adombrando in sé il sovrannaturale, sono ancora di pertinenza della sola natura. Ma il lussureggiare della vegetazione ha, nei due casi, un significato diametralmente opposto. Nella selva selvaggia e aspra e forte esso allude ad un vivere dominata da una pluralità di istinti contrastanti, donde una lacerazione, un conflitto, che oppone l'uomo a se stesso e dal quale non é data liberazione attraverso mezzi puramente umani, laddove questi medesimi istinti manifestano, nel paradiso terrestre, la presenza in essi di un principio di armonia, esprimendo in tal modo la pacificazione dell'uomo con se stesso e il concorrere di tutte le sue facoltà all'adempimento dei compiti assegnatigli da Dio. Nella descrizione della divina foresta spessa e viva é presente il senso di una felicità che pone le manifestazioni del vivere al di là di ogni interrogativo, di ogni angoscia o imprevisto: lo scorrere del tempo, sulla sommità del purgatorio, non é apportatore di vecchiaia, non contiene in sé, implicite, la delusione e la morte. Esso, al contrario, non fa che confermare, nell'attualizzarsi del futuro, un grado di perfezione inalterabile, un fermo presente, una primavera perpetua. Questa costanza nel dispiegarsi del tempo, là dove il tempo sta per essere abolito, é resa efficacemente, in quanto elemento di uno spettacolo naturale, dall'aura... sanza mutamento che percuote le fronde della foresta, senza peraltro piegarle al punto da impedire agli augelletti di manifestare la loro letizia, ad essa accordando il loro canto. Giova osservare, in proposito, come le due successive limitazioni dei versi 9 e 13-14 (non di più colpo che soave vento e non però dal loro esser dritto sparte tanto) assolvano al compito di suggerire il perfetto stato di natura che caratterizza il paradiso terrestre e la condizione dell'uomo in esso: nulla di eccessivo, di esorbitante dai limiti assegnati ad ogni manifestazione del reale dal volere di Dio, può sussistere là dove la natura é riconciliata con se medesima e dove l'uomo ha ritrovato quella pienezza di vita e quella densità di significato, di cui il male, il dubbio, lo avevano reso privo. Ricordiamo in proposito che la classificazione delle pene nel purgatorio é basata, dopo le prime tre cornici, in cui é punito l' "amore" per malo obietto, sul principio di un giusto mezzo razionale, che é stato trasgredito, in un senso o nell'altro, per troppo o per poco di vigore (canto XVII, verso 96). Lo spettacolo offerto agli occhi del protagonista dalla foresta - di cui il vento incurva i rami senza pregiudizio per la vita che in essa alberga e il fine della quale é una glorificazione della gioia stessa di essere in vita - esprime appunto in termini sensibili il raggiungimento di questo equilibrio, la sua restaurazione dopo i disordini che ha introdotti, nella mente e nel volere, il peccato. Il medesimo equilibrio, la medesima armonia sono manifestati dalla figura di Matelda, alla quale é affidato nel paradiso terrestre il compito di preparare Dante ad accogliere in sé la verità rivelata. Matelda adempie quindi ad una funzione non dissimile da quella degli angeli guardiani delle cornici del monte; i suoi atti rivestono un significato liturgico non meno di quelli degli angeli, ai quali é affidata la progressiva cancellazione delle P dalla fronte di Dante. Ma essa non é alata, non é armata di spada ed il suo sguardo non é insostenibile. In questa apparizione felice il sovrannaturale si manifesta nel quadro di una natura che ha raggiunto la propria perfezione, nella quale, cioè, stato di fatto e idea coincidono senza sforzo e senza lasciare residui di insoluta problematicità.


           

 

PURGATORIO CANTO XXIX

             

 

Nel canto XXIX Dante espone, per mezzo di Beatrice, i problemi principali riguardanti le gerarchie angeliche: dove, quando, come furono creati gli angeli; quando e perché avvenne la ribellione di alcuni di essi; quale fu il premio per quelli rimasti fedeli; per quale motivo sbagliano quei pensatori che attribuiscono alle creature angeliche le tre facoltà umane dell’intelligenza, volontà e memoria; il numero sterminato degli angeli e la diversa intensità con la quale godono la visione diretta di Dio. A Dante interessa soprattutto mettere in rilievo che la creazione degli angeli fu un atto gratuito dell’amore divino, che volle estrinsecarsi in altri esseri, e che le intelligenze angeliche, i cieli e la materia prima furono creati da Dio istantaneamente e simultaneamente. a proposito delle facoltà umane attribuite agli angeli, il discorso di Beatrice diventa polemico e le sue parole raggiungono un tono particolarmente aspro e duro. I cattivi predicatori del Vangelo, che hanno sostituito alle verità della fede cristiana le loro inutili ciance, sono rappresentati attraverso la grottesca figura del frate che predica dal pulpito con motti e con iscede, mentre il diavolo si annida nel bacchetto del suo cappuccio. Il canto si chiude con la visione di Dio che, pur rispecchiandosi in migliaia di creature angeliche, conserva la sua eterna unità.

 

Introduzione critica

 

Nel secondo canto dedicato agli angeli, dopo il XXVIII, il tema teologico è predominante, ma esso raggiunge una intensità poetica eccezionale nella prima parte del canto (versi 13-36) e nell’ultima (versi 136-145), attenuandosi, invece, nella parte centrale, dove la lezione di Beatrice non riesce a sollevarsi dal piano puramente informativo (versi 37-81) o polemico (versi 82-126). Profondamente legato al canto precedente (i problemi ai quali Beatrice dà soluzione sono nati, in Dante, dalla contemplazione delle gerarchie angeliche, contemplazione che è stata, appunto, oggetto del canto XXVIII), il XXIX si apre con una similitudine astronomica fra le più interessanti, se non fra le più poetiche. La terza cantica presenta innumerevoli immagini del cielo, che appare sotto due aspetti: uno astronomico-scientifico e uno paesistico-quotidiano, il primo contemplato con gli occhi dello studioso, il secondo con gli occhi dell’uomo comune che resta abbagliato dalle celesti bellezze. Da qui derivano due tipi di immagini; e due diversi motivi di poesia, perché al primo appartengono alcuni fra i più suggestivi momenti contemplativi (e si come al salir di prima sera ... quale ne’ plenilunii sereni Trivia ride...) e al secondo le indicazioni di fenomeni astronomici che "conferiscono al cielo dantesco come un’aura di scienza arcana, un senso remoto e favoloso, di matematica e di ermetica soprannaturalità" (Getto). Si può anzi concludere che la poesia di certe rappresentazioni celesti nasca dall’incontro di immagini pittoriche e musicali con severi simboli astronomici e matematici fissati con un calcolo rigoroso e severo (incontro che è, del resto la condizione essenziale di tutta la poesia del Paradiso, legata contemporaneamente ad aspetti fantastici e geometrici, per cui una obbiettiva lettura-critica non può attribuire valore lirico soltanto ad uno di questi aspetti, prescindendo dall’altro che lo integra e lo completa). Ritornando, dopo questa necessaria: premessa, alla nostra similitudine, essa ci appare, nonostante la sua impostazione resa alquanto macchinosa dalla preoccupazione di definire il tempo d’equilibrio fra sole e luna, un’ardita figurazione di vicende astronomiche: alla maestosa immagine del sole e della luna, i figli di Latona (il ricordo mitologico conferisce solennità alla loro apparizione) coperti dalle costellazioni con cui si trovano in congiunzione, fa riscontro quella dello zènit, "rappresentato come un gigantesco pesatore" (Torraca), che sostiene, su due piatti di una gigantesca bilancia distesa attraverso il cielo, i due astri che regolano, con il loro alterno corso, la vita degli uomini. Si può parlare, a questo proposito, di uno stile "eroico" (nel senso vichiano del termine), che, usato nella creazione di personaggi quali Farinata o Ugolino, serve a fissare, senza sforzo apparente, anche i modi di una similitudine o di una lezione teologica. Spesso a questo stile, che abbiamo definito "eroico" e che altri critici hanno chiamato " barocco", per sottolinearne, senza alcun senso negativo, la preziosità, si accoppia la profonda suggestione della rima rara e difficile, come, in questo caso, nei versi 4 e 6 ‘nlibra e dilibra, due verbi di straordinaria evidenza plastica, sui quali si regge tutto il movimento della similitudine: una vicenda astronomica ritratta in un segno - il movimento inarrestabile degli astri e del tempo - dominata dall’intelligenza che coglie con ingegnoso acume un fatto scientifico così raro e che contribuisce a suggerire quel paesaggio di simboli zodiacali che l’attento lettore non può certo dimenticare. La potenza inventiva della frase, osserva il Parodi, nel suo studio fondamentale sulla rima nella Divina Commedia, è in Dante senza confini, ed è essa la grande produttrice di rime, ma dalla rima attinge a sua volta continuamente nuova materia e nuovi impulsi. "Certo anche in Dante, come in qualunque poeta, la parola usata in rima, è usata per la rima; giacché solo di rado avviene che la parola necessaria cada naturalmente proprio là dove dovrebbe; ma le cose, interrogate dal suo cuore o dal suo pensiero, rispondono con una varietà immensa di suoni, e fra questi ve n’è sempre uno, che rende, con mirabile felicità, l’eco voluta. Egli vede e sente per immagini, e anche una semplice parola e anche il pensiero più astruso o più impalpabile e il ragionamento più astratto assume subito nella sua mente una forma concreta di cosa sottoposta ai sensi. " (Parodi) La rima scaturisce insieme con la espressione nuova ed immortale, e la visione dantesca, nella sua straordinaria intensità, si fissa in modo immediato, nella parola: Cosi lo zenit ‘nlibra i figli di Latona e ciascuno di essi poi si dilibra dal cinto dell’orizzonte. L’immagine dell’orizzonte come cinto non è nuova, ma l’ultimo verso della terzina, che pure si direbbe suggerito dalla rima, trasforma improvvisamente la vicenda degli astri in una lotta personale, faticosa (si dilibra) per sciogliersi, liberarsi ciascuno del proprio emisperio. Certamente se noi consideriamo certe rime di Dante, singolari e bizzarre, potremmo pensare che il Poeta, talvolta, abbia volutamente cercato il vocabolo meno comune e, anche, più oscuro, al fine di ottenere una rima nuova e inaspettata, e che volutamente si sia inoltrato in quelle circonlocuzioni o in quelle immagini alle quali, ancora oggi, i critici, pur con tutta la buona volontà, non riescono a conferire una spiegazione sufficiente.Se è vero che un grave pericolo si nasconde dietro questa preferenza per la rima immaginosa e per la via stilistica meno battuta, per cui Dante talvolta può offrire un tecnicismo linguistico di grande effetto, ma di nessun valore artistico, è anche vero che la difficoltà stilistica esercita su di lui un’influenza (il Parodi parla anche di "suggestione’’) benefica importantissima, spingendo e incitando il suo pensiero poetico a fluire non come rivo limpido e tranquillo, in un letto sempre uguale e fors’anche monotono, ma come torrente ch’alta vena preme e più vivamente preme là dove si manifesta una resistenza più forte.


PURGATORIO CANTO XXX

             

 

Alla fine del canto XXIX un tuono improvviso ha fatto fermare la processione che avanzava lentamente lungo il Letè. Mentre tutti i personaggi del corteo si volgono verso i carro, uno dei ventiquattro seniori ripete per tre volte, cantando, le parole « Veni, sponsa de Libano », subito seguito da tutti gli altri: è invocata, in questo momento, la presenza di Beatrice. Immediatamente dopo compare sul carro un gruppo di angeli, che pronuncian le parole: « Benedictus qui venis! » e gettano ovunque fiori, dicendo: « Manibus, oh, date lilia plenis! » . All'improvviso, in mezzo a questa nuvola di fiori, vestita di rosso, coperta di un manto verde, con il capo circondato da un velo bianco, che è sostenuto da una ghirlanda di ulivo, appare Beatrice. Davanti a lei, benché siano passati dieci anni dalla sua morte Dante sente, con la stessa intensità di un tempo, la forza dell'amore. Per rivelare questo momento di smarrimento si volge verso Virgilio, accorgendosi solo ora che il maestro lo ha lasciato: nessuna bellezza del paradiso terrestre può allora impedire al Poeta di dare libero sfogo al suo dolore attraverso il pianto. Ma Beatrice lo richiama, lo esorta a conservare le sue lagrime per una sofferenza più profonda, che fra poco egli proverà. L'atteggiamento della donna è fiero e regale, e le sue parole severe provocano nel pellegrino un penoso senso di vergogna e di abbattimento, dal quale sembra riscuotersi allorché gli angeli intervengono in suo aiuto di fronte a Beatrice. Ma ella dichiara che il dolore del pentimento deve essere pari alla gravità delle pene commesse, poiché - continua - Dante, pur essendo dotato di ogni più felice disposizione al bene, si lasciò traviare nella sua giovinezza, abbandonandosi al peccato. Infatti, finché visse Beatrice, la presenza della donna amata gli fu guida sufficiente sulla strada del bene, ma dopo la sua morte egli si incamminò per via non vera e a nulla valsero i tentativi da lei compiuti per ricondurlo sul retto cammino. L'unico rimedio efficace consisteva nell'ispirargli orrore per il peccato, mostrandogli tutte le brutture e le sofferenze dell'inferno: per questo Beatrice stessa discese nel limbo per chiedere l'aiuto di Virgilio in questa impresa.

 

Introduzione critica

 

La pagina che, strutturalmente, appare la chiave di volta del poema, in quanto punto di convergenza più esplicito, nella trama della narrazione, dell'umano e del divino - l'incontro di Beatrice con Dante nel paradiso terrestre - è introdotta da un ricco svolgimento per metafore e similitudini: quella che si incentra su una nuova considerazione del bello arnese, analiticamente descritto nel canto precedente, quella che prospetta in una luce di gloria, dalla quale ogni angoscia per la sentenza divina è assente, la risurrezione dei corpi, quella, distesa in modulazioni di più agevole pittura, nella quale è riproposto il cromatismo simbolico della processione della Chiesa, e che istituisce un parallelismo fra temperanza di vapori e nuvola di fiori, adombrante un analogo parallelismo fra il sole e la donna che sta per apparire. L'incontro nell'Eden fra il Poeta e la donna da lui amata in gioventù ha la solennità di una rivelazione con Beatrice, infatti, un piano di significati e mete superiori a quelli che la ragione poteva comprendere o anche soltanto intravedere, è destinato a svelarsi all'anima peregrinante. Per questo un attento lettore di Dante e un buon conoscitore della letteratura religiosa del Medioevo, il Singleton, non ha esitato a considerare la discesa di Beatrice nel paradiso terrestre come una trasposizione analogica, nei termini della vicenda occorsa a Dante, dell'avvento di Cristo. Ecco quanto scrive un critico, il Montano, che ha accolto la suggestiva interpretazione del Singleton, riassumendo le conclusioni dello studioso americano: "Noi sappiamo bene che la visione di Cristo, l'incontro con la luce può effettuarsi in noi attraverso la parola di qualcuno, l'azione miracolosa di un santo, può identificarsi con un qualunque momento della nostra vita terrena. Per Dante, nella vita reale e ancora qui sulla vetta del purgatorio, la luce di Cristo si manifesta o in certo senso si incarna in Beatrice, la donna amata che - era già certo per il Poeta fin dai tempi della Vita Nova - era diventata santa". Osserva il critico come l'analogia sia suggerita dall'invocazione, "con l'aggettivo al maschile", «Benedictus qui venis!», nonché dal modo in cui l'apparizione di Beatrice è dal Poeta configurata. E' noto, infatti, che il sole è nell'opera di Dante contrassegnato dal costante riferimento simbolico al principio di ogni essere, a Dio. Aggiunge il Montano: " Più decisamente che nella storia finora seguita, qui Dante, Virgilio, Beatrice sono le figure di una cerimonia sacra. Ed è solo su questo piano che l'atteggiamento di Beatrice, la quale subito assale Dante con aspra rampogna, con tono che poco si addice a una donna amata, a una santa che viene dai cieli incontro a colui che le è devoto e che lei stessa ha salvato, è su questo piano che le parole di Beatrice acquistano un senso. Essa è infatti il Cristo che giudica, la Chiesa che deve assolvere, ma che richiede che il peccatore si renda contrito, dichiari la propria indegnità". In quanto prefigurazione del Cristo giudice, in quanto ministra di un rito, la figura di Beatrice, quale ci appare nei canti del paradiso terrestre, risulta assai lontana da quella della giovinetta idealizzata, al di fuori di ogni preoccupazione teologica, nella Vita Nova. Il richiamo all'esperienza giovanile, richiamo che diverrà esplicito nelle parole di Beatrice nel canto successivo, è in questa sezione della Commedia, preludio al magistero di Beatrice nella terza cantica - soltanto funzionale e subordinato: gli anni giovanili non sono oggetto di un vagheggiamento nostalgico, ma soltanto il termine cui la condotta di Dante deve essere commisurata, indicano una vocazione al bene che si è contaminata e che attende il proprio riscatto. Lo stile del Poeta si adegua a questa situazione mutata, al rifiuto di qualsiasi appagamento suggerito da un Amore che non abbia per suo termine la comprensione degli esseri nel loro principio, e comporta pertanto una serie di risoluzioni. formali aspre e sintatticamente recise, tali cioè da suggerire il clima ascetico della sua confessione. Beatrice, la quale nella Vita Nova sembrava dissolversi negli stati d'animo dello scrivente, rifiutando, quasi peso terrestre che la inquinasse, ogni accenno ad una individuazione oggettiva, appare qui - dopo la similitudine della nuvola di fiori, la quale ancora risponde ad un gusto di raffinata stilizzazione gotica - come figura le cui caratteristiche principali sono la volontà, la forza dell'argomentare, la capacità di guida e di comando, onde il Poeta non si fa scrupolo di paragonarla ad un ammiraglio che sovrintende alle manovre della navigazione. Risulta pertanto inefficace qualsiasi raffronto tra la esperienza stilnovistica del componimento giovanile e il modo in cui è presentato qui l'incontro con Beatrice, allorché tale raffronto miri a valorizzare il raccoglimento del sogno giovanile a scapito della prepotente esteriorizzazione di questa pagina del Purgatorio, la quale traduce gli stati d'animo del pellegrino in aspetti del divenire della natura. Tale esteriorizzazione si concreta nella lunga similitudine che accosta lo sgorgare del pianto di Dante al " trapelare in sé" - primo segno del risorgere della vita e, sul piano di una rispondenza analogica, primo indizio di un risorgere a vita autentica, nella luce del vero - della neve costretta all'immobilità nelle selve desolate. Ricordiamo, in proposito, il significato che ha in Dante, fin dalla chiusa magia delle Rime petrose, l'inverno: quello di una desolazione che simboleggia l'estremo inaridimento dell'anima. Non a caso, quindi, la pervicacia del peccatore, restio ad accogliere la Grazia, è suggerita da un quadro naturale che ogni segno di vita sembra aver abbandonato: la punizione dei traditori nel Cocito nasceva dall'esigenza di tradurre un analogo dato teologico in forme visibili.


PURGATORIO CANTO XXXI

             

 

Continua, nel XXXI, il rimprovero che Beatrice, nel canto precedente, ha incominciato a rivolgere al Poeta per il traviamento morale al quale egli si era abbandonato dopo la morte della donna amata. Da quali allettamenti, da quali piaceri - vuole sapere Beatrice Dante si è lasciato attrarre, tanto da dimenticare ogni dovere spirituale? Furono - risponde, piangendo, il pellegrino - i beni fallaci del mondo che influenzarono il suo animo dopo la morte di chi in terra rappresentava per lui la bellezza, l'amore, la virtù. Anche se, agli occhi di Dio, è sommamente meritoria la confessione del proprio peccato, è necessario che il Poeta senta fino in fondo la vergogna delle sue colpe: poiché la natura o l'arte non offrirono mai a Dante una bellezza pari a quella di Beatrice e questa bellezza andò distrutta con la morte, nessun'altra realtà materiale - conclude la donna - avrebbe dovuto attirare la sua attenzione, dal momento che ogni bene terreno, anche il più alto, risulta sempre caduco; anzi, proprio in base a questa constatazione, il suo animo avrebbe dovuto volgersi verso l'alto. Ad un invito di Beatrice, Dante solleva lo sguardo per osservarla: la celestiale bellezza della donna, anche se ancora celata dal velo, è tale che il Poeta, avvertendo con estrema intensità il pentimento per le sue colpe, perde conoscenza. Allorché si riprende, si trova immerso nel Letè per opera di Matelda, la quale lo conduce sull'altra riva, dove Dante viene circondato dalle quattro virtù cardinali. Ma sono le tre virtù teologali che hanno il compito di portarlo davanti a Beatrice: gli occhi del Poeta fissano quelli splendenti della donna, il cui sguardo è però rivolto al grifone. Solo in seguito alla preghiera delle tre virtù teologali ella acconsente a liberare il suo volto dal velo che lo ricopre, affinché Dante la possa vedere in tutta la sua bellezza.

 

Introduzione critica

 

Uno dei problemi di maggior interesse di fronte al quale si trova l'esegesi della Commedia è quello del traviamento che Beatrice rimprovera a Dante nei canti XXX e XXXI del Purgatorio. Esso implica a sua volta il problema della natura, in maggiore o minor misura allegorica, del personaggio di Beatrice e, più in generale, quello dell'interpretazione dell'intero poema. Per alcuni studiosi, infatti, il solo significato che conti, ai fini di una valutazione critica della Commedia, è quello suggerito direttamente da una lettura del testo quanto più immediata e scevra di preoccupazioni dottrinali, paga cioè di mettere in luce il concretarsi della fantasia del Poeta in immagini, scene, situazioni. Il Croce, che rappresenta nella sua forma più intransigente questo indirizzo critico, sostiene ad esempio che, per intendere il "dramma umano" avente come suoi protagonisti Dante e Beatrice nel paradiso terrestre, occorre "prescindere da ogni significato allegorico, e dimenticare quello che Beatrice allegoricamente è", per non vedere in questo personaggio se non "la donna amata nella prima giovinezza, l'ideale intorno a cui e in cui si sono esaltati gli altri ideali tutti, di generosità, di vita pura, di felicità, di affetto e bontà, di nobile operosità, di sublime religione". A questa definizione del personaggio di Beatrice, generica e quindi di scarsa utilità per farci penetrare il significato di quello che è considerato, con giudizio quasi unanime, l'episodio alla luce del quale deve essere interpretato l'intero poema, il Croce fa seguire una pagina di commossa eloquenza, la quale, tuttavia, ha anch'essa il difetto di prescindere da qualsiasi prospettiva storica, onde la parola di Dante risulta astratta dalle sue radici biografiche e culturali: "E poi quell'ideale si è distaccato da noi, fortuna o morte o nostra colpa ce l'ha tolto, e la vita nostra è corsa dietro ad altri ideali, angusti, inferiori, mutevoli... Ed ecco che quando la sazietà e la nausea e il rimorso ci ha presi, quando ci sentiamo avvelenati dai veleni che la nostra stessa febbrile azione e passione ha prodotti; quando più ne siamo sviati e lontani, quell'ideale ci torna innanzi: noi mutati e stanchi, esso immutato, anzi fatto più bello e vivo e raggiante nel tempo che è trascorso e per effetto della distanza che è ormai tra noi ed esso. Noi lo riconosciamo e chiniamo il volto tra dolore e vergogna; esso ci riconosce, ci rimprovera, ci compatisce, e si appresta a confortarci e a sorreggerci..." Ad una proposta come quella del Croce, che suggerisce di non prendere in considerazione l'intero piano delle interpretazioni allegoriche, si oppone quella di studiosi che hanno risolto interamente il personaggio di Beatrice in allegoria, privandolo delle sue radici nella immediatezza dei sentimenti del Poeta ed impoverendo di sostanza umana l'incontro di Dante con la donna amata in gioventù, la quale torna a lui come salvatrice e giudice sulla sommità del purgatorio. In realtà, qui come quasi ovunque nel poema; il sovrassenso è incluso nel senso letterale, più che essere a quest'ultimo estrinsecamente sovrapposto, onde più che il termine "allegoria" appare esatto adottare, per la Commedia, il termine "figura" suggerito dall'Auerbach. Cosi la Beatrice che si mostra a Dante nello splendore della sua gloria e come analogo del Cristo giudicante nel paradiso terrestre, è pur sempre la fanciulla cantata nella Vita Nova, arricchita di tratti che sono maturati nel pensiero del Poeta durante la composizione del Convivio e la partecipazione attiva alla vita politica. Al suo primo apparire sul carro della Chiesa, Beatrice, non diversamente dalla giovinetta cantata nella Vita Nova, si propone al Poeta come termine di adorazione non personalizzato, per occulta virtù (canto XXX, verso 38). Ma, come osserva il Montanari - un critico che ha prospettato in maniera molto persuasiva il confluire nel personaggio di Beatrice di successive esperienze del Poeta, ognuna delle quali, lungi dal negare la precedente, la inverava in una visuale più ampia - "nello sviluppo che immediatamente attua la figura di Beatrice nel Purgatorio, tale virtù diventa personale e incarnata, manifestandosi in rimproveri, ammonizioni e conforti non solo verbali, ma attuati in concreti atteggiamenti di tutta la persona». Prendendo l'avvio da un puntuale raffronto istituito fra la Beatrice della Vita Nova e quella della Commedia, il critico giunge ad una caratterizzazione dell'intero sviluppo dell'arte di Dante e mette in luce i rapporti che intercorrono in essa tra presupposti culturali e morali e risoluzioni di stile. Scrive il Montanari: "Nella Vita Nova, quando la "divinità" di Beatrice era tutta metaforica, Dante non la voleva compromettere in gesti umani e la faceva tacere: qui nel Purgatorio e nel Paradiso Beatrice può parlare e muoversi liberamente perché la sua realtà sovrumana è ormai teologicamente ancorata in una realtà che la miseria umana non può "tangere". Con queste osservazioni si giunge a riconoscere... una delle linee maestre dello sviluppo della fantasia di Dante dall'iperbole retorica astratta, a una concreta realtà umana raggiunta attraverso l'impegno di superare l'assolutizzazione del sentimento immediato per raggiungere una giustificazione del sentimento in un piano universale di riferimenti non più retorici, ma teoreticamente impegnativi: capaci di tradursi cioè in una teoria generale filosofica e teologica. Per questa via Dante riesce a recuperare le note più vive ed umane della sua esperienza non più elevando Beatrice per via di iperboli retoriche, ma proprio invece conferendo a Beatrice una piena e compiuta umanità, che fa della Beatrice operante nella Commedia non più una figura soltanto sovrumana e sparente, ma una donna viva e compiutamente incarnata".


PURGATORIO CANTO XXXII

             

 

Le figure femminili che simboleggiano le sette virtù invitano Dante a distogliere il suo sguardo da Beatrice per volgerlo alla processione, la quale, in questo momento, riprende a muoversi in direzione opposta rispetto a quella prima seguita; finché tutti i suoi membri si fermano intorno a un albero altissimo e spoglio di fronde. Dopo che il grifone vi ha legato il suo carro, la pianta rinasce a nuova vita, coprendosi di fiori e di foglie. Il canto dolcissimo innalzato dai personaggi del corteo provoca in Dante una specie di tramortimento, e, quando si risveglia, Matelda gli indica Beatrice che siede sotto l'albero circondata dalle sette virtù, mentre i ventiquattro seniori, il grifone e gli altri componenti del corteo risalgono al cielo. La seconda parte del canto è occupata dalla rappresentazione delle vicende del carro della Chiesa attraverso successive allegorie. Dante ricorda - con la figura dell'aquila - le persecuzioni portate contro i primi cristiani e con l'immagine della volpe il diffondersi delle eresie; in un secondo tempo l'aquila - simbolo dell'Impero - ritorna e lascia sul carro una parte delle sue penne, per indicare il potere temporale di cui fu investita la Chiesa dopo la donazione territoriale fatta dall'imperatore Costantino a papa Silvestro. Poi un drago, che rappresenta Satana, esce improvvisamente dalla terra e, dopo aver colpito con la coda maligna il carro, si allontana pieno di soddisfazione. L'immagine della Chiesa si trasforma infine in una figura mostruosa, dotata di sette teste e dieci corna: su di lei siede una sfrontata meretrice, a fianco della quale compare un gigante, che flagella ferocemente la donna subito dopo che questa ha volto il suo sguardo verso Dante. Il canto termina mostrando il gigante che stacca dall'albero il carro della Chiesa per trascinarlo nella selva.

 

Introduzione critica

 

Il discorso esegetico intorno al canto XXXII potrebbe allargarsi indefinitamente, perché esso si trova di fronte, ancora una volta, al problema dei rapporti fra allegoria e storia - entrambe presenti in modo preponderante in questo canto - e a quello della loro trasformazione in termini poetici. La vastità e la complessità di una simile indagine possono, tuttavia, spiegare i risultati diversi, per non dire opposti, ai quali é pervenuta la critica. É evidente, infatti, che la sola analisi estetica, di ascendenza romantica, non possa trovare che brevi momenti di « poeticità », considerando il resto del canto una confusa e macchinosa costruzione. D'altra parte risponde ad un saggio criterio di lettura evitare una eccessiva storicizzazione del carro XXXII, giudicandolo solo una manifestazione dell'ansia di rinnovamento - in campo ecclesiastico e politico - assai diffusa ai tempi di Dante o, peggio, confinandolo al rango di una delle tante pagine visionarie delle quali il Medioevo si é mostrato fecondo. Quanto si compie nell'alta selva vota ripropone l'atmosfera gravida di tensione della selva oscura del I canto dell'Inferno, perché vi riecheggia lo stesso stimolo ad una azione vigorosa contro il peccato, lo stesso senso di attesa di fatti futuri destinati a sconvolgere il corso degli eventi, le stesse immagini di male (alla lupa che di tutte brame sembiava carca nella sua magrezza e molte genti fe' già viver grame si contrappone la volpe che «si avventa» e che d'ogni pasto buon parea digiuna), ma soprattutto perché vi si ribadisce la missione profetica dal Poeta assunta in pro del mondo che mal vive fin dalle prime battute della Commedia. In esse Dante prendeva coscienza della colpa che gli aveva meritatala morte spirituale, ma la misericordia di Dio provocava un capovolgimento nella situazione: "il peccatore - nota il Montanari - sarà salvato e proprio perché è stato peccatore, già condannato a morte, sarà fatto strumento di salvezza per tutti gli altri uomini .... Sarà un nuovo Paolo fermato sulla via di Damasco e fatto profeta della verità che lui perseguitava", perché il profeta non é mai "scelto per i meriti suoi, ma anzi viene scelto nonostante il suo peccato o almeno nonostante i suoi gravi difetti..." Coerentemente alla mentalità medievale - per la quale la relazione fra salvezza eterna e salvezza terrena é sostanziale, non potendo l'uomo tendere alla prima senza avere realizzato la seconda, attraverso l'efficiente azione dell'Impero - la missione profetica di Dante si impone e sul piano spirituale e sul piano temporale. Per questo non é possibile sostenere uno stacco netto fra i canti XXX-XXXI, dominati dal colloquio fra il Poeta e Beatrice, in qualità rispettivamente di penitente e di giudice, e il canto XXXII, occupato dalla presentazione delle vicende principali dei rapporti fra Chiesa e Impero: anzi essi indicano chiaramente come l'opera di Dante sia il frutto di una sintesi, poetica e sistematica nello stesso tempo, di tutta la realtà universale. Per lui, giunto sulla vetta del purgatorio, il tema storico-politico può vivere solo come interpretazione della volontà di Dio, avendo Dio manifestato la sua volontà proprio attraverso la storia e le sue vicende: si tratta solo di trovare il criterio esatto per spiegare gli avvenimenti terreni presi come espressione della provvidenza divina, e per trovare in essi, attraverso gli sconvolgimenti causati dalle azioni peccaminose degli uomini, il principio razionale che li guida alla meta ultima. "Dante non fu il primo a presentare la sua interpretazione come autentica, essendo l'appello all'autorità divina il modo naturale e normale nella civiltà medievale come ai tempi della profezia ebraica, di esprimere forti convinzioni politiche. Certo, pochissimi fra i predecessori di Dante si erano spinti fino a pretendere che una rivelazione speciale era stata loro largita, e mai prima di lui una tale pretesa era stata manifestata con altrettanta unità enciclopedica di visione e con altrettanta forza d'espressione poetica." (Auerbach) A partire dal verso 37 e fino alla fine del canto si riversa su ogni allegoria e su ogni metamorfosi la presenza del sovrannaturale, che non può non esserci allorché una storia di secoli viene contratta in pochi attimi e vissuta in movimenti simbolici che colgono il valore spirituale, il significato etico-religioso degli eventi, che presentano i fatti come già sottoposti al giudizio finale di Dio e quindi già collocati nel luogo che a loro compete nell'ordine divino, che distinguono nelle azioni umane i disegni segreti che preparano l'adempimento di una giustizia riparatrice. Dante ha sentito con appassionata intensità questo "dramma sacro" e lo ha risolto in un "dramma figurato", che non a torto molti critici hanno accostato alle sacre rappresentazioni medievali. La trama del canto XXXII, infatti, non può non richiamare tutta la letteratura allegorica, profetica, apocalittica che fu propria del Medioevo e che trovò la sua espressione più famosa negli scritti di Gioacchino da Fiore, soprattutto nel momento in cui, di fronte alla dilagante corruzione morale della Chiesa, al venir meno di ogni ordine civile e alla mancanza di una salda guida politica, da ogni parte si invocava un rinnovamento dei costumi ecclesiastici e una rinascita del potere imperiale. Dante, dalla ricchissima simbologia del suo tempo, che investiva non solo la letteratura ortodossa e riformatrice, ma anche le figurazioni artistiche, ha scelto forse gli archetipi più rappresentativi, dai quali deriva il "carattere, oltre che drammatico, anche spiccatamente « visivo » e descrittivo di questa poesia, con cui si accorda l'idea e l'efficacia figurale, pittorica e plastica della parola, quella disposizione a fissare immagini, linee e colori, in movimento, che in questo canto XXXII s'intensifica in virtù animatrice, in vicenda di drammaticità allucinante, in rapida magia di azioni sceniche" (Grana).


           

 

PURGATORIO CANTO XXXIII

             

 

Le quattro virtù cardinali e le tre teologali iniziano, di fronte alle tristi vicende del carro della Chiesa, il canto del Salmo LXXIX: «Deus, venerunt gentes », al quale Beatrice risponde con le stesse parole rivolte da Gesù ai discepoli per annunziare loro la sua morte e la sua risurrezione: « Modicum, et non videbitis me... » . In un secondo momento Beatrice invita Dante a camminare al suo fianco, affinché possa meglio udire le sue parole. Ella ora intende spiegare i misteriosi prodigi avvenuti intorno e sul carro della Chiesa e contemporaneamente preannunziare la punizione di coloro che si sono resi colpevoli della corruzione morale della Chiesa. Al Poeta - continua Beatrice - toccherà il compito di riferire agli uomini ciò che ha udito. E poiché Dante osserva che il linguaggio da lei usato è troppo oscuro ed esige uno sforzo non comune per poterlo comprendere. Beatrice rivela che ciò avviene per dimostrare all'uomo che ogni dottrina terrena è insufficiente a penetrare la scienza divina. È mezzogiorno allorché le figure delle sette virtù si fermano nella zona in cui termina l'ombra della foresta, di fronte alla sorgente dei due fiumi del paradiso terrestre, il Letè, nelle cui acque il Poeta è già stato immerso per dimenticare il male passato, e l'Eunoè. Matelda - in seguito a un comando di Beatrice - invita Dante e Stazio a seguirla per bere l'acqua di questo fiume, che ravviva la memoria del bene compiuto. Con questo ultimo rito la purificazione del Poeta è completa: egli è ormai puro e disposto a salire alle stelle.

 

Introduzione critica

 

La struttura dell'ultimo canto del Purgatorio si presenta, sotto alcuni aspetti, simile a quella del canto precedente: essa sviluppa ulteriormente, concludendola, la ricca tematica storico-politica del XXXII e appare vigorosamente percorsa - nell'ultimo, impegnato discorso di Beatrice nel Purgatorio - dallo stesso impeto profetico che sorreggeva le fosche visioni del carro della Chiesa. Inoltre contrappone anch'essa alle scene apocalittiche, avvolte in una luce epica e sacrale, la suggestione di alcune immagini distese in una natura limpida e sognante, che richiama le prime, luminose terzine descrittive del paradiso terrestre. Tuttavia, fin dall'inizio, si avverte che l'atmosfera è mutata, perché freme dovunque un'ansia di liberazione e di purezza, che allontana le crude immagini conclusive del canto XXXII per introdurre alla vastità misteriosa delle stelle ormai propinque, del ciel che più alto festina, del sole corusco, fino allo slancio anelante a Dio, che chiude tutta la seconda cantica. Questa mutata dimensione interiore appare evidente nel solenne esordio, dove la dolce salmodia delle virtù ricorda il salmo dolcemente intonato al momento del primo atto della purificazione di Dante (canto XXXI, versi 97-99), e l'angelica nota che temprava i passi nella selva prima delle allucinanti visioni accanto all'arbore robusto. Anche Beatrice abbandona il grave e corrucciato atteggiamento del Cristo-giudice, atteggiamento che aveva reso particolarmente solenne e dura la sua rampogna a Dante nel canto XXXI, e si trasforma nella dolente immagine di Maria ai piedi della croce, per pronunciare poi, levatasi in piedi e colorata come foco le parole della promessa e del riscatto (versi 10-12). Qui soprattutto si dissolve la torbida atmosfera di vizio che aveva chiuso il canto XXXII e si scioglie l'incubo del trionfo del male. Beatrice, raccogliendo intorno a sé "in un solo moto di carità" (Montano) le virtù, Dante, Matelda e Stazio, che rappresentano qui l'umanità credente, con tranquillo aspetto e con fraterni incoraggiamenti (versi 19-21 e 23-24) svela il futuro Avvento, la redenzione morale-politica del mondo. Come il pellegrino è ormai lontano dai fieri sdegni fiorentini, dalle accanite lotte fra Bianchi e Neri, dall'interesse polarizzato solo sulla sua città! È tutto il dramma storico del suo tempo che gli scorre davanti agli occhi: gli sdegni, le illusioni, le aspettative non sono più per i cittadin della città partita o per il giardin dello 'mperio, ma per tutti i vivi del viver ch'è un correre alla morte. Il dinamismo figurativo che informa le apparizioni del canto XXXII cede ora il posto a cadenze gravi e solenni, la cui lentezza riecheggia la ieraticità di certe celebrazioni liturgiche (sappi ch 'l vaso... fu e non è; ch'io veggio certamente, e però il narro; nel quale un cinquecento diece e cinque...) : il Poeta vede prossimo il tempo della liberazione (tosto fier li fatti...) con il ritorno della Chiesa e dell'Impero - nel rispettivo campo d'azione - a quella divina origine che la verità rivelata ha stabilito. La fermezza dell'accento con cui Beatrice fa questa predizione traduce la fermezza dello spirito di Dante che, ormai illuminato da Dio, crede senza ombra di incertezza a quanto vede con la sua fantasia, per cui in questo momento trova il suo culmine ideale l'ispirazione apocalittica e profetica della Commedia. Giustamente l'ultimo canto del Purgatorio può essere definito come il nodo vitale del triplice pensiero religioso-morale-politico che circola in tutto il poema e la sua profezia come "la profezia centrale e... più appariscente e sonora" (Cian). Tuttavia una lettura che limiti l'interesse del canto a questa parte, non solo risulterebbe parziale, ma, altresì, sarebbe incapace di cogliere la nota caratteristica di esso: una varietà di toni ed accenti in relazione alla varietà dei momenti e degli stati d'animo, un oscillare continuo di movenze e di affetti fra l'umano e il divino. Nell'esordio, durante la rappresentazione dei fatti storici, la vicenda personale di Dante non viene dimenticati e, anche se è brevemente accennata, le parole (frate, perché... Madonna, mia bisogna...) si caricano di profonde risonanze. Poi essa prende decisamente il sopravvento (dorme lo 'ngegno tuo...) e "la parola di Beatrice diventa una lezione mista di rimproveri blandi e di punture, di osservazioni insistenti e minuziose, assumendo un tono... pedagogico" (Cian). Allorché Dante le chiede perché mai le parole che ella gli rivolge si innalzino troppo al di sopra della sua intelligenza, la risposta di lei è una dura lezione sull'insufficienza di ogni tentativo compiuto dalle sole forze umane per avvicinarsi a Dio. Subito dopo, però, Beatrice torna a sorridere con indulgenza cortese, e infine lo giustifica affettuosamente di fronte a Matelda, prima di preparare per lui l'ultimo rito purificatorio (versi 127-129). Cosi il Poeta, osserva il Cian, attraverso la efficacia "di toni discorsivi, dapprima austeramente didattici... poi sempre più pacati ed umani... ci ha ricondotti, senza che ce ne accorgessimo, in un clima fortemente suggestivo che ci richiama non solo quello del suo primo incontro con la bella donna (canto XXVIII), ma anche quello d'un'altra sua felicità terrestre della giovinezza, felicità sognata, descritta, cantata nelle ultime pagine" della Vita Nova. Non solo l'amoroso atteggiamento di Beatrice, ma anche il richiamo rinnovato e forte alla dolcezza e alla bellezza della natura edenica concorre a ricreare quel clima. Se è totalmente errata la posizione di chi intende identificare la "mirabile visione" finale della Vita Nova con questa del Purgatorio (tra l'una e l'altra c'è di mezzo tutta la maturità del pensiero politico e religioso dell'Alighieri), è però innegabile una certa consonanza interiore, "o poetica e musicale", fra i due momenti spirituali "in cui le due visioni hanno origine e si muovono" (Cian).


Fonte:

http://utenti.multimania.it/assodeli/divina_commedia.doc

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